Lettere migranti nievo

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Istituto Comprensivo “Ippolito Nievo” San Dona’ di Piave (VE) a.s. 2012/2013

Concorso MA CHE STORIA! L’emigrazione del Veneto Orientale attraverso la scrittura di una lettera

Classi: III A, III D,III E, III F, III H

Docenti: Nadia Teresa Modolo, Carmen Sari, Antonella Carrer, Mara Malocco, Anna Caputo.


[…] Sono scappato dall’Italia per poterti ridare il sorriso, ma qui mi sento stanco e triste perché un lavoro mi dura al massimo due giorni e non ho nulla da mangiare. Se non troverò i soldi per pagare l’affitto, non avrò più un tetto sotto il quale ripararmi. L’inverno è alle porte, rischio di ammalarmi, o peggio, di morire di freddo. Ormai manca poco, mia cara, sto capendo quanto è avvilente morire senza poter lottare, non dovevo venire in America. Però … però … mi sembrava una buona idea: potevamo essere tutti più felici e invece non riesco

neanche ad arrivare a fine mese. Qui non conosco nessuno e tutti mi trattano come se fossi il loro zerbino. Mi vergogno di me stesso, di aver fallito, di non aver compiuto il mio dovere. Scusami. […] Gli Stati Uniti mi stanno uccidendo. Vorrei stare con te e con i nostri bambini, invece sono qui a lottare per un pezzo di pane. È tutta colpa mia, sono allo stremo delle forze, credevo di essere forte, ma forse non lo sono mai stato. Addio. Giorgio Cremonese – Alessandro Poletto, 3^ A


Cari genitori, […] quella terza classe piena di italiani era come un manicomio, la gente era fuori di sé: certi erano entusiasti del fatto che andavano in America a fare soldi, altri tristi perché avevano abbandonato la propria famiglia … Insomma ognuno provava emozioni diverse. Bisogna stare uniti come famiglia, dovevamo tenerci stretti gli oggetti, i vestiti e i bambini, perché potevano essere rubati. Avevo paura che mi rubassero Pina e Gino, e che a mio marito Aldo succedesse qualcosa di brutto. […] Dopo un mese e poco più vidi la Statua della Libertà, mi sentii libera e spensierata. Il cuore mi batteva forte forte

e in quella città io avevo posto tutte le mie speranze, volevo solo lavorare per aiutarvi. Una grande statua, alta sui novanta metri, raffigura una donna che indossa una lunga veste e sorregge in una mano una fiaccola, mentre nell’altra un libro; ai suoi piedi ci sono delle catene spezzate, simbolo della libertà. Una sensazione unica e diversa per ognuno di noi. […] Amo la terra in cui sono nata e premetto che non la dimenticherò mai; ma bisogna far spazio anche alle cose nuove, senza dimenticare quelle vecchie. Luigina Aura Stan, 3^ D


New York, Washington Street 25° Sconsie, 23/04/1897

Cari mamma e papa, […] Siamo arrivati qui da solo un mese, ma credetemi sembriamo rinchiusi qui da un’eternità. Siamo salpati dal porto di Genova il 6 aprile, alle quattro del mattino in punto, era pieno zeppo di gente da tutte le parti d’Italia, ma si sentiva molto accentuato il nostro accento veneto. […] Ci apparve la Statua della Libertà, dritta davanti alla nostra vista; all’inizio provai un senso di maestosità e grandezza, dopo, però, cominciai a riflettere e a pensare al vero significato che rappresenta e che ha sempre simboleggiato per il paese. Sotto al suo senso di libertà si nasconde un luogo dove è molto difficile vivere e, credetemi, la libertà è l’ultima cosa che un cittadino emigrato italiano può avere. Forse, gli unici cittadini che gli americani amano sono i cittadini americani stessi: bianchi, puliti, con le loro regole e i loro pregiudizi, soprattutto gli uomini che lottano contro la parità dei sessi. La fiaccola e il libro che la donna tiene in mano non sono il simbolo di speranza e cultura, ma solo finzione che ti illude che qui si possa vivere bene. […] A presto, Elena Teresa Vazzola, 3^ D


Ciao mamma, ciao papà, sono qui a New York da ormai un mese e la situazione non è delle migliori. […] l’alloggio lo divido con altre sei persone e anche con i loro animali domestici. Mangio pane e affettato e, a volte, se sono fortunato e ho qualche soldo, mangio del pesce o della pasta. I miei coinquilini provengono dal Nord, nelle zone vicino al Piemonte e alla Lombardia. Mi è stato offerto un lavoro come spazzacamino ed uno come operaio in una fabbrica di ferro, ed io ho scelto la seconda opzione, perché mi danno qualche soldo in più, anche se non molti.

[…] gli Americani, non trattano molto bene le persone italiane e anche me. Mi hanno fatto sentire un escluso. Gli Americani usano stereotipi per disprezzare gli Italiani, ad esempio “Bat” per dire “mezzi bianchi mezzi neri”; “Dago” cioè “popolo dello stiletto”; “Ding”, cioè “suonatori di campanelli”; “Wog”, cioè virus; “Chianti” che significa “ubriaconi” e anche “Wop” cioè senza passaporto”. […] dopo aver accumulato un po’ di soldi tornerò a casa perché qui non mi piace vivere. Vi voglio bene Enrico Enrico Chisso, 3^ D


New York, 03/04/1898 Cari mamma e papà, […] la gente del posto è vestita bene, pulita, elegante, ma ci guarda con diffidenza e disprezzo. Non vive nei posti dove abitiamo noi, anzi, quei posti li evita. Hanno molti pregiudizi su di noi e ci offendono spesso. Gli insulti sono le prime parole che ho appreso di questa lingua. Ora Rita e Vittorio vanno a scuola: un vecchio edificio che è stato usato per istruire i figli degli immigrati. A fianco un edificio nuovo: la scuola per gli Americani. Sono molto felice che i miei figli vadano a scuola; anche se loro, come tutti gli immigrati italiani residenti in America, ogni giorno, devono fare i conti con il razzismo e con i vari nomignoli che si divertono a darci. Mio marito fa il muratore qui in città, lavoro umile e faticoso; lavora anche tutte le domeniche. Infine vi parlo di me: ora faccio la domestica in una ricca famiglia newyorkese. Questi lavori non ci permettono di guadagnare molto, ma speriamo comunque di riuscire a comprarci una casa tutta nostra il prima possibile. […] A presto. Francesca Francesca De Marchi, 3^ D


New York, 22 aprile 1905 Caro fratello, finalmente ti posso scrivere dopo tanto tempo dalla mia partenza dal Veneto. Sono a New York da circa un mese e sto bene di salute, spero anche voi tutti. Il viaggio in nave è stato lungo e faticoso […] io per fortuna ho un fisico forte e sono sano, il viaggio mi ha debilitato ma non troppo: ce l’ho fatta ad entrare in questa grande America. Sì, grande, perché all’inizio mi pareva di perdermi, tutto nuovo, strade, case, anzi, palazzi altissimi, tutti attaccati. Avevo sempre il cuore a mille, la testa mi girava. In nave avevo fatto amicizia con Salvatore, un siciliano che aveva già fratelli e cugini qua a New York ad aspettarlo. È stato la mia salvezza. Mi ha portato con lui a casa sua. È una stanza, senza bagno, divisa da delle tende in modo da creare delle “cucce” per dormire, un angolo per andare in bagno e un altro angolo per mangiare. Mi sono appoggiato a loro per l’alloggio: sono brava gente, lavoratori. Nel palazzo dove sto io ci sono decine di stanzoni quasi tutti affittati ad Italiani, tanti dal Veneto, Piemonte, ma anche da Napoli, tantissimi dalla Sicilia, un po’ da tutta Italia. Ho trovato quasi subito lavoro nel porto: scarico e carico delle navi che sono grandi come un paese, di giorno mangio poco ma poi


alla sera, a “casa”, riusciamo a fare la pasta ed è un po’ come essere a casa. La cosa peggiore è che al di fuori di casa non capisco quasi niente, sto imparando un po’ alla volta un po’ di Americano, ma è molto dura… Gli Americani non ci trattano tanto bene, dicono che siamo mafiosi, poi io dico “Venezia” e allora spesso mi guardano meglio, quelli del Nord sono meglio accettati rispetto a quelli del Sud Italia, ma in generale ci considerano sporchi, ci chiamano “scarfaces”, scarafaggi, questa parola l’ho imparata bene. […] ti voglio bene, tanto tanto, un abbraccio e un bacio grande a tutti Vostro, Mattia Mattia Faoro, 3 ^ D


Sono qui, sto camminando verso la stazione ferroviaria di San Donà. Voglio lasciare questo paese, voglio cercare fortuna. Andrò in treno fino a Genova dove prenderò la nave che porta in America. Non so l’inglese, ma questa è la cosa meno importante, vorrei solo un lavoro. C’è vento e fa freddo, sto seguendo un gruppo di persone che, come me, si stanno dirigendo verso la stazione. Indosso il mio abito da lavoro, quello buono è nella sacca con le scarpe e il cibo. Ecco, vedo già la ferrovia, tra poco salirò su un treno … non so se faccio la cosa giusta, però lo faccio, lo faccio per me e per la mia famiglia, per mia madre

che fin da piccola mi dà sicurezza e conforto, da mangiare e da vivere. Sono davanti al treno: da qui sembra enorme. È fatto in legno. Stiamo entrando, le sedie sono già tutte occupate. Ho appena visto una ragazza che lavorava con me nei campi, ma è troppo lontana, sarebbe troppo difficile raggiungerla. Continuano ad entrare persone, vengo spinta in continuazione. Sono passata per tre vagoni, nel quarto ci sono ancora dei posti liberi. Ecco, mi sono seduta. Sono vicino ad una finestra, è chiusa, non respiro molto bene ma almeno sono già in viaggio. […] Sara Bottacin, 3^ E


È l’alba, mi trovo alla stazione di San Donà, ho paura e sono da sola; ho la speranza di incontrare qualcuno durante il viaggio con cui parlare, stare in compagnia. Il treno è appena partito, ci metteremo due giorni per arrivare al porto di Genova. Il mio vagone è molto piccolo, ci saranno circa venti persone, siamo tutti vicini e c’è poca aria; vicino a me c’è una famiglia: la madre, il padre e tre bambini tra cui uno molto piccolo; piange molto, avrà fame, ma di cibo non ce n’è tanto. Anch’io ho un sacco: contiene le uniche cose che possiedo da vestire (ossia

l’abito buono) e del cibo: formaggio, salame, pane e una brocca contenente dell’acqua; me li ha preparati mia sorella poco prima che io partissi, chissà quanto durerà il pane! È l’imbrunire, sono stanca dal viaggio e qui nel vagone nessuno parla, tranne una giovane donna che emette un lieve sussurro; è davanti a me, starà pregando, era sola; nel pomeriggio mi aveva raccontato che stava raggiungendo il marito in America, lui era già lì da sette mesi e aveva trovato una casa e un lavoro sicuro. […] Irene Rizzetto, 3^ E


[…] la nave, eccola lì. La vedo. O santo cielo è veramente grandissima! Non me la immaginavo così tanto grande. All’entrata ci sono lunghe file e all’inizio di queste ci sono gli uomini armati. [Hanno] il compito di controllare se tutti [hanno] il biglietto. Io ce l’ho. Eccolo. È un fogliettino giallino con delle scritte che dicono che io posso salire. Mi sono messa in fila e sto aspettando. Finalmente! Era ora. Sono sopra la nave. Un uomo mi ha spinto dentro una stanzina e mi ha spiegato che questo sarà il posto dove starò per tutto il viaggio, mi sono sistemata, ho tirato fuori i libri che mi sono portata e ho cominciato a leggere. Sono passati giorni e a me mancano già la mia terra e la mia famiglia. Ho veramente moltissima nostalgia di casa. Mi sento sola, non conosco nessuno. Mi sembra di essere prigioniera. Prigioniera della nave e delle mie emozioni: non si può scappare da queste due carceri. Sono passati ancora giorni e non è cambiato niente. Settimane. Terra, terra! Vedo la terra! Che bello! Vedo la terra! Vedo la statua della libertà. […] Matilde Vazzola, 3^ E


Oggi 15 Giugno sarà un giorno memorabile, perché, dopo l’ennesimo colloquio lavorativo non andato a buon fine, ho deciso di cercar fortuna altrove: mi trasferirò in Brasile. Questa decisione è stata molto difficile da prendere, perché questo implica lasciare le persone a cui voglio bene per vederle una volta ogni tanto e non quasi tutti i giorni come ora; però, d’altra parte, volevo mettermi alla prova, anche se questo significa fare un salto nel buio perché andrò in Brasile senza nessun appoggio: dovrò cavarmela da

sola con le mie capacità. […] Oggi mi sono svegliata di buonora con tanta tristezza nel cuore perché saluterò per l’ultima volta i miei genitori, mia sorella che, lo so, mi manca già. Mi chiedo come farò a fare a meno delle piccole cose come un sorriso, un abbraccio, una risata che scaldano il cuore. Ma non c’è tempo, devo sbrigarmi con le valigie perché il treno non attende. Eccomi alla stazione pronta per salire sul pendolino che mi porterà a Genova dove mi imbarcherò alla volta della “Terra Promessa” …. Greta Bressan, 3^ E


New York 08/09/1890 Cara Maria, ti scrivo questa lettera dopo essere arrivata in America. Il viaggio via terra è stato faticoso, ma ancora peggiore è stata la navigazione. L’imbarcazione era piena di gente ed eravamo tutti ammassati come animali. Venivamo nutriti con cibi molto scadenti: un po’ di pane duro, quasi immangiabile, e un cucchiaio di minestra che sembrava acqua sporca. Per passare il tempo cantavamo oppure facevamo passeggiate sul ponte della nave e io guardavo per ore il sole sorgere e tramontare. Purtroppo una sera abbiamo trovato una forte burrasca e pensavo che la mia vita finisse. C’era gente che pregava, altra che urlava. Tutto mi sembrava strano ed ero preso da una forte malinconia. Venivamo buttati da una parte all’altra dalla forza delle onde e molti in quell’incidente, persero la vita. L’unica cosa che mi aiutava era il pensiero di realizzare il mio sogno e magari garantire una vita migliore a te e ai nostri figli. […] adesso ti saluto e ti mando un forte abbraccio. Ciao, Alfredo Alessia Barbin, 3^ F


New York, 15 dicembre 1910 […] Io passavo gran parte della giornata affacciata al parapetto della nave a guardare l’oceano. Volevo scoprirne i segreti e desideravo con tutta me stessa che qualcuno, da quegli abissi misteriosi, potesse aiutarmi. Sapevo infatti che ogni ragazza, prima di sbarcare in America, doveva trovarsi un marito. Le mie sorelle, essendo più grandi di me, ne avevano già uno, ma io no. Dovevo sposarmi con uno sconosciuto a soli diciotto anni. Sono state tante le volte in cui, guardando il mare, ho desiderato sparire tra le sue onde e magari diventare una sirena: niente pensieri e problemi, solo l’azzurro del cielo e il blu dell’oceano. Ma la vita è una sfida e, come diceva sempre la nonna, non bisogna aggirare l’ostacolo, ma superarlo. […] Emma Beatrice Marin, 3^ F


17 luglio 1877 Cara mamma, ti scrivo per raccontarti il lungo viaggio che ho affrontato. In tanti siamo partiti per trovare lavoro e farci una nuova vita in America. Ho conosciuto molta gente povera come me, famiglie con bambini e tanti giovani speranzosi di trovare fortuna in America. Ho affrontato un viaggio interminabile e faticoso. Dormivamo in delle cuccette di ferro; l’igiene lasciava molto a desiderare ed io, quasi come tutti, viaggiavo in terza classe dove si mangiava zuppa e si beveva un’acqua insapore e razionata.

Durante il giorno le ore non passavano mai, sul ponte trascorrevo quasi tutta la mattinata osservando le onde dell’oceano che sembravano infinite e contemplavo allo stesso tempo la loro bellezza. In questi momenti di solitudine affiorava la nostalgia di casa e la voglia di abbracciarvi tutti, ma il pensiero di una vita migliore mi aiutava a superare questi momenti tristi. Nei giorni di tempesta andavamo in preda al panico e restavamo sotto coperta fino alla fine della bufera. [‌] Mi manchi tanto e scrivimi presto. Chiara Chiara Marino, 3^ F


Buenos Aires, 10 maggio 1889

Cara Maria, come tu sai la famiglia ed io, il giorno 10 marzo, ci siamo recati a Genova dalla nostra San Donà, per imbarcarci per l’Argentina. […] durante il viaggio di traversata, i giorni trascorrevano lenti e monotoni. Ci svegliavano all’alba, si mangiava qualcosa e, se il tempo lo permetteva, si guardava l’oceano che sembrava infinito. La prima volta che lo vidi, sono rimasta incantata: tutti i tipi di azzurro con le loro sfumature, i riflessi del sole; pareva di essere in un sogno da quanto era bello guardarlo. A volte dimostrava tutta la sua potenza distruttrice. Una sera, stavamo tutti riposando, finché non abbiamo sentito che la nave si muoveva in una maniera strana: andava su e giù, a destra e a sinistra; la Nina e la Betta, hanno vomitato anche l’anima, ma noi non potevamo far altro che tenerci aggrappati ai nostri letti e pregare. All’improvviso, la tempesta terminò; saranno state le tre del mattino, ma a tutti è sembrata un’eternità. […]


La paura di ammalarsi era l’incubo di tutti. Ma senza acqua, senza sapone, senza niente, non potevi impedire alla morte di venirti a prendere. Per andare in bagno, dovevi obbligare gli altri a girarsi e poi il tutto veniva gettato in mare, gli odori a volte erano insopportabili. Un giorno un umo ha avvistato terra e ha urlato: “Merica! Merica!” Allora tutti si sono sporti dalla nave per vedere anche loro. A quel punto la gioia è stata generale: chi gridava, chi piangeva, chi saltava, chi cantava … […] salutami tutti Anna Anna Baldo, 3^ F


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