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Martedì 27 Maggio 2014 Corriere della Sera
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Cultura Anteprima L’intervento della moglie Il profilo Un modo drammatico di Angela oggi in apertura di «Letterature» intendere l‘esistenza, sempre disposta a Festival internazionale di Roma confrontarsi con l’ombra della fine
Terzani, il senso del viaggio è sempre un ritorno a casa La grandezza, le emozioni e le ossessioni di un viandante «O per vocazione, alla ricerca di ANGELA TERZANI STAUDE
gnuno, ma proprio ognuno, è il centro del mondo» dice Elias Canetti, e io non sono d’accordo con lui. Capisco quel che intende dire, ma io stessa non mi sono mai sentita il centro di niente. Mi sono vista invece come la viaggiatrice nel sidecar di una motocicletta — «si-de car» si diceva nel Dopoguerra a Firenze e ancora oggi mi viene da pronunciarlo così — in quel carrozzino, insomma, attaccato al lato di una moto degli anni Quaranta guidata da un uomo in tenuta da viaggio. Avevo trovato un motociclista con un’idea precisa di dove voleva andare — un’idea di destino, forse? —– e poiché la sua meta era molto più lontana e originale della mia, m’incuriosiva accompagnarlo per vedere dove sarebbe arrivato. La sua passione per il viaggio e l’avventura erano tali da garantirmi che sarebbe finito in posti nuovi, insoliti, affascinanti — e io con lui. In tutti i quarantacinque anni che ho vissuto accanto al mio guidatore, accompagnandolo in qualsiasi direzione volesse andare, senza mai mettere in dubbio le sue destinazioni o semplicemente la sua voglia di partire, non mi sono mai annoiata né tantomeno pentita della mia prima, istintiva decisione. E ancora oggi che lui non c’è più, continuo a viaggiare su quello stesso trabiccolo guidato da lui, come viaggiatrice a latere, come satellite. Non mi sento per questo da meno. Non credo di aver speso male la mia vita, di non essermi realizzata. Sono stata nel mio centro: anche i satelliti ne hanno uno. Nel corso degli ultimi decenni, quelli in cui le donne hanno preso coscienza di essere sempre state satelliti e mai pianeti, sempre viaggiatrici a latere e mai guidatrici in proprio, in molte mi hanno chiesto se non fosse l’ora che anch’io mi mettessi al passo coi tempi. Ma avendo fin da giovane identificato il mio ruolo nell’essere «accanto», anziché «al centro» di un destino, ho sempre insistito che era proprio questa mia, diciamo, «seconda scelta», del tutto commisurata alle mie forze, ai miei talenti, alle capacità della mia mente, a rendere ricca la mia vita e a darle un senso. Penso infatti che chiunque senta davvero d’essere «il centro del mondo» o, meglio, chiunque si avventuri in terre inesplorate cercando di «trovare un altro punto di vista», di «pensare nuovo», come diceva il mio motociclista, ha bisogno di avere al fianco qualcuno che crede in lui, perché sa bene che uscendo dai ranghi rischia grosso. La solitudine degli innovatori è sempre stata così grande che nel Romanticismo tedesco, per esempio — e scusate se stasera ritorno talvolta alle mie origini — l’aver trovato den verstehenden Freund, l’amico che comprende, era considerata la più sublime
del suo destino. E il ricordo di colei che scelse di attraversare l’intera esistenza al suo fianco, su un ideale «sidecar» dell’anima delle conquiste. Basta ricordare l’Inno alla gioia di Beethoven nelle parole di Schiller – «wem der grosse Wurf gelungen eines Freundes Freund zu sein», chi è riuscito nella grande impresa d’essere l’amico di un amico — per capire quanto agognata era quella figura. Ogni persona, del resto, anche la meno ambiziosa, sogna la vicinanza di un amico che la comprenda — nella Cina classica lo si chiamava «colui che ti capisce come se stesso» — e io ho cercato di essere proprio questo per il pilota del mio si-de car. Si trattava di non imporsi ma di esserci sempre, d’essere raggiungibile in ogni frangente; altre volte di restare nell’ombra, allontanarsi, scomparire. Una cosa, però, la devo precisare: l’importante è non sentirsi mai vittime. La vittima si fa odiare perché ti fa sentire in colpa, e chi ha voglia di vivere sotto il peso di una colpa portata in spalla? Meglio in tal caso non avere nessuno a cui appoggiarsi, meglio cavarsela da soli. «Peggio del boia non c’è che la vittima», diceva Niccolò Tucci, un bravissimo scrittore oggi scomparso, mezzo russo e mezzo napoletano, cresciuto nella campagna toscana e sposato a una donna fiorentina, che negli anni Trenta emigrò negli Stati Uniti, continuando sempre a scrivere in italiano. Era un nostro grande amico di quando da giovani vivevamo a New York.
Il bilancio Nei quarantancinque anni che ho vissuto accanto a lui, a latere, senza mettere in dubbio le sue destinazioni, non mi sono mai annoiata né pentita
Allora lui aveva sessant’anni e noi nemmeno trenta, ma la sua affascinante figura di media altezza, vestita come per la scena, è ancora davanti a me. E se mi chiedete se Tucci nella solitudine della sua attività di scrittore avesse almeno trovato «l’amico che comprende», vi dico di sì. Ma era una donna, era la moglie italiana da cui si era separato anni prima e che come lui era rimasta a vivere a New York. I due non si incontravano mai, ma ogni giorno che Dio metteva in terra lui dopo mezzanotte le telefonava e si parlavano per molte ore. Perché lei capiva. E quando lei morì, anche la vita di Niccolò Tucci in un certo senso finì. Era amicizia, quella? O era l’amore non-possessivo dei poeti sufi? Esiste un amore che vuole possedere l’altro, inchiodarlo, metterlo in catene per averlo sempre vicino ed è l’amore che schiavizza ed è a sua volta schiavo. E c’è quell’altro, che dà la libertà. Ma ora, per non parlare soltanto del passeggero nel si-de car senza dire del guidatore della moto, vorrei dire due parole su chi nella nostra coppia si è sentito il centro del mondo e in quel centro ci è voluto stare: non per darsi importanza ma, come appare dai suoi diari, per dare importanza alla meravigliosa occasione di poter vivere per alcuni anni su questa Terra: appena 66 nel suo caso. La sfida implicita in questa chance lui l’ha raccolta in pieno, senza mai desistere dall’usarla per vivere una vita intensa e originale, sempre cercando di scrivere di quel che gli era capitato e lo aveva fatto pensare. Gli premeva comunicare con gli altri e venerava la parola scritta perché solo in quella resta traccia di una vita che passa e scompare, a meno che non la si fermi con la scrittura. In questo la pensava come i contadini cinesi d’una volta, che veneravano un pezzo di carta se sopra vi era scritto anche un
L’autrice
Protagonista e cosmopolita
Angela Terzani Staude (nella foto sopra), vedova di Tiziano Terzani, è nata a Firenze da genitori tedeschi. È cresciuta in Italia e ha studiato a Monaco di Baviera. Dal 1972 ha vissuto con il marito e i figli, in numerosi Paesi asiatici: da Singapore a Hong Kong, da Pechino a Tokyo, Bangkok e Delhi. Oltre a Giorni giapponesi e Giorni cinesi (Longanesi e Tea) ha pubblicato tra l’altro il volume Giappone: cibo come arte.
solo ideogramma. Forse, per sentire la drammaticità del fatto che gli anni a nostra disposizione sono pochi e fugaci, bisogna avere fin da giovanissimi la consapevolezza della morte. E lui, della morte, già a 19 anni, quando ci siamo conosciuti, ne parlava spessissimo. Mi regalava i versi di Pavese, «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi», mi recitava «Alle cinque della sera», il lamento di García Lorca sull’amico ucciso. Nella prima lettera che ho ricevuto da lui, non firmata perché era sotto forma di racconto, un contadino diceva all’altro: «È morto Tiziano», e quasi ogni lettera successiva conteneva il dubbio se la vita gli sarebbe bastata per poter dare un segnale che testimoniasse che lui l’aveva vissuta e apprezzata. Quando arrivò a trovarsi là dove voleva essere — in Asia — e a fare ciò che voleva fare — scrivere, quest’angoscia si placò. Ma appena cominciò a rendersi conto di quanta poca presa facevano i suoi sforzi di influire sull’andamento del mondo, la preoccupazione per il volare del tempo si ripresentò. Nei suoi ultimi anni, già prima di ammalarsi, rientrando da una cena o un ricevimento mi chiedeva: «Quante ore mi restano da vivere: 33.924? Ebbene, tre le ho appena sprecate». Se c’era angoscia nella sua consapevolezza che il tempo scade, la sua gioia di essere «a giro» era di una intensità equivalente. Spaziava con delizia per la bella Saigon nei giorni della guerra, per l’immensa Cina fra i resti del comunismo, nei dimessi casinò sull’isola di Macao, fra gli dèi indiani che aleggiano attorno alle vette dell’Himalaya. Ma neppure questo gli sarebbe bastato se non avesse potuto scriverne per chi restava a casa. Sentiva forte la responsabilità di essere «gli occhi, le orecchie e il naso» dei suoi lettori, di dover riferire a chi non aveva le sue stesse opportunità di fare grandi espe-
Scienza La visione sistematica del saggio di Fritjof Capra e Pier Luigi Luisi
Poesia I versi di Romanetti prendono di petto l’attualità. Partendo dal passato
Tutto è Rete: il cosmo e l’uomo
Con Pasolini, via dall’inferno globale
di IDA BOZZI
di FRANCO MANZONI
L
a decrescita da sola non basta, l’intero universo (le forze fisiche ma anche l‘uomo e le costruzioni sociali) funziona come una Rete e non come una macchina, e, soprattutto, il nostro approccio con il pianeta ha bisogno di «un aumento di complessità». Lo sostiene il fisico Fritjof Capra (1939, foto), che ha presentato ieri all’auditorium San Fedele di Milano il volume scritto con il biochimico Pier Luigi Luisi, Vita e natura. Una visione sistemica (pp. 606, 34), pubblicato dall’azienda Aboca che è anche editore di lectio di ecologia della natura e dell’uomo (stasera è al Circolo dei lettori di Torino, domani al Maxxi di Roma). Capra è l’autore di un libro di culto, Il Tao della fisica (del 1975, edito in Italia da Adelphi nell’82) che già 40 anni fa mostrava i punti di contatto tra antiche discipline orientali e fisica: ora una visione olistica dell’universo è sempre più importante per i fisici, e questo nuovo libro racconta — con un bell’excursus iniziale sulla storia della scienza — il divario tra la visione meccanicistica e una visione sistemica. «Vi è un fondamentale cambiamento di metafore — ha spiegato
Capra —, in natura le strutture sono risultato di processi vitali, e tali sono anche la coscienza, la mente, il cervello, “processi” e non “cose”; ci troviamo sempre di fronte a un “sistema”, una rete». E prosegue: «Isolare un solo elemento per studiarlo non ha senso: questo vale per la natura, la società o la crisi economica». Il pensiero sistemico, su cui già negli Anni 20-30 del ‘900 gli scienziati iniziarono a ragionare, porta infatti non solo a considerare il mondo intero come un sistema in rete («i giovani lo capiscono bene, perché nella rete sono immersi»), ma a scartare anche la sola decrescita come soluzione per un’ecologia del pianeta: «In natura la crescita è essenziale. Solo che non è lineare: alcune parti crescono, altre no. Cioè occorre una crescita qualitativa e non quantitativa, che valorizzi la qualità e non i coefficienti monetari, il risanamento e non l’avidità». © RIPRODUZIONE RISERVATA
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oesia anticonvenzionale della concretezza, che si nutre del passato, ma non dimentica l’oggi. L’autore dimentica l’emarginazione, a volte volontaria, degli artisti, diventando il portavoce della verità pubblica. È l’interprete del proprio impegno contro una cultura piatta, assimilante, sentimentalistica, ipersoggettiva. È quanto si evince dalla silloge Non siamo noi che andremo all’inferno di Francesco Romanetti (Intra Moenia, pp. 162, € 10). Non a caso in epigrafe l’autore sceglie due frasi significative, una di Pasolini tratta da La Divina Mimesis: «Osservai meglio, e non tardai ad accorgermi che quel simbolo non consisteva in nient’altro che in uno Stronzo»; l’altra di Tommaso Campanella, da una lettera inviata a Galilei: «E già tutte le cose son poste in dubbio, tanto che non sapemo s’il parlare è parlare». Le citazioni tendono a sottolineare che in una società globalizzata anche il segnale d’allarme ha perso ormai il suo significato, proprio perché il pericolo non è più incombente, ma continuo. Un malessere comune, a cui non si presta più attenzione. Si dovrebbe allora reagire ad una esistenza vissuta quale testimonianza passiva.
Ecco perché il poeta sceglie di recuperare il diritto ad una parola forte, esplicita nella sua cruda semplicità. Come è in fondo la scelta dell’immagine di copertina, ripresa dal film «Salò o le 120 giornate di Sodoma» di Pasolini, un fotogramma che fa riferimento al repubblichino scoperto a fare sesso con la serva nera e perciò condannato a morte. Davanti a suoi assassini Ezio, pure lui carnefice, prende coscienza della propria identità, alzando il braccio sinistro a pugno chiuso: gesto che per un attimo turba i fascisti che stanno per giustiziarlo. Così nei testi erosivi di Romanetti troviamo vita e morte, amore e dolore, bambini dell’asilo e G8, rom in rivolta e trame della Cia, Gesù e il «criminale» George W. Bush. E soprattutto l’amato comandante Chavez, a cui dedica una ballata, con «la sua grossa testa / da indio / la schiena da bisonte / il collo da toro / il labbro abbassato / e grosso / e carnoso / da pugile…». © RIPRODUZIONE RISERVATA