Evapora

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Evapora Claudio Masetta Milone



Evapora

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A cura dell’Associazione Culturale The Artship Finito di stampare a Bologna nel dicembre del 2012 Prima edizione ©Tutti i diritti sono riservati all’autore Crediti Impaginazione grafica Valeria Taurisano Copertina e illustrazioni © Alessandra Liberato

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Prefazione La poesia come soffio vitale Scrivere ci avvicina alla vita suggerendoci attraverso la carta molteplici vie e percorsi, fron-

de dello spirito che a uno a uno si mescolano fino a diventare immagini, reti del pensiero in cui cullarsi all’ombra di un alto arbusto o alla fermata di un tram. Leggere tuttavia è considerato spesso un passatempo, un’occupazione secondaria da fruire distrattamente, senza prestare attenzione ai contenuti che colui che scrive ha riservato all’occhio pubblico, decidendo nell’atto in sé, di trasformare un sentimento in un movimento, in un’azione della parola. Leggere significa volere distintamente percepire il mondo e l’uomo, elevando la propria natura verso l’alto, oltre le ancestrali pulsioni primarie. Leggere è cogliere l’atto d’amore di scrive, di chi fermandosi, riflette su se stesso e su impercettibili dinamiche della società. Leggere, così come scrivere, avvicinano l’uomo alla felicità donandogli gli strumenti per cogliere il respiro del sublime. Leggere un’opera sia essa prodotto per immagini o forma di parola ritmata richiede sempre uno spazio del pensiero, una dimensione, privata e personale in cui il ricordo e l’esperienza si confrontano col nuovo che gli si pone davanti. Per molti versi, poesia e arte possono essere considerate sorelle, affini per intenzioni e modalità espressive. La composizione poetica proposta affonda le proprie radici sul doppio binario dell’arte e della poesia, cercando di spiegare secondo quali dinamiche queste due generatrici di senso affrontano il vasto e magmatico terreno della conoscenza/coscienza, non senza difficoltà, non senza periodi di gestazione e stop, ripartenze e intuizioni. Il poeta qui presentato, vincitore del concorso Doppio d’autore: la poesia incontra l’arte, ha avuto l’abilità di trasformare la parola in arte, non solo, rivelando in alcuni passages una forza espressiva maggiore rispetto all’immagine, ormai troppo spesso sciolta e diluita di senso, spiegata come un fast food. Ciò che conserva la poesia è quel quid d’indefinito e non catalogabile anelito, quell’élan vital che dona allo scritto la sensazione di essere portatore di infiniti riferimenti altri, di molteplici indicatori d’immensità. Una chiamata al sublime, questa del poeta, che si compone nel quotidiano, lontano dagli atteggiamenti calmierati del flâneur, vicino all’uomo per l’uomo. Da un punto di vista stilistico l’opera del poeta può essere intesa secondo un doppio binario, una doppia indole che sembra attraversare le composizioni tutte: da una parte l’anima giocosa e fremente, il bambino che guarda il mondo e se ne stupisce, l’indole irrequieta e trasognata di chi si ferma ancora a contemplar le stelle e le molte stagioni e il suon di lei, dall’altra, l’ethos dell’uomo adulto, con le sue cicatrici e le sue pulsioni, lontane da quel canzonato ricordo d’altalene e tramonti dorati.

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Paola Pluchino


Parole e immagini in movimento Nel cercare di dare una definizione di “montaggio poetico” diventa, per me, inscindibile

(forse per deviazione professionale) fare un paragone con un altro tipo di montaggio, che è alla base di un’arte che ha sovrastato l’intero Novecento: quello cinematografico. D’altronde personaggi più insigni di me hanno manifestato il bisogno di instaurare un legame tra poesia e cinema, come il poeta Andrea Zanzotto, che intitolò la sua prima raccolta di poesie Dietro il paesaggio, facendo un palese riferimento al quel “dietro le cose” poetico che rimanda al “fuori campo” cinematografico. Ma quanto la contaminazione tra linguaggio poetico e filmico può considerarsi reale e dove può essere rintracciata? In fin dei conti l’assioma che sta all’origine di questi idiomi, così apparentemente diversi, è perentorio nella sua equivalenza e consiste nell’atto del “vedere”. Come la dimensione visiva è la sorgente della testimonianza del poeta così lo è del cineasta che affida il suo mestiere prima alla sua immaginazione e poi a quella dello spettatore. Ancora Zanzotto che di questa commistione linguistica ne ha fatto il suo iter professionale lavorando con i più grandi e poetici cineasti della storia del cinema, come Federico Fellini e Pier Paolo Pasolini, scrive a proposito di uno dei film di quest’ultimo: “dire che Teorema è la testimonianza di quel salto di qualità nell’esistenza che è l’irruzione dello sguardo poetico: e la chiave ce l’ha fornita Pier Paolo Pasolini stesso mettendo in mano al suo angelo, così difficilmente catalogabile, il libro di Rimbaud. […] È proprio la presenza del libro delle Illuminations nelle mani del Messaggero, dell’Inviato, nelle mani di colui che forse è addirittura la Divinità in persona, ciò che lascia intendere come la poesia, o il suo mito, siano forse l’unico momento di rottura, di sospensione del tipo di esistenza in cui siamo specialmente ora sommersi”. Il poeta, perdendosi in un’apologia dedicata a Pasolini, individua quel limen , quella linea di confine tra le due arti che appare valicata quando si ode la voce sacrale e inviolabile della poesia congiungersi con lo sguardo profano e definito, a torto, prosaico del linguaggio cinematografico. Quel logos che è prerogativa originaria e fondamentale dell’immagine poetica viene adottata dalle immagini in movimento del cinematografo quando s’identifica nell’intento di un artista che,con il suo sguardo sovversivo, cerca di sfondare il muro insidioso del reale. Dopo tutto, proprietà innata che distingue e accomuna il poeta e il cineasta è l’attenzione famelica ad ogni forma che produca quell’esperienza sensoriale che si traduce in conoscenza del mondo. Il sogno che portò i fratelli Lumière a inventare il primo proiettore di immagini custodiva il desiderio di poter far risplendere su una tela bianca le emozioni che il reale conferisce e che, spesso, dimentichiamo di vivere. Certo, abbiamo due modi diversi di fruire di tali emozioni, dato che il cinema ha una forza che è molto più invadente, conturbante e indelicata rispetto alla poesia che è sincera, diretta e rettilinea.

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Ad ogni modo il fine ultimo è il medesimo: come quell’universo parallelo di ombre e luce, che è il cinema, ci proietta in una dimensione illusoria che trascende il reale e trascendendolo trova, nell’ascesi, piena consapevolezza, così in quelle sillabe crude, appassionate, pungenti e raffinate racchiuse nel mondo della poesia troviamo una seduzione rivelatrice che ci permette di scivolare in un inganno subliminale che ha i connotati della concreteza. Dal punto di vista tecnico il montaggio cinematografico si avvale di due semplici operazioni: la scelta delle immagini e il montaggio di esse. Un meccanismo che può essere definito banale ma che deve essere considerato il principale momento di verità creativa in cui tutto l’estro dell’artista si esprime. D’altronde come una sillaba non avrebbe senso se non fosse collegata ad altre sillabe, che si tramutano prima in parole e poi in versi, così una singola inquadratura perderebbe di significato qualora non trovasse continuità con l’inquadratura precedente e con quella successiva. È il movimento la parola chiave, quel ritmo che, in poesia, permette di scandire i versi, conferendogli palpabilità, e che nel cinema ha il potere generatore di creare o dissolvere sogni. L’atto, attraverso cui, il cinema crea le sue storie, costruendo le sue forme narrative e strutture sintattiche, è dato dal movimento, dalla scelta del ritmo. All’inizio dei tempi musica e poesia andavano a braccetto e compito dei menestrelli era divertire e affascinare il re e la sua corte con versi musicali, poi, nel corso del tempo, benché il richiamo alla figura del menestrello riviva nei ministral shows statunitensi dei primi del Novecento, la poesia ha perso il suo carattere musicale, ma non il suo ritmo. Le rime, la punteggiatura e gli accenti creano un andamento melodioso, determinando una successione ritmica di suoni che conferisce armonia e movimento alle parole. Nonostante una delle differenze sostanziali tra il cinema e la poesia sia data dalle modalità che lo spettatore o il lettore ha di fruire di tali arti, tanto che la sala cinematografica diventa un luogo di condivisione di un sogno che può essere contemporaneamente personale e collettivo, mentre la lettura di versi ha quasi sempre una dimensione privata, se non esclusiva, la ricezione dello spettatore o del lettore è fondamentale nella costruzione semantica del testo filmico o poetico. Senza l’interpretazione e l’analisi esegetica del ricevente il messaggio perderebbe la sua identità e con essa il suo valore. A partire dall’intuizione dell’artista, sia nel cinema che nella poesia, è necessario l’intervento del destinatario perché la sequela delle immagini e delle parole acquisisca quel movimento che permetta all’attività onirica di adempiere al suo mestiere. Così Fellini parla di cinema: “È quello che avviene, mettiamo, durante l’inverno, la stagione brutta, quello che avveniva tanti anni fa, ma fors’anche oggi avviene specialmente nei piccoli paesi o nelle città di provincia.

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Mentre l’acqua scroscia e tira vento, in certi cupi pomeriggi o di notte. Si va al cinema, e si apre come una porta sull’impossibile, sull’incredibile. Nel cinema persiste una contraddittoria realtà/irrealtà che si pone sempre ad una certa distanza pur facendosi invadente, appaga e insieme lascia un rimpianto; qualcosa di perduto da ritrovare, qualcosa che si sottrae, da inseguire. Il cinema in quanto seduzione irresistibile è qualche cosa di femminile, nella sua essenza”. L’essenza femminile, di cui parla Fellini, quella musica del senso, quel vortice sensoriale è uno dei motori roboanti della lirica poetica. È nella perdita delle inibizioni, nell’abbandonarsi al flusso dei sensi, nell’abbattere le retrovie delle convenzioni che la poesia, come il cinema, conquista la sua ragion d’essere. L’autore e lo spettatore/lettore diventano protagonisti di un percorso che conduce ad una presa di coscienza che solo l’arte è in grado di scatenare. Ecco che la sequenza di immagini e parole si tramutano in un viaggio, fino ad allora mai intrapreso, nei meandri di una scoperta, quella di sé e del mondo. Niente appare impossibile per chi riesce a creare, con parole e immagini, universi inesplorati e strade mai battute. Ma, attenzione, che per quanto Béla Balázs sottolinei il carattere popolare, che il cinema ha avuto fin dalla sua origine, quest’arte che più delle altre ha coinvolto il genere umano nella sua interezza e semplicità, condivide con la poesia il suo lirismo e nobiltà nello scandagliare il reale, alla ricerca della verità. I sogni sono alla portata di tutti, ma diventano proliferazione di idee, stillicidio di pensiero sono nella mani di una creatività consapevole di non poter afferrare l’immutabile, bensì di poter scorgerne soltanto l’essenza. A questo proposito fondamentale è ancora una volta la confessione di Zanzotto: Ma qualche volta il cinema arde brucia e illumina […] e il cinema – quasi – sembra lui la poesia, cattura tutto in poesia – un’altra. Ma rari invero sono quelli che possono fare questo cinema. Andrea Zanzotto, Il cinema brucia e illumina, Marsilio editori, 2011.

Cinema e poesia dissolvono gli ossimori della realtà quando, prodotti con deliberata lucidità e riverente senso del dovere, si asserviscono nel nome della verità. Giuditta Naselli

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L’eroe

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Evapora alla luce calda di una candela la malinconica memoria consumando gli anni dell’incuria. Sfumate assenze in cammino, l’intenso vedere scioglie l’unica storia avvolgendola in rivoli di cera. Tende al compiersi l’immagine di questo attimo.

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A qualcosa serve la sera. A nascondere la vita a sopprimere la luce a velare il volto a fermare lo sguardo a sedare il rapace a smarrire la strada e ritrovarsi per caso. Ăˆ luna piena senza alone, fredda la sera. A che serve la sera?

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Ho sentito il tuo desiderio del possibile altrui. Ho tentato di primeggiare per essere io il tuo possibile. Invano ho cercato di farmi notare. Ero nella casa piena d’ aria dove basta un niente per svanire.

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Non picchiare, scivola su quei tasti. Bianco e adesso nero. Ma tu scivola con le dita e che sia cosĂŹ sulla mia pelle Il tuo dito, e anche il secondo e poi il terzo e che sia la tua mano. Ma ti prego non tamburellare, Scivola sulla pelle del mio Viso.

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Perché, Signore, non mi hai dato un’armonica quella sera d’agosto? Potevo suonare alla luna, quella sera in agosto. Invece sono andato nell’aranceto dove il soffio mescolava la zagara al sale della brezza. E forse la luna oggi mi sarebbe stata benevola in questa lunga notte che non sa niente di quella sera d’agosto.

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Fra le macerie di questo incompleto viale mettono radici il platano e la margherita. Più in là scansa la polvere la rana, lo stagno, la casa e la culla. Di questa piazza conosco le fessure fra mattoni consumati, parole offerte a sordi amici camminanti. Non è la sera a creare ombre, né la luna complice. Ma scheletri di case incompiute, frutto di sangue clandestino in terra promessa. Nell’antro di Polifemo Nettuno accumula sbiancate ossa salate e cataste d colorati legni di barche, naufragate in questo Mediterraneo indifferente. Straziante il canto dell’onda.

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Sto bene se scrivo meglio se sogno felice se dico entusiasta se penso giocoso se cerco pacato se ozio garbato se t’amo perduto se immagino.

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Forse era l’ alba Forse era l’ alba, Forse il tramonto. Lasciò i figli alla madre fame. I passi sulla sabbia del deserto rompono il silenzio dei clandestini . Ti aspetta il sapore azzurro del mare, su lercia barca ammassata con altre speranze. Conoscerai il sole, il sale del Mediterraneo, piegata su te stessa come un feto prima della fine. Anche io naufrago in questo mare, circondato da secoli d’arte. Ti incontrai clandestina figlia d’ Africa saccheggiata. Questo mare come muro protegge l’isola, il luogo del mistero, scoglio inospitale eretto dall’uomo, disgraziato suolo.

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Silenzio Son certo che sia l’istante del silenzio compiuto. Sento solo così il respirare del bosco, il fruscio della mentuccia che si lascia dondolare dal respiro. La felce copre la piccola fragola aspra, un rumore di vita lacera la soffice terra, si fa largo fra foglie fumanti d’umido: germoglio, arroganza di vita nascente, ancora per poco spoglio e rivolto al raggio, per assaporare il calore il colore del giorno che aspetto come un vecchio saggio. Ogni alba è un silenzioso oltraggio.

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Il Fanciullo

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Quando arriva il suono L’orecchio si desta, Il corpo si predispone alla danza, Il cuore batte il ritmo. Si aprono odorosi petali, danzano al sole che li accarezza e con il vento intrecciano passi. Graffiante, armoniosa la voce nel campo. Ăˆ la luce che attraversa E rende tutto leggero. Tutto si fa trasparenza l’anima diventa adesso essenza in questa muta assenza.

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Frugare fra le stelle, come averle fra le mani ridisegnare costellazioni, lasciando smarrire naviganti rimescolare i semi, trascurando questo campo arcano. Miglio orzo grano zizzania lino senape, desiderio di tornare al Creato.

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Aspettavo le albe e mi hai donato i fiori. Aspettavo il nascere mi hai dato il cresciuto. Aspettavo le parole e ho incontrato la saggezza delle pietre, navigatrici pesanti della terra, abbandonano la roccia per perdersi nell’acqua.

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Aprirò un negozio in questi giorni, Sì. Con molti scaffali pieni di tempo. Ci sarà uno scaffale per ogni tempo. Il tempo perduto, Il tempo mancato, non dedicato. Il tempo delle mele, Il tempo dell’ amore e del sorriso. Il tempo per ricredersi, Per un bacio. C’è tempo per ogni attimo. Peccato che fra i clienti Non c’è l’ uomo. Non è tempo per uomini. Settembre.

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Ho mescolato sale, polvere del vulcano la zagara degli aranci. Ho aggiunto sabbia di cielo, scirocco, a sabbia di mare. Ho raccolto tutto nella mano. Al mio soffio sei nata bianca, odorosa, Plumeria.

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Sto giocando a biglie ne ho di colorate d’arcobaleno. Le tengo fra nuvole intrise di sogno. Oggi c’è un sole che non scalda ma una brezza di mare che mi parla, oggi.

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L’uomo

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Non saranno né corpi o cumuli d’ossa sotto questo sole essiccante, né massa umana sotto pietre, né avvolti da mezze lune, né croci. Per questi miseri naviganti di legni marci, costretti viandanti. chi deve andare va... nessuno li attende ai moli. Adesso saranno custoditi da pietose onde deposte in un’ infinità d’acqua sparse e perse per sempre Immaginando un altro futuro.

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Se riuscissi a descrive le nuvola che copre il tramonto al limitare dell’orizzonte, l’esplosione di colori, e sfumature d’erica e d’arancio nelle quali l’occhio si perde e la carne trema. E mentre osservo, il mio volto inizia a saper di sale lo sento scivolare sulle labbra e la lingua lo cattura con gesto consueto e se riuscissi a descrivere il profumo di questa aria marina che avvolge la spiaggia e i granelli di sabbia scrivendoci le melodie del tempo che il vento mescola posandosi su questo mare se riuscissi a dirti come amo il mare questo Mare che culla i corpi inermi di uomini donne e bambini che in lui si sono persi in cerca di una nuova speranza sei io sapessi ti racconterei perché sono qui su questa spiaggia in cerca di far crescere in me la Compassione.

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Questo cielo che non si arrende al nero, questa nube che non perde il blu del nascere, questa terra che limita il mare e che si ferma in attesa della sera.

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A volte mi regalo qualche cosa. Non un fiore reciso ma la voglia di piegarmi per annusarlo. Non una manciata di terra ma il sedermi in terra Non una foglia che cade ma un germoglio da custodire o un ruscello da sentire. A volte mi regalo qualcosa lasciando la conchiglia sulla spiaggia. Mi regalo qualcosa osservando questa brezza che si nota quando muta il cielo, trascinando nuvole. Io mi regalo il respiro difficile dell’essere.

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Bucherellava con le dita la soffice terra del giardino, chino. Per lui era un rito, poneva con cura l'invisibile seme, lo nutriva con pazienza in armonia con i sogni, attendeva i germogli. Cresceva la pianta del giardiniere dell’ invisibile. E in cuor suo celava la speranza del visibile frutto.

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Dopo questo tramonto velato da nuvole piene di futura pioggia seduto sistemo con interesse la collezione di coltellini che tu hai raccolto per anni e che in un affettuoso minuto mi hai donato. Ti ho raccontato tutto aspettando il suono del tuo sorriso interrotto da frasi e considerazioni benevole, piene di femminile saggezza. Il tempo avvicinerà queste sponde bagnate da questo unico mare. Da domani farò delle buche nel giardino e il tempo mi darà ragione e semi posati dalla tua mano. . Non al tempo affido il mio voto ma al cuore che sogna.

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Che sia Apri la finestra a questo vento che sia lui a portare via la polvere dagli angoli. E tu Madre rimani seduta pettinati, sorridimi come quando mi accoglievi al ritorno dal correre per prati. Lascia che sia il tempo mite a far fiorire i fiori, non la fatica della zappa. Che siano le parole a ricondurci all’amore lieve dell’infanzia. Che sia il ventre caldo a far rivivere il soffio il creato l’immenso cielo. Socchiudi le labbra e sorridimi Madre.

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Ho chiesto al cielo color erica per il tramonto al mare che liberasse il turchese e al vento una vela per portarti il mio pensiero.

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INDICE Prefazione 7 - La poesia come soffio vitale di Paola Pluchino 8 - Parole e immagini in movimento di Giuditta Naselli

Vol 1 - L’Eroe 13 - Evapora 14 - A qualcosa serve la sera 15 - Ho sentito 16 - Non picchiare 17 - Perché, Signore 18 - Fra le macerie di questo incompleto viale 19 - Sto bene se scrivo 20 - Forse era l’alba 21 - Silenzio

Vol 2 - Il Fanciullo 25 - Quando arriva il suono 27 - Frugare tra le stelle 29 - Aspettavo le albe 31 - Aprirò un negozio in questi giorni 33 - Ho mescolato 35 - Sto giocando a biglie

Vol 3 - L’Uomo 37 - Non saranno 38 - Se riuscissi 39 - Questo cielo 40 - A volte mi regalo qualche cosa 41 - Bucherellava con le dita 42 - Dopo questo tramonto 43 - Che sia 44 - Ho chiesto al cielo color erica per il tramonto

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Evapora alla luce calda di una candela la malinconica memoria consumando gli anni dell’incuria. Sfumate assenze in cammino, l’intenso vedere scioglie l’unica storia avvolgendola in rivoli di cera. Tende al compiersi l’immagine di questo attimo.

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