Claps. Alla scoperta della civiltà dei sassi

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mortem, di essere elevata agli altari come Beata, oggi riposa dietro a una lapide murata nella chiesa parrocchiale di Mereto, subito a destra dopo aver varcato il portale d’ingresso: per scoprire la santità contadina di questa ragazza che ha scritto un Cantico delle creature durato il breve spazio di una vita difficile si possono anche contattare tre guide paesane (Agnese 0432.865141, Giuliana 0432.865068, Rosalena 0432.865556), capaci di raccontarvi una Concetta vista da vicino. Per passare dalla fede sofferente e incrollabile di Concetta a quella, erudita e caritatevole, dell’omonimo (ma senza parentele) Gian Domenico, basta uscire dal raccoglimento della chiesa e attraversare la strada puntando, percorsa qualche decina di metri, sul cartello che annuncia i fasti appena sbiaditi della villa ex Bertoli [14]: questa casa dominicale fabbricata a metà del ’600 secondo gli stilemi della villa veneta (tre corpi disposti a corte, salone centrale passante sul piano nobile, bifora al primo piano) è, insieme, il segno patrizio lasciato sul tessuto urbanistico del borgo e il simbolo, in parte svuotato, dell’inesausta passione di un uomo. Il segno patrizio, perché la storia della famiglia Bertoli, che nel 1717 eredita, grazie a un matrimonio di convenienza, l’antica e mai decaduta giurisdizione feudale sul paese dai blasonati signori di Valvasone, è, in quei due secoli, la storia di nobili capaci di coniugare, in pieno spirito pre-illuministico, amministrazione civile e culto per le arti, dal poeta e drammaturgo Daniele (1633-1720) al pittore e conte del Sacro Romano Impero Daniele Antonio (16771743), fino al fisico e architetto Gianmaria Alberto (1686-1768). E fino a Gian Domenico (1676-1763), l’uomo che seppe trasformare in una delle biblioteche private più ricche del Friuli quel palazzo turrito in cui, specie durante la stagione della caccia, tra cicli di affreschi oggi ridotti a lacerti di fregi si dava convegno la settecentesca nobiltà udinese. Nominato canonico di Aquileia nel 1699 Bertoli, come accadeva per tutto il corpo sacerdotale, risiedeva nell’antica sede del Patriarcato, ormai impaludata tra le acque ferme della laguna, soltanto tra l’Avvento e l’Ottava di Pasqua, quando minori erano i rischi di febbre malariche, consumando le estati nella tranquillità di Mereto. Tolte le poche funzioni officiate nella basilica teodoriana (313 d.c.) Aquileia fu per lui, fin da subito, soprattutto un tesoro nascosto sottoterra: da riscoprire, decifrare, catalogare, pubblicare. Impigliati tra i denti degli aratri trascinati dai contadini lungo quella che era stata la prima campagna del Friuli colonizzata dai Romani (181 a.c.), infatti, di fronte agli occhi stregati del canonico affioravano anelli, gemme e corniole di un’età ‘pagana’ piena di idolatria e di fascino. Nasce, così, una passione per le ‘anticaglie’ che, d’inverno, si traduce nelle prime cave (scavi) della storia dell’archeologia friulana e in inesausta raccolta, trascrizione e disegno di epigrafi, sigilli, monete, pietre preziose, bassorilievi e statue, e d’estate, come voleva la nascente scienza antiquaria del tempo, nella ‘certificazione’ e interpretazione delle reliquie attraverso il confronto con le fonti scritte, raccolte in una biblioteca capace di contenere oltre 1.100 volumi, dati alle stampe tra l’inizio del ’400 e la metà del ’700: «Tra le scancie» (scansie) degli «armadi» custoditi in una camera grande e in un camerino al primo piano della casa dominicale

di Mereto e organizzati, come leggiamo nel catalogo compilato di suo pugno, secondo la loro materia, Bertoli infilò volumi riguardanti scritti sacri e morali, divinità dei gentili (pagani) e lor genealogie, medici (con prime edizioni di Galeno, Dioscoride e Avicenna e il rarissimo Contradictiones, dubia et paradoxa del medico udinese Nicolò Rorario, stampato a Venezia nel 1565), filosofi, grammatici, istorici, geografici, medaglie e iscrizioni antiche, geroglifici e poeti. E se è vero che questa, in Friuli come in Europa, è l’epoca delle grandi biblioteche (monumentale, con i suoi oltre 9.000 tomi, quella assemblata dall’allora patriarca Dionisio Delfino nella sede udinese della giurisdizione ecclesiastica) e delle prime enciclopedie (la più celebre, quella dei philosophes francesi curata da Diderot e d’Alembert, spezza le maglie della censura nel 1751), per un borgo rurale semispopolato e inghiottito dal ventre secco dell’alta pianura friulana come Mereto la collezione del canonico assume le dimensioni dell’eccezionalità: Bertoli, del resto, non fu mai un isolato erudito di provincia. In un’età zoppa di strade veloci e ignara di fibre ottiche, i cinquantasei tomi di corrispondenza intrattenuta con i maggiori dotti friulani (Giusto Fontanini e Bernardo Maria De Rubeis) e italiani del ’700 (Scipione Maffei e, soprattutto, Ludovico Antonio Muratori, fondatore della storiografia italiana sul Medioevo e influente fautore di una nuova e meno accademica ‘repubblica delle lettere’) dimostrano come la cultura viaggiasse lenta e sicura sotto i sigilli di ceralacca: anche grazie a questa prodigiosa ‘internet delle anticaglie’, in cui ciascuno impilava con calma i suoi pezzi archeologici e aiutava gli altri a decifare valore e significato dei propri, usciranno quasi contemporaneamente dalle stamperie il Novum Thesaurum Veterum Inscriptionum (1738-1743) di Muratori e Le antichità d’Aquileia profane e sacre, per la maggior parte finora inedite (1739), opera con cui il canonico di Aquileia squaderna per la prima volta la storia dell’antica capitale del Friuli pagano e cristiano sotto forma di monumenti sacri alle divinità o riguardanti imperatori, graduati dell’esercito, pubblici uffici e privati, lapidi, mosaici, dipinti, edifici e monete dell’età tra la

la preghiera dei paesi

gli identikit della fede

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