Le Mutilazioni Genitali femminili nel Lazio - A cura di Giuliana Candia

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Le mutilazioni genitali femminili nel Lazio a cura di Giuliana Candia

Esperienze e conoscenze di operatori, donne e comunitĂ immigrate

SVILUPPOLOCALE EDIZIONI


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sviluppolocale edizioni Casa Editrice di Parsec Consortium Piazza Vittorio Emanuele II, 2 - 00185 Roma tel. 06 446 34 21 Progetto grafico: Maria Azzurra Rossi www.sviluppolocaleedizioni.org Illustrazione in copertina: “Infibula” di Gloria Dati opera realizzata per il progetto di comunicazione “Stop Mgf” gentilmente concessa dall’associazione NoDi-I Nostri Diritti ISBN: 978-88-561-0007-5


Il progetto di ricerca “Stop Mgf”, finanziato dal Dipartimento Pari Opportunità presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, è stato realizzato con il coordinamento dell’Associazione Parsec Ricerca e interventi sociali e la collaborazione dell’Istituo ricerca sulla popolazione e le politiche sociali del Cnr, dell’Associazione Nodi e del Centro di riferimento regionale per la prevenzione e cura delle Mgf dell’Azienda Ospedaliera San Camillo Forlanini. Hanno preso parte al gruppo di ricerca: Augusta Angelucci (A.O. San Camillo Forlanini) Silvana Bianco (Associazione Parsec) Marcela Bulcu (A.O. San Camillo Forlanini) Giuliana Candia (Associazione Parsec) Tzeinesch Cahsai (Associazione NoDi) Antonio D’Alessandro (Associazione Parsec) Laura Di Pasquale (Associazione Parsec) Federica Dolente (Associazione Parsec) Ugoma Francisco (Associazione NoDi) Salhia Belloumi (Associazione NoDi) Romina Ieraci (Irpps Cnr) Fatoumata Nirina Konaté (Associazione NoDi) Maura Misiti (Irpps Cnr) Francesca Rinesi (Irpps Cnr) Luca Rondini (Associazione NoDi) Maria Grazia Scalise (Irpps Cnr) Giovanna Scassellati (A.O. San Camillo Forlanini) Giorgia Serughetti (Associazione Parsec) Sandrine Sieyadji (Associazione NoDi) Adele Tulli (Irpps Cnr) Si ringraziano per la collaborazione i testimoni qualificati dei servizi territoriali e gli opinion leader delle comunità migranti che hanno collaborato alla ricerca e il cui nome compare nella lista degli intervistati; i responsabili e gli operatori delle strutture sanitarie, sociali, scolastiche che hanno aderito alla rilevazione quantitativa e alla realizzazione dei focus group. Si ringraziano inoltre le donne e gli uomini che hanno offerto la loro disponibilità nell’esprimere visioni, valutazioni e considerazioni personali sulla realtà delle Mutilazioni Genitali Femminili nel Lazio, partecipando ai focus group e rispondendo alle interviste. I loro nomi non compaiono nel presente rapporto per tutelarne la riservatezza, ma soprattutto a loro va tutta la nostra riconoscenza.



INDICE

PREFAZIONE di Vittoria Tola

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INTRODUZIONE di Giuliana Candia

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1.

Le caratteristiche delle Mgf di Giovanna Scassellati, Tzeinesch Cahsai, Luca Riondini

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1.1 1.2 1.3 1.4 1.5

Caratteristiche, definizioni e diffusione nel mondo Le complicanze mediche e psicologiche Gli interventi possibili di cura e prevenzione Le buone pratiche di assistenza in Italia e in Europa Le buone pratiche nei paesi di origine: il caso del Comitato Inter-Africano

23 33 37 43 46

2.

Conoscenze e immagini delle Mgf: l’indagine sugli operatori dei servizi territoriali di Maura Misiti e Francesca Rinesi

50

2.1 2.2 2.3

L’approccio metodologico Caratteristiche del campione Conoscenze del fenomeno, della normativa e delle Linee Guida La formazione specifica degli operatori sul fenomeno Percezione del fenomeno e stereotipi più diffusi L’esperienza degli operatori sanitari che hanno incontrato casi di Mgf Analisi multivariata: una visione di sintesi

50 59 62

2.4 2.5 2.6 2.7

73 75 83 85


3.

L’accesso ai servizi territoriali, la cura e la prevenzione verso le donne con Mgf di Giorgia Serughetti

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3.1

Premessa metodologica e descrizione dei servizi selezionati L’accesso ai servizi e l’espressione dei bisogni delle donne migranti Le caratteristiche delle donne con Mgf che accedono ai servizi di cura Le esperienze di relazione e cura delle donne con problematiche di Mgf L’attenzione alla prevenzione nei servizi territoriali Reti esistenti e reti possibili Considerazioni sull’offerta di cura e prevenzione Alcuni spunti di riflessione dai focus group

89

4.

Persistenza della pratica tra le comunità immigrate di Laura Di Pasquale

133

4.1 4.2 4.3 4.4 4.5 4.6 4.7

Premessa metodologica Le Mgf nei paesi di origine Il cambiamento che si registra nei paesi di origine La riproduzione della pratica nel Lazio La conoscenza della legge italiana I servizi per le donne con problemi correlati alle Mgf Suggerimenti sulle attività di prevenzione

133 136 139 145 151 152 154

5.

Rappresentazioni della pratica e tendenza al cambiamento di Giulana Candia

157

5.1 5.2 5.3 5.4 5.5 5.6 5.7 5.8

Visioni dall’interno Il senso attribuito alle Mgf nell’esperienza migratoria I contesti di origine I mariti e le scelte Interruzione o continuazione Conoscenze, convinzioni e dubbi sulle Mgf Il riferimento agli altri: atteggiamenti e comportamenti Sfidare la legge, partire, fingere: quelli che non rinunciano I focus group con i membri delle comunità: confronti sulla transizione e sul da farsi Un confronto con alcuni membri della comunità somala

157 159 161 162 164 169 176 178

3.2 3.3 3.4 3.5 3.6 3.7 3.8

5.9 5.10

90 98 105 118 123 125 126

181 188


6.

Una base di conoscenze da cui ripartire di Giuliana Candia

192

6.1 6.2

Una realtĂ poco conosciuta I risultati sulla presenza di donne con Mgf nel territorio regionale La consistenza del rischio sulle bambine Il contatto con i servizi: le richieste delle donne, le competenze presenti e le difficoltĂ della relazione La prevenzione esistente e quella necessaria Considerazioni finali e raccomandazioni

192 194

Bibliografia ragionata

220

6.3 6.4 6.5 6.6

Lista dei testimoni intervistati Profili di autrici e autori

200 204 210 215



PREFAZIONE di Vittoria Tola

Le mutilazioni genitali femminili sono un fenomeno dalle numerose implicazioni sociali e politiche sul quale è necessario evitare semplificazioni e banalizzazioni perchè appartengono a una struttura culturale profonda e condivisa da molte donne che l’hanno patita sul proprio corpo e che la portano con sé nell’immigrazione. Il lavoro qui presentato di ricercaazione rappresenta, per l’autorevolezza degli enti e delle ricercatrici che vi hanno partecipato, un contributo significativo per costruire una mappa del problema nel nostro paese, sulla sua reale consistenza, sulle caratteristiche della conoscenza del fenomeno, sulle leggi e le indicazioni istituzionali per affrontare le Mgf da parte di tutti gli attori interessati a partire da una regione significativa come il Lazio. Il metodo adottato è importante per la valutazione della coerenza tra l’affermazione teorica del valore dei diritti delle donne e le politiche e le pratiche sociali che ne derivano, la formazione culturale e scientifica delle strutture coinvolte nell’immigrazione, il modo in cui le comunità di appartenenza sono o non sono rese partecipi delle politiche che le riguardano. È significativo per come interpella le donne già portatrici di Mgf e provenienti da paesi e culture escissorie che raccontano come affrontano, in una realtà culturale e sociale diversa, questa pratica tradizionale per se stesse e per le loro figlie. Quindi l’indagine, andando oltre la condanna della pratica, cerca di capire cosa succede alle persone reali che sono portatrici di Mgf o provengono da culture basate su di esse e pone delle domande. Il campione indagato nel progetto rappresenta

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Prefazione

un universo di soggetti diversi ma tutti in relazione tra loro e coinvolti concretamente sul problema Mgf e da cui scaturiscono risposte molto interessanti e in qualche misura in contro tendenza con le idee allarmistiche prevalenti. Infatti il tema è stato affrontato in questi anni, nel sistema informativo, in modo distorto, allarmistico e sensazionalistico; di volta in volta espressione del peggio che l’immigrazione porta con sé, simbolo di un’Africa primitiva, patriarcale e mussulmana chiusa in se stessa. Una rappresentazione in cui noi siamo i salvatori delle donne, e soprattutto delle bambine immigrate in pericolo calcolate, senza mai chiarire con quali criteri, in decine di migliaia. E non a caso i mass media rappresentano una delle fonti essenziali della conoscenza di molti operatori interpellati nella ricerca, ma di quelli che ne hanno la conoscenza più superficiale e collegata a stereotipi culturali che creano evidenti difficoltà alla capacità di capire e di intervenire in modo efficace sia sull’accoglienza che sulla prevenzione. Ogni nuovo intervento sul tema è sempre intriso di orrore e di stupefazione, come se ogni volta che se ne parla fosse la prima volta in cui il fenomeno viene scoperto. In realtà il problema delle mutilazioni, considerato marginale dagli studi degli antropologi occidentali soprattutto nel periodo coloniale, scoppia come questione politica negli ultimi 40 anni grazie all’irrompere sulla scena pubblica del protagonismo delle donne africane e occidentali, sia nell’ambito politico che nel campo della ricerca sociale e della medicina. Sono le donne a porlo finalmente in luce, a cercare di interpretalo, a cambiare persino il modo di definirlo, spesso anche con polemiche aspre a livello africano e internazionale. Il termine di Mutilazioni Genitali Femminili (Mgf) è infatti un’espressione adottata dal 1997 con la dichiarazione congiunta da parte dell’OMS, dell’UNICEF e dell’UNFPA. Con questa definizione si intendono sia le forme più devastanti dell’infibulazione (con effetti duraturi sulla salute) che le forme più ‘’leggere” dell’escissione (maggioritarie ma praticamente invisibili anche ai medici), sia le pratiche di manipolazione dei genitali. L’accettazione di questa definizione è prevalsa dopo la IV Conferenza Mondiale delle donne a Pechino ma continua a suscitare polemiche e discussioni perché contiene un giudizio di valore molto forte sia sul fatto in sé che sulle motivazioni che lo determinano. È importante ricordare il valore della Conferenza di Pechino e della risultante Dichiarazione e Piattaforma d’Azione, prodotto di un lungo dibattito e di un importante

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Prefazione

compromesso politico fra circa 5000 delegate governative di 189 paesi, e le migliaia di donne rappresentanti tutte le Ong del mondo, comprese le africane. La Piattaforma afferma che i diritti umani delle donne e delle bambine sono parte inalienabile, integrante e indivisibile dei diritti umani universali, e condanna la violenza contro le donne e le bambine, sia essa pubblica o privata come infrazione ai diritti umani che coinvolge molti altri ambiti considerati fondamentali per il potere delle donne come la salute, l’istruzione, la famiglia e il lavoro. I fatti essenziali inerenti la pratica delle Mgf sono stati presentati in Africa inizialmente in forme a volte minimalistiche e solo successivamente in modo sempre più deciso, grazie a molteplici contributi. Tra questi, il lavoro fatto su questo tema dalle donne africane (ricordiamo che il primo rapporto del Minority Rights Groups è del 1980), le conferenze organizzate dall’ONU nell’ambito del ventennio per i diritti delle donna, il lavoro dello IAC (Comitato interafricano) sulle pratiche tradizionali che influiscono sulla salute di donne e bambini, fino al Protocollo di Maputo. Tali sforzi hanno portato a cambiare molte legislazioni nazionali nei paesi interessati e a creare politiche di intervento locali, oltre a determinare mutazioni di riti e strategie culturali significative. Non si può quindi non vedere che siamo di fronte a un processo di cambiamento importante. Perché se le Mgf sono un fatto sociale totale anche il riconoscimento dei diritti e dell’autodeterminazione delle donne lo sono e aprono processi di cambiamento impensabili fino a qualche decennio fa. In Europa molti Paesi hanno legiferato sulle Mgf e lo ha fatto anche il Parlamento italiano con la Legge n.7 del 9/1/2006. Questa legge, cultural oriented e molto controversa, prevede sanzioni penali specifiche ma include nel suo dispositivo attività di prevenzione e di formazione nonché di ricerca. Secondo i dati pubblicati dall’OMS (e di cui si conosce poco il metodo di rilevazione) nel mondo sono almeno 135 milioni le donne e le bambine che hanno subito mutilazioni sessuali. Secondo una stima del Ministero della Salute del 2007 la presenza in Italia di donne straniere con possibili mutilazioni è pari ad un valore di circa 90.000 persone. Nelle conclusioni della ricerca su queste stime sono state fatte analisi attente, analizzate criticamente le fonti e i dati presunti sono valutati anche sulla base dell’esperienza concreta degli operatori, in particolare sanitari, i

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Prefazione

testimoni privilegiati, le stesse donne immigrate. I dati ufficiali risultano così molto approssimativi perché non tengono conto delle differenze già esistenti nei paesi considerati, e del fatto che molte donne non sono escisse o infibulate nei paesi di origine perché non necessariamente appartengono alle etnie coinvolte. Molte delle donne di comunità che praticano le Mgf hanno cambiato i propri comportamenti sulle loro bambine già in patria o in seguito all’esperienza migratoria come è testimoniato dalla presente ricerca. Siamo in presenza di una realtà in trasformazione che le donne immigrate, come i leader di comunità, non ignorano. Per aiutare questo processo naturalmente bisogna agire su quella sindrome che esiste nel nostro paese e che nell’introduzione alla ricerca viene definita come di “ignoranza e condanna”. Atteggiamenti semplici e molto facili ma assolutamente insufficienti ad affrontare il problema. A partire dalla struttura sanitaria che rappresenta, come la ricerca documenta, un punto di riferimento privilegiato nel rapporto con le donne immigrate soprattutto in gravidanza e nonostante la legislazione italiana diventi sempre più gravemente restrittiva sull’immigrazione. Una situazione che aggrava i problemi esistenti nelle strutture sanitarie e ne impedisce l’accesso con l’introduzione del reato di clandestinità. Nell’ambito medico, infatti, se i nostri operatori sanitari per tradizione non sono formati per affrontare simili problemi e per questo sono stati motivo di disagio per le donne africane, emerge dai dati dei questionari come, negli ultimi anni, abbiano cercato di colmare questo gap proprio per ragioni legate alla propria esperienza professionale. E si registrano la disponibilità e anche la pressante richiesta di molti, anche tra gli operatori sociali ed educativi, ad affrontare una formazione più approfondita. C’è la consapevolezza che le donne possono reagire ad una accoglienza non adeguata nelle strutture sanitarie, ritraendosi da esse e trovando rifugio, una volta di più, nelle ragioni delle culture originarie e continuando ad essere le vestali di tradizioni in cui almeno sono comprese. Dai dati e dalle testimonianze emerge anche una seconda ipotesi secondo la quale proprio nel rapporto tra le strutture sanitarie e sociali e donne immigrate possono crearsi le condizioni di un’ empatia e di uno scambio tra donne e medici, grazie anche al ruolo delle mediatrici culturali, che può produrre benefici che non sono limitabili alla cura dei disturbi della singola donna o a un parto senza pericolo.

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Prefazione

Molti/e sono consapevoli che esiste una convenienza reciproca nell’incontro culturale. Certo bisogna avere, come la ricerca testimonia e le donne reclamano, da parte degli operatori una grande capacità di rispetto, non eccedere nello stupore o nell’indifferenza. Trovare una misura nel porsi di fronte a loro per comunicare, per rompere l’estraneità, per indurle a superare il silenzio, perchè trovino le parole per dire che cosa veramente questa pratica ha significato per loro, che cosa ha determinato nella loro vita. Riflettere insieme invece di vittimizzarle. Lavorare sul coinvolgimento invece che solo sulla condanna e sulla demonizzazione. Per questo occorrono una riflessione continua, una preparazione specifica e un aggiornamento permanente. Questo processo è necessario per trovare i modi e le parole per comunicare a tutti che quel dato storico e culturale oggi può e deve essere superato grazie a una sfida che vede nei rapporti multiculturali non una superiorità assoluta di qualcuno che impone atteggiamenti culturali non condivisi o la continuazione di pratiche che ledono i diritti fondamentali della persona, ma una dimensione dinamica in continuo mutamento in cui se, non tutte le soluzioni stanno sullo stesso piano o hanno lo stesso valore, è nella forza della comunicazione, del consenso e della qualità della vita e del futuro che si gioca la differenza. Aiutando quel processo culturale che viene testimoniato dalle donne e dagli opinion leader di comunità tra i quali emergono silenzi e reticenze ma anche volontà di cambiamento. Dai risultati della ricerca non appare irrealistico pensare come possibile l’incontro tra culture diverse che possono collaborare per obiettivi comuni. Ma chiedere un cambiamento anche più drastico dipende anche dalla efficacia e dalla credibilità delle istituzioni che esprimono le politiche concrete per le donne immigrate che per essere tali devono partire dai dati e dai processi reali e non da posizioni ideologiche. La tradizione delle mutilazioni trova la sua spinta più potente nell’inclusione sociale che essa comporta per le donne e quindi senza processi di inclusione la declinazione dei diritti umani nel nostro paese rischia di essere astratta e rimanere lettera morta.

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INTRODUZIONE di Giuliana candia

Le mutilazioni genitali femminili fanno la loro prima comparsa in Italia negli anni ’70, con gli sporadici casi di donne eritree – allora al servizio di alcune famiglie italiane – che si presentavano negli ospedali. Solo nel decennio successivo però si determina l’incontro/scontro tra operatori sanitari e donne con Mgf, per due fattori determinanti: in primo luogo il verificarsi di ingenti flussi di quelli che oggi sono definiti “migranti forzati”, ovvero persone in fuga dalle aree di guerra dei paesi del Corno D’Africa; in secondo luogo, per la numerosità, tra questi, delle donne somale che riportavano la più evidente e problematica delle Mgf: l’infibulazione. I medici che in quegli anni intervenivano in aiuto di queste popolazioni hanno dovuto rapidamente mettere da parte l’iniziale stupore dinnanzi a una casistica medica mai vista prima né presente nella loro formazione professionale, per cominciare ex novo a documentarsi sul fenomeno e capire come prestare assistenza alle donne. Un simile atteggiamento era coerente con il loro essere in prima linea per garantire il diritto alla salute ai migranti, sia negli ambulatori del volontariato che negli ospedali pubblici, prima ancora che la legge lo permettesse (D.L. 489/1995, poi T.U. 286/1998). Un atteggiamento che riflette un pragmatismo e un interesse per il benessere psicofisico delle donne coinvolte, che tuttavia è rimasto, purtroppo, appannaggio di pochi tra quanti si confrontano con il tema delle Mgf. A tutt’oggi, a distanza di circa 25 anni, gli operatori sanitari competenti in materia sono ancora un gruppo piuttosto ristretto, e tra gli operatori sociali la conoscenza scientifica del fenomeno non è la

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Le mutilazioni genitali femminili nel Lazio

norma. A fronte di ciò, il fenomeno delle Mgf continua ad essere trattato nel dibattito pubblico come un dato che desta sorpresa, e spesso come un elemento chiave per affermare posizioni ideologiche e razziste di inferiorizzazione delle culture non occidentali e condanna del maschilismo altrui. Una prospettiva poco propositiva in termini di pianificazione delle opportune politiche di cura e prevenzione, e che deriva da una visione dei fenomeni sociali come realtà eterne e immutabili, anziché nel loro divenire storico, come frutti di molteplici contingenze. Le Mgf sono pratiche che appartengono a tradizioni millenarie, che trovano la loro giustificazione in specifiche forme di organizzazione sociale basate sulla rigida divisione delle sfere di competenza dei due sessi e su un severo controllo sociale della sessualità femminile, che si traduce in controllo sociale sul (e modificazione del) corpo delle donne. Pratiche di questo genere non sono però estranee al mondo occidentale che oggi, giustamente, condanna la loro riproduzione. Non lo è l’infibulazione, di cui si hanno tracce nell’antica Roma, né la clitoridectomia considerata ancora un secolo fa nella cultura medica europea un valido rimedio a una serie di disturbi funzionali del sistema nervoso e del cervello, sulla base di una valutazione patologica della sessualità femminile. Non sono estranee neanche le pratiche chirurgiche di modificazione che vengono intraprese oggi in maniera volontaria da donne adulte, che sul proprio corpo segnano i marchi di ciò che è socialmente, storicamente, culturalmente considerato come desiderabile. Far presenti questi dati non significa voler forzare un’analogia con la realtà delle società in cui si praticano oggi le Mgf, ma tenerli a mente è necessario per aprire la strada alla comprensione e alla relazione. Che si tratti di aiuto individuale, di politiche di sostegno per le donne che hanno subito una mutilazione o di prevenzione di queste pratiche sulle bambine, è infatti necessario che venga costruita una relazione tra i soggetti in gioco all’interno della quale scambiare significati, proposte, prospettive. Se non si costruisce tra gli attori sociali in gioco – donne, comunità immigrate, operatori, amministratori – una definizione condivisa delle Mgf quale fenomeno storicamente, socialmente e culturalmente determinato, non meno di quanto lo siano quelli che investono le società occidentali – sarà difficile, se non impossibile, uscire dalla dicotomia del noi/loro, dell’incomprensione e delle condanne morali fini a se stesse.

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Introduzione

La ricerca L’idea di questa costruzione collettiva di senso ha rappresentato il tema portante della ricerca-azione1 presentata nel libro, un lavoro che ha voluto includere le conoscenze, le testimonianze e le idee di numerosi soggetti: le donne provenienti dai paesi interessati dal fenomeno e le associazioni degli immigrati, gli operatori dei servizi territoriali e il personale sanitario più qualificato in materia. Fin dal principio è risultato chiaro che, data la ormai vasta letteratura in merito a origini, motivazioni e caratteristiche delle Mgf, l’interesse delle équipe di ricerca non dovesse limitarsi alla conoscenza di queste pratiche tradizionali, ma che fosse necessario svolgere un’ampia ricerca di campo che rendesse conto della situazione qui e ora. Si è quindi voluto portare alla luce le conoscenze esistenti sull’argomento tra gli operatori sociali e sanitari, le esperienze positive e negative delle donne nel rapporto con i servizi, il livello di condivisione delle pratiche tradizionali all’interno delle comunità e i fattori che tuttora agiscono in favore o contro la loro riproduzione. L’analisi dei numerosi materiali raccolti ci ha permesso di mettere in evidenza due aspetti a nostro avviso centrali: in primo luogo l’estrema eterogeneità di situazioni che si cela dietro le rappresentazioni del “mondo che pratica le Mgf” come blocco unitario; in secondo luogo l’intervento di numerosi fattori di ordine sociale, economico e culturale che incidono in maniera significativa sulla disaffezione verso le pratiche, scardinando il sistema di credenze, di significati e soprattutto di potere da cui derivano. Entrambi questi elementi dovrebbero entrare a far parte della conoscenza diffusa in merito alle Mgf, soprattutto per chi ha incarichi di cura e di prevenzione, ma anche per chi è chiamato a disegnare politiche pubbliche. Comprendere la multiformità e complessità del fenomeno, insieme alla sua dinamicità e capacità di trasformazione, può infatti indurre una visione nuova e non stereotipata dell’altro (le donne e le famiglie immigrate), su cui costruire più consapevoli percorsi d’intervento politico e sociale. La ricerca-azione è stata realizzata nell’ambito del territorio della Re1 Il progetto è stato finanziato sull’Avviso 1 relativo alla legge 7/2006 per il contrasto e la prevenzione delle Mutilazioni Genitali Femminili, insieme ai progetti per la formazione degli operatori e per la comunicazione e sensibilizzazione tra le comunità immigrate, elaborati come un continuum e presentati con lo stesso titolo “Stop Mgf”. La cooperativa sociale Parsec ha realizzato insieme al Centro di riferimento regionale per il trattamento e la cura delle Mgf dell’A.O. San Camillo Forlanini (capofila) il progetto di formazione, mentre l’Associazione Nodi ha condotto tutte le azioni relative al progetto di comunicazione.

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Le mutilazioni genitali femminili nel Lazio

gione Lazio tra febbraio e dicembre 2008, attivando una molteplicità di interlocutori in ambito sanitario, sociale, scolastico e delle comunità immigrate, grazie a un gruppo di lavoro multidisciplinare composto da membri dell’Associazione Parsec, del Centro di riferimento regionale per la prevenzione e cura delle Mgf dell’Azienda Ospedaliera San Camillo Forlanini, dell’Istituto Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali del Cnr e dell’Associazione Nodi. Le diverse esperienze e professionalità hanno rappresentato un valore aggiunto nella costruzione di un processo conoscitivo particolarmente complesso per via della delicatezza del tema, della sua apparente invisibilità agli occhi dei più, della componente di segretezza e di tabù, nonché per le inevitabili conflittualità che può suscitare tra diverse posizioni e professionalità impegnate al riguardo. La realizzazione della ricerca ha visto come fasi preliminari una auto-formazione volta a condividere i diversi saperi specialistici e un linguaggio comune, e la successiva costruzione dei molteplici strumenti metodologici (questionari strutturati, interviste semi-strutturate per testimoni qualificati, interviste focalizzate e guide per focus group) utilizzati nell’ambito delle diverse azioni2 della ricerca che vengono presentate nel libro3. La struttura del libro Il presente volume riflette in parte il percorso logico e conoscitivo che nell’ambito del progetto ha permesso di conseguire gli obiettivi specifici della ricerca-azione, partendo da un’analisi delle acquisizioni della letteratura in materia e proseguendo attraverso un approfondimento progressivo dei temi trattati. Il primo capitolo rappresenta dunque un’introduzione al fenomeno attorno al quale ruota l’intera indagine, e ai temi che sono stati discussi con i suoi diversi interlocutori. La presentazione delle principali caratteristiche delle Mgf è curata dalla dott.ssa Giovanna Scassellati, referente del Centro di Riferimento regionale del Lazio per 2 Per la restituzione, condivisione e validazione dei risultati dell’indagine sono stati inoltre realizzati 4 workshop territoriali: presso il Gris (Gruppo Regionale Salute e Immigrazione) del Lazio, la Casa internazionale delle donne, il Cesv (Centro Servizi del Volontariato) di Viterbo e la Provincia di Rieti. Le conclusioni sono state inoltre validate dagli opinion leader delle comunità immigrate coinvolti nell’indagine nel corso di un incontro dedicato realizzato a luglio 2009 presso il Cesv di Roma. 3 Complessivamente, sono stati coinvolti nell’indagine quantitativa 1.122 operatori (420 sanitari e 702 socio-educativi) dei servizi territoriali ubicati nelle aree geografiche più interessate dalla presenza di migranti dei 28 paesi a tradizione escissoria o infibulatoria. La ricerca qualitativa ha invece coinvolto nelle interviste focalizzate 89 testimoni qualificati dei servizi territoriali, 34 opinion leader delle comunità immigrate e 48 (perlopiù donne) membri di queste comunità, e circa altri 90 soggetti tra operatori e immigrati in focus group.

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Introduzione

la cura e prevenzione delle Mgf, che descrive anche gli interventi di cura e prevenzione esistenti. Un contributo di Tzeinesch Cashai e di Luca Riondini inoltre offre uno spaccato delle numerose azioni svolte in Africa per il contrasto delle Mgf nell’esperienza del Comitato InterAfricano. Successivamente (secondo capitolo) vengono descritte la realizzazione e i principali risultati dell’indagine quantitativa, a cura di Maura Misiti e Francesca Rinesi. Questa, che rappresenta la prima fase della ricerca di campo, ha permesso di individuare le aree territoriali – a Roma e nel Lazio – più interessate dalla presenza di migranti dei paesi a tradizione escissoria, e di conseguenza quelle i cui servizi di base potessero essere più sollecitati in merito. I risultati relativi agli operatori coinvolti sono dunque interessanti in quanto riferiscono non solo delle esperienze specifiche registrate, ma anche delle conoscenze e delle rappresentazioni sul tema degli operatori di contatto, nonché della domanda diffusa di formazione. Il terzo capitolo, redatto da Giorgia Serughetti, riporta l’insieme dei saperi, delle esperienze e delle conoscenze individuate tra i testimoni più qualificati dei servizi che si occupano in maniera specifica e peculiare della salute dei migranti, evidenziando sia un quadro dei bisogni espressi dai migranti e delle risposte offerte dai servizi (pubblici e del privato sociale) sia le caratteristiche del fenomeno Mgf nei pochi ambiti in cui viene reso manifesto. Sono inoltre riportati in sintesi, a cura di Giuliana Candia e Augusta Angelucci, alcuni spunti emersi dai focus group realizzati con gli operatori dei servizi territoriali. I risultati delle azioni di ricerca che si sono focalizzati esclusivamente con le donne e le comunità migranti, svolte parallelamente e in maniera complementare a quelle rivolte agli operatori più e meno esperti dei servizi, sono riportati nei capitoli successivi. Il primo target di riferimento è rappresentato dagli opinion leader delle comunità migranti, coinvolti quali depositari di conoscenze sulle specificità del paese di origine e sulle caratteristiche, le condizioni di vita e di integrazione dei connazionali. Il capitolo che analizza le interviste svolte con questi ultimi è curato da Laura Di Pasquale, che ne descrive dunque le esperienze, le visioni, le reticenze, l’attenzione e le raccomandazioni di intervento. In un secondo tempo sono stati coinvolti migranti tout court, e in particolare, le donne dei gruppi provenienti dai paesi a tradizione escissoria. Questa parte ha permesso di includere quindi una prospettiva individuale e molto personale sul senso e l’opportunità dell’abbandono delle pratiche di Mgf nel contesto migratorio.

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Le mutilazioni genitali femminili nel Lazio

L’analisi delle interviste e dei focus group realizzati è esposta nel quinto capitolo a cura di Giuliana Candia, che include così sia le visioni pro e contro la tradizione, e sia le valutazioni e i relativi suggerimenti circa l’operato dei servizi che curano le donne con delle Mgf. Quale necessaria sintesi delle diverse fasi e risultati delle ricerca, il capitolo conclusivo ricostruisce, a partire dagli obiettivi conoscitivi iniziali, le principali acquisizioni raggiunte riguardo la presenza e la problematicità del fenomeno nel Lazio, nonché i punti di forza e di debolezza del sistema dei servizi di cura e prevenzione. Come più volte ribadito, consideriamo queste acquisizioni come basi conoscitive necessarie all’impostazione delle politiche di intervento, così come necessaria è la possibilità di confronto continuo con chi persegue analoghe attività di ricerca.

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1. Le caratteristiche delle Mgf di Giovanna Scassellati, Tzeinesch Cahsai, Luca Riondini

1.1 Caratteristiche, definizioni e diffusione nel mondo 1.1.1 I movimenti migratori e le Mgf I primi flussi migratori di dimensioni significative si sono evidenziati in Italia nei primi anni Novanta e hanno portato i servizi socio-sanitari al confronto diretto con culture, tradizioni e usanze altre e sconosciute alla maggior parte degli operatori. Il fenomeno delle Mgf è emerso nel momento in cui le donne provenienti dai paesi a tradizione escissoria si sono rivolte ai servizi socio-sanitari per l’assistenza al parto, per motivi legati alla salute riproduttiva o per problemi di salute legati alla pratica stessa delle Mgf. La domanda di salute da parte di questo nuovo tipo di utenza ha creato negli operatori la necessità di migliorare le proprie competenze in questo ambito e l’esigenza di promuovere corsi di aggiornamento e servizi adattati ai nuovi bisogni emergenti. L’incontro ed il dialogo tra operatori socio-sanitari e popolazioni provenienti da culture interessate dalle pratiche di Mgf, nonché l’interessamento da parte delle Istituzioni ha promosso un dibattito politico a livello nazionale che è culminato con l’emanazione della legge n. 7 del 2006, in cui sono previste pene severe per chi realizza nel nostro paese queste pratiche. È sicuramente molto difficile quantificare la presenza nei paesi di immigrazione del fenomeno; spesso vengono fatte stime ad uso strumentale dei media, solo per attirare l’attenzione del pubblico. Negli stessi paesi

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Le mutilazioni genitali femminili nel Lazio

di provenienza, la pratica è diffusa a macchia di leopardo: in alcune aree il fenomeno è comune, mentre in altre è assente o raro, o è stato quasi completamente debellato. Nei contesti dove sono presenti importanti comunità immigrate provenienti dai paesi a tradizione escissoria la rilevazione dei dati, pur assicurando il coinvolgimento delle comunità stesse, non è un facile esercizio. L’approccio metodologico più frequentemente adottato finora è stato quello di prendere in esame le presenze di cittadini provenienti dai paesi in cui si praticano le Mgf, analizzando la composizione delle comunità per età dei soggetti e presumendo la possibilità che questi possano eseguire queste pratiche anche sul nostro territorio nazionale, in coerenza con i comportamenti tenuti nel loro paese d’origine. Questo approccio non ha tuttavia portato a dati certi e tanto meno ad una metodologia adeguata. Varie considerazioni relative al processo di integrazione sociale e culturale dei migranti nei nuovi contesti di vita (scolarizzazione, accesso ai servizi sociali e sanitari, confronto e partecipazione sociale) portano infatti a ripensare all’importanza, per le famiglie migranti, di pratiche che risultano sempre più spesso condannate ormai anche all’interno delle comunità immigrate. Al contrario, è noto come in condizioni che ostacolano l’integrazione si possano sviluppare fenomeni di difesa e conservazione dell’identità di appartenenza, che può diventare più severa e più rigida. È in queste occasioni, quando si sviluppa un senso di minaccia da parte del contesto sociale di immigrazione, che cresce in particolare la pressione sulle donne attraverso il rinforzo di pratiche tradizionali (come ad esempio l’uso del velo, la reclusione nel contesto domestico, il ricorso ai matrimoni forzati) anche rispetto al loro mantenimento nei paesi di origine. 1.1.2 Origini e problemi di definizione Quella delle Mgf è una pratica che viene definita e considerata diversamente nei vari paesi interessati e conseguentemente anche la terminologia utilizzata per definirla è diversa. In Occidente si fa riferimento a queste pratiche con il termine di Mutilazioni Genitali Femminili, un’espressione adottata dal 1997 con la dichiarazione congiunta da parte dell’Oms, dell’Unicef e dell’Unfpa (United Nation Population Fund), secondo la quale “si intendono tutte le procedure che comportano la rimozione parziale o totale dei genitali esterni femminili o altri interventi

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Capitolo 1

dannosi sugli organi genitali femminili tanto per ragioni culturali che per altre ragioni non terapeutiche”. Le popolazioni dei paesi in cui sono praticate vedono nell’espressione “mutilazione” una forte connotazione negativa. I termini infibulazione o circoncisione femminile sono sicuramente più rispettosi della cultura di provenienza, però c’è il rischio di confondere la circoncisone femminile con quella maschile. Già questa problematica terminologica lascia intravedere la complessità del fenomeno. Inoltre i termini utilizzati cambiano da regione a regione, anche a seconda del tipo di mutilazione praticata. Le origini di queste pratiche sono sconosciute. Non vi sono testimonianze certe che indichino come e quando l’usanza sia iniziata e in che modo si sia diffusa. Tuttavia esistono almeno due teorie principali che riguardano le loro origini. Una sostiene che avrebbero avuto inizio in un luogo geografico specifico (la penisola araba o l’Egitto) per poi propagarsi in altri; la seconda afferma invece che ciò è alquanto improbabile, perché le pratiche escissorie sono talmente diffuse che non possono aver avuto origini comuni (teoria della simultaneità territoriale). L’origine è resa ancor più oscura dal lungo silenzio che da sempre circonda queste pratiche, volto a nascondere un mondo di donne rispetto al quale gli uomini si mantengono estranei e distanti, esercitando nei fatti il proprio potere indiscusso. Analizzando i testi storici sembra che in tutte le società in cui veniva praticata la circoncisione femminile fosse presente anche quella maschile. La più antica fonte scritta conosciuta che documenta la pratica della mutilazione genitale femminile è l’opera di Erodoto (484-424 a.C.), che attribuisce pratiche di Mgf agli egiziani ed etiopi già dal V secolo a.C., con diffusione secondaria in area siriana e palestinese, mediata dagli egizi. Non risultano tuttavia evidenze di Mgf nelle mummie egizie; vi è però una traccia documentale risalente al 163 a.C. costituita da un documento greco conservato al British Museum dove si descrive un intervento di circoncisione femminile in Egitto. In esso si afferma che l’escissione veniva praticata dai fenici, dagli ittiti e dagli egiziani, che circoncidevano i ragazzi e praticavano l’escissione della clitoride alle ragazze. Sia l’escissione che l’infibulazione erano praticate anche nell’antica Roma, infatti lo stesso termine “infibulazione” ha una derivazione latina: deriva da fibula, cioè una spilla che serviva a tenere agganciata la toga e veniva usata dai Romani sulle proprie mogli, in modo da prevenire rapporti illeciti. Veniva imposta anche agli schiavi e schiave per impedire

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Le mutilazioni genitali femminili nel Lazio

ai primi di stancarsi coi rapporti sessuali e alle seconde gravidanze che avrebbero ostacolato il lavoro. In tempi più recenti, un giornale del 1822 riporta l’esperienza di un chirurgo tedesco, Graefe, che affermava di aver curato con successo, mediante escissione del clitoride, una ragazza affetta da “masturbazione eccessiva e ninfomania”1. Questa mutilazione cosiddetta “terapeutica” si iscrive in un’opinione abbastanza diffusa nel XIX secolo, specie in Inghilterra, che attribuiva alla masturbazione tutta una serie di disturbi funzionali del cervello e del sistema nervoso, che andavano dall’epilessia alla follia, e che riponeva nell’intervento di clitoridectomia la possibilità di guarigione. Infatti a partire dalla seconda metà del XIX secolo il puritanesimo vittoriano aveva trasformato la questione morale della masturbazione in una condizione medica. Da allora in poi soprattutto in Francia, Germania ed Inghilterra si è assistito ad una vera e propria diffusione della pratica della clitoridectomia, per curare sia i disturbi sessuali (ninfomania e masturbazione eccessiva) che i disturbi del pensiero (isteria, epilessia, catalessi, melanconia e follia)2. Analizzando la situazione storica in Africa, gli studiosi ormai concordano sul fatto che le Mgf non sono state introdotte dall’Islam. Infatti si tratta di usanze indigene profondamente radicate nelle società locali e preesistenti alla penetrazione dell’Islam nell’Africa subsahariana e centro-orientale iniziata a partire dal 1050. 1.1.3 I significati attribuiti Le mgf, nonostante le loro gravi conseguenze (cfr. paragrafo 1.2), sono profondamente radicate nella cultura e nell’organizzazione sociale delle numerose popolazioni africane che le praticano tradizionalmente. Le motivazioni più comunemente attribuite al loro esercizio, pur variando da un’etnia all’altra, presentano alcuni tratti comuni e sostanzialmente possono riassumersi nel ruolo fondamentale nella costruzione dell’identità di genere e nella formazione dell’appartenenza etnica3. 1 Kandela P., “Sketches from The Lancet. Clitoridectomy”, Lancet, 1999 Apr 24, 353. 2 A conferma di questa tendenza è opportuno citare l’opera di alcuni famosi medici del tempo. Isak Baker Brown, della Medical Society of London, nel 1865 sosteneva che “la masturbazione causa eccitamento periferico del nervo pubico, che a sua volta causa malattia e morte nei seguenti otto stadi: isteria, irritazione spinale, crisi epilettoidi, crisi catalettiche, crisi epilettiche, idiozia, follia e morte”. A.M. Block, “Sexual Perversion in Female”, New Orleans Medical Surgery Journal, 1894-1895., riportava di un suo successo terapeutico su una studentessa di 14 anni che soffriva di “nervosismo” e “pallore” mediante la “liberazione del clitoride dalle sue aderenze” e ammonendola circa i pericoli della masturbazione. 3 C. Pasquinelli, Antropologia delle Mutilazioni dei genitali femminili, Aidos, Roma, 2000.

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Capitolo 1

L’adesione al genere e alla comunità Le Mgf sono una componente fondamentale dei riti di iniziazione, attraverso cui nelle società tradizionali si diventa donna; perché “donna” non si nasce, nel senso che la connotazione biologica non riesce ad essere di per sé un fattore di sufficiente individuazione. Solo i riti attribuiscono alla persona la sua identità, riscattando il destino biologico legato al sesso, trasformandolo in un’essenza sociale. Si tratta di un rito di iniziazione che, analogamente a quelli maschili, comporta dolore, sangue e pericolo di vita: se la bambina supera tale rito conquista l’onore che viene tributato agli eroi, imprime nella memoria e nel suo corpo non solo una grande sofferenza ma il sigillo della nuova identità e l’orgoglio di appartenere al proprio gruppo culturale. La pratica si svolge attraverso le fasi di separazione e di aggregazione che caratterizzano ogni rito di passaggio nel mondo degli adulti. La prima fase di separazione inizia quando le bambine, prima del sorgere dell’alba, vengono portate in un luogo lontano ed appartato dove si svolgerà l’operazione; la seconda fase, comprende un periodo di tempo sospeso tra la sofferenza e la cicatrizzazione delle ferite, durante il quale le bambine rimangono sdraiate a terra con le gambe legate in attesa della guarigione; la terza fase è quella dell’aggregazione: l’intera comunità festeggia il nuovo stato della bambina. Le mutilazioni genitali femminili sono anche la porta di accesso alla propria comunità, un rituale d’ingresso, e chi non si sottopone a tale pratica viene emarginato senza nessuna possibilità di riscatto. Oltre a manipolarne il corpo, le Mgf modificano anche il portamento, la postura di una donna, in quanto, dopo l’intervento, le bambine assumono un’andatura flessuosa e lenta, centripeta, perché non possono allargare troppo le cosce. Le bambine vengono quindi rieducate ad usare il proprio corpo, a capire quali movimenti fare e quali no per evitare di compromettere il risultato dell’operazione. Verginità e castità Nei paesi in cui vengono praticate le Mgf, il requisito fondamentale per il matrimonio è la verginità. Le Mgf servono proprio per evitare rapporti al di fuori dal matrimonio perché si pensa che la donna non mutilata non possa rimanere fedele per propria scelta; la si rende docile, casta e pura tutelando anche e soprattutto l’onore della propria famiglia. Possiamo affermare che le Mgf sono una componente fondamentale del matrimo-

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Le mutilazioni genitali femminili nel Lazio

nio in Africa, contribuiscono a regolare le risorse e la rete complessa degli scambi e delle relazioni sociali. Ciò avviene perché nei paesi africani il matrimonio è un’unione definita da diversi obblighi contrattuali tra due famiglie, si tratta per lo più di matrimoni combinati, raramente è una libera scelta della coppia. Alle due famiglie spetta anche decidere il “prezzo della sposa”, cioè l’insieme dei beni che la famiglia dello sposo cede alla famiglia della sposa in occasione del matrimonio, per risarcirla della perdita della propria figlia e dei suoi servizi. Sono doni che vengono dati in cambio della fertilità della donna. Quindi per prezzo della sposa si intende il compenso che la famiglia del futuro marito versa alla famiglia della futura moglie in cambio di una donna illibata, intatta, vergine, possibilmente “chiusa”, “ben chiusa” nel caso di somale, sudanesi ed etiopi. Igiene ed estetica Una ulteriore motivazione che cerca di giustificare le Mgf è quella igienica e di bellezza. Specialmente nei paesi dell’Africa orientale gli organi genitali esterni vengono considerati impuri e sporchi e si ritiene che la clitoride emani un odore sgradevole, che la vagina aperta emani secrezioni impure. In Egitto la ragazza non ancora infibulata infatti è chiamata nigsa (impura, sporca) e nel Sudan il termine colloquiale per la circoncisione è tahur (purificazione). I genitali “lisci” (infibulati) sono più attraenti, asciutti e inodori. Per quanto riguarda l’odore dei genitali femminili, tra i pastori somali è diffusa la credenza che questi attirino le belve feroci e che quindi rappresentino un pericolo per le greggi e per le tribù. Viene temuto anche l’effetto perturbante che possono avere sugli uomini estranei specialmente durante gli spostamenti in cerca dell’acqua o durante il lavoro dei campi. Nella savana e nel deserto un uomo rispettoso saluta una donna estranea stando a distanza. Alcune tribù credono che la clitoride sia un organo pericoloso; si pensa che durante il parto il contatto con la clitoride possa provocare la morte del nascituro. Nell’etnia bambarà del Mali è presente la credenza che la clitoride possa uccidere un uomo se, durante il rapporto sessuale, entra in contatto con il suo pene. La religione L’aspetto che correla le Mgf alla religione è molto complesso. In Occidente si ritiene spesso che le Mgf siano prescritte dalla religione musulmana, ma questo non è vero. La maggioranza dei paesi a mag-

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Capitolo 1

gioranza musulmana non praticano le Mgf e, al contrario, queste pratiche sono diffuse e praticate nei paesi con tradizione escissoria fra cristiani, ebrei e animisti. Tuttavia, nei paesi musulmani in cui la pratica è molto diffusa, la legittimazione religiosa gioca un ruolo rilevante, sommandosi alla forza della tradizione locale di origine preislamica. Oggi è sempre più diffusa la presa di distanza ufficiale da queste pratiche da parte di molte autorità religiose islamiche: ma l’assenza di una struttura gerarchica ecclesiale all’interno della religione islamica non consente di parlare di un’unica e definita posizione. Tra coloro che non condannano apertamente ogni forma di intervento sul corpo delle bambine e delle donne si riscontra la tendenza a riorientare queste pratiche verso una più innocua incisione volta a far colare sette gocce di sangue. Nel Corano non si parla della mutilazione genitale femminile, non ci sono allusioni o riferimenti indiretti. Il riferimento più comunemente usato è quello riportato nella Sunna (insieme dei detti del profeta) riferita da Abu Dawud, in cui il Profeta Muhammad dice a una tagliatrice di clitoridi: “taglia leggermente e non esagerare”. Non esiste alcuna prova che il Profeta abbia mai fatto una simile dichiarazione né nessun altra in merito alla circoncisione femminile; nonostante ciò, la clitoridectomia parziale e le sue varianti sono diventate popolari e sono praticate in vari paesi islamici. Bisogna ricordare inoltre che, mentre in alcune zone dell’Africa e del Medio Oriente queste pratiche esistevano già prima dell’arrivo dell’Islam, in altre aree come l’Indonesia e la Malaysia sono state introdotte con l’arrivo dei musulmani nell’VIII secolo. 1.1.4 Le principali tipologie e la diffusione del fenomeno I tipi di Mgf riconosciuti dall’Oms Le mutilazioni genitali femminili sono pratiche tradizionali, alle quali gli occidentali danno un significato differente rispetto a quello attribuito loro nei paesi in cui vengono praticate. Poiché i soggetti che subiscono le mutilazioni nella maggior parte dei casi sono bambine che non sono in grado di opporsi, tale pratica assume i connotati dell’abuso e della violenza contro i minori e contro i diritti fondamentali delle donne, in quanto lede in modo grave ed irreversibile l’integrità fisica e psichica. La necessità del mondo occidentale di leggerne il significato ed interpretarne il valore sociale ha portato ad una esigenza classifica-

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Le mutilazioni genitali femminili nel Lazio

toria volta a distinguere i vari tipi di Mgf praticate nei diversi paesi africani. Nel tempo si sono succedute varie classificazioni. Nel luglio del 1995, riconoscendo la necessità di una classificazione più omogenea e standardizzata, l’Oms ha convocato un Gruppo Tecnico di Lavoro sulle Mgf per assumere una netta posizione di condanna nei confronti di tale pratica, coinvolgendo il personale medico-sanitario. In base alla attuale classificazione dell’Oms, le Mgf possono essere suddivise in quattro tipi: Tipo I - escissione del prepuzio, con o senza asportazione parziale o totale di tutto il clitoride; Tipo II - escissione del clitoride con asportazione parziale o totale delle piccole labbra; Tipo III - escissione di parte o tutti i genitali esterni e suture/restringimento dell’apertura vaginale (infibulazione); Tipo IV - non classificato. Include: perforazione, penetrazione o incisione di clitoride e/o labbra; stiramento di clitoride e/o labbra; cauterizzazione mediante ustione del clitoride e del tessuto circostante l’orifizio vaginale (anguria cuts) o incisione (gishiri cuts); raschiamento del tessuto circostante l’orifizio vaginale; introduzione di sostanze corrosive o erbe nella vagina per causare emorragia o allo scopo di serrarla o restringerla. Il primo tipo in alcuni paesi islamici è nota anche come sunna, per richiamare in modo improprio un legame con la religione islamica. Questa esiste in due varianti, di cui la prima comporta solo una piccola incisione senza asportazione, mirata a far uscire sette gocce di sangue. La seconda forma, più comune, consiste nell’asportazione del prepuzio del clitoride, conservando comunque la sua integrità e quella delle piccole labbra. Nel secondo tipo, oltre all’escissione del prepuzio, si pratica la rimozione del glande della clitoride o anche dell’intera clitoride, e può includere parte, o tutte, le piccole labbra. Il terzo tipo viene definito anche “circoncisione faraonica” in Sudan e “circoncisione sudanese” in Egitto. Implica la chiusura parziale dell’orificio vaginale dopo l’escissione di una quantità variabile di tessuto vulvare. Nella sua forma più drastica vengono asportati tutto o parte del monte di Venere, le grandi e piccole labbra e la clitoride. I due lati della vulva vengono poi cuciti con una sutura, riducendone in tal modo l’orificio della vulva e lasciando solo un piccolo passaggio nell’estremità inferiore, per l’emissione del flusso mestruale e dell’urina, del diametro di un fiammifero o di una matita o, come dice la

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Capitolo 1

tradizione, in modo che dal foro residuo “passi solo un grano di miglio”4. Tradizioni e diffusione per aree geografiche Queste pratiche vengono eseguite tradizionalmente dalle donne più anziane, di solito le levatrici locali, chiamate gedda in Somalia o daya in Egitto e in Sudan; invece nel Mali e in Senegal questa pratica viene condotta da donne note per la conoscenza dell’occulto. Al contrario nelle aree urbane – nei paesi in cui non sono ancora state proibite da leggi dello Stato – le operazioni vengono eseguite negli ospedali o negli ambulatori medici da personale medico ed infermieristico. Gli strumenti utilizzati per compiere le Mgf al di fuori degli ospedali, comprendono coltelli, lame di rasoi, forbici e pezzi di vetro; raramente questi vengono sterilizzati dopo un’operazione e, tranne negli ospedali, l’anestesia non è quasi mai impiegata. L’età in cui vengono effettuate le mutilazioni differisce a seconda del paese e del gruppo etnico di appartenenza; nella maggior parte dei casi è compresa tra i tre e i gli otto anni, anche se recentemente si è verificata una tendenza a intervenire verso un’età più prematura, tendenza che può forse giustificarsi con la maggior difficoltà di vincere l’opposizione fisica delle bambine durante gli interventi. Secondo i dati forniti ancora nel 2008 dall’Oms5, le donne che hanno subito mutilazioni genitali nel mondo sono dai 100 ai 140 milioni e ogni anno tre milioni di minori sono a rischio di subirle. La maggior parte delle donne che riportano delle mutilazioni vive in 28 paesi africani, nella fascia che si estende dalla costa orientale alla costa occidentale dell’Africa sub-sahariana, nel bacino del Mediterraneo e nell’Africa australe, come emerge dalla Tab. 1. Le Mgf si ritrovano anche in alcuni luoghi del sud della penisola Arabica e lungo il golfo Persico e, dopo un contatto con l’etnia dei beta israel, si sono diffuse forme di mutilazione femminili anche fra le comunità dei beduini del sud di Israele. Le continue migrazioni e soprattutto gli esodi originati nelle zone di conflitti armati di gruppi etnici di origine africana hanno poi portato queste pratiche anche in numerosi altri paesi che non ne avevano esperienza, quali i paesi occidentali più comunemente meta di immigrazione. 4 Spesso l’apertura viene mantenuta inserendovi una piccola scheggia di legno. A seconda delle differenti usanze, la ferita viene cucita con filo di seta o per sutura (in Sudan) o con spine di acacia (in Somalia). In alcune regioni vengono utilizzati anche strumenti particolari come il gundura, una sorta di stecca di legno di palma a forma di “V” 5 Who, Eliminating Female Genital Mutilation. An Interagency statement, 2008.

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Le mutilazioni genitali femminili nel Lazio

Tab. 1 - Stime di diffusione delle Mgf nel mondo

Anno

Stime dell’incidenza MGF dai 15/49 anni %)

Benin

2001

16,8

Burkina Faso

2005

72,5

Camerun

2004

1,4

Repubblica Centrafricana

2005

25,7

Ciad

2004

44,9

Costa D’Avorio

2005

41,7

Gibuti

2006

93,1

Egitto

2005

95,8

Eritrea

2002

88,7

Etiopia

2005

74,3

Gambia

2005

78,3

Ghana

2005

3,8

Guinea

2005

95,6

Guinea Bissau

2005

44,5

Kenia

2003

32,2

Paese

Liberia la stima deriva da diversi studi locali (Yoder e Khan, 2007)

45,0

Mali

2001

91,6

Mauritania

2001

71,3

Niger

2006

2,2

Nigeria

2003

19,0

Senegal

2005

28,2

Sierra Leone

2005

94,0

Somalia

2005

97,9

Sudan Nord (approssimativamente 80% della popolazione in survey)

2000

90,0

Togo

2005

5,8

Uganda

2006

0,6

Repubblica Unita della Tanzania

2004

14,6

Yemen

1997

22,6

Fonte: WHO World Health Organisation - “Eliminating female genital mutilation” 2008.

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Capitolo 1

1.2 Le complicanze mediche e psicologiche 1.2.1 Le complicanze immediate Le Mgf danneggiano gravemente la salute delle bambine e delle donne, e gli interventi comportano molte implicazioni. A seconda del periodo in cui queste si manifestano, da un punto di vista medico, possiamo distinguere le complicanze immediate dalle complicanze a lungo termine. Le complicanze immediate variano dalle meno gravi a quelle più gravi. Tra quelle meno gravi possiamo annoverare il dolore dovuto al fatto che la maggior parte delle procedure di mutilazioni è eseguita senza anestesia. Nei casi in cui viene eseguita l’anestesia locale, permane una situazione dolorosa poiché la clitoride è un organo altamente vascolarizzato e quindi sono necessarie diverse applicazioni di anestetico. Nei giorni seguenti l’operazione, anche la minzione diventa un problema: si verifica il timore di urinare per non sentire ulteriore dolore, poiché il passaggio dell’urina sulle ferite provoca bruciore. Tra quelle più gravi una prima complicanza è l’emorragia, in quanto l’asportazione del clitoride può coinvolgere la sezione dell’arteria dorsale o dell’arteria vulvare; anche l’amputazione delle labbra può causare la resezione di arterie e vene e danni alle ghiandole del Bartolino. Queste emorragie acute possono causare gravi anemie e, a causa dell’improvvisa e abbondante perdita di sangue, può insorgere uno shock emorragico o neurogeno, dovuto al forte dolore e al trauma dell’operazione. A causa delle scarse condizioni igieniche, all’uso di strumenti non sterili e alle applicazioni di sostanze, quali erbe sulla ferita che favoriscono lo sviluppo dei batteri, non sono rare le infezioni della ferita (non dimenticando che la minzione e la defecazione, nelle bambine appena operate, aumentano il rischio di infezione). Nel caso dell’infibulazione realizzata da praticanti tradizionali, l’uso di spine di piante per le suture impedisce il drenaggio della ferita e si può verificare un’esplosione interna dell’infezione che può intaccare organi quali l’utero, le tube di Fallopio e le ovaie, causando infezioni pelviche croniche ed infertilità. Un’ulteriore complicanza è rappresentata dalla ritenzione urinaria favorita anche dalla cucitura troppo stretta. Questa stasi urinaria ed il gonfiore della vescica comportano spesso infezioni urinarie e febbre. Durante l’intervento si può verificare la lesione dei tessuti adiacenti, quali uretra, vagina, perineo e retto, provocata anche in questo caso dall’uso di strumenti non sterili, dalla mancanza di illuminazio33


Le mutilazioni genitali femminili nel Lazio

ne adatta durante l’operazione, dalla scarsa conoscenza dell’anatomia da parte delle operatici e dal dimenarsi dalla bambina. La più frequente è la lesione dell’orificio anale e del retto, con sezione dello sfintere anale e incontinenza residua. Inoltre, le forti pressioni esercitate sulle persone sottoposte alla pratica con lo scopo di immobilizzarle, possono provocare fratture, slogature di clavicole, femori e omeri e dislocazioni dell’articolazione dell’anca. Alcuni studi presentati dall’Inter African Committe (Iac) nel 1994 hanno denunciato correlazioni fra le Mgf e il virus dell’Hiv Una delle principali cause di trasmissione risiede nelle pratiche mutilatorie di gruppo, in cui lo stesso strumento viene usato per tutte le bambine. Altri momenti di forte rischio sono le operazioni di deinfibulazione e reinfibulazione in occasioni di matrimoni e parti. 1.2.2 Le complicanze a lungo termine Le donne con Mgf hanno problemi durante le mestruazioni a causa della parziale o totale occlusione dell’orificio vaginale, dovuta alla formazione di cicatrici cheloidi secondarie, che insorgono per la lenta e incompleta cicatrizzazione della ferita associata a flogosi ed infezioni postoperatorie. Tutto ciò comporta dismenorrea e dispareunia. Questa impossibilità del sangue mestruale di uscire ne provoca il ristagno della vagina per molti mesi con la conseguente formazione di ematocolpi ed ematometra. Queste donne sono spesso affette da endometriti, vaginiti e cistiti ricorrenti. La conseguente distensione dell’addome, insieme alla mancanza del flusso mestruale può provocare sospetti di gravidanza con possibili implicazioni sociali estremamente serie. Le infezioni e i calcoli urinari sono molto frequenti, perché eventuali stasi urinarie sotto la cicatrice possono favorire una crescita batterica e le conseguenti infezioni possono compromettere permanentemente la funzione renale. Una donna infibulata può impiegare dai 30 ai 40 minuti per urinare. Un’altra complicanza è il neurinoma che può svilupparsi per la sezione accidentale del nervo dorsale del clitoride; questa è fra le più atroci conseguenze delle Mgf perché provoca una perenne ipersensibilità di tutta l’area colpita. Frequenti sono le fistole: si tratta di comunicazioni tra la vagina e la vescica (fistola vescico-vaginale) o tra la vagina ed il retto (fistola vagino-rettale) conseguenti alle pratiche di Mgf, al ripetersi di deinfibulazioni e reinfibulazioni, ai rapporti sessuali e a parti spontanei difficoltosi; le fistole sono favorite dalla malnutrizione che contribuisce 34


Capitolo 1

alla poca elasticità dei loro tessuti. Le conseguenze fisiche delle fistole sono incontinenza urinaria e/o incontinenza fecale e condizioni associate quali la dermatite; inoltre se i nervi motori degli arti inferiori sono danneggiati, le donne possono soffrire di paralisi della metà inferiore del corpo. Le donne con Mgf presentano inoltre spesso cisti dermoidi. In gravidanza, oltre alla difficoltà dei controlli ginecologici, in quanto è impossibile applicare lo speculum, si possono sviluppare infezioni urinarie e vaginali che possono compromettere l’andamento della gravidanza stessa. Durante il parto, il tessuto reso anaelastico della cicatrice può impedire la dilatazione del canale da parto e altri gravi problemi sia per la madre che per il neonato6. Non meno gravi sono gli effetti psicologici e sessuali dovuti alla pratica. 1.2.3 Gli effetti psicologici delle Mgf Gli effetti psicologici delle mutilazioni sono difficili da valutare e il vissuto delle bambine sottoposte alla pratica può variare in base al contesto in cui viene attuata, cioè quello del proprio paese o quello di un paese nel quale la propria famiglia è emigrata. Nei contesti di origine Molto spesso nei paesi d’origine tale prassi viene considerata dalle madri stesse come normale e necessaria per garantire una crescita adeguata a favorire l’accesso delle figlie nel mondo degli adulti. La pratica delle Mgf viene effettuata in comunione con il gruppo di pari, festeggiata con doni, accompagnata da una grande enfasi da parte dei famigliari e da aspettative riferite al rito per facilitare il passaggio di status. Tali benefici secondari ricompensano ed alleviano gli aspetti traumatici dell’evento. In questo scenario, il traumatismo psichico legato all’evento viene attenuato poiché inscritto nella normalità culturalmente definita. Nel contesto d’origine, per poter valutare l’impatto psichico delle Mgf, è necessario analizzare il vissuto della donna attraverso le molteplici angolazioni che ne giustificano il mantenimento della pratica (pur senza tralasciare il fatto che questa resta una violazione nei confronti delle bambine). Nel contesto migratorio 6 WHO, Mutilations genitales feminines et devenir obstetrical: étude prospective concernée dans six pays africains, 2006. Lo studio ha visto coinvolti 28 ospedali africani per un totale di 28.393 donne che si sono presentate a partorire tra novembre 2001 e marzo 2003.

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Le mutilazioni genitali femminili nel Lazio

Il contesto migratorio facilita la frattura tra il perpetuarsi delle tradizioni e le trasformazioni delle stesse: nei paesi di accoglienza la pratica delle Mgf pone le donne migranti provenienti dalle zone a rischio di fronte ad una situazione di conflitto tra l’adesione alle pratiche proprie della cultura d’origine ed il rispetto delle normative in vigore nel paese di accoglienza. Il loro vissuto emozionale si colloca in una zona di confine di per sé conflittuale, ma allo stesso tempo ricca di opportunità per modificare le pratiche tradizionali nocive. Se la donna ha preso coscienza che le mutilazioni violano l’integrità psicofisica della persona, il peso di queste violenze è parte integrante del bagaglio emozionale che porta con sé nel percorso migratorio. Per la donna emigrata la mutilazione viene vissuta da un lato come un fatto normale, proprio della sua identità culturale e importante per il mantenimento dell’appartenenza culturale; dall’altro come violazione del diritto sia all’integrità psico-fisica, sia all’autodeterminazione. Nelle giovani in particolare, la coscienza della menomazione viene accentuata dal confronto con le coetanee dei paesi di accoglienza e può rinforzare il sentimento di rabbia legata al sentirsi diverse. Alcune testimonianze di pazienti con Mgf parlano di sentimenti di ansia, paura, senso di tradimento nei confronti della propria madre. Nel tempo possono insorgere traumi secondari derivanti dal sentirsi menomate, mutilate, diverse: frequenti sono i sentimenti di impotenza, passività, remissività, allontanamento dal gruppo dei pari e conseguente isolamento. È importante considerare che le Mgf possono indebolire l’equilibrio psicologico e causare traumi che alterano l’equilibrio esistenziale, invalidando le relazioni affettive durante tutto l’arco della vita. Nella sfera sessuale possono insorgere lacerazioni, vaginismo, dispareunia, apareunia, falsa vagina con conseguente compromissione del desiderio e del piacere sessuale. Nella pratica clinica in ambito ostetrico-ginecologico, sono stati evidenziati sentimenti di vergogna, imbarazzo, che inducono le donne infibulate a rifiutare le visite ginecologiche al momento del parto, comportamento spesso rinforzato da frequenti atteggiamenti di curiosità e sorpresa degli operatori sanitari che le seguono nelle fasi della vita riproduttiva. Nel valutare le ferite psichiche delle Mgf nel contesto migratorio è di fondamentale importanza considerare l’adesione del nucleo famigliare agli usi e costumi del paese d’origine per mantenere l’identità culturale. Perciò è estremamente importante ascoltare le voci delle donne all’interno di queste famiglie, adottando un atteggiamento di comprensione ed evitando atteggiamenti giudicanti nei loro confronti. 36


Capitolo 1

Il personale socio-sanitario e gli educatori possono svolgere un ruolo importante per promuovere e garantire la salute psicofisica delle bambine e delle donne provenienti dalle zone a rischio di Mgf.

1.3 Gli interventi possibili di cura e prevenzione 1.3.1 L’intervento di deinfibulazione “Deinfibulazione” significa intervenire chirurgicamente per rimuovere l’infibulazione o aprire il canale cervicale. L’intervento viene a volte richiesto dalle donne prima del matrimonio, prima o durante una gravidanza o al momento del parto. In alcuni casi tale pratica viene richiesta prima del matrimonio per permettere i rapporti sessuali, evitando l’atroce sofferenza alla sposa, nel caso in cui il marito stesso dovesse procedere ad “aprire la vulva”, o tagliandola o con la penetrazione forzata, come spesso succede. Durante la gravidanza la deinfibulazione può essere richiesta dalla donna o consigliata dal medico o dall’ostetrica in preparazione al parto, informandola delle possibili conseguenze e rispettando i suoi bisogni. È fondamentale informare le donne sui benefici della deinfibulazione prima della gravidanza e quindi favorire l’intervento per evitare l’insorgenza di complicanze durante il parto; per raggiungere tale obiettivo è però indispensabile stabilire un rapporto di fiducia con la donna. L’intervento di deinfibulazione viene a volte richiesto anche dalle ragazze che hanno subito probabilmente la mutilazione nel paese di origine. Soprattutto quando le ragazze sono ancora minorenni, ciò può generare dei conflitti con i genitori e, anche se dopo aver compiuto 16 anni si ritiene che sia stato raggiunto un certo livello di maturità, è opportuno incoraggiare la giovane a coinvolgerli nella scelta, per evitare un forte danno relazionale all’interno del nucleo famigliare. I motivi principali per i quali viene eseguito l’intervento sono sia ostetrici che ginecologici. Quelli ostetrici mirano a rendere possibile le visite di controllo durante il periodo della gravidanza e l’espletamento del parto per via vaginale. Quelli ginecologici riguardano la possibilità di eseguire la visita ginecologica e gli esami strumentali, e di risolvere problematiche ginecologiche e sessuali. Non si tratta di un intervento complicato e dal punto di vista medico una donna da deinfibulare non richiede specifiche cure, quanto piuttosto necessita di un sostegno dal punto di vista cul37


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turale e/o psicologico. È necessario comunque garantire alle donne che richiedono la deinfibulazione un rapido accesso alla struttura sanitaria, cercando di soddisfare tutte le loro esigenze. In particolare, in caso di gravidanza è opportuno eseguire l’intervento intorno alla 15°- 20° settimana di gestazione – allo scopo di evitare l’uso di anestetici nel primo periodo di gravidanza – previa una accurata anamnesi e visita ostetrica. Presso alcuni centri specializzati, come il Centro di Riferimento Regionale per la cura e la prevenzione delle complicanze da Mgf, istituito presso l’Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini di Roma, è stato attivato un protocollo specifico per l’intervento di deinfibulazione. Le fasi e i trattamenti previsti comprendono: fase di preparazione, tecniche di deinfibulazione, trattamento post-operatorio, follow-up.

Il protocollo per l’intervento di deinfibulazione a. Fase di preparazione La preparazione all’intervento di deinfibulazione consiste nelle seguenti procedure: 1. raccolta dell’anamnesi e colloquio con la donna, preferibilmente in presenza del marito; 2. visita ostetrica, durante la quale si osservano i genitali esterni per valutare il tipo di mutilazione genitale e, se possibile, si procede con l’esplorazione vaginale; 3. esecuzione esami e delle indagini di routine prima di un intervento: esami ematici, elettrocardiogramma e visita anestesiologica. L’intervento si effettua in anestesia periferica (spinale o epidurale) o generale a seconda dello stato psicologico della donna. L’èquipe sanitaria deve informarla su come si potrà sentire al momento dell’intervento, perché spesso la situazione potrebbe farle ricordare il momento in cui è stata infibulata e causarle una grossa sofferenza dal punto di vista psicologico. La deinfibulazione può essere realizzata attraverso un procedimento di day-hospital. b. Tecniche di deinfibulazione A seconda dell’entità del danno e, si possono eseguite 2 tecniche: - deinfibulazione con il laser, nel caso siano presenti cheloidi, cicatrici spesse o grosse cisti da ritenzione, o per espressa volontà della donna; - deinfibulazione a lama fredda, che consiste in un intervento chi-

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rurgico tradizionale, che si effettua in tutti i casi di mutilazioni non complicate. In questo caso è possibile eseguire un intervento di chirurgia plastica per ricostruire i tessuti e dare un aspetto anatomicamente più regolare ai genitali esterni. Entrambe le tecniche si eseguono situando la paziente in posizione litotonica; prima di procedere, la donna viene informata sui vari tempi dell’operazione e quindi potrà scegliere anche il tipo di anestesia. La vulva viene detersa con soluzione antisettica, ma spesso non si riesce a disinfettare la vagina per la sua ridotta dimensione. Prima di iniziare l’intervento, bisogna capire se ci sono aderenze, palpando con un dito l’interno dell’apertura dietro la cicatrice di tessuto chiuso o, se il dito non entra, con un piccolo Hegar lubrificato con olio di vasellina. Nel caso dell’intervento a lama fredda viene praticata un’incisione lungo la linea mediana con il bisturi o con le forbici per il tratto stabilito, facendo attenzione all’estremità superiore dell’incisione, in quanto la cicatrice si estende al di sopra del meato urinario in modo da rendere visibile i tessuti sottostanti. A questo punto si esegue una sutura su ogni lato in continua con filo riassorbibile. Per l’intervento con laser il procedimento è pressoché uguale; l’operatore inserisce una bacchetta di vetro o altro materiale non conduttore posteriormente all’infibulazione per proteggere i tessuti retrostanti. Raramente sono necessari cauterizzazione e ulteriore somministrazione di analgesici. c. Trattamento post-operatorio Alla fine dell’intervento si informa la paziente su alcuni accorgimenti che dovrà avere durante i primi giorni dall’operazione, quali: - urinare in una bacinella di acqua tiepida, in modo da accusare meno dolore e bruciore; - applicare una crema anestetica sulla parte varie volte al giorno fino alla caduta dei punti; - assumere antidolorifici e anti-infiammatori. d. Follow-up Vengono programmate due visite successive di controllo, la prima dopo 10-14 giorni e la seconda dopo altri 10 giorni per controllare la sutura. Dopo tali controlli, a seconda della patologia riscontrata e a seconda che la donna sia o meno in gravidanza, la paziente viene inviata ad altri ambulatori specialistici, che collaborano con il centro specialistico.

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1.3.2 I servizi offerti alle donne con Mgf: l’attività dell’ostetrica e la mediazione linguistico-culturale L’ostetrica e gli altri operatori sanitari devono instaurare con la donna che ha subito una Mgf una relazione basata sulla fiducia e sul rispetto reciproco rispondendo in modo adeguato alle sue richieste. Fondamentale è che l’ostetrica, nel dialogare con la donna, non utilizzi termini come “chiudere” o “tagliare”, che possano essere percepiti in senso negativo. Occorre trattare un argomento così delicato, spesso tabù per queste donne, senza esprimere giudizi e con la giusta consapevolezza dei significati che le Mgf hanno nella loro cultura di riferimento. La donna deve essere informata sui benefici della deinfibulazione sia durante la gravidanza sia in altre situazioni. Le donne che fanno richiesta di deinfibulazione sono a tutt’oggi in numero molto ridotto; per favorire tale richiesta è opportuno assicurare la formazione di medici, ostetriche e di tutto il personale sanitario su questo tema, ma anche individuare uno o due medici (o ostetriche) all’interno dell’équipe dei servizi, che siano interessati a tale tematica e che si rendano disponibili a vedere le donne anche in regime di urgenza. È necessario tener conto delle aspettative delle donne rispetto all’intervento: i colloqui sono fondamentali per decidere se realizzare una apertura totale o parziale. Alcune donne preferiscono un’apertura della vulva appena sufficiente per permettere il rapporto sessuale, altre un’apertura completa. Uno degli ostacoli da affrontare è quello di sfatare il mito che la vulva debba essere stretta in modo da poter aumentare il piacere sessuale del marito, e spiegare inoltre i gravi rischi di interventi chirurgici ripetuti per aprire e chiudere la vulva dopo ogni parto. In particolare, va considerato che, se la donna ritorna a vivere in Africa, può trovarsi in condizioni in cui gli ospedali non siano facilmente raggiungibili, quindi aumenta il rischio di morte materna. Spesso la donna o il marito richiedono la reinfibulazione, e anche in questa occasione è opportuno il contributo della mediazione culturale per aiutare la donna ad accogliere la posizione del medico, che non può in nessun modo accettare tale richiesta in quanto è tenuto per motivi medico-legali unicamente a riportare i genitali alla normale anatomia. La figura del mediatore consente una migliore interpretazione e realizzazione degli interventi, garantendo un’interfaccia ed un accompagnamento nella prevenzione primaria. Queste operatrici – è ovviamente preferibile, se non vincolante, che si tratti di donne – riescono a comprendere le 40


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ansie e i vissuti delle donne e a comunicarli al personale sanitario. Sono in grado di dare un sostegno dal punto di vista linguistico, in modo che le donne possano esprimere tutte le loro perplessità e le loro esigenze. Inoltre, possono spiegare alle donne quali sono le complicanze dovute alla pratica che hanno subito da bambine, aiutandole a comprendere il punto di vista sanitario sulle Mgf. Va fatto anche un lavoro di sensibilizzazione per far sì che tali pratiche non avvengano più, facilitando la fusione delle due culture che si incontrano, della persona assistita e di chi assiste. 1.3.3 L’attività di prevenzione delle Mgf sulle bambine Gli strumenti di prevenzione delle Mgf devono necessariamente tener conto della multifattorialità della problematica, in termini culturali, legislativi e clinico-strumentali. Spesso risulta carente l’adeguatezza del comparto sanitario, in termini di appropriatezza di diagnosi, trattamento e di prevenzione. La prevenzione non può essere solo legata al deterrente del reato, così come configurato dalle vigenti leggi in Italia, ma deve far leva sulla coppia genitoriale, affinché comprenda, attraverso adeguati apporti culturali ed educativi, la necessità di tutelare il futuro riproduttivo e sessuale della progenie. Pertanto il momento preventivo deve essere considerato un tutt’uno con il processo di inclusione sociale, attraverso una più idonea integrazione delle bambine e delle famiglie, che preveda prima di tutto l’accesso alle strutture sanitarie sin dalla nascita e poi l’assistenza attraverso i servizi consultoriali e di medicina pediatrica. Bisogna poi favorire i rapporti tra i contesti sanitari e gli utenti immigrati attraverso il ruolo dei mediatori culturali, con l’obiettivo di evitare che le strategie terapeutiche vengano recepite come un’imposizione della società ospitante, aumentando così il divario tra il contesto di origine e quello di accoglienza. Tale errore potrebbe causare una ghettizzazione della famiglia, rendendo così ancora più difficile sia il momento diagnostico sia di conseguenza quello terapeutico. Sarebbe importante programmare un monitoraggio, un follow-up dell’unità familiare, cercando di comprendere quale è il vissuto familiare della madre, confrontandolo poi con la realtà culturale delle madri dello stesso gruppo etnico e con la situazione delle donne italiane. Tale operazione non può prescindere dalle competenze degli psicologi oltre che dei mediatori culturali e di tutto il comparto sanitario. Non ultimo va considerato il momento informativo 41


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circa la legislazione corrente e l’illecito penale in cui si incorre favorendo o realizzando le Mgf. Tale informativa, da rendersi in tutte le lingue, deve essere erogata sin dall’ingresso del nucleo familiare nel paese ospitante, anche qualora la mutilazione sia stata già effettuata. Il personale sanitario non ha molti strumenti per poter prevenire le pratiche tradizionali sulle bambine. Può comunque intervenire già parlando con i genitori durante la gravidanza, nell’eventualità che in utero ci sia un feto femmina durante l’esame ecografico ed esplicitare il problema. Dal momento che nel nostro paese non è possibile praticare le Mgf, è possibile che i genitori cerchino di portare le bambine nei paesi d’origine per eseguire l’intervento anche in maniera tradizionale. Un intervento possibile è quello di esplicitare il problema nei centri vaccinali o con l’aiuto del pediatra di base che può instaurare un rapporto privilegiato e prolungato nel tempo con le famiglie, al momento dell’iscrizione al Sistema Sanitario Nazionale del nuovo nato. Pertanto il pediatra dovrebbe richiedere7 l’intervento di una mediatrice linguistico-culturale; potrebbe inoltre proporre appuntamenti per la bambina nel proprio servizio instaurando un dialogo con la madre, indagando sulla sua personale esperienza, sull’atteggiamento del padre e delle donne più anziane della famiglia in relazione alle Mgf. Infatti in molte famiglie i genitori vorrebbero abbandonare le pratiche tradizionali ma possono trovare difficoltà a resistere alla pressione esercitata su di loro dai componenti familiari delle generazioni più anziane e quindi più riluttanti all’accettazione del cambiamento. Anche nella scuola, nel momento dell’iscrizione alle elementari, si può intervenire sul problema esplicitando e dando indicazioni. Qualora il medico scolastico o l’insegnante referente per la salute venga a conoscenza della possibilità che la bambina sia sottoposta ad Mgf, si deve segnalare il caso ai servizi sociali ed eseguire un intervento congiunto con il pediatra. In tutti i momenti di incontro dei genitori con il Sistema Sanitario, quindi, al momento della nascita, in ospedale, in pronto soccorso, nei servizi vaccinali, nei nidi e nelle scuole è importante che il personale abbia gli strumenti conoscitivi e relazionali per poter affrontare insieme agli utenti stranieri questo tema.

7 Alcuni degli interventi menzionati sono tratti dall’opuscolo “Linee Guida” del 2000, realizzate presso il Ministero delle Pari Opportunità Presidenza del Consiglio, a cura di Vittoria Tola, Roma.

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1.4 Le buone pratiche di assistenza in Italia e in Europa Il Ministero della Salute, a seguito della costituzione di un tavolo e una commissione per la stesura e la promozione delle Linee Guida per la prevenzione, l’assistenza e la riabilitazione di donne e bambine vittime di Mgf, ha promosso un’iniziativa di ricerca sullo stato della programmazione regionale rispetto a questa tematica. La ricerca è stata finalizzata a intraprendere attività di formazione degli operatori, counselling e deinfibulazione per le donne, conoscere il fenomeno e gli interventi di aiuto specialistico esistenti in Italia8. È stato quindi predisposto e inviato a tutte le Regioni e Province Autonome un questionario, che ha rilevato l’esistenza, nelle diverse ripartizioni amministrative territoriali, di strutture dedicate a compiti di: • ricerca e formazione a livello regionale; • formazione degli operatori a livello locale; • prevenzione ed informazione; • interventi di deinfibulazione. Dai risultati emerge che l’Emilia Romagna è la Regione che fino ad oggi nel nostro paese ha assicurato il modello di assistenza sanitaria più diffuso sul territorio, con strutture dedicate, counselling, formazione degli operatori e studi sull’argomento. In Emilia Romagna troviamo infatti una delle buone prassi italiane sul tema delle Mgf, legata in particolar modo al progetto, realizzato tra dicembre del 2000 e febbraio del 2001 e coordinato dal dottor Gianfranco Gori (direttore dell’Unità Operativa di Ginecologia e Ostetricia di Forlì), finalizzato a migliorare consapevolezza e comprensione di alcuni temi nodali del fenomeno. Con il progetto la Regione ha indagato le attitudini dei professionisti al riconoscimento, alla presa in carico e all’erogazione di cure appropriate a donne con Mgf e, dall’altro lato, le percezioni delle donne immigrate portatrici di Mgf rispetto alle cure ricevute. Contestualmente è stata condotta una revisione della letteratura e prodotto un documento di raccomandazioni assistenziali9. 8 La ricerca è stata in seguito pubblicata dal Ministero della Salute (Dipartimento prevenzione e comunicazione – Ufficio X Salute della donna nell’età evolutiva), il 29 maggio 2007, con il titolo: “Ricognizione dei servizi offerti a livello regionale a donne e bambine sottoposte a pratiche di mutilazione genitale femminile (Mgf)”. 9 I documenti scaturiti dal progetto e le raccomandazioni assistenziali per i professionisti sono scari-

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Sempre nella Regione Emilia Romagna esiste il centro CeVEAS – Centro per la valutazione dell’efficacia dell’assistenza sanitaria – che ha dato vita al Centro di documentazione sulla salute perinatale, riproduttiva e sessuale10 dove si possono trovare indicazioni bibliografiche relative agli interventi in campo ostetrico e ginecologico, nonché studi e documentazione sulle Mgf. L’approccio è quello dell’evidence based medicine (medicina basata sulle evidenze). Quello dell’Emilia Romagna si delinea quindi oggi come un modello significativo, poiché ha un sistema di risposta immediata al fenomeno e una conoscenza diffusa dal punto di vista professionale che consente all’utente di ottenere un’attenzione rapida e competente. Il fatto che in regione ci sia tale diffusione di conoscenza e di presidi permette inoltre un maggiore controllo sociale, che consente di prevenire qualsiasi situazione che possa essere compromettente ed illegale rispetto alle Mgf. Un altro modello interessante, che possiamo configurare come buona prassi, è senz’altro la Regione Toscana, dove esiste un Centro di programmazione regionale e poi, nella sede della Regione, un tavolo di assistenza dove si riuniscono medici, antropologi, sociologi, amministrativi e rappresentanti del mondo del volontariato. Sul territorio è inoltre presente un Centro di riferimento regionale per la prevenzione e cura delle Mgf presso l’Ospedale Carreggi (Firenze). Nella Regione Lazio è stato istituito, nel marzo del 2007 (delibera n. 187 del 20.03.2007), il Centro di Riferimento Regionale per l’assistenza ed il trattamento chirurgico delle complicanze sanitarie correlate alle Mgf presso l’Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini di Roma, i cui obiettivi sono: • assistenza sanitaria e trattamento chirurgico per le conseguenze sanitarie e le patologie correlate alle mutilazioni genitali femminili; • attività di informazione sull’argomento, anche con la divulgazione di materiale informativo, per la prevenzione e il rispetto della legislazione italiana, in collaborazione con il Centro di Riferimento regionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti, senza fissa dimora, nomadi e a rischio di emarginazione dell’Istituto San Gallicano; • sviluppo di protocolli operativi e procedure specifiche relative alle problematiche inerenti le Mgf e la deinfibulazione nell’ambito del Sercabili dal sito: www.saluter.it. 10 Il centro di documentazione è consultabile online sul sito www.saperidoc.it

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Capitolo 1

vizio sanitario nazionale; • promozione di attività di sensibilizzazione e di formazione del personale sanitario a livello regionale e interregionale, nonché di informazione alla popolazione immigrata relativamente alle complicanze e alle possibilità terapeutiche; • partecipazione al coordinamento dei centri di supporto psicologico e terapeutico per le donne che hanno subito Mgf; • svolgimento di attività di formazione specialistica in campo ginecologico per gli operatori sanitari della Regione Lazio; • sviluppo di una rete di contatti nazionali ed internazionali tra centri che si occupano delle Mgf; • promozione del dialogo interculturale attraverso incontri periodici che affrontino le problematiche ricorrenti al fine di trovare soluzioni idonee e accettabili dalle pazienti. Presso il San Camillo è inoltre in programma la costituzione di un Centro di Documentazione Nazionale a disposizione di tutti coloro che desiderano condurre studi e ricerche sull’argomento. Per quanto riguarda le altre Regioni italiane, la creazione di strutture di assistenza e prevenzione delle Mgf risulta ancora a divenire; non tutte infatti hanno avviato iniziative di programmazione su questa problematica. Nel panorama europeo le esperienze specifiche di cura e prevenzione delle Mgf sono numerose. Per citarne solo alcune, si può ricordare l’attività del Northwick Park Hospital di Harrow, in Gran Bretagna, dove è stata creata negli anni ‘90 l’African Well Woman’s Clinic, specializzata nel trattamento ginecologico e chirurgico delle Mgf. I risultati di un’esperienza condotta con 50 donne africane sono stati pubblicati nell’ottobre del 1995 sul “British Journal of Obstetrics and Gynaecology”11. Il centro è da considerare un attore di buone prassi, anche grazie alla sinergia istituita con l’organizzazione inglese Forward (Foundation for women’s Health), una Ong che dal 1983 lavora nella direzione dell’eradicazione delle pratiche mutilatorie tra le donne immigrate. Un’altra esperienza che può essere menzionata è quella della Fondazione Waris Dirie, creata dall’ex modella somala che attualmente vive in Germania per finanziare campagne di contrasto e prevenzione delle Mgf in molti paesi dell’Europa e dell’Africa. Campagne di sensibilizzazione e intervento sulle Mgf sono state inoltre progettate e realizzate da Ong ed enti pubblici a livello 11 McCaffrey M, Jankowska A, Gordon H., “Management of female genital mutilation: the Northwick Park Hospital experience”, British Journal of Obstetrics and Gynaecology. 1995, Oct; 102(10): 78790.

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Le mutilazioni genitali femminili nel Lazio

transnazionale, mentre nel continente africano, negli ultimi decenni, si sono moltiplicate le forme di mobilitazione dei movimenti femminili autoctoni per l’abbandono delle pratiche mutilatorie.

1.5 Le buone pratiche nei paesi d’origine: il caso del Comitato Inter-Africano Il Comitato Inter-Africano sulle Pratiche Tradizionali che Influiscono sulla Salute di Donne e Bambini (Iac) è un’organizzazione non governativa internazionale fondata nel 1984 a Dakar, che attualmente ha Comitati Nazionali in 28 paesi africani. La sede principale è ad Addis Abeba. Il suo mandato prevede fin dalla sua nascita un focus importante sulla prevenzione e il contrasto delle mutilazioni genitali femminili, incluse all’interno del più vasto sistema delle “pratiche tradizionali che influiscono sulla salute delle donne e dei bambini”. In generale, lo Iac mira da un lato all’eradicazione delle Mgf e di altre pratiche tradizionali dannose (specialmente quando implicano violenza di genere, come i matrimoni combinati o precoci), dall’altro all’advocacy a favore di azioni contro le pratiche dannose e per la promozione di pratiche tradizionali benefiche. Le attività svolte dallo Iac includono: - programmi per i giovani; - campagne di informazione e formazione; - programmi per leader religiosi; - empowerment delle donne; - microcredito per ex excisseurs; - capacity building; - advocacy e lobbing; - ricerca scientifica; - produzione e distribuzione di materiali informativi ed educativi. Programmi per i giovani I programmi per i giovani si basano su diversi strumenti e luoghi di contatto: la scuola, l’educazione dei pari, lo sport, la radio, il teatro, l’organizzazione di Fori Regionali Giovanili e la formazione speciale. Questo rappresenta uno dei più importanti settori di attività dello Iac poiché i giovani hanno una mentalità relativamente più aperta, e influire sui loro

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Capitolo 1

atteggiamenti e produrre cambiamenti di mentalità risulta più facile. A partire dal 2000 lo Iac ha realizzato 83 progetti rivolti ai giovani, raggiungendo oltre 261.600 persone con informazioni sulle Mgf ed altre pratiche tradizionali dannose. Queste persone sono state formate su come diventare educatori dei loro pari, come realizzare club dentro e fuori dalla scuola e come mobilitare la comunità. Campagne di formazione e informazione Le campagne di formazione e informazione sono indirizzate a raggiungere il pubblico attraverso “ondate” successive rivolte a gruppi specifici, come donne, uomini, gruppi religiosi, levatrici tradizionali, personale sanitario e media. I progetti mirano a trasformare gli atteggiamenti dei gruppi target perché questi divengano agenti di cambiamento. Dal 2007 sono stati realizzati 77 progetti di questo genere, e creati centri di informazione per il pubblico in 12 paesi. Programmi per leader religiosi Poiché talvolta la religione viene presentata come una motivazione per effettuare le Mgf, lo Iac lavora con i leader religiosi per chiarire questo equivoco sulle norme religiose ed incoraggiarli a prendere parte alle campagne di sensibilizzazione. Nell’ottobre 2007 si è tenuto un simposio per leader religiosi ad Abidjan (Costa d’Avorio) con 37 partecipanti da 23 paesi africani, in presenza di media nazionali ed internazionali e del Ministro nazionale della Salute. In questa sede è stato lanciato un Piano d’Azione di 3 anni (2008-2010) per combattere le Mgf e le credenze infondate sul ruolo che la religione gioca in questa pratica, e il simposio si è concluso con la Dichiarazione di Impegno di Abidjan, la quale afferma che le Mgf non hanno alcun posto nelle fedi islamica e cristiana, richiedendo ai firmatari di impegnarsi nella lotta per l’eliminazione totale delle Mgf non solo nei rispettivi paesi, ma ovunque esse vengano praticate. Empowerment delle donne Il lavoro dello IAC per l’empowerment delle donne riguarda due aspetti: le campagne di informazione e formazione che mirano a far comprendere alle donne gli effetti dannosi di pratiche come le Mgf, il matrimonio in età precoce, i tabù nutrizionali, e a favorire la valorizzazione del proprio

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corpo, e la formazione delle donne come formatrici esse stesse. Micro-credito per ex excisseurs Un altro modo di realizzare l’empowerment femminile è di offrire alternative occupazionali alle ex excisseurs, cioè le operatrici che praticano le Mgf che in molte culture godono di status e rispettabilità relativamente alti. Lo Iac offre formazione in attività alternative generatrici di reddito, e fondi iniziali per avviare micro-imprese. Inoltre, coinvolge le ex excisseurs nelle sue campagne di formazione e informazione, rendendole agenti attivi di cambiamento. Capacity building Un obiettivo dello Iac è di creare Comitati Nazionali indipendenti e sostenibili che possano realizzare iniziative e informare sulle proprie attività in modo professionale. A tal fine, punta a rafforzare le capacità di questi Comitati provvedendo al salario dei responsabili dei programmi, fornendo supporto tecnico e supporto di emergenza. Advocacy e lobbying Lo Iac, insieme ad altre Ong, continua ad esercitare pressioni politiche e ad attirare l’attenzione dei decisori politici sulle questioni della violenza contro le donne, specialmente quelle che sono tradizionalmente condonate. Lo Iac sfrutta le sue relazioni ufficiali con le Nazioni Unite, l’Unione Africana, l’Oms, per influenzarne la politica. Nel 1997, dopo aver realizzato incontri di esperti sugli aspetti legali delle Mgf e di altre pratiche, lo IAC ha proposto all’Unione Africana una bozza di convenzione sull’eliminazione della violenza contro le donne. I contenuti essenziali di questo documento sono attualmente riflessi nel Protocollo sui Diritti delle Donne in Africa nella Carta Africana sui Diritti Umani e dei Popoli, conosciuto anche come Protocollo di Maputo. Gli artt. 2, 5, 6, e 20 del Protocollo riflettono la preoccupazione dello Iac riguardo la violenza contro le donne. Lo Iac fa parte della campagna che sostiene l’adozione e ratificazione del Protocollo di Maputo da parte delle legislazioni nazionali. Nel 2003 il Comitato ha inoltre organizzato una conferenza internazionale sulla tolleranza zero per le Mgf, con l’obiettivo di costruire e rafforzare le partnership con gli stakeholders locali, i governi, le organizzazioni intergovernative e le Ong. I principali risultati della conferenza furono: 48


Capitolo 1

- la proclamazione del 6 febbraio come Giornata Internazionale della Tolleranza Zero sulle Mgf; - l’adozione dell’Agenda Comune di Azione per l’eliminazione delle Mgf, assicurando il coinvolgimento di corpi differenti (governi, istituzioni delle Nazioni Unite, parlamentari, legislatori, decisori, Ong, eccetera); - il lancio di un appello ai governi per mobilitare le risorse e gli sforzi necessari per l’eradicazione delle Mgf ed altre pratiche tradizionali dannose. In seguito a questa conferenza, lo Iac ha firmato una lettera di accordo sull’azione comune per l’eliminazione delle Mgf con l’Oms, l’Unicef, e l’Unfpa. Per i risultati che ha conseguito, ha ricevuto il Premio delle Nazioni Unite per la Popolazione nel 1995. Ricerca Lo Iac conduce ricerca nell’area delle pratiche tradizionali attraverso i suoi Comitati Nazionali ed esperti e l’ausilio di un comitato scientifico. La ricerca sul matrimonio in età precoce in Etiopia, per esempio, ha rivelato il fatto che ragazze giovani, anche intorno ai 7-8 anni, sono sposate forzatamente ad uomini più anziani, con gravi rischi al momento del parto che possono essere osservati nell’operato della Fistula Clinic di Addis Abeba. La pratica dei matrimoni precoci è inoltre diffusa in Niger, Mauritania, parti della Nigeria, Medio Oriente, ed alcuni paesi Asiatici. Sono stati prodotti numerosi papers di ricerca sulle Mgf, che mostrano la gravità e la diffusione del problema. Questi documenti sono particolarmente importanti per orientare le strategie di intervento. Produzione di materiali educativi Per supportare le sue attività ed informare la popolazione, lo Iac produce una gamma di materiali educativi, oltre a una newsletter che fornisce aggiornamenti sui progressi nella lotta contro le Mgf, diffusa due volte all’anno. Sono stati creati diversi documentari sul tema e un modello anatomico attualmente utilizzato nelle campagne di formazione e negli ospedali per visualizzare le conseguenze mediche delle Mgf. Lo Iac produce, infine, anche manuali di formazione ed informazione per i giovani e per il personale sanitario ed educativo, e agisce come centro di risorse a livello locale e a livello internazionale.

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2. Conoscenze e immagini delle Mgf: l’indagine sugli operatori dei servizi territoriali di Maura Misiti e Francesca Rinesi

2.1

L’approccio metodologico

2.1.1 L’impostazione generale dell’indagine La metodologia della ricerca e le modalità di individuazione e selezione del campione sono scelte strategiche in un’indagine che come questa esplora un fenomeno sommerso, illegale, dal grande contenuto emotivo per tutti gli attori coinvolti – a partire dalle donne per arrivare agli operatori – e dal forte impatto mediatico anche per le connotazioni morbose ad esso legate. Il lavoro di impostazione dell’indagine è dunque il frutto di una riflessione che ha tenuto conto da una parte dell’esigenza di raggiungere gli obiettivi generali e specifici del progetto di ricerca-azione e dall’altra di affrontare le difficoltà di reperimento di stime e informazioni attendibili sulle dimensioni del fenomeno nel territorio laziale e nazionale. In generale la valutazione dell’estensione del fenomeno delle Mgf in Italia parte dalle stime dell’Oms sull’incidenza nei paesi di origine e viene applicato ai contingenti delle popolazioni immigrate. Si tratta di un procedimento piuttosto grossolano ancorché utilissimo, ma che effettivamente fornisce più che delle stime accurate, un dimensionamento generale del fenomeno che non tiene conto dell’impatto del processo migratorio sul comportamento delle donne migranti, sulle comunità immigrate, sulle seconde generazioni. Infatti, in termini generali, l’impatto delle migrazioni internazionali sulla pratica delle Mgf può avere effetti

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Capitolo 2

diversi. È negativo quando la migrazione comporta la diffusione di questa pratica in altre parti del mondo dove non è tradizionalmente praticata, è invece positivo quando la migrazione comporta un cambiamento nell’atteggiamento verso la pratica e un possibile abbandono (Abreu, Ecwr, 2006). Alcuni paesi occidentali di lunga tradizione migratoria e consolidata esperienza di accoglienza, come il Regno Unito e la Francia, hanno tentato di quantificare accuratamente il fenomeno1, ottenendo un netto miglioramento delle stime delle donne e delle bambine a rischio, e dunque un più efficiente riferimento dimensionale delle politiche di intervento e repressione della pratica. Ma al tempo stesso, questi paesi, come del resto l’Oms2, hanno sottolineato l’importanza di accompagnare tali evidenze con ricerche più approfondite sulle basi socioculturali della pratica, sulle attitudini, percezioni e motivazioni delle donne e delle famiglie, sul rapporto delle donne migranti con i servizi socio-sanitari, sulla formazione e sulla competenza degli operatori sanitari e sociali dei paesi di accoglienza, sugli effetti psicologici oltre che sanitari della pratica, sulle strategie di prevenzione. Questo perché vi sono molteplici variabili importanti come il contesto del paese di accoglienza (politiche, leggi atteggiamenti), il grado di integrazione della comunità, il paese ed il contesto di provenienza, la tipologia della pratica, i valori della cultura di appartenenza, che possono determinare impatti e reazioni diverse tra le donne e le comunità migranti verso la pratica Mgf, e che dunque devono essere tenute in considerazione. D’altronde sia la quantificazione del fenomeno che la necessità di considerarne la complessità e la variabilità dell’impatto sono elementi essenziali nell’impostazione del disegno di ricerca. A partire da queste riflessioni è stata implementata una strategia di ricerca che consentisse di raggiungere gli obiettivi generali del progetto, e un’impostazione dell’indagine quantitativa che si armonizzasse con il disegno complessivo della ricerca. La misurazione della presenza di stranieri, così come il monitoraggio di fenomeni a loro ascrivibili, presenta delle problematiche peculiari. Le

1 Foundation for Women’s Health, “Research and Development (Forward), A Statistical Study to Estimate the Prevalence of Female Genital Mutilation in England and Wales”, 2007; Ined, Les mutilations sexuelles féminines: le point sur la situation en Afrique et en France, 2007 2 (Hrp), Undp/Unfpa/Who/World Bank, Special Programme of Research, Development and Research Training in Human Reproduction

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Le mutilazioni genitali femminili nel Lazio

principali difficoltà riscontrate dalla statistica ufficiale3 sono legate, da un lato, allo sfasamento temporale esistente tra il momento di arrivo dei migranti e la loro iscrizione in Anagrafe e, dall’altro, alla difficile stima della presenza di stranieri irregolari o clandestini. Focus di questa ricerca è lo studio della diffusione del fenomeno Mgf nel nostro paese così come dell’atteggiamento che gli operatori che vengono (o possono venire) in contatto con straniere provenienti da paesi a tradizione escissoria hanno verso questa pratica. La strategia di campionamento adottata per l’indagine quantitativa ha portato alla selezione delle zone del territorio laziale maggiormente interessate al fenomeno oggetto di analisi e, all’interno di ciascuna zona individuata, alla definizione del numero minimo di questionari da rilevare per tipologia di operatore. Primo passo di questa strategia è, quindi, quello dell’individuazione e selezione all’interno del territorio regionale delle aree dove con maggiore probabilità gravitano le straniere con Mgf o a rischio di subire tale pratica. I presidi socio-sanitari che insistono su tali aree rappresentano la rete di riferimento potenziale di prevenzione, sostegno ed intervento per queste donne e/o bambine. Tuttavia l’individuazione delle aree-chiave è tutt’altro che semplice: bisogna, difatti, tener conto che in alcune aree insistono un maggior numero di stranieri di quelli che risulterebbero dalla sola consultazione dei dati anagrafici di residenza. Si possono individuare dei poli di “attrazione”, tipicamente coincidenti con le aree dove gli stranieri svolgono il loro lavoro o dove c’è una presenza di servizi specificatamente indirizzati a tale segmento della popolazione. Per tener conto di questo aspetto, la selezione delle aree target è stata effettuata utilizzando una procedura a due step, che si poneva come obiettivo quello di integrare quanto emerge dalle fonti di statistica ufficiali con le indicazioni fornite da esperti, quali i leader di comunità o gli operatori che da anni operano in servizi specificatamente rivolti agli stranieri. La prima fonte considerata è quella dei cittadini stranieri4 iscritti alle anagrafi comunali (Istat). L’uso di questi dati è orientativo in quanto si riferiscono alla sola popolazione stabilmente e regolarmente insediata e non tengono conto delle persone immigrate in situazioni diverse (perso3 Conti, C., Gabrielli, D., Prati, S., e Strozza S. (2008): “Misurare l’immigrazione e la presenza straniera: una sfida continua per la statistica ufficiale”, relazione presentata alla Nona conferenza di Statistica Ufficiale, Roma 15-16 dicembre 2008. 4 Questo approccio, discusso e condiviso dall’intero gruppo di ricerca, fa riferimento allo spirito della legge che, oltre alla repressione del fenomeno, prevede azioni di prevenzione e di formazione, approccio rinforzato dalle Linee Guida predisposte dal Ministero per la Salute.

52


Capitolo 2

ne ancora non residenti, irregolari). Si è dunque proceduto all’analisi dei dati Istat relativi alla popolazione straniera proveniente dai paesi dove si praticano le Mgf, selezionando i comuni del Lazio, quelli della provincia di Roma e i Municipi del Comune di Roma, con le presenze più significative. Nella tabella che segue si può osservare il quadro delle presenze della popolazione femminile e di quella totale secondo la nazione di provenienza: i dati sono percentuali sul totale della popolazione straniera residente nella Regione Lazio. Tabella 1 - Popolazione straniera proveniente dai paesi a tradizione escissoria residente per sesso e nazionalità nelle province della Regione Lazio al 31.1.2007. Rieti (%)

Viterbo (%)

Paese

Roma (%)

Latina (%)

Frosinone (%)

Totale Lazio (valore assoluto)

F

T

F

T

F

T

F

T

F

T

F

T

Egitto

0,7

0,7

0,5

0,6

95,5

96,0

2,8

2,2

0,5

0,5

2.625

8.031

Nigeria

4,7

4,6

1,7

1,3

81,5

82,5

6,2

6,1

5,9

5,6

1.618

2.946

Etiopia

2,7

2,4

1,1

1,1

92,4

93,5

1,5

1,3

2,4

1,8

1.573

2.554

Eritrea

0,9

0,7

1,2

1,0

96,4

97,0

0,8

0,6

0,8

0,7

1.194

2.412

Somalia

2,3

2,3

0,4

0,4

94,3

94,4

2,9

2,8

0,1

0,1

822

1.326

Senegal

6,6

10,4

0,4

0,1

82,7

82,6

4,9

4,3

5,3

2,6

226

1.034

Congo

6,2

5,7

1,3

1,6

81,9

80,8

7,0

7,1

3,6

4,8

386

792

Rep. Dem. Congo

6,5

5,3

0,0

0,0

85,6

87,1

3,9

3,3

3,9

4,3

383

723

Camerun

8,1

7,2

3,6

2,6

77,2

80,9

7,2

6,3

3,9

3,0

307

570

Ghana

3,7

4,6

1,4

1,1

88,5

89,0

4,1

3,9

2,3

1,4

218

436

Sudan

0,0

1,1

1,5

1,1

90,8

96,2

0,0

0,3

7,7

1,4

65

368

11,7

11,0

0,0

0,5

82,5

82,4

2,6

2,7

3,2

3,3

154

364

Kenya

9,2

8,7

1,6

1,3

80,4

82,6

6,5

5,8

2,2

1,6

184

310

Sierra Leone

4,3

4,6

0,0

0,0

95,7

95,4

0,0

0,0

0,0

0,0

140

280

Burkina Faso

0,0

0,0

0,0

0,4

95,0

93,8

4,4

5,4

0,6

0,4

160

241

Togo

9,7

8,2

1,9

1,7

86,4

88,8

1,0

0,9

1,0

0,4

103

233

Guinea

2,1

4,3

0,0

0,0

95,9

92,8

2,1

1,4

0,0

1,4

97

209

Tanzania

1,1

0,6

1,1

0,6

86,3

91,1

2,1

2,2

9,5

5,6

95

179

Benin

3,4

2,6

0,0

0,6

93,1

94,2

3,4

1,9

0,0

0,6

58

155

Uganda

1,3

1,5

0,0

0,7

85,5

88,8

6,6

5,2

6,6

3,7

76

134

Yemen

10,5

13,7

0,0

0,0

82,5

83,1

0,0

0,0

7,0

3,2

57

124

Liberia

0,0

0,0

6,5

3,4

83,9

92,3

6,5

2,6

3,2

1,7

31

117

4,3

2,0

48,9

45,1

46,8

52,9

0,0

0,0

0,0

0,0

47

102

17,8

14,9

2,2

1,1

66,7

67,0

13,3

17,0

0,0

0,0

45

94

Costa d’Avorio

Rep. Centrafricana Niger

53


Le mutilazioni genitali femminili nel Lazio

Mali Mauritania

0,0

1,5

0,0

0,0

91,2

92,4

8,8

6,1

0,0

0,0

34

66

0,0

3,8

0,0

0,0

100,0

96,2

0,0

0,0

0,0

0,0

8

26

Gambia

50,0

25,0

0,0

5,0

50,0

70,0

0,0

0,0

0,0

0,0

6

20

Guinea Bissau

42,9

37,5

0,0

0,0

57,1

62,5

0,0

0,0

0,0

0,0

7

16

Ciad

33,3

20,0

0,0

0,0

66,7

80,0

0,0

0,0

0,0

0,0

6

15

Gibuti

0,0

0,0

50,0

22,2

50,0

77,8

0,0

0,0

0,0

0,0

4

9

TOTALE

3,3

3,2

1,2

1,0

89,9

91,1

3,3

2,9

2,3

1,8

10.729 23.886

Nostra elaborazione su dati Istat

Dall’analisi della tabella 1 è evidente come la provincia di Roma assorba la quasi totalità della popolazione straniera di interesse, e che quindi l’indagine è stata giocoforza concentrata in questo territorio. In seconda battuta emergono le province di Viterbo e Latina che sono state incluse nella rilevazione, analizzando al loro interno le aree (Comuni) a maggiore concentrazione straniera. È stata in seguito svolta una raccolta e analisi dei dati sugli alunni stranieri provenienti dagli stessi paesi e frequentanti le scuole di ogni ordine e grado dei comuni del Lazio e dei Municipi di Roma nell’anno 20062007, forniti dal Ministero dell’Istruzione5. Nel complesso della Regione Lazio nell’a.s. 2006-07 gli alunni stranieri provenienti da questi paesi sono pari a 1.820. Di questi il 93,2 % sono a Roma e provincia, e solo 134 pari al 7% frequentano scuole delle altre province del Lazio. Anche questi dati confermano la concentrazione della presenza straniera nell’area della provincia di Roma, sulla quale si è effettuata la gran parte della rilevazione. Nella tabella che segue si può osservare il quadro delle presenze di alunni secondo la nazione di provenienza a Roma e Provincia, i dati sono assoluti ed in ordine decrescente e mostrano la frammentazione delle provenienze al di là della forte presenza egiziana (47% di tutti gli alunni stranieri di Roma e provincia), seguita a distanza da quella nigeriana ed etiope. Il dettaglio dei dati forniti dal Ministero dell’Istruzione ha consentito di individuare nell’ambito della Provincia di Roma i comuni con incidenza significativa di alunni provenienti da paesi a rischio, e all’interno del Comune di Roma di individuare i Municipi su cui concentrare la rilevazione. 5 Si ringraziano il prof Ongini e il prof. Ferrazzano dell’Ufficio studi del Ministero, per la collaborazione e la disponibilità dimostrata nella fornitura e nell’elaborazione dei dati sugli alunni stranieri.

54


Capitolo 2

Tabella 2 - Graduatoria degli alunni di origine straniera proveniente da paesi a tradizione escissooria - Roma e Provincia, a.s. 2006-07 Anno scolastico 2006-07 Egitto

Infanzia

Primaria

Sec. I grado

Sec. II grado

Totale

268

385

138

74

865

Nigeria

93

80

42

60

275

Etiopia

24

43

45

59

171

Eritrea

13

25

17

23

78

Congo

11

6

19

27

63

Camerun

8

11

10

21

50

Somalia

5

14

13

17

49

Ghana

7

9

8

14

38

Guinea

3

8

6

8

25

Senegal

4

10

8

1

23

Sierra leone

2

6

6

6

20

10

0

9

0

19

Kenya

1

10

5

2

18

Rep. Dem. del Congo

0

0

4

13

17

Burkina Faso

1

5

3

7

16

Sudan

6

2

4

4

16

Togo

1

3

4

5

13

Mauritania

2

2

2

4

10

Benin

2

2

1

4

9

Niger

1

4

0

3

8

Tanzania

1

2

1

4

8

Mali

1

0

3

2

6

Uganda

1

0

2

3

6

Yemen

2

4

0

0

6

Centrafica

0

1

1

2

4

Ciad

0

0

1

1

2

Gibuti

0

0

0

2

2

Liberia

0

0

1

1

2

Gambia

0

0

0

1

1

TOTALE

467

632

353

368

1820

Costa d’Avorio

Fonte: Ufficio Studi Ministero della Pubblica Istruzione

Sulla base dell’analisi effettuata, sono state individuate delle zone di rilevazione, poi sottoposte al parere degli esperti (leader di comunità e operatori socio-sanitari esperti in materia) allo scopo di tener conto

55


Le mutilazioni genitali femminili nel Lazio

delle aree “attrattive”. Sono state, quindi, definite 8 aree di rilevazione6. Le zone sono state differenziate sia in base alla numerosità della popolazione straniera a rischio sia in base ad una strutturazione operativa (geografica) della rilevazione stessa. 2.1.2 La rilevazione quantitativa: definizione degli strumenti e della metodologia operativa Sulla base delle zone individuate si è proceduto a definire per ogni zona un numero minimo di questionari da rilevare per tipologia di operatore; non è stato possibile definire a priori il numero dei questionari da somministrare ma semplicemente una indicazione a carattere orientativo per i rilevatori, non conoscendo con precisione i numeri dell’universo di riferimento; si è comunque tenuto conto delle dimensioni demografiche delle comunità insediate nelle unità di riferimento (municipi del comune di Roma, comuni della provincia e della regione selezionati precedentemente). In conformità agli obiettivi del progetto, il target della rilevazione quantitativa è stato quello della platea degli operatori dei servizi socio-sanitari e delle scuole della Regione Lazio: • operatori dei consultori sanitari; • operatori dei reparti ospedalieri di ostetricia e ginecologia; • insegnanti dei corsi di italiano presso i Centri Territoriali Permanenti (Ctp); • mediatori culturali; • insegnanti delle scuole materne, elementari medie inferiori e supe- riori; • assistenti sociali dei Servizi sociali dei municipi; • operatori sociali dei centri di accoglienza per migranti e rifugiati; • operatori dei centri di assistenza sociale per migranti. La rilevazione ha previsto due differenti questionari: uno destinato agli operatori sociali ed uno agli operatori sanitari, al fine di mantenere nel campione la specificità delle professionalità coinvolte e quella dell’ap-

6 Le 8 zone individuate corrispondono alle seguenti aree: Castelli Romani (Guidonia, Tivoli, Frascati, Grottaferrata), Litorale sud 1 (Sezze, Latina, Ferentino), Litorale sud 2 (Aprilia/Ardea, Pomezia, Anzio/ Nettuno), Roma Ovest (Municipio 18, Fiumicino, Ladispoli, Ostia), Zona Nord (Viterbo, Orte, Bassano Romano), Roma Nord Est (Monterotondo, Municipio 4), Roma Est (Municipio 8, Municipio 7), Roma Centro (Municipio 1, Municipio 6).

56


Capitolo 2

proccio al tema oggetto di indagine. I due questionari sono stati concepiti con tre parti in comune al fine di assicurare il confronto tra le risposte degli operatori sociali e sanitari, e una parte specialistica connessa alle caratteristiche professionali dei differenti target della componente sanitaria: area medicina generale e pediatria, area psicologia e psichiatria, area ginecologia e ostetricia. L’impostazione del questionario è stata ampiamente discussa dall’intero gruppo di ricerca7: la struttura utilizzata è finalizzata a ottemperare agli obiettivi conoscitivi del progetto, in virtù dei quali sono state strutturate delle macro aree che riguardano la conoscenza del fenomeno, della Legge e delle Linee Guida, la formazione sul tema, gli stereotipi e pregiudizi esistenti, i casi di esperienza diretta di relazione con donne e bambine con Mgf, oltre ai dati strutturali dell’intervistato. I quesiti posti sono formulati in forma chiusa (scelta tra elenco di risposte, a risposta singola o multipla), che, data la numerosità del campione, era l’unica scelta possibile che garantisse un ritorno di informazioni standardizzate, congruenti, codificabili. La loro definizione – considerata la delicatezza e la complessità dell’oggetto dell’indagine – è stata di conseguenza molto accurata e testata più volte su soggetti appartenenti alla stessa popolazione di operatori sanitari e sociali in modo da poter individuare l’arco completo delle alternative possibili di ciascuna domanda. Nel questionario sono state inoltre inserite due batterie finalizzate alla valutazione della percezione del fenomeno tra gli operatori: si tratta di un approfondimento dell’aspetto conoscitivo che sarebbe rimasto limitato alla semplice risposta sulla conoscenza e sulle eventuali modalità di apprendimento. In considerazione dell’approccio complessivo del progetto Stop Mgf (che è stato concepito in associazione agli altri due progetti omonimi con azioni di formazione e sensibilizzazione), è stato ritenuto opportuno indagare su aspetti latenti e complessi come la reale conoscenza del fenomeno, il radicamento di eventuali stereotipi e luoghi comuni, atteggiamenti di coinvolgimento emotivo verso la pratica, atteggiamenti verso azioni di politica sociale8. 7 La discussione ha coinvolto in un paio di riunioni anche una referente dell’Istituto nazionale di medicina delle Migrazioni e per il contrasto alle Povertà (Inmp), capofila del progetto “Incidenza e percezione delle Mgf in operatori socio sanitari e mediatori interculturali”. Nell’ambito di tale progetto è stato adottato dunque il medesimo questionario per le indagini, svolte in diverse province del territorio nazionale. 8 Dopo la rilevazione è stato effettuato un controllo delle dimensioni delle scale attraverso l’analisi di scaling multidimensionale (per la quale ringraziamo la dott.ssa Loredana Cerbara dell’Irpps), una tecnica di analisi statistica multivariata che consente di ottimizzare l’analisi descrittiva, molto utilizzata in presenza di variabili ordinali

57


Le mutilazioni genitali femminili nel Lazio

2.1.3 Somministrazione e risultati del Field I rilevatori sono stati formati attraverso un briefing approfondito sugli obiettivi dell’indagine, sulla struttura del questionario e sulle tecniche di rilevazione. Ai rilevatori è stata inoltre fornita una copia delle nuove Linee Guida del Ministero della Salute da distribuire presso ognuna delle strutture contattate. La somministrazione ha coinvolto complessivamente 702 operatori sociali e 420 operatori sanitari. Di seguito sono illustrati i dati relativi ai questionari rilevati per provincia di rilevazione, distinti per operatori sociali e sanitari. Tabella 3 - Indagine sugli operatori sociali e sanitari per Provincia di rilevazione Tipologia operatori

Roma

Viterbo

Rieti

Latina

Frosinone

Totale

Frequenza

330

44

21

10

15

420

%

78,6

10,5

5,0

2,4

3,6

100,0

Frequenza

604

37

-

61

-

702

%

86,0

5,3

-

8,7

-

100,0

Sanitari

Sociali

Come previsto in ambedue le rilevazioni, la somministrazione dei questionari si è concentrata nella Provincia di Roma. Per quanto riguarda gli operatori sociali, essendo la componente degli insegnanti maggioritaria (77% delle interviste) nel gruppo delle tipologie di servizio, le province di Frosinone e Rieti non sono state considerate a causa della bassissima consistenza di alunni stranieri provenienti da paesi a rischio Mgf (cfr. Tabella 2). Per quanto riguarda l’indagine sugli operatori sanitari la rilevazione è stata a più ampio raggio in quanto la struttura dell’utenza potenziale è diversa da quella dei servizi sociali e scolastici, includendo anche la popolazione non insediata e regolarizzata, di conseguenza sono stati coinvolti presidi sanitari anche in zone a bassa incidenza di popolazione residente proveniente da paesi a rischio.

58


Capitolo 2

2.2 Caratteristiche del campione In tutti e due i gruppi del campione si osserva una netta maggioranza di operatrici di sesso femminile, in particolare tra i lavoratori sociali, dove la presenza di insegnanti è prevalente. Tabella 4 - Operatori intervistati secondo la tipologia e il sesso (dati assoluti e percentuali). Operatori Sanitari

Operatori Sociali

Sesso

m

f

T

m

F

T

Frequenza

81

339

420

108

594

702

%

19,3

80,7

100

15,4

84,6

100

La quasi totalità degli operatori sanitari è di cittadinanza italiana, mentre tra quelli sociali sono stati intervistati circa 30 operatori stranieri pari al 4% del totale. La composizione per età degli operatori sociali appare molto equilibrata tra le classi considerate dove la presenza di personale al di sotto dei 35 anni è superiore al segmento di coloro con più di 55 anni (25,3% contro il 18,2%) . Tra gli operatori sanitari la quota prevalente (37,8%) è quella di chi ha tra i 45 e i 54 anni, mentre è minoritaria la presenza di giovani (13%), e consistente la fascia dei lavoratori più anziani (22% ha più di 55 anni). Il livello di istruzione nel campione è alto, infatti il 46,4% tra gli operatori sanitari e il 47,3% tra quelli sociali) possiede una laurea specialistica, e tra i sanitari uno su tre ha una diploma universitario e il 24% di loro ha il diploma superiore, mentre questa quota è molto più alta tra gli operatori sociali (36,9%). Il campione degli operatori sanitari è formato in maggioranza da personale paramedico, perlopiù infermieri e ostetriche; il 34% sono medici, per la maggior parte ginecologi (21%). Questa distribuzione è da mettere in relazione ai servizi presso i quali è stata svolta la rilevazione, ossia per la metà reparti ospedalieri di ostetricia e ginecologia (51%) e consultori familiari (34%), per la quasi totalità pubblici.

59


Le mutilazioni genitali femminili nel Lazio

Grafico 1 - Composizione degli operatori sanitari per ruolo professionale

Tabella 5 - Strutture sanitarie di afferenza per numero di questionari rilevati Tipo di struttura

v.a.

%

Consultorio familiare

137

34,1

Reparto ospedaliero di ostetricia e ginecologia

205

51,0

Pronto Soccorso

14

3,5

Altro servizio di assistenza sanitaria

34

8,5

Altro

12

3,0

Totale

402

100,0

Analogamente nel campione di operatori sociali troviamo una prevalente presenza di insegnanti (68%) delle scuole dove si è svolta la rilevazione, seguiti da operatori e assistenti sociali che lavorano nei servizi sociali o nelle strutture sanitarie, mentre le altre figure professionali come mediatori ed educatori rappresentano circa il 6% degli intervistati nel settore sociale che prestano servizio in diverse strutture. Nell’ambito sociale la quota di strutture pubbliche pur mantenendo la maggioranza, scende al 79%, a favore di servizi di privato sociale e di volontariato. Gli operatori intervistati sono in maggioranza professionisti con una lunga esperienza di lavoro nel servizio, soprattutto la componente

60


Capitolo 2

docente nelle scuole, mentre il personale con meno esperienza è impiegato presso le associazioni ed i servizi sociali (educatori, animatori e operatori sociali hanno perlopiù fino a 5 anni di lavoro nel servizio)9. Grafico 2 - Composizione degli operatori sociali per ruolo professionale

Tabella 6 - Strutture di afferenza degli operatori sociali per numero di questionari rilevati Tipo di struttura

v. a

%

Struttura sanitaria

24

3,5

Scuola o altra struttura di formazione

475

69,3

Servizi sociali

146

21,3

Altro

40

5,8

Totale

685

100,0

Nelle strutture sanitarie coinvolte c’è una concentrazione di persone con una esperienza medio lunga, mentre il restante segmento è equamente ripartito in permanenze più brevi e più lunghe, tra questo i medici in maggioranza hanno permanenze superiori ai 16 anni di servizio, mentre sono soprattutto gli infermieri ad averne meno.

9 In generale si deve considerare che più spesso, nei servizi sociali, gli operatori sono occupati attraverso forme contrattuali atipiche che determinano un maggiore turn over delle figure professionali impiegate. Allo stesso tempo sono proprio questi servizi che si giovano della presenza di personale volontario. Questo comporta un più frequente scollamento tra gli anni di servizio nella stessa struttura rilevati e quelli di reale esperienza professionale nel settore.

61


Le mutilazioni genitali femminili nel Lazio

Grafico 3 - Distribuzione degli operatori intervistati per tipologia (sociali e sanitari) e anni di permanenza nel servizio (%)

2.3 Conoscenze del fenomeno, della normativa e delle Linee Guida 2.3.1 La conoscenza del fenomeno delle Mgf Nel complesso del campione la conoscenza del fenomeno delle Mgf è piuttosto diffusa, la maggioranza assoluta degli intervistati in ambedue i sottogruppi si dichiara a conoscenza dell’esistenza della pratica (83% tra i sanitari, 95% tra quelli sociali). Ma si tratta di un dato riferito alla generica conoscenza, quella approfondita riguarda invece una minoranza degli operatori intervistati: circa un quarto tra quelli sociali e quasi un terzo di quelli sanitari. La maggior parte degli intervistati dichiara di avere “qualche” conoscenza, e tra questi prevalgono nettamente gli operatori sociali. È da notare che quasi il 13,5% degli operatori sanitari esprime la propria ignoranza, ma al tempo stesso appare disponibile a un approfondimento (è solo il 4,4% tra gli operatori sociali), mentre il 3,9% non conosce il fenomeno e non intende approfondirlo (tra gli operatori sociali questa posizione è assolutamente trascurabile). Questo dato assume una particolare rilevanza alla luce delle modalità di selezione del campione che comprende servizi, presidi e scuole localiz-

62


Capitolo 2

zate in aree ad elevata concentrazione di comunità migranti provenienti da paesi a tradizione escissoria. Grafico 4 - Operatori sociali e sanitari secondo la conoscenza del fenomeno (% sul totale degli operatori sanitari e degli operatori sociali)

Le caratteristiche degli operatori rispetto alla conoscenza del fenomeno sono illustrate nei grafici che seguono, dove sono messi sotto osservazione alcuni gruppi target. Tali gruppi consentono di evidenziare le caratteristiche strutturali degli operatori che mostrano un grado di conoscenza del fenomeno che differisce (in più o in meno) da quello rilevato per il complesso degli intervistati (valore medio). Nel caso degli operatori sanitari sono stati selezionati coloro che hanno risposto di avere una conoscenza approfondita del fenomeno (28,1% del campione), chi ha dichiarato che non conosce il fenomeno ma sarebbe disposto ad approfondirlo (13,5%), e chi infine manifesta non solo la non conoscenza ma anche l’indisponibilità ad un eventuale approfondimento (3,9%); non è stata considerata la modalità “si, ne ho qualche conoscenza” in quanto in tale gruppo che rappresenta la moda della distribuzione, non emergono scostamenti significativi dalla media. Nel primo gruppo sono indicate le modalità che presentano percentuali di conoscenza approfondita del fenomeno Mgf superiori alla media degli operatori sanitari. Il profilo prevalente che emerge è quello di medici ospedalieri di sesso maschile, specialisti in ginecologia, con più di 55 anni ed una lunga esperienza professionale. Ma bisogna ricordare che alcuni di questi elementi distintivi sono portatori anche di altri aspetti specifici, come vedremo subito dopo.

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Le mutilazioni genitali femminili nel Lazio

Grafico 5 - Operatori sanitari secondo la conoscenza del fenomeno (conoscenza approfondita del fenomeno superiore alla media), per alcune caratteristiche strutturali (per 100 operatori sanitari con le stesse caratteristiche)

Grafico 6 - Operatori sanitari secondo la conoscenza del fenomeno (scarsa conoscenza del fenomeno e disponibilitĂ a conoscere), per alcune caratteristiche strutturali (per 100 operatori sanitari con le stesse caratteristiche)

Il grafico 6 illustra poi le caratteristiche di chi, pur riconoscendo la propria scarsa conoscenza del fenomeno, esprime la disponibilità ad approfondirlo: si tratta dunque di potenziali utenti di corsi di formazione o di iniziative di informazione. Sono in questo profilo soprattutto operatori che hanno una lunga esperienza di servizio, che operano in consultori familiari, con piÚ di 45 anni, operatori che non hanno mai effettuato corsi di formazione, ostetriche. Il terzo gruppo è formato da circa il 4% di tutti gli operatori sanitari, quindi quantitativamente poco interessante, ma assume rilevan-

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za a causa della posizione di chiusura verso il tema. Le caratteristiche prevalenti di chi ha espresso questa posizione riguardano operatori o appena entrati in servizio o di lungo corso, di sesso maschile, con più di 55 anni, che si dichiarano non credenti (grafico 7). Grafico 7 - Operatori sanitari secondo la conoscenza del fenomeno (non conoscenza del fenono) per alcune caratteristiche strutturali (per 100 operatori sanitari con le stesse caratteristiche)

La stessa operazione di individuazione di profili significativi è stata realizzata anche sugli operatori sociali. Di seguito sono riportati i grafici relativi a due gruppi rilevanti, quelli che hanno dichiarato una buona conoscenza del fenomeno (25% del campione) e coloro che desiderano approfondire le proprie conoscenze (4.4%). Il profilo del primo gruppo appare parzialmente diverso da quello degli operatori sanitari: emerge la competenza della figura dell’educatore/ animatore, assieme a quella dell’assistente sociale, in possesso di titolo universitario (sia laurea specialistica che diploma); prevale il sesso femminile, un’età tra i 45 e 54 anni ed una lunga esperienza di lavoro. Le caratteristiche più frequenti nel gruppo di coloro che invece, consapevoli di non sapere abbastanza, vorrebbero saperne di più sono rappresentate nel grafico 9. Questi sono caratterizzati da un titolo di studio inferiore alla laurea, sono operatori e mediatori, hanno una permanenza media nel servizio di riferimento, che più spesso è un’agenzia formativa, sono maschi e credenti.

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Le mutilazioni genitali femminili nel Lazio

Grafico 8 - Operatori sociali secondo la conoscenza del fenomeno (conoscenza approfondita del fenomeno superiore alla media) per alcune caratteristiche strutturali (per 100 operatori sanitari con le stesse caratteristiche)

Grafico 9 - Operatori sanitari secondo la conoscenza del fenomeno Mgf (scarsa conoscenza del fenomeno e disponibilitĂ a conoscere), per alcune caratteristiche strutturali (per 100 operatori sanitari con le stesse caratteristiche)

2.3.2 Le fonti della conoscenza del fenomeno Le modalitĂ di reperimento delle informazioni relative al fenomeno sono molto diverse tra i due gruppi di operatori esaminati. Per gli operatori sociali la conoscenza delle Mgf è prevalentemente legata alla consultazione dei media (47,1% delle risposte), di opuscoli informativi (20,7%) e al ricorso alla consapevolezza personale (11,3%); mentre per quelli sanitari l’acquisizione di competenze in materia sembra far parte inte-

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grante del percorso professionale, poiché le informazioni sono principalmente conseguite nella fase di formazione post universitaria (61,3% delle risposte), nella formazione sul posto di lavoro (29,4%) e nel corso dell’attività professionale (20,4%); il ricorso ai media o a pubblicazioni sia scientifiche che informative è meno significativo. Si tratta dunque di una differenza fondante in quanto incorporata nell’approccio stesso al fenomeno: per i sanitari l’informazione è soprattutto appresa in funzione della professione, mentre per gli operatori sociali sembra più legata ad una personale esigenza informativa, effettuata al di fuori dell’attività professionale. Grafico 10 - Le fonti sulla conoscenza del fenomeno (% totale delle risposte degli operatori sanitari e sociali)

Cerchiamo di approfondire le caratteristiche di questi due diversi approcci. Tra gli operatori sociali consideriamo il profilo di chi ha ottenuto informazioni e conoscenze soprattutto dai mass media, che è appunto la fonte più indicata nelle risposte. Innanzitutto possiamo affermare che l’uso delle fonti è collegato alla qualità della conoscenza acquisita, infatti nel grafico che segue (grafico 11) questa relazione è illustrata chiaramente: il ricorso ai media sembra più frequente tra chi dichiara di avere una conoscenza più superficiale delle pratiche di Mgf, mentre la consultazione della letteratura scientifica, così come la frequenza a corsi di formazione professionale e il personale autonomo apprendimento, sono associati ad una competenza maggiore sulle Mgf. Il profilo di chi usa i media come principale fonte di informazioni sulle Mgf (in misura superiore alla media del campione) è quello di un operatore in possesso del diploma, insegnante, che ha fatto almeno un corso 67


Le mutilazioni genitali femminili nel Lazio

di aggiornamento, che, meno della media del campione, sa che esistono la legge italiana sulle Mgf e le Linee Guida del Ministero della Salute. Questa conoscenza superficiale fa sÏ, tra l’altro, che questo gruppo ritenga che la pratica Mgf sia peculiare dei paesi musulmani. Grafico 11 - Le fonti per la conoscenza del fenomeno degli operatori sociali secondo la maggiore o minore conoscenza dichiarata (% delle risposte)

Grafico 12 - Operatori sociali secondo alcune fonti utilizzate per la conoscenza del fenomeno (uso dei mass media superiore alla media) per alcune caratteristiche (% sul totale delle risposte)

Il grafico 13 illustra invece le caratteristiche prevalenti di chi fa meno ricorso ai media a favore di altre fonti informative (soprattutto formazione professionale e specialistica), il profilo prevalente mette in evidenza la figura del mediatore culturale, delle strutture dei servizi sociali, della conoscenza delle legge e delle Linee Guida, di una corretta nozione sulla diffusione delle pratiche di Mgf e sul significato di garanzia per il matrimonio ad esse attribuito nelle societĂ dove vengono praticate. 68


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Grafico 13 - Operatori sociali secondo alcune fonti utilizzate per la conoscenza del fenomeno (uso dei mass media superiore alla media) per alcune caratteristiche (% sul totale delle risposte)

Vediamo ora le caratteristiche del campione degli operatori sanitari. In base alle risposte si può osservare che la maggiore competenza sul fenomeno Mgf è prevalentemente legata al reperimento di informazioni specifiche nel corso della formazione professionale, dell’esperienza professionale, alla consultazione della letteratura scientifica e infine alla conoscenza personale. Chi sono gli operatori che acquisiscono le competenze attraverso la formazione professionale? Il profilo che emerge dalle risposte del campione indica che chi acquisisce competenze attraverso la formazione specialistica e quella professionale è un medico ginecologo, lavora in consultorio familiare, ha seguito almeno una volta corsi specifici sulle Mgf, conosce sia la legge che le Linee Guida, e riconosce lo stereotipo che collega la Mgf alla tradizione musulmana. Grafico 14 - Le fonti per la conoscenza del fenomeno degli operatori sanitari secondo la maggiore o minore conoscenza (% delle risposte)

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Grafico 15 - Operatori sanitari secondo alcune fonti utilizzate per la conoscenza del fenomeno (formazione professionale e specialistica superiore alla media) per alcune caratteristiche (% sul totale delle risposte)

2.3.3 La conoscenza della legge 7/2006 e delle Linee Guida del Ministero della Salute Passiamo ora alla conoscenza della legge italiana (7/2006) sulle Mgf utilizzando lo stesso metodo di ricostruzione di un profilo basato sul confronto delle risposte che superano la media dell’intero campione. Ma prima di entrare nel dettaglio, dobbiamo constatare che il livello complessivo di conoscenza è decisamente basso: 31,7% per gli operatori sanitari e 29,7% per quelli sociali. Se anticipiamo l’illustrazione dei dati e consideriamo anche i risultati della conoscenza delle Linee Guida del Ministero della Salute ci troviamo di fronte ad una apparente contraddizione essendo queste ultime molto meglio conosciute dagli operatori sociali (per il 43,9%), ma soprattutto da quelli sanitari (per il 63,9%). Le cause vanno trovate probabilmente nella differente “utilità” dei due strumenti: mentre la prima rappresenta il quadro normativo teorico in cui si situa il fenomeno, distante dalla pratica quotidiana della professione, le Linee Guida hanno una immediata finalità applicativa, soprattutto nel settore sanitario. Inoltre è bene ricordare che queste ultime sono state pubblicizzate e divulgate dal Ministero della Salute. Tornando alla conoscenza della legge tra gli operatori sanitari, dalle risposte ottenute risulta che coloro che lavorano in un consultorio familiare o in un reparto ospedaliero di ginecologia, con una lunga anzianità di servizio, che hanno avuto una diretta esperienza di incontro con donne e/o bambine con 70


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Mgf o a rischio, hanno una migliore conoscenza della legge, rispetto alle altre caratteristiche strutturali del campione. Grafico 16 - Operatori sanitari secondo la conoscenza della legge italiana sulle Mgf, per alcune caratteristiche strutturali (per 100 operatori sanitari con le stesse caratteristiche)

Tra gli operatori sociali il profilo che segnala le caratteristiche di chi ha una conoscenza della legge superiore alla media è rappresentato da chi lavora nei servizi sociali, con la qualifica di assistente sociale, con una permanenza media nel servizio, che ha incontrato e assistito donne e/o bambine con Mgf o a rischio. Naturalmente quest’ultimo aspetto che accomuna ambedue i gruppi intervistati, rappresenta l’elemento acceleratore e forse scatenante della conoscenza della legge, ma non il prevalente, almeno per i sanitari per i quali sembrerebbe invece l’esperienza professionale o la specializzazione medica (ginecologia e consultorio). Grafico 17 - Operatori sociali secondo la conoscenza della legge italiana sulle Mgf, per alcune caratteristiche strutturali (per 100 operatori sanitari con le stesse caratteristiche)

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Le basi della conoscenza delle Linee Guida del Ministero della Salute, che per gli operatori sanitari sono ampie e diffuse, si fondano soprattutto sulla formazione – sia quella specialistica inclusa nel corso di studi, sia quella ottenuta attraverso corsi di formazione specifici – o anche attraverso la specificità della professione (ginecologi/e e ostetriche), o del servizio in cui si esercita (reparto ospedaliero di ginecologia). Grafico 18 - Operatori sanitari secondo la conoscenza delle Linee Guida sulle Mgf, per alcune caratteristiche strutturali (per 100 operatori sanitari con le stesse caratteristiche)

Grafico 19 - Operatori sociali secondo la conoscenza delle Linee Guida sulle Mgf, per alcune caratteristiche strutturali (per 100 operatori sanitari con le stesse caratteristiche)

Per gli operatori sociali la conoscenza delle Linee Guida è meno diffusa e sembra più chiaro il meccanismo di coinvolgimento messo in atto dall’incontro e dal contatto con donne e/o bambine con Mgf o a rischio, meccanismo che determina un processo di approfondimento e di infor72


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mazione. Educatori e animatori in servizio presso associazioni di privato sociale, sono i profili che dichiarano la migliore conoscenza delle Linee Guida, ma anche l’esperienza lavorativa e quella di vita sembrano essere fattori concorrenti alla conoscenza.

2.4 La formazione specifica degli operatori sul fenomeno Dalla lettura dei dati emerge come soltanto un gruppo molto selezionato di operatori sociali e sanitari abbia ricevuto una formazione specifica sul tema delle Mgf. In particolare solo il 17% degli operatori sanitari ha affrontato questa tematica attraverso la frequenza di corsi di formazione. Circa il 13% di questi ha seguito un solo corso formazione, mentre la percentuale di operatori sanitari che hanno seguito più di un corso risulta essere del tutto residuale (il 4%). Tale formazione specifica si è esplicata principalmente attraverso la frequenza di seminari e convegni organizzati da strutture sanitarie e tali corsi vertevano su temi essenzialmente di natura medico-sanitaria. Inoltre la frequenza di questi era di carattere prevalentemente facoltativo. La conoscenza da parte degli operatori sociali del fenomeno è solo in misura molto limitata imputabile alla frequentazione di corsi di formazione specifici. In effetti la percentuale di operatori che hanno indicato di aver seguito dei corsi di formazione è molto inferiore a quella relativa agli operatori sanitari e risulta essere pari al 3% del campione. Tra questi, la maggior parte ha seguito un solo corso. Così come rilevato con riferimento agli operatori sanitari, questo tipo di formazione è stata effettuata principalmente attraverso la partecipazione a seminari e convegni. Gli operatori sociali, però, mostrano una maggiore diversificazione nella natura dei corsi seguiti: questi, difatti, risultano essere stati organizzati sia dalle Università che da strutture socio-sanitarie e la loro frequenza era di carattere sia facoltativo che obbligatorio. Da ciò deriva una maggiore ampiezza delle tematiche trattate che vanno da aspetti legati alle conseguenze sanitarie a quelli relativi alle ricadute nell’ambito della sfera dei rapporti sessuali. Tuttavia emerge con estrema chiarezza come la maggioranza degli operatori ritenga opportuna una maggiore formazione degli operatori degli stessi servizi in cui questi operano sul tema delle Mgf: la necessità di una maggiore conoscenza del fenomeno viene, difatti, ritenuta opportuna da 73


Le mutilazioni genitali femminili nel Lazio

più dell’80% degli operatori, siano essi sociali che sanitari. Tuttavia è diversificata, tra operatori sociali e sanitari, la domanda di formazione espressa per quanto riguarda gli aspetti specifici del fenomeno. Oltre il 50% degli operatori sanitari intervistati (Grafico 20), difatti, ritiene che i professionisti che operano nel loro stesso ambito dovrebbero avere una conoscenza specifica degli aspetti clinici connessi alle Mgf. Riconoscono poi come centrale la conoscenza sia della legislazione italiana in materia che delle Linee Guida predisposte dal Ministero della Salute. In misura solo lievemente inferiore gli operatori sanitari mostrano, poi, interesse circa gli aspetti socio-psicologici del fenomeno e la conoscenza dell’origine e del significato di questa pratica. Solo una percentuale residuale degli intervistati invece ritiene necessaria la conoscenza degli aspetti legati al sostegno della donna (o della bambina) sottoposta a Mgf e dei servizi presenti sul territorio competenti in materia. Anche gli operatori sociali intervistati manifestano uno spiccato interesse verso quegli aspetti delle Mgf che tipicamente hanno maggiori implicazioni nel campo in cui gli intervistati operano (Grafico 21). Emerge, infatti, come necessaria una maggiore conoscenza sia degli aspetti socio-psicologici connessi alle mutilazioni genitali femminili che dell’origine di questa pratica e del suo significato per le donne che l’hanno adottata. Questi operatori mostrano inoltre interesse, seppur più lievemente, verso la conoscenza della legge italiana in materia e, più in generale, per gli altri aspetti che coinvolgono la comprensione e le possibilità di sostegno alle donne con Mgf.

Grafico 20 – Conoscenze che gli operatori sanitari dovrebbero avere sul tema

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Grafico 21 – Conoscenze che gli operatori sociali dovrebbero avere sul tema

Sia gli operatori sanitari che sociali, infine, ritengono che la modalità più efficace per la formazione dei loro colleghi sia quella dell’istituzione di corsi di aggiornamento specifici. La maggioranza di entrambi i gruppi riconosce infine l’interesse anche di convegni e seminari in materia, o la partecipazione a gruppi di discussione con le comunità e le associazioni di migranti originari di paesi a tradizione escissoria. Quest’ultima forma di approfondimento risulta particolarmente apprezzata dagli operatori sociali, che esprimono una valutazione positiva anche della diffusione di conoscenze attraverso opuscoli, depliant e materiale audio-visivo.

2.5 Percezione del fenomeno e stereotipi più diffusi Come accennato nell’introduzione metodologica, la percezione della pratica delle Mgf tra gli operatori intervistati è analizzata in profondità attraverso l’applicazione dell’analisi delle corrispondenze multiple, tecnica che consente di considerare simultaneamente diverse variabili restituendo la complessità multidimensionale al fenomeno. In questo paragrafo analizzeremo dunque solo alcune affermazioni proposte all’opinione degli operatori, quelle selezionate per la loro capacità di “assorbire” la variabilità delle risposte e di rappresentare atteggiamenti o comportamenti verso il fenomeno. Anche in questo caso la selezione è il frutto dell’applicazione di una tecnica statistica (analisi multi-scaling) che ha consentito l’individuazione delle affermazioni da utilizzare nell’analisi descrittiva. Gli item scelti appartengono alle due diverse batterie proposte agli intervistati all’interno di due domande, l’una relativa 75


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alle ragioni dell’adozione della pratica Mgf, la seconda, mirata a valutare la percezione della pratica. Lo scaling ha dato luogo all’identificazione delle seguenti affermazioni che possono sintetizzare gli atteggiamenti indagati nelle due batterie: • 18 b - Le donne adottano le Mgf per affermare la loro diversità • 18 c - Le donne adottano le Mgf per affermare le tradizioni familiari/ del gruppo etnico • 19b - Le Mgf non riguardano né interessano le società occidentali • 19d - Per preservare le tradizioni culturali di coloro che praticano le Mgf, sarebbe opportuno contrastarne i flussi migratori verso i paesi dove queste pratiche sono vietate • 19f - Le Mgf violano i diritti umani e devono essere eliminate Nel grafico che segue sono poste a confronto le percentuali di disaccordo complessivo sulle affermazioni citate dei due gruppi di operatori intervistati. Considerando l’insieme delle risposte si osserva una concordanza di opinioni tra gli operatori, con scostamenti di lieve entità, tranne che per quanto riguarda l’affermazione relativa allo “scoraggiamento” dei flussi migratori delle popolazioni provenienti da paesi a rischio Mgf e quella relativa alla sostanziale estraneità dei paesi occidentali rispetto all’adozione della pratica tradizionale. Grafico 22 - Disaccordo (completamente in disaccordo e in disaccordo) degli operatori sociali e sanitari su alcune affermazioni (% sul totale delle risposte di operatori sociali e sanitari)

Prima di entrare nel dettaglio delle opinioni sui singoli temi, l’impressione complessiva è che siamo alla presenza di un insieme di atteggiamenti equilibrati e abbastanza competenti sia sull’identificazione delle motivazioni del radicamento del fenomeno all’interno delle comunità portatrici 76


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della pratica, sia rispetto alla sua contestualizzazione nelle società di accoglienza. In questa prospettiva le opinioni degli operatori sociali appaiono più nette di quanto non siano quelle dei sanitari. 2.5.1 Affermazione della diversità verso altre culture Proseguiamo con l’analisi della prima affermazione relativa all’interpretazione della pratica Mgf come mezzo di affermazione di una diversità, di una peculiarità identitaria attraverso la reiterazione della pratica tradizionale. Osservando il grafico 23 notiamo come il disaccordo espresso dagli operatori sociali è più risoluto, laddove la posizione opposta di “molto d’accordo” rappresenta circa la metà della quota del gruppo degli operatori sanitari. Grafico 23 - Risposte degli operatori sociali e sanitari su “le donne adottano le Mgf per affermare la loro diversità rispetto ad altre culture” (% sul totale risposte di operatori sociali e sanitari)

Il profilo del gruppo operatori sociali che hanno espresso totale disaccordo sull’affermazione proposta non è particolarmente nitido in quanto espressione di una grande maggioranza; tale profilo individua comunque persone con la qualifica di operatore o animatore, con diploma universitario, che conoscono bene il fenomeno, le Linee Guida e la legge. Il disaccordo quindi sarebbe espressione di una più approfondita competenza sulle Mgf. Fuori dal coro la figura del mediatore culturale che si situa su posizioni più aperte all’accordo. Più articolate le opinioni degli operatori sanitari, la media del totale disaccordo è del 54% del campione e più ampio è il gruppo orientato verso l’accordo. Il profilo di chi ha espresso maggiore disaccordo indi77


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ca persone in possesso del diploma di scuola superiore, di professione ostetrica o ginecologo/a, che non hanno avuto esperienze dirette con donne con Mgf, che non conoscono le Linee Guida. In questo caso la posizione di disaccordo caratterizza operatori che hanno una competenza meno approfondita del fenomeno. 2.5.2 Tradizioni familiari o del gruppo etnico Sulla seconda affermazione troviamo posizioni molto simili nei due gruppi di operatori: in questo caso la maggioranza si sposta sul consenso verso il riconoscimento del valore e dell’importanza della comunità o del gruppo familiare sulla persistenza della pratica delle Mgf da parte delle donne. Si tratta di uno spostamento molto interessante rispetto alle opinioni provocate dalla precedente affermazione, in quanto il fuoco del problema si muove da una dinamica di contrapposizione tra culture ed identità, all’individuazione delle radici claniche della pratica e della sua rilevanza nella dinamica dei ruoli e delle relazioni familiari nelle comunità immigrate. Grafico 24 - Risposte degli operatori sociali e sanitari su “Le donne adottano le Mgf per affermare le tradizioni familiari/del gruppo etnico” (% sul totale delle risposte di operatori sociali e sanitari)

Il consenso su questa posizione caratterizza nel campione degli operatori sanitari soprattutto chi ha una buona conoscenza della legge italiana, in particolare delle Linee Guida, chi ha seguito corsi specifici ed ha avuto esperienze dirette di assistenza a donne con Mgf. Per quanto 78


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riguarda gli operatori sociali, il ritratto di chi esprime accordo è quello di una persona in possesso di laurea o diploma universitario, che lavora come operatore sociale o assistente sociale, ha avuto incontri con donne o bambine con Mgf, ha fatto corsi di formazione specifici sul tema e ha dichiarato una buona conoscenza del fenomeno. In sintesi l’accordo su questa affermazione è l’espressione di operatori competenti, che hanno approfondito il tema sia attraverso una specifica formazione che attraverso l’esperienza sul campo.

2.5.3 Interesse delle società occidentali per la pratica Il coinvolgimento, la necessità di intervenire sul tema delle Mgf è l’atteggiamento prevalente nel campione degli operatori, questo fa sì che il disaccordo sull’affermazione “Le mutilazioni genitali femminili non riguardano né interessano le società occidentali” appartenga alla maggioranza degli intervistati. L’accordo totale (o meno netto) è abbastanza consistente in ambedue i gruppi: il 22,3% degli operatori sociali e il 29,3% dei sanitari. Grafico 25 - Risposte degli operatori sociali e sanitari su “Le mutilazioni genitali femminili non riguardano né interessano le società occidentali” (% sul totale delle risposte di operatori sociali e sanitari)

È su questi che tentiamo di ricostruire le caratteristiche che li individuano, in base alle modalità di risposta superiori alla media di chi ha espresso l’accordo. Le caratteristiche sono molto simili nei due gruppi di operatori: si tratta di persone che hanno seguito almeno una volta 79


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una formazione specifica sul tema, che conoscono sia la legge che le Linee Guida, nel caso degli operatori sanitari hanno avuto anche esperienze dirette con donne con Mgf. Malgrado questo background, si rileva che tra questi è più comune l’idea che la pratica sia diffusa tra i settori meno abbienti delle società di origine e che sia tradizione della religione musulmana, e, e che i principali soggetti che dovrebbero occuparsi del problema siano i media e le forze dell’ordine o la magistratura. 2.5.4 Preservare le tradizioni culturali attraverso il contrasto dei flussi di arrivo Molto netta anche in questo caso la risposta di rigetto degli operatori verso l’ipotesi di isolamento delle popolazioni in cui è diffusa la pratica Mgf attraverso il contrasto dei flussi. La quota del disaccordo è ancora più ampia tra gli operatori sociali. Tuttavia è interessante notare come circa un quarto degli operatori sanitari e il 12,6% di quelli sociali si è espresso a favore di questa affermazione. Su questi sottogruppi – sebbene minoritari – si è concentrata l’analisi del profilo prevalente, in quanto target possibili di azioni di informazione e discussione sul tema. Grafico 26 - Risposte degli operatori sociali e sanitari su “Per preservare le tradizioni culturali di coloro che praticano le Mgf sarebbe opportuno contrastarne i flussi migratori verso i Paesi dove queste pratiche sono vietate” (% sul totale delle risposte di operatori sociali e sanitari)

Per quanto riguarda il settore sociale, tra chi ha espresso il suo accordo in maniera superiore alla media, emerge chi ha il diploma di scuola superiore, lavora nella scuola o nei servizi sanitari, di professione inse80


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gnante, che ha qualche conoscenza del fenomeno, conosce la legge, ma non le Linee Guida, e non ha avuto esperienze dirette con persone a rischio o con Mgf, ritiene che sia la comunità di appartenenza la principale istituzione interessata al tema, pensa che le Mgf siano caratteristiche dei paesi musulmani e praticate soprattutto dalle fasce meno abbienti della società. Il profilo corrispondente a chi nel settore sanitario ha manifestato il suo accordo, descrive un operatore in possesso di una laurea specialistica, che non ha effettuato né formazione o aggiornamento generale né specialistico sul tema, che non conosce bene il fenomeno, né la legge; ritiene che sia la comunità di appartenenza la principale istituzione interessata al tema, pensa che le Mgf siano caratteristiche dei paesi musulmani e praticate soprattutto dalle fasce meno abbienti della società, ma non sulle bambine. I due profili appaiono molto simili e indicano che posizioni di rifiuto, estraneità e chiusura sono più frequenti fra operatori che hanno una conoscenza parziale del fenomeno, sia in relazione alla mancata esperienza diretta che per la mancanza di formazione specifica. 2.5.5 Le Mgf come violazione dei diritti umani La Dichiarazione e Programma d’Azione della Conferenza Mondiale sui Diritti umani del 1993, ha costituito la cornice teorico-giuridica del riconoscimento dei diritti delle donne quali diritti umani. Nell’articolo 18 si afferma che “i diritti umani delle donne e delle bambine sono parte inalienabile, integrale e indivisibile dei diritti umani universali. La piena ed eguale partecipazione delle donne nella vita politica, civile, economica, sociale e culturale, a livello nazionale, regionale e internazionale e l’eliminazione radicale di tutte le forme di discriminazione basate sul sesso, costituiscono obiettivi prioritari della Comunità internazionale. La violenza sessuale e tutte le forme di molestia e sfruttamento sessuale, incluse quelle derivanti da pregiudizi culturali e da traffico internazionale sono incompatibili con la dignità e il valore della persona umana e devono essere eliminate”. L’affermazione dei diritti delle donne e delle bambine è stato un tema ricorrente nelle agende delle organizzazioni internazionali e nelle azioni di governi nazionali occidentali e africani nelle lotte delle donne e delle associazioni10. Questa grande attività di 10 Ci sono una serie di strumenti internazionali che riflettono l’impegno degli Stati a mettere fine alle pratiche dannose, tra cui le Mgf. Tali strumenti includono articoli della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, della Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne

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informazione, elaborazione e mobilitazione ha dato i suoi frutti. Come detto nella prima parte del paragrafo, le Mgf sono infatti percepite da quasi tutti gli intervistati come una violazione dei diritti umani, e questa opinione è molto profonda nella consapevolezza in quanto l’assoluta maggioranza degli operatori dichiara di essere completamente d’accordo con l’affermazione proposta. C’è anche chi – in posizione marginale – ritiene che la questione non sia in questi termini: sono circa il 10% degli operatori sociali e il 12% di quelli sanitari. Grafico 27 - Risposte degli operatori sociali e sanitari su “Le Mgf violano i diritti umani e devono essere eliminate” (% sul totale delle risposte di operatori sociali e sanitari)

Per concludere, possiamo dire che nel complesso la percezione del fenomeno tra gli operatori intervistati è in linea con la prospettiva internazionale che lo situa nell’ambito della tematica dei diritti umani. Le risposte nel loro insieme sottolineano una discreta competenza degli intervistati nell’orientarsi tra le motivazioni alla persistenza della pratica nelle comunità coinvolte, che privilegia una lettura attenta alle dinamiche interne alle comunità, piuttosto che ad una interpretazione della pratica come

e della Convenzione sui diritti dell’infanzia. Gli impegni sono reiterati nei piani d’azione scaturiti dalla Conferenza del Cairo su popolazione e sviluppo, dalla Conferenza di Pechino sulle donne e dalla Sessione speciale dell’ONU sull’infanzia. La risoluzione A/RES/56/128 dell’Assemblea Generale dell’ONU è dedicata alle pratiche tradizionali o consuetudinarie che riguardano la salute delle donne e delle bambine. Nel Protocollo sui diritti delle donne in Africa, “Protocollo di Maputo” che fa parte della Carta africana sui diritti umani e dei popoli, gli Stati africani si impegnano a intraprendere tutte le misure necessarie per eliminare le pratiche sociali e culturali dannose. Gli impegni degli Stati mettono in risalto che le Mgf sono una violazione dei diritti umani delle bambine e delle donne e che hanno gravi conseguenze su di loro. Essi riflettono inoltre un sapere condiviso che le Mgf sono una manifestazione della discriminazione nei confronti delle donne e delle bambine e della necessità della loro emancipazione.

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strumento di differenziazione rispetto ad altre culture. Infine la percezione del fenomeno in quanto membri di una società che accoglie donne e bambine provenienti da paesi a rischio, sottolinea la consapevolezza di un coinvolgimento civile, sociale e professionale del fenomeno e tende a non accettare come idonei al trattamento strumenti di isolamento o marginalizzazione delle popolazioni provenienti da paesi a rischio.

2.6 L’esperienza degli operatori sanitari che hanno incontrato casi di Mgf Dall’analisi dei dati emerge come poco meno di un terzo (30,7%) degli operatori sanitari intervistati abbia incontrato donne o bambine con Mgf11. Tuttavia l’incontro con persone che hanno adottato tale pratica risulta essere un evento non particolarmente frequente visto che la maggior parte ha incontrato solo un caso negli ultimi tre anni di servizio. Tra questi, utilizzando la classificazione internazionale, il tipo di mutilazione più frequentemente incontrata risulta essere prevalentemente l’infibulazione. In particolare, il contatto con soggetti mutilati avviene prevalentemente a seguito di gravidanze, mentre il ricorso da parte di donne con Mgf ai servizi sanitari per altre cause appare marginale (Grafico 28). È stato chiesto, poi, agli operatori che sono venuti a contatto con donne con Mgf, quali siano le principali difficoltà riscontrate nel trattare con questa tipologia di pazienti: le risposte date in merito appaiono di particolare interesse poiché permettono di evidenziare gli aspetti della ricezione che gli operatori stessi giudicano come carenti. Anche in questo caso le risposte ottenute appaiono polarizzate: il 54,4 % degli operatori individua nelle difficoltà linguistiche il principale ostacolo ad una proficua relazione con queste pazienti. Un altro aspetto di difficoltà che gli operatori evidenziano è connesso alla preparazione (giudicata come non adeguata) del personale sanitario stesso nel trattamento di problematiche connesse alle Mgf. Circa un quarto dei rispondenti ha inoltre 11 Si tratta soprattutto, su un totale di 114 operatori, di quelli che prestano servizio in strutture ospedaliere nei reparti di ostetricia e ginecologia (78 risposte positive), in consultori familiari pubblici (21 risposte), mentre è più raro l’incontro con persone vittime di Mgf presso il pronto soccorso (4 risposte positive) ed altri servizi sia pubblici che di privato sociale (altre 11 risposte). In maggioranza (67 casi su 114) è stato incontrato un solo caso di Mgf. Per quanto riguarda gli operatori sociali le esperienze di contatto ed incontro con donne e bambine a rischio è molto più bassa; in questo gruppo (complessivamente 41 operatori sociali) le maggiore incidenza è riscontrata nei servizi sociali del Comune e presso i servizi di informazione, orientamento e assistenza per migranti (rispettivamente 10 risposte affermative ognuno).

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riconosciuto forme di disagio per le richieste delle donne, difficoltà delle pazienti a seguire le indicazioni terapeutiche o situazioni di conflitto, mentre un 24% del gruppo totale venuto a contatto con donne con Mgf dichiara di non aver riscontrato nessuna difficoltà nella relazione. Infine, circa il 22% di coloro che hanno incontrato casi di donne con Mgf sono venuti anche in contatto con bambine che hanno pensato potessero essere a rischio di subire questa pratica: in questi casi il comportamento prevalente è stato duplice. Da un lato gli operatori tendono a fornire informazioni sulle problematiche connesse alle Mgf, dall’altro è stato frequentemente consigliato alla famiglia di consultare altri specialisti quali psicologi o assistenti sociali. Grafico 28 - Motivazione principale per cui le donne con Mgf si sono rivolte ai servizi sanitari

Grafico 29 – Difficoltà nelle relazioni con pazienti con Mgf.

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2.7 Analisi multivariata: una visione di sintesi Uno degli obiettivi centrali della parte quantitativa di questa ricerca è stato quello di rilevare le opinioni e gli atteggiamenti degli intervistati sul fenomeno Mgf. La loro analisi consente infatti di gettare luce sulla percezione che gli operatori hanno del fenomeno delle Mgf e questo appare di particolare rilievo quando si devono predisporre politiche di intervento per l’accoglienza e l’integrazione delle donne immigrate. Le scienze sociali ed economiche spesso non riescono a misurare direttamente quelle variabili che fanno riferimento a fenomeni complessi e multidimensionali quali lo status socio-economico o, come nel nostro caso, l’orientamento e la percezione verso un fenomeno. Allo scopo di sintetizzare quanto emerso e di individuare dei profili-tipo degli intervistati è stato scelto di combinare due distinte tecniche di analisi dei dati12: in primo luogo l’Analisi delle Corrispondenze Multiple (Acm), i cui risultati sono stati utilizzati come base per l’applicazione della Cluster Analysis. Questa seconda tecnica si prefigge di aggregare le unità di analisi (ossia gli intervistati) in gruppi in modo tale che gli individui appartenenti a ciascun cluster presentino dei profili di risposta simili rispetto alle variabili considerate. 2.7.1 L’analisi per gruppi I fattori individuati con l’Acm rappresentano il punto di partenza per la segmentazione del campione in gruppi le cui unità presentano delle opinioni omogenee in materia di mutilazioni genitali femminili: a tale omogeneità interna corrisponde la massima eterogeneità tra i raggruppamenti stessi. La procedura di cluster analysis ha portato all’individuazione di 4 gruppi che si differenziano per le opinioni espresse, e che sono stati definiti: i Contrari alla pratica, gli Informati, i Disinteressati e gli Ostili. Il primo gruppo (i Contrari alla pratica) rappresenta poco più della metà degli intervistati: gli appartenenti a questo cluster, pur non essendo en-

12 I testi che illustrano le principali tecniche di analisi multivariata sono numerosi: tra questi ricordiamo Bolasco (1999), Di Franco (2001), Ercolani et al. (1990) e Fabbris (1997). Le analisi dei dati sono state effettuate utilizzando il software Spad®.

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trati in contatto diretto con donne o bambine mutilate e non avendo conoscenze specifiche in materia, mostrano uno spiccato interesse verso questo tema, che ritengono debba interessare le società di accoglienza. Credono, quindi, che compito della società sia non solo quello di contrastare l’adozione di tali pratiche in quanto violano i diritti umani, ma anche quello di tutelare le donne che ne sono vittime. Coloro che fanno capo a questo gruppo ritengono, inoltre, che le donne siano indotte ad adottare queste pratiche perché costrette a farlo, rifiutando così motivazioni di stampo culturale o antropologico. Questo cluster è formato prevalentemente da operatori sociali che sono venuti a conoscenza dell’esistenza delle Mgf anche attraverso quanto comunicato dai mass media e forse proprio per questo dichiarano che i mezzi di comunicazione di massa dovrebbero occuparsene maggiormente. Ritengono, inoltre, che sia necessario aumentare la formazione degli operatori che potrebbero venire a contatto con donne o bambine che hanno subito Mgf e osservano che nelle strutture dove operano non siano previsti protocolli specifici da adottare a questo riguardo. Il secondo cluster (gli Informati) è formato da poco più del 21% del campione. Questo segmento mostra una conoscenza molto approfondita dell’argomento maturata attraverso una molteplicità di forme: si va dalla partecipazione a corsi di formazione specifici, alla conoscenza delle Linee Guida proposte dal Ministero della Salute e della legge dello Stato italiano in materia di Mgf. A questo si somma la conoscenza del fenomeno in base all’esperienza accumulata attraverso il contatto diretto con donne con Mgf. Coloro che fanno parte di questo cluster (in prevalenza operatori sanitari e mediatori culturali) ritengono che le Mgf riguardino anche le società di accoglienza, sottolineando le conseguenze di natura prevalentemente sanitaria che l’adozione di queste pratiche comportano. A differenza di quanto evidenziato con riferimento al primo cluster individuato, gli Informati reputano che l’adozione di tali pratiche sia fortemente legata a motivazioni di natura culturale e religiosa, che nei paesi di origine le Mgf siano sinonimo di purezza ed affermazione del sé e per questo non dovrebbero essere contrastate, ma semmai modificate in favore di riti meno traumatici. Ritengono, inoltre, che le società di accoglienza non dovrebbero occuparsi di questo tema, poiché i referenti più adatti a tale scopo sono proprio le comunità di appartenenza stesse. Infine qualora l’obiettivo primario fosse quello di salvaguardare

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la cultura e le tradizioni dei paesi dove le mutilazioni genitali sono diffuse, coloro che appartengono a questo gruppo riterrebbero che questo possa essere raggiunto attraverso lo scoraggiamento dei flussi migratori verso paesi dove tali pratiche vengono osteggiate. La terza classe individuata (i Disinteressati) rappresenta circa il 17% degli intervistati. Questo gruppo è composto da operatori che, pur avendo una scarsissima conoscenza del fenomeno, non ritengono che sia necessaria una maggiore formazione degli operatori sanitari e sociali su questo tema. Questi riconoscono, seppur non in modo deciso, la dannosità della pratica delle Mgf da un punto di vista sanitario e ne auspicano la graduale sostituzione con pratiche meno invasive. Incerta, però, è la loro posizione circa il ruolo che le società di accoglienza sono chiamate a giocare nel contrasto delle Mgf. I Disinteressati ritengono, infine, che le motivazioni che spingono le donne ad adottare tali pratiche siano di stampo prevalentemente culturale e legate alla tradizione dei Paesi di origine. In questo gruppo si riscontra una presenza consistente di ostetriche. L’ultimo cluster (gli Ostili) raccoglie il 9% degli intervistati. Questi ritengono con forza che il problema delle Mgf non debba interessare le società di accoglienza anche perché non le considera come una violazione dei diritti umani: probabilmente per questo, coloro che appartengono a questo cluster si mostrano contrari alla sostituzione delle mutilazioni con riti meno traumatici. Inoltre, dall’analisi dei dati non emerge quali siano le motivazioni che, secondo gli intervistati che fanno parte di questo cluster, spingono le donne ad adottare queste pratiche. Gli intervistati si mostrano, infatti, in disaccordo con tutte le motivazioni proposte nel questionario. Infine, questo gruppo si profila come trasversale tra le professioni considerate: in altre parole in questo cluster non prevale la presenza né di operatori sociali, né di quelli sanitari. Tabella 7 – I cluster individuati e la loro numerosità Cluster

Numerosità (%)

I Contrari alla pratica

52,3

Gli Informati

21,4

I Disinteressati

17,3

Gli Ostili

9,0

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Riferimenti bibliografici Abreu A., The Impact of International Migration on the practice of FGM, ECWR (Egyptian Center for Women’s Rigths) Il Cairo, Egitto, 2006 Andro A. et Lesclingand M., Les mutilations sexuelles féminines: le point sur la situation en Afrique et en France, Population & Sociétés n°438, ott., INED, Paris, 2007 Bolasco, S., Analisi multidimensionale dei dati, Roma, Carocci, 1999 L. Catania, J. Baldaro-Verde, S. Sirigatti, S. Casale, A.Omar Hussen, Indagine preliminare sulla sessualità di un gruppo di donne con mutilazione dei genitali Femminili (MGF) in assenza di complicanze a distanza, in A. Morrone, P. Vulpiani (a cura di) Corpi e simboli - Immigrazione sessualità e mutilazioni genitali femminili in Europa, Armando Editore, Roma, 2004 Conti, C., Gabrielli, D., Prati, S., e Strozza S., Misurare l’immigrazione e la presenza straniera: una sfida continua per la statistica ufficiale, relazione presentata alla Nona conferenza di Statistica Ufficiale, Roma 15-16 dicembre 2008 Di Franco, G., EDS: esplorare, descrivere e sintetizzare i dati, Milano, Franco Angeli, Roma, 2001 Ercolani, A.P., Areni, A. e Mannetti, L., La ricerca in psicologia, Roma, NIS. 1990 Fabbris, L., Statistica multivariata. Analisi esplorativa dei dati, Milano, McGraw-Hill, 1997 Foundation for Women’s Health, Research and Development (Forward), A Statistical Study to Estimate the Prevalence of Female Genital Mutilation in England and Wales, 2007 Jager F., Schulze S., Holfield, Female genital mutilation in Switzerland: a survey among gynecologists, Swiss Med Wkly 132: 259-264, 2002 OHCHR, UNAIDS, UNDP, UNECA, UNESCO UNFPA, UNHCR, UNICEF, UNIFEM, WHO, Eliminating Female genital mutilation - An interagency statement, WHO, Geneva, Switzerland. 2008 Regione Emilia Romagna, Servizio Assistenza Distrettuale Pianificazione e Sviluppo dei Servizi Sanitari e Consultori Familiari, Le Mutilazioni Genitali Femminili (Mgf) nella popolazione immigrata (dicembre 2000 - febbraio 2001) Risultati dell’indagine regionale, Programma della Regione Emilia-Romagna finalizzato alla attivazione, alla gestione e alla riorganizzazione dei consultori (legge n. 34/96 Settore Materno Infantile) finanziamento riferito alle annualità ‘97-’98, Bologna, 2002 88


3. L’accesso ai servizi territoriali, la cura e la prevenzione verso le donne con Mgf di Giorgia Serughetti

3.1 Premessa metodologica e descrizione dei servizi selezionati Nel presente capitolo vengono analizzati i risultati delle interviste che hanno coinvolto responsabili e operatori dei servizi territoriali1 con l’obiettivo di ricostruire un quadro delle conoscenze, competenze ed esperienze specifiche di intervento in materia di Mgf presenti nel territorio laziale. I testimoni qualificati coinvolti nella ricerca sono stati selezionati e contattati all’interno di due macro-tipologie: quella del personale sanitario dei servizi pubblici e quella del personale dei servizi sociali ed educativi, sia pubblici che del privato sociale2. Nella rilevazione sono stati coinvolti, in primo luogo, i servizi dedicati alla popolazione migrante e richiedente asilo/rifugiata (in particolare alle donne e ai bambini) e quelli ad alta affluenza di utenza straniera (scuole con percentuali rilevanti di alunni stranieri, servizi sociali e sanitari che rappresentano un riferimento importante per le comunità immigrate presenti sul territorio). In secondo luogo, sono state individuate, all’interno delle categorie di operatori so1 La lista completa dei testimoni qualificati con i relativi ruoli ed enti di riferimento è in fondo al voume. 2 Sono stati contattati, nel comparto sanitario: ginecologi, pediatri, ostetriche e assistenti sociali dei consultori familiari; ginecologi, ostetriche e infermieri dei reparti di ostetricia e ginecologia; medici degli ambulatori per Stp. Le figure socio educative coinvolte sono state: insegnanti delle scuole materne, elementari, medie inferiori e superiori; mediatori culturali; assistenti sociali dei Comuni e dei Municipi; operatori dei centri di accoglienza per migranti e rifugiati, dei centri di ascolto e orientamento, dei centri educativi per l’infanzia immigrata; medici e infermieri che operano presso ambulatori del privato sociale.

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pra menzionate, figure di esperti e specialisti, noti per l’esperienza e la competenza nel trattamento delle Mgf, acquisita in Italia o nei paesi a tradizione escissoria. Nel caso dei servizi dedicati o ad alta affluenza di utenza straniera, in occasione del primo contatto telefonico con le ricercatrici gli operatori hanno talvolta affermato di non avere conoscenze ed esperienze specifiche da riferire sul tema. Ai fini dell’indagine, che mirava a risultati di carattere esplorativo, si è voluto tuttavia raccogliere anche le loro testimonianze; l’esperienza stessa dell’intervista ha d’altronde suscitato in molti soggetti la curiosità di sapere, la presa di coscienza rispetto all’inadeguatezza delle conoscenze proprie e del servizio e stimolato una relativa richiesta di formazione. Per quanto riguarda la distribuzione territoriale, circa la metà degli intervistati opera in strutture ubicate sul territorio del Comune di Roma, e l’altra metà comprende le aree provinciali individuate con l’indagine quantitativa come più significative per la presenza di migranti originari dei paesi in cui si praticano le Mgf.

3.2 L’accesso ai servizi e l’espressione dei bisogni delle donne migranti L’analisi dei servizi territoriali dedicati o ad alta prevalenza di utenza straniera ha consentito di delineare un panorama caratterizzato da offerte di prestazioni e strategie d’accoglienza molto diversificate, sia in base alla natura dei servizi (settore pubblico, privato sociale, volontariato), sia in base alla tipologia e all’area di intervento (medicina generale, medicina specialistica, orientamento, accoglienza residenziale, servizi sociali e servizi educativi). Rispetto all’accesso e ai bisogni espressi (e inespressi) dalle donne migranti gli intervistati hanno proposto pertanto una varietà di esperienze e punti di vista che necessita di essere trattata in maniera analitica e differenziata in base ai settori di intervento. All’interno di questi ultimi si potranno inoltre rilevare le particolarità caratterizzanti le diverse tipologie di servizio. 3.2.1 I servizi d’orientamento e accoglienza L’offerta di sportelli di prima accoglienza e orientamento per le popolazioni migranti nel territorio laziale rappresenta in gran parte l’esito di 90


Capitolo 3

iniziative intraprese e sostenute nel corso di decenni da organizzazioni del terzo settore e del volontariato. Sono servizi caratterizzati da una bassa soglia d’accesso, da una notevole flessibilità nell’intervento e da una forte attenzione alle dinamiche relazionali con l’utenza. Per quanto riguarda in particolare l’utenza femminile, dall’esperienza dell’associazionismo femminista sono nati in anni recenti centri di ascolto e accoglienza e progettualità specifiche per donne straniere3. Le donne costituiscono tuttavia una componente importante anche dell’utenza dei servizi non orientati al genere ma dedicati agli stranieri, che spesso operano da decenni e sono diffusamente conosciuti tra i migranti4. Le provenienze principali delle donne che si rivolgono ai servizi di ascolto e orientamento rappresentano uno specchio delle presenze straniere sul territorio laziale e romano, nonché del maggiore o minore grado di autonomia delle componenti femminili delle comunità. Una parte consistente dell’utenza è costituita da donne provenienti dall’Est Europa, che non necessitando di pratiche di regolarizzazione si rivolgono ai servizi menzionati soprattutto per problematiche legate all’inserimento sociale (soprattutto casa e lavoro) e per difficoltà di relazioni con il partner, violenze domestiche, cause per l’affidamento di minori. Le stesse difficoltà ed esigenze di supporto provengono da donne dell’America Latina e dell’Africa, che presentano tuttavia ad un primo livello anche problemi di regolarizzazione della presenza, apprendimento della lingua italiana e orientamento ai servizi sanitari e sociali. Meno frequente pare invece il ricorso a questi centri e sportelli da parte delle donne di provenienze geografiche pur consistenti, come quella bengalese e quella cinese. In entrambi i casi, ma con modalità differenti, le ragioni risiedono nella forza della dimensione comunitaria e, nel caso delle donne del sud-asiatico, nella scarsa autonomia della componente femminile. Tra le migranti africane vi è un’incidenza rilevante di richiedenti asilo e rifugiate, donne provenienti da “paesi di fuga” (Etiopia, Eritrea, Somalia, Sudan, Togo, Camerun) che spesso non sono accolte e assistite in strutture ad hoc ma vivono in insediamenti abitativi abusivi più o meno organizzati all’interno di gruppi più vasti. È il caso delle residenti negli edifici occupati di via Collatina, della zona della Romanina e di Castro Pretorio. 3 Tra questi, hanno partecipato alla ricerca i referenti di: area informativa immigrate della Onlus Assolei, lo “Sportello Donna” della cooperativa sociale Osala, l’associazione Dedicato Donne. 4 Tra le strutture coinvolte di questa tipologia: la Casa dei Diritti Sociali (Cds), la Comunità di Sant’Egidio, la Caritas Diocesana, i Centri Servizi per l’Immigrazione Csi della Provincia di Roma.

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Per le richiedenti asilo le domande più pressanti riguardano l’assistenza legale per la compilazione della documentazione e la preparazione all’audizione con la Commissione Territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato. Come dichiara un’operatrice: “Noi spesso siamo il primo contatto per la gente che scappa. Ai ragazzi africani che ci inviano spieghiamo come fare richiesta d’asilo e diamo gli indirizzi utili, e a questo livello le richieste sono le stesse degli uomini”. (int. 6, Casa dei Diritti Sociali)

Come gli uomini, inoltre, le donne migranti o rifugiate presentano come problemi primari il lavoro e la sistemazione alloggiativa; quest’ultima diviene una richiesta di particolare urgenza per le donne sole con figli a carico, o per i casi di separazione dal partner. Per l’integrazione lavorativa sorgono occasionalmente progetti specifici5, che diventano un riferimento importante anche per le dimensioni di fragilità più specifiche delle componenti femminili delle comunità migranti: violenze subite, esposizione al rischio di maltrattamenti, separazione dal partner, cura dei figli; fragilità da cui derivano ulteriori bisogni di ascolto e modalità più profonde di relazione con i volontari e il personale dei servizi. 3.2.2 Le strutture residenziali Dato il loro mandato e la strutturazione dei servizi, i centri d’accoglienza residenziale per migranti e rifugiati offrono all’utenza femminile una presa in carico più globale rispetto alle problematiche espresse, e spazi d’ascolto e opportunità di relazione più continuative. Si tratta in parte di centri che fanno parte della rete del Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (Sprar) e in parte di centri gestiti da organizzazioni del terzo settore in convenzione con il Comune di Roma6. Presso questi centri troviamo attualmente soprattutto donne provenienti dai paesi afri5 Sono stati coinvolti a tale titolo i referenti dei progetti “Pensieri Migranti” attivo nell’area di Monterotondo e dei comuni limitrofi e lo sportello della Cooperativa sociale Osala nel primo Municipio di Roma. 6 Nella ricerca sono stati intervistati operatori e responsabili di servizi d’accoglienza sia riservati a un’utenza femminile (la Casa di Giorgia del Centro Astalli, la casa di Colli Aniene della Caritas Diocesana, la Casa Internazionale dei Diritti Umani delle Donne gestita dalla cooperativa Osala, i centri di Sezze Romano e Roccagorga gestiti dalla cooperativa Karibù) sia aperti a entrambi i sessi ma con una rilevante presenza di donne sole e nuclei familiari (il centro Pedro Arrupe del Centro Astalli e il centro Sprar gestito dall’Arci presso i Comuni di Celleno, Viterbo e Bassano Romano, il Centro Enea del Comune di Roma).

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cani (Corno d’Africa e Africa sub-sahariana), ma stanno aumentando i nuclei familiari provenienti dall’Afghanistan, dall’Iraq, dal Kurdistan e da altri paesi asiatici. Sebbene le richieste avanzate dalle donne a questo tipo di servizi possano in parte coincidere con quelle che pervengono ai centri di ascolto e orientamento, la possibilità di contare su un sostentamento e una sistemazione alloggiativa di breve-medio periodo (da 3 mesi a un anno), nonché su un’assistenza legale più strutturata per la domanda d’asilo, riduce in parte nelle utenti la pressione delle incombenze materiali, disponendole ad intraprendere percorsi più complessi di accoglienza e integrazione. La prima tappa del percorso di integrazione è dato dall’apprendimento della lingua italiana, cui segue la ricerca di un lavoro e di una casa, per il conseguimento dell’autonomia entro la scadenza del periodo d’accoglienza. Contestualmente le donne vengono iscritte al Sistema Sanitario Nazionale e sottoposte a tutte le visite e le cure necessarie per il ripristino della salute fisica e psichica. Gli operatori dei Centri di accoglienza prendono atto di diverse problematiche, ma sono costretti a lavorare in primo luogo sulle condizioni minime di benessere: “Noi ci siamo rese conto che molte donne sono vittime di violenza. Fanno uscire un sacco di cose e ci rendiamo conto che hanno bisogno di più cure, anche psicologiche. Non puoi fare integrazione se non hai fatto prima un recupero psico-fisico”. (int.1, Coop. soc. Karibù)

Tra i principali bisogni espressi dalle donne emergono la sicurezza personale, che implica sia la sopravvivenza sia la protezione contro violenze e maltrattamenti a cui rischiano di essere esposte fuori, ma anche disagi “esistenziali”, derivanti dalla solitudine, dalle perdite subite, dal trauma della fuga. Per rispondere a questo secondo tipo di bisogni i servizi hanno attivato percorsi di psicologia e psichiatria, che variano nelle modalità ma sono accomunati dall’obiettivo di perseguire una rapida riabilitazione e garantire un sostegno nei frangenti problematici della richiesta d’asilo e del primo contatto con il paese d’accoglienza. La dimensione residenziale favorisce inoltre la condivisione delle sofferenze e delle preoccupazioni nelle occasioni informali che scandiscono la vita in comune (la preparazione dei pasti, le attività quotidiane, eccetera).

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3.2.3 Gli ambulatori di medicina generale Per i bisogni più direttamente legati alla salute le donne migranti, specialmente se irregolari, vengono indirizzate dai centri di ascolto e orientamento agli ambulatori di medicina generale per stranieri. Per i migranti che non possono iscriversi al Ssn questi ambulatori costituiscono un servizio di medicina di base analogo a quello fornito dal “medico di famiglia”, e sono presenti nella maggior parte dei presidi ospedalieri7. In questi servizi i medici analizzano la domanda di salute, effettuano visite di medicina generale e possono inviare ai reparti ospedalieri per accertamenti diagnostici e visite specialistiche, per le quali vengono rilasciate impegnative mediche. Accanto all’offerta del servizio pubblico sono tuttavia presenti sul territorio anche strutture ambulatoriali gestite da organizzazioni del terzo settore, nate in alcuni casi da servizi di accoglienza e orientamento, che funzionano con il contributo di medici volontari8. I numeri dell’utenza che fa riferimento a questi servizi risultano molto consistenti, sia per la loro collocazione in quartieri ad elevata presenza di comunità migranti, sia per l’attenzione all’accoglienza e alla diversità culturale su cui poggia la filosofia d’intervento delle organizzazioni menzionate, sia infine perché l’invio può avvenire mediante i centri di orientamento gestiti dalla medesima sigla. Per i migranti forzati, richiedenti asilo e rifugiati, esistono infine servizi specifici, come l’ambulatorio del Centro Astalli e il Sa.Mi.Fo., Servizio Salute Migranti Forzati, gestito da: Centro Astalli, Medici Contro la Tortura e l’Asl Rma. Esperienze differenti, sono il servizio di medicina di base proposto presso gli edifici occupati di via Collatina e della Romanina, il primo gestito da Medici Contro la Tortura, il secondo da Cittadini del Mondo. Le donne tendono a ricorrere ai servizi ambulatoriali per l’assistenza in gravidanza e in presenza di una sintomatologia specifica o generale

7 Nel corso della rilevazione sono stati intervistati medici e responsabili degli ambulatori per stranieri del Policlinico Umberto I, dell’Irccs San Gallicano, dell’Azienda ospedaliera Santa Maria Goretti di Latina. 8 Nella rilevazione sono stati coinvolti gli ambulatori dell’Amsi (Associazione Medici Stranieri in Italia), quelli della Caritas di Roma e di Tivoli, della Casa dei Diritti Sociali e di Medici Contro la Tortura, l’Ambulatorio di Medicina Solidale e delle Migrazioni di Tor Bella Monaca, quello dell’associazione Cittadini del Mondo nel X Municipio, e l’ambulatorio gestito dall’associazione Vita di Donna presso la Casa Internazionale delle Donne (aperto a cittadine italiane e straniere).

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(in particolare, secondo le testimonianze, malattie respiratorie e dismetaboliche acquisite). Molto rara è invece l’attenzione alla prevenzione, come fa notare il direttore dell’Istituto San Gallicano: “Uomini e donne immigrati hanno molta meno tendenza a pensare alla prevenzione, non vedono perché devono andare dal medico se non stanno male, anche se adesso iniziano ad avere comportamenti più simili a quelli degli italiani”. (int. 78, Istituto San Gallicano)

Per promuovere la prevenzione sanitaria vengono attivati a macchia di leopardo da parte dei servizi offerte di screening: tra quelli citati ne registriamo per la prevenzione di tumori della tiroide e del seno e per le malattie sessualmente trasmissibili. Gli ambulatori, sia pubblici sia gestiti dal terzo settore, hanno al proprio interno nella maggior parte dei casi figure di mediatori o di medici stranieri che, facilitando la comunicazione con l’utenza, rappresentano un punto di forza del servizio. Per le donne residenti in centri d’accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati il percorso relativo alla salute fa invece parte della presa in carico complessiva e viene avviato fin dalla fase iniziale di orientamento, attraverso la collaborazione del centro con i servizi sanitari: “La persona viene orientata dal medico di base, invitata a fare tutte le analisi. Viene spiegato anche il senso degli accertamenti che devono fare... ma anche quali sono i loro diritti, il fatto che devono porre loro le domande, perché di fronte a un medico spesso si sentono inibite... cerchiamo di aiutarle a comprendere meglio il panorama culturale e medico in cui si trovano, che è completamente differente da quello da cui provengono”. (int. 3, Sa.Mi.Fo.)

Rispetto agli uomini, le donne migranti e rifugiate tendono a intrattenere con i servizi sanitari un rapporto più frequente, soprattutto per le necessità legate a gravidanza e parto. Gli ambulatori che dispongono di un servizio di ginecologia possono talvolta avviare, attraverso le cure in gravidanza, un percorso di fidelizzazione delle pazienti e di presa in carico più globale della salute di madre bambino. Quando invece non sono nella condizione di offrire un’assistenza specifica ostetrico-ginecologica, inviano le utenti alla rete dei consultori e ai reparti specialistici ubicati negli istituti ospedalieri di ginecologia e ostetricia. Anche per la cura e la vaccinazione dei figli, quando non è presente un pediatra internamente all’équipe, il rimando è ai servizi consultoriali e ospedalieri. 95


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3.2.4 I consultori e i servizi di ginecologia-ostetricia e pediatria La rete dei consultori costituisce un riferimento essenziale per l’assistenza sanitaria alle donne immigrate e rifugiate nella fase della gravidanza e della preparazione al parto, essendo accessibile, in qualità di servizio di medicina di base, anche alle irregolari con tessera Stp. I consultori coinvolti nella rilevazione sono tra quelli a maggiore presenza di utenza straniera, con particolare attenzione alla componente delle donne provenienti dai paesi a rischio Mgf, e sono stati selezionati sia per l’esistenza di pratiche di accoglienza e progetti specifici indirizzati alle donne straniere che per la segnalazione di altri testimoni intervistati9. Pur nella sostanziale omogeneità delle richieste espresse, legate alla tipologia del servizio, i bisogni delle donne migranti sono risultati in parte differenziati in base ai gruppi nazionali. I testimoni intervistati segnalano per alcuni paesi di provenienza, in particolare la Romania, il problema del frequente ricorso all’interruzione di gravidanza, che non rilevano invece nelle stesse dimensioni tra le donne africane o di altre aree geografiche; per queste la gravidanza – secondo le operatrici intervistate – conserva un forte carattere simbolico e di prestigio sociale. Per tutte le donne straniere risulta comunque problematico il ricorso alla contraccezione, su cui sono state attivate iniziative di educazione alla sessualità consapevole. Anche la cultura sanitaria dei paesi di provenienza influisce sulle modalità d’accesso e fruizione di questi servizi: per la maggioranza delle donne africane la visita effettuata in gravidanza rappresenta la prima visita ginecologica in assoluto, poiché, in genere, non si praticano specifiche azioni preventive per salvaguardare la salute riproduttiva attraverso la prevenzione. Per ulteriori esami diagnostici o interventi ginecologici, oltre che per il parto e l’interruzione di gravidanza, le donne vengono indirizzate ai reparti di ginecologia e ostetricia degli ospedali presenti sul territorio della stessa Asl o vicini alla zona di residenza della paziente, o ancora in cui sono presenti specializzazioni particolari e/o strumenti d’accoglienza per le donne straniere (per esempio la presenza di mediatori linguisticoculturali o personale medico proveniente dagli stessi paesi d’origine). Nel corso della rilevazione sono stati individuati e coinvolti diversi presi9 I Consultori coinvolti nella ricerca fanno capo ai territori delle Asl Rma, Rmb e Rmc, di Tivoli e di Latina e ai Municipi romani (I, V, VI, VII, VIII, IX).

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Capitolo 3

di ospedalieri di particolare interesse sia per l’elevata affluenza di donne migranti nei servizi di ginecologia e ostetricia sia per specificità nel trattamento di problematiche inerenti la medicina delle migrazioni, tra cui le Mgf10. 3.2.5 I servizi sociali ed educativi In stretta cooperazione con il personale medico, presso alcuni consultori e ambulatori lavorano assistenti sociali che si preoccupano della presa in carico di situazioni di particolare disagio in cui versano donne e famiglie. In casi di violenze, abusi, difficoltà legate all’alimentazione e all’alloggio si cerca dunque di attivare un intervento integrato tra diverse figure professionali. I servizi sociali territoriali, in generale, sostengono nelle situazioni di più grave fragilità sia le donne straniere sole che quelle con figli, e le famiglie, che in territori con alta incidenza di residenti stranieri possono rappresentare anche il 30% dell’utenza11. Le richieste riguardano nella maggior parte dei casi la possibilità di trovare alloggio e di inserire i figli nei servizi per l’infanzia. Questo bisogno è particolarmente sentito dai nuclei monoparentali madre-figlio, che rappresentano una casistica sempre frequente tra la popolazione immigrata12, che non potendo contare sulla famiglia allargata per la cura dei figli nei primi anni di vita si trova ad affrontare gravi situazioni di disagio nel tentativo di conciliare il ruolo materno con i tempi di lavoro. Per rispondere a simili esigenze anche le organizzazioni del terzo settore hanno attivato iniziative di sostegno quali doposcuola per il supporto allo studio, centri socio educativi, attività di affidamento part-time presso famiglie che accolgono i bambini durante l’orario di lavoro delle madri. Tali attività prevedono sempre un forte coinvolgimento dei servizi sociali e sanitari territoriali, e una stretta relazione con i genitori che prevede di frequente anche gruppi di ascolto, attività interculturali e di sostegno alla genito-

10 I servizi coinvolti, individuati come i più rilevanti nell’area romana e Laziale: l’A.O. San Camillo Forlanini con il polo interdipartimentale per la L. 194/78 e il Centro regionale per l’assistenza ed il trattamento chirurgico delle complicanze sanitarie correlate alle Mgf, il Policlinico Casilino, il Policlinico Umberto I, l’Istituto San Gallicano, l’Ospedale Sant’Eugenio, l’Ospedale di Civita Castellana e il Santa Maria Goretti di Latina. 11 Secondo la testimonianza della responsabile dei Servizi Sociali del Comune di Ladispoli, mentre l’incidenza della popolazione straniera nel territorio comunale si attesta intorno al 12%, la percentuale di stranieri che usufruisce dei Servizi arriva a costituire oltre un quarto dell’utenza complessiva. 12 B. Spinelli, Immigrazione e servizio sociale, Carocci, Roma 2005

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rialità13. Per quanto riguarda i minori, i servizi di integrazione principali sono rappresentati naturalmente dalle scuole. Data l’incidenza crescente della componente straniera tra gli alunni delle scuole materne, elementari e medie, molti distretti scolastici hanno avviato iniziative di accoglienza e sostegno, nonché percorsi di intercultura per stimolare il dialogo e la reciproca conoscenza e sportelli d’ascolto per alunni e famiglie. Talvolta è previsto l’ausilio di mediatori per facilitare l’inserimento dei ragazzi nelle classi e per facilitare il colloquio genitori-docenti, ma si tratta di un servizio considerato ancora piuttosto carente dai testimoni intervistati.

3.3 Le Caratteristiche delle donne con Mgf che accedono ai servizi di cura Considerato il focus della presente ricerca, nella rilevazione è stata posta un’attenzione particolare sull’individuazione e descrizione dell’utenza proveniente dai paesi a media o alta prevalenza delle pratiche di Mgf. I servizi che con maggiore frequenza effettuano la presa in carico di donne africane sono quelli attrezzati dalle accoglienze residenziali per richiedenti asilo e rifugiati, nonché i servizi sanitari che vi sono collegati. Secondo i dati della Commissione Nazionale per il diritto d’asilo, infatti, tra i primi 5 paesi di provenienza dei richiedenti asilo in Italia nel 2007, 4 sono Stati africani: l’Eritrea, la Nigeria, la Costa d’Avorio e la Somalia14. Presso la Commissione Territoriale di Roma sono state inoltre esaminate numerose domande provenienti dall’Etiopia e dalla Guinea15. Si tratta di paesi che, secondo i dati dell’Oms, presentano le seguenti prevalenze di pratiche di Mgf: Eritrea (89%), Nigeria (19%), Costa d’Avorio (42%), Guinea (96%) e Etiopia (74%)16. Secondo i testimoni intervistati sono inoltre presenti sul territorio gruppi numericamente piccoli di donne richiedenti asilo provenienti da altri paesi africani a tradizione escissoria con diverse prevalenze: Burkina Faso, Togo, Repubblica Democratica del 13 I servizi coinvolti nell’indagine: il doposcuola della Onlus Casa Azzurra (III Municipio), i “Centri delle Mamme e dei Bambini” della Onlus Virtus Ponte Mammolo (Municipi V e VIII), il centro interculturale Celio Azzurro (Municipio I). 14 I dati elaborati dall’Unhcr per il Dossier Statistico 2008 Immigrazione, Caritas/Migrantes 15 Caritas di Roma, Osservatorio romano sulle migrazioni, Rapporto 2007. 16 I dati dell’OMS sono alla Tabella 1, cap. 1

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Capitolo 3

Congo, Camerun. È stato quindi di particolare importanza verificare se la presenza di queste donne, che con una certa probabilità possono presentare situazioni di mutilazione genitale, ha espresso problematiche specifiche ai centri di accoglienza residenziale, e ai servizi di ginecologia che vi sono collegati. Al contempo, è stata rilevata l’esperienza di contatto con pazienti che provengono da questi paesi, ma anche di altri dell’area sub sahariana, da parte di operatori dei servizi ospedalieri e consultoriali sul territorio, nonché tra i servizi di orientamento di tipo sociale ed educativo. I casi di Mgf segnalati dagli intervistati (perlopiù operatori dei servizi sanitari che comprendono servizi di ginecologia) riguardano le seguenti aree geografiche: Corno d’Africa (Etiopia, Eritrea, Somalia), Sudan ed Egitto; Africa francofona (Senegal, Costa d’Avorio, Guinea, Mali, Mauritania, Burkina Faso, Togo, Repubblica Democratica del Congo, Camerun); e Africa anglofona (Nigeria e Ghana). 3.3.1 Casi provenienti dal Corno d’Africa, Sudan ed Egitto Molti testimoni che operano in servizi di medicina generale, ginecologia e ostetricia ricordano di aver incontrato per la prima volta donne infibulate nei primi anni ‘90. Si trattava di donne somale richiedenti asilo, giunte in Italia con i primi consistenti movimenti di profughi in fuga dalla guerra civile. “Ero direttore sanitario dell’Ambulatorio nel periodo tra il ‘90 e il ‘94. Se mi avesse intervistato in quel momento avrei detto che era un problema. Prevalentemente le utenti erano somale, quindi vedevamo le infibulazioni, che tra le forme di mutilazione sono sicuramente quelle più drammatiche. Però non si sapeva niente: io stesso ho dovuto andare a documentarmi, a parlare con dei colleghi somali per informarmi.” (int. 26, Area Sanitaria Caritas)

In seguito, nel corso dell’ultimo decennio, i flussi provenienti dalla Somalia si sono trasformati, e le testimonianze concordano nel rilevare una netta diminuzione dei casi di infibulazione che si sono presentati ai servizi. Le pratiche infibulatorie appartengono tuttavia, in misura minore, anche alle tradizioni di alcuni gruppi dell’Eritrea, dell’Etiopia e del Sudan, paesi dai quali, a partire dai primi anni del Duemila, sono cresciuti numericamente i migranti e richiedenti asilo. Dal Corno d’Africa provie99


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ne oggi, secondo le testimonianze degli operatori, la maggior parte delle donne che riportano mutilazioni genitali. La forma più lesiva dell’integrità dell’apparato genitale – riscontrata in prevalenza fra le somale, ma anche tra le donne etiopi ed eritree – è, appunto, l’infibulazione; ovvero l’operazione di asportazione di clitoride, piccole labbra, e parte delle grandi labbra, con cucitura della vulva, che restringe l’apertura dei genitali esterni fino alla dimensione di un piccolo foro, che dovrebbe permettere la fuoriuscita di urina e sangue mestruale. A questo tipo di mutilazione sono collegate le più gravi complicazioni di natura ginecologica e ostetrica derivanti dalle Mgf con cui gli operatori si sono confrontati: infezioni del tratto urinario e infezioni pelviche croniche, formazione di cheloidi, cisti e fistole, dismenorrea, problemi durante la gravidanza e il parto. Non sempre viene riscontrata, nei casi di infibulazione, l’asportazione della clitoride. In alcuni casi l’apparato genitale viene lasciato intatto e coperto da una parziale cucitura delle grandi labbra. In queste condizioni la modificazione viene considerata reversibile e dà luogo a conseguenze meno gravi per la salute riproduttiva della donna: “Di quelle che ho visto più o meno il 50% aveva la clitoride asportata, l’altro 50% era solo cucito. E quella è assolutamente reversibile come cosa”. (int. 80, Policlinico Casilino)

In un’ulteriore variante viene effettuata la clitoridectomia e l’escissione superiore delle piccole labbra, con cucitura parziale delle grandi labbra. Quest’ultima operazione, così come la forma più radicale dell’infibulazione, oltre che tra le donne del Corno d’Africa è stata riscontrata dagli operatori anche in alcune sudanesi, che però sono presenti sul territorio regionale in numeri molto ridotti. Tra tutte queste comunità si rilevano infine anche forme di Mgf del I e II tipo, ovvero la clitoridectomia e l’escissione. La maggior parte degli operatori tende a negare l’esistenza di pratiche di mutilazione genitale tra le donne provenienti dall’Egitto, a dispetto dell’altissima prevalenza indicata dalle stime dell’Oms (96%). Solo una testimonianza riporta casi di infibulazione riscontrate tra le donne egiziane: “ma è come se fossero state infibulate tutte in ospedale, perché in ambiti di natura funzionale non c’è niente. Più tra le donne che vengono da aree rurali si riscontrano danni”. (int. 78, Istituto San Gallicano).

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3.3.2 Casi provenienti dai paesi dell’Africa francofona Alcuni paesi dell’Africa francofona di tradizione escissoria sono attualmente paesi d’origine di gruppi di richiedenti asilo che risiedono nel Lazio. È il caso di Costa d’Avorio, Guinea, Burkina Faso, Togo, Repubblica Democratica del Congo e Camerun. Nel corso della ricerca, attraverso le interviste agli operatori dei servizi specifici per questa categoria, è stato quindi possibile rilevare la presenza e le caratteristiche di pratiche di mutilazione genitale tra queste nazionalità. Le testimonianze degli operatori dei servizi territoriali con elevata utenza di donne straniere hanno inoltre permesso di individuare i casi di Mgf relativi a donne provenienti dall’Africa francofona, in particolare Senegal, Mali, Mauritania. Gli operatori intervistati concordano nel ritenere residuali le pratiche di mutilazione genitale tra le popolazioni femminili di queste aree geografiche. Le donne che riportano segni di mutilazione nella totalità dei casi menzionati hanno subito interventi del I o II tipo: piccoli tagli sulla clitoride, clitoridectomia, escissione. Interventi che i testimoni non escludono possano, in qualche caso, passare inosservati nel contesto di una visita ginecologica o di un travaglio, specialmente se molto lievi e se non danno luogo a complicazioni sanitarie e/o sessuali. La casistica raccolta mediante le interviste risente quindi anche dell’assenza, presso alcuni servizi di ginecologia e ostetricia, di un’attenzione specifica per queste problematiche; fatto che induce a tenere traccia solo quando sorgono tra le utenti delle complicazioni più gravi, causate da interventi più lesivi, come l’infibulazione. Fanno eccezione servizi come il Centro di riferimento regionale per le mutilazioni genitali femminili presso l’ospedale San Camillo e l’Irccs San Gallicano, dove operano specialisti che prestano attenzione, oltre che all’intervento mirato sulla mutilazione o le sue conseguenze mediche, anche alla raccolta di casistiche e alla correlazione di mutilazioni genitali e patologie vulvari, e sono quindi interessati alla rilevazione anche di forme minor. Dice infatti un ginecologo: “Me ne accorgo io che ci sono delle mutilazioni, ma se non ci fosse un occhio esperto a volte... un ginecologo distratto potrebbe anche non accorgersene. Spesso ho difficoltà anche io ad accorgermene”. (int. 88, Istituto San Gallicano)

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Si è rivelato inoltre difficile raccogliere testimonianze sulle specificità delle pratiche nei diversi gruppi nazionali, specialmente se presenti in piccoli numeri sul territorio regionale, come è il caso di molti dei paesi menzionati. La maggioranza degli intervistati stenta infatti a ricordare le provenienze geografiche delle donne con mutilazioni genitali che si sono presentate ai servizi, con l’eccezione dei paesi del Corno d’Africa (anche per la gravità delle mutilazioni riscontrate) e della Nigeria. 3.3.3 Casi provenienti dall’Africa anglofona Tra i paesi dell’Africa anglofona spicca per numerosità la componente nigeriana, la seconda nella regione Lazio tra le comunità migranti interessate dalla pratica delle Mgf. Le testimonianze raccolte tra gli operatori concordano nel segnalare comunque una frequenza molto bassa di casi di mutilazioni tra le donne di questa provenienza: “Le nigeriane di solito non sono mutilate; ne è arrivata qualcuna mi pare di ricordare…” (int. 80, Policlinico Casilino) “Da 10 anni a questa parte vedo delle mutilazioni – qua sono quasi tutte nigeriane – ma non vedo più le lesioni devastanti che vedevo una volta tra le donne somale. Vedo piccole chiusure di cappucci clitoridei. Non ci faccio molto caso… Ci sono anche molte nigeriane non mutilate, ma comunque non mi sento di parlare di mutilazioni. Quando le vedo, vedo delle cose non catastrofiche”. (int. 81, Consultorio di Torrenova)

I segni di mutilazione riportati da queste donne segnalerebbero soprattutto pratiche del primo tipo: clitoridectomia o escissione parziale della clitoride e delle piccole labbra. 3.3.4 La Condizione socio-economica Secondo le testimonianze convergenti del servizio SaMiFo, di Medici Contro la Tortura e della Casa dei Diritti Sociali, le donne richiedenti asilo e rifugiate possono essere distinte, rispetto alla condizione socioeconomica, in due gruppi principali: le donne del Corno d’Africa e quelle dell’Africa francofona. Le seconde sono descritte dagli operatori come donne relativamente autonome, intraprendenti e consapevoli della propria condizione e delle opportunità che offrono i servizi territoriali:

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“È vero però che quelle che riescono a scappare sono le donne con più risorse, culturali ed economiche. Sono quelle che possono pagarsi un volo aereo e hanno i soldi per corrompere i funzionari. Sono élite di commercianti, agricoltori, sono persone che hanno molte risorse”. (int. 4, Medici Contro la Tortura)

Si tratta dunque di donne con un buon livello di istruzione, che sono inoltre facilitate nella relazione con il paese d’accoglienza dalla perfetta conoscenza della lingua francese, che rappresenta un’importante lingua veicolare per la prima comunicazione con gli operatori dei servizi e le istituzioni e un punto di partenza per il successivo apprendimento dell’italiano. Le buone risorse personali e la facilità di comunicazione consentono a queste donne di orientarsi rapidamente nei percorsi di regolarizzazione e integrazione. Molte sono d’altronde accolte in strutture residenziali, all’interno delle quali tali percorsi sono agevolati. Molto diversa è la situazione delle donne del Corno d’Africa, molte delle quali risiedono in edifici occupati e coabitano con nuclei familiari e singoli della stessa provenienza geografica. Nelle occupazioni, dove vivono centinaia di persone, vigono meccanismi di autogestione, con il ruolo direttivo di un comitato e la strutturazione di alcuni servizi interni (negozi, ristoranti, bar), che esprimono una volontà di autorganizzazione comunitaria. “La dimensione comunitaria per il Corno d’africa è fortissima, enorme. È l’unico loro orizzonte. Vivono all’interno delle comunità, con i loro ritmi, la loro lingua… Non hanno proprio delle aspettative rispetto all’inserimento. Sono rari quelli che ce l’hanno”. (int. 6, Casa dei Diritti Sociali)

Nei gruppi dei propri paesi d’origine le donne trovano una protezione che la rete dei servizi esistenti non è in grado di garantire, anche per la difficoltà di trovare posto nelle strutture d’accoglienza. Al contempo, tuttavia, nei contesti comunitari si riproducono logiche di subordinazione e diseguaglianze di genere che possono ostacolare i percorsi di integrazione autonoma delle donne, oltre a dare luogo a episodi di violenza, sia all’interno del gruppo familiare, sia talvolta ad opera di estranei o coabitanti: “Succede spessissimo che subiscano violenze sessuali in questi contesti. Due o tre anni fa c’è stata un’ondata di eritrei ed etiopi, e c’erano

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ragazze che si erano ritrovate qui accanto alle persone da cui scappavano. Quindi c’è anche questa violenza sul territorio”. (int. 5, Casa dei Diritti Sociali)

Il rapporto che le donne del Corno d’Africa intrattengono con i servizi è spesso problematico e incostante, e la comunicazione con gli operatori ostacolata dallo scarso livello di conoscenza della lingua italiana e di altre lingue veicolari. Anche il livello d’istruzione è mediamente piuttosto basso. Alcune non sono in alcun modo scolarizzate. È il caso soprattutto delle donne che provengono dalle aree rurali. Nelle opinioni degli intervistati, la bassa frequenza di accesso ai servizi deriva tuttavia per queste donne, anche dalla loro capacità di ricreare sul territorio una dimensione comunitaria forte, una rete allargata di sostegno familiare. Inoltre, il progetto migratorio della maggior parte di loro tende verso altre destinazioni, come la Norvegia, l’Inghilterra e in generale paesi in cui sono presenti altri membri del gruppo familiare o comunità consistenti della stessa provenienza; un dato che in qualche modo spiega un minore interesse all’integrazione. Per quanto riguarda l’apprendimento della lingua e l’impiego lavorativo le donne si rivelano comunque, in queste comunità, molto più attive e intraprendenti degli uomini. Per quanto riguarda infine le donne nigeriane e quelle appartenenti agli altri gruppi nazionali menzionati, le caratteristiche socio-economiche risultano piuttosto varie e gli intervistati non ne forniscono descrizioni specifiche. Rispetto alla comunità nigeriana si può sottolineare, in questo contesto l’insistenza degli operatori sulla problematica della prostituzione. Riguardo ai bisogni espressi da queste donne infatti gli intervistati mettono in evidenza i vissuti di violenza, ma anche i problemi ginecologici, derivanti dall’esperienza prostituzionale. Inoltre, vengono sollevati sospetti circa l’esistenza di percorsi di cura intra-comunitari, estranei al Ssn, a cui le donne nigeriane farebbero ricorso soprattutto per l’interruzione di gravidanza: “Abortiscono con il citotek – dice un’ostetrica intervistata - che è un gastroprotettore, e lo mettono nella vagina. Questa è un’informazione che bisogna avere, nessuna donna romana lo sa; quindi la cosa strana è che tutto quel gruppo etnico sia informato su questo. […] Le nigeriane sicuramente hanno dei canali loro, sono ben organizzate. […] Quando arrivano in ospedale è proprio perché devono, dopo aver provato con i loro contatti interni alla comunità”. (int. 20, Vita di donna).

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“Molte vengono qui che hanno già abortito, e non in una struttura. Arrivano qui già in piena emorragia. Queste sono le situazioni che abbiamo osservato”. (int. 21, Ambulatorio di medicina solidale e delle migrazioni)

Numerosi anche gli esiti di violenza, domestica o perpetrata da soggetti esterni al nucleo familiare, su cui intervengono i medici del Pronto Soccorso e degli ambulatori di base. Un’intervistata racconta di situazioni anche molto gravi: “Ne abbiamo viste alcune torturate. Torturate qui. Con bastonature, rasoiate…” (int. 21, Ambulatorio di medicina solidale e delle migrazioni). Più in generale, nella comunità nigeriana viene rilevato un problema di relazione tra i generi: la sudditanza delle donne al volere del maschio e una visione tradizione dei ruoli sessuali, che comporta problemi anche sotto l’aspetto sanitario. Per esempio: la difficoltà di convincere gli uomini a effettuare il test per l’Hiv o a usare il preservativo; la riluttanza della donna a effettuare una contraccezione orale, che comporta minori rischi di gravidanza, e il frequente ricorso all’interruzione. Il legame con i costumi tradizionali è messo in evidenza da parte degli operatori anche sottolineando la pratica della circoncisione maschile, che viene effettuata in casa dal padre, con gravi rischi di infezioni e di emorragie per il bambino. Gli intervistati, per quanto riguardano la comunità nigeriana, hanno più frequentemente portato l’attenzione sui rischi e le conseguenze sanitarie di questa pratica che sulle mutilazioni genitali femminili. “Noi qui abbiamo il problema della mutilazione genitale maschile, la circoncisione - dice un medico - viene effettuata in casa, soprattutto nella comunità nigeriana, perché loro devono rispettare delle regole tradizionali e non hanno accesso all’ospedale. Quindi quello su cui noi cerchiamo di insistere con le mamme è il tema della mutilazione genitale maschile e le complicanze”. (int. 21, Ambulatorio di medicina solidale e delle migrazioni)

3.4 Le esperienze di relazione e cura delle donne con problematiche relative alle Mgf 3.4.1 Conoscenze e competenze per il trattamento delle Mgf Riguardo la presenza di conoscenze specifiche sul fenomeno delle Mgf 105


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tra gli operatori e di competenze per il loro trattamento e la prevenzione emergono situazioni differenziate, sia in base alla tipologia dei servizi, sia in relazione alla storia e configurazione specifica di ognuno di essi. Complessivamente si possono identificare tre situazioni principali: a. la prima è quella dei servizi in cui non sono presenti conoscenze e competenze specifiche sul problema delle Mgf. La grande maggioranza degli operatori dei servizi sociali, delle scuole, ma anche di chi lavora presso centri specifici per migranti e rifugiati, dichiara di non aver mai ricevuto una formazione mirata sul tema. La conoscenza diffusa tra il personale è, per lo più, di tipo mediatico e, in qualche caso, relativa ai curricula di studi universitari dei singoli operatori. “Non siamo mai stati raggiunti da campagne di informazione o sensibilizzazione, dice un intervistato. Noi sinceramente non abbiamo mai neanche preso coscienza di questo problema, prima ancora di sapere come affrontarlo”. (int. 10, Centro Astalli).

b. La seconda situazione è quella dei servizi pubblici e del privato sociale, d’area sociale e sanitaria, in cui operano singoli specialisti (ginecologi/e, pediatri, ostetriche, medici volontari, assistenti sociali, educatori, mediatori...) adeguatamente preparati sugli aspetti teorici e le modalità di trattamento e prevenzione delle Mgf. Data la scarsa diffusione di questo tipo di competenze specifiche, questi operatori rappresentano un riferimento non solo per gli altri operatori del servizio ma anche per gli altri servizi territoriali che si sono trovati a confrontarsi per la prima volta con casi delicati da gestire: “Un po’ di anni fa abbiamo avuto una ragazza somala che aveva subito una mutilazione genitale e ci aveva chiesto informazioni per la figlia piccola, se in Italia si poteva fare… In quel caso abbiamo organizzato un incontro con uno dei Medici Contro la Tortura, che aveva fatto un paio di seminari con gli operatori presentando studi recenti fatti in Italia e in altri paesi, buone prassi… così, per gestire questa cosa”. (nt. 5, Casa dei Diritti Sociali)

Molto importante si rivela, ai fini della diffusione di conoscenze specifiche all’interno del servizio, la presenza di operatori e mediatori provenienti dai paesi ad alta prevalenza di Mgf, nonché di operatori che abbiano preso parte a progetti di cooperazione allo sviluppo in quei paesi e che hanno maturato al riguardo una formazione di base;

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c. la terza, è rappresentata dai servizi in cui la conoscenza del fenomeno e le competenze relative all’intervento e alla prevenzione sono diffuse e condivise. Si tratta in prevalenza di reparti ospedalieri di ginecologia e ostetricia, e consultori. In alcuni casi l’aggiornamento del personale sui temi della medicina delle migrazioni, in cui rientra il tema delle Mgf, viene favorita e gestita dalla direzione del servizio, in altri è il risultato dell’iniziativa autonoma degli operatori che usufruiscono così delle occasioni formative offerte da altre strutture presenti sul territorio. Quest’ultima tipologia comprende una netta minoranza dei servizi territoriali, e gli intervistati più preparati in questo ambito segnalano la scarsa conoscenza del fenomeno e la necessità di un’azione informativa e formativa diffusa e sistematica. Al riguardo un intervistato rileva che: “Rispetto a vent’anni fa c’è sicuramente tra i servizi una conoscenza crescente dell’argomento, ma le competenze sono ancora insufficienti. C’è bisogno di maggiore formazione, e dovrebbe essere fatta da ginecologhe donne, possibilmente provenienti da quegli stessi paesi. Perché anche il modo di parlarne può cambiare gli atteggiamenti”. (int. 14, Medici Contro la Tortura).

Dalle interviste sembra che le Linee Guida del Ministero della Salute hanno raggiunto numerosi servizi sanitari pubblici, mentre non sono state sufficientemente diffuse tra i servizi di ascolto e orientamento, nei centri d’accoglienza e nelle scuole: sono pochi infatti i testimoni che affermano di averle visionate o lette. Un aspetto che risulta particolarmente carente nei percorsi formativi sulle Mgf per medici e ginecologi è la trasmissione di competenze specialistiche sulla deinfibulazione. Le persone intervistate che effettuano interventi di questo tipo affermano di essersi informate autonomamente sulle possibilità e le modalità dell’operazione, e lamentano l’assenza di occasioni di aggiornamento sul territorio stimolate dalle istituzioni: “Mi sono attrezzata per fare io l’operazione in presenza di Mgf perché non potevo mandarle da un altro medico, ma qualunque ginecologo lo può fare. Nel corso della specializzazione universitaria dovrebbe essere riservata una sessione a questo”. (int. 16, Medici Contro la Tortura)

Secondo un altro intervistato, la mancanza di formazione, sia su interventi di tipo specialistico come la deinfibulazione, sia sulle più generali modalità di accoglienza e cura delle donne con Mgf, è da mettere in 107


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relazione sia con la riduzione delle risorse umane e finanziarie a disposizione dei servizi, che con la scarsità dei casi incontrati: “Sulle mutilazioni la preparazione è scarsa ancora. Ma corrisponde anche alla realtà del fenomeno, perché veramente al momento risultano esserci solo alcuni casi sporadici e non sappiamo l’entità del numero sommerso, non visibile”. (int. 9, Amsi)

3.4.2 La frequenza di casi riscontrati dai servizi territoriali In base alle interviste la frequenza di casi di donne con Mgf incontrati dai servizi risulta al momento relativamente bassa, specialmente se confrontata con la situazione negli anni ‘90: “Qualche caso è emerso alcuni anni fa, ne ricordo 2 o 3. È veramente un fenomeno residuale. Te ne accorgi solo al momento del parto, perché fra l’altro queste donne non contattano la struttura ospedaliera per quello che potrebbe essere un problema, ossia per questioni di Mgf. Che è un problema serio, se ne accorgono al momento del ricovero”. (int. 73, Ospedale Santa Maria Goretti di Latina) “Facendo la specializzazione al Policlinico Casilino, in ospedale, ho incontrato dei casi, 3 in tutto, intorno al 2004. Qui al Poliambulatorio Casilino ho incontrato 2 casi. Erano escisse, un’escissione del primo tipo”. (int. 8, Amsi) “In vent’anni ho incontrato circa una ventina di donne infibulate. Tutte somale. Perché le eritree (ho avuto e ho tantissime pazienti eritree) fanno una forma minor”. (int. 16, Medici Contro la Tortura) “Io ho lavorato al Policlinico Casilino 6 anni e non ho praticamente assistito al parto nessuna donna con questo problema. In tutto 2-3 probabilmente e le ho seguite in travaglio. Ad altre colleghe è successo 2 o 3 volte nell’arco degli anni. Quindi i casi di infibulazione non sono così frequenti.” (int. 80, Policlinico Casilino)

Una situazione molto differente, ovviamente, è quella segnalata dai due poli territoriali più attenti e maggiormente specializzati in questo ambito, ovvero l’ospedale San Camillo e il San Gallicano, che attraggono, anche per questo, un’utenza di donne con Mgf più consistente e continua. Attualmente il San Camillo segnala una situazione di notevole afflusso di donne con problematiche legate alle mutilazioni in seguito allo sviluppo di canali di accesso con le strutture di accoglienza di dimensioni impo108


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nenti, che ospitano le donne giunte più di recente e provenienti massicciamente dai paesi del Corno d’Africa. Il San Gallicano dichiara un flusso di casi Mgf ai propri servizi di “300-400 donne l’anno” di cui circa un terzo presenta problematiche su cui vengono poi effettuati interventi. A questo proposito va tuttavia segnalato che, secondo l’esperienza del ginecologo dell’Istituto, i casi di infibulazione sono molto rari e queste donne mostrano forti resistenze davanti a un ginecologo maschio. Tra i casi incontrati di mutilazioni del I e II tipo, il ginecologo sottolinea inoltre che questi interventi a volte lasciano segni tanto leggeri che potrebbero essere raramente rilevati da un occhio inesperto. A questi tipi di mutilazioni non paiono inoltre essere associati problemi ginecologici che richiedano un intervento specifico. Da un lato, quindi, è possibile supporre che la frequenza di casi rilevati sia da mettere in relazione anche con il grado di attenzione e preparazione del personale sanitario nell’accogliere le donne con Mgf, nell’individuare il tipo di lesione e nel predisporre interventi specifici. Dall’altro, tuttavia, le testimonianze convergono almeno su un punto: i casi di infibulazione, la forma più distruttiva di mutilazione genitale, che in Italia a partire dagli anni ’80 ha portato il problema delle Mgf all’attenzione del personale sanitario (e in seguito degli operatori sociali, dei politici e dei media), ha registrato negli ultimi anni una notevole diminuzione. Se tale dato potrebbe in prima analisi indicare una diminuzione graduale della pratica nei paesi d’origine, una valutazione più attenta dei dati sui flussi migratori sul territorio regionale induce a considerare con cautela una simile ipotesi. La diminuzione di casi di infibulazione incontrati dai servizi è infatti da riportare in larga misura alla diminuzione negli accessi delle donne provenienti dalla Somalia, dovuto in parte all’andamento altalenante dei flussi, in parte alle diverse forme di insediamento sul territorio. Negli ultimi mesi, l’aumento dei flussi di richiedenti asilo provenienti proprio dai paesi del Corno d’Africa - che solitamente riguardano persone molto giovani - potrebbe confermare l’ipotesi della diminuzione della pratica nei paesi di origine, o al contrario invertire la tendenza di diminuzione registrata presso i servizi territoriali. 3.4.3 L’emersione del problema presso i servizi sociali e di medicina di base La domanda di cura proveniente dalle donne con Mgf risulta essere, 109


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nell’esperienza degli operatori dei servizi territoriali, non solo rara ma anche a-specifica, ovvero non espressamente legata alle mutilazioni subite. Alcuni operatori sia sociali che del comparto sanitario hanno riferito di casi isolati, talvolta veicolati da richieste indirette, come la richiesta di informazioni per “un’amica” che vorrebbe farsi de-infibulare; o riguardo la possibilità di effettuare interventi sulle figlie, esplorando la reazione dell’interlocutore. Racconta un medico: “Mi hanno avvicinato chiedendomi cosa potevano fare perché una loro amica aveva una bambina e avrebbe voluto ecc. Allora ho capito di cosa si trattava, e ho detto che in Italia questa cosa non era consentita. Poi ho chiesto: scusa ma anche tu? Ho fatto proprio la domanda diretta. Inizialmente lei ha negato, poi ha detto che anche lei aveva avuto da bambina una mutilazione”. (int. 70, Ospedale Santa Maria Goretti di Latina)

Un’altra operatrice racconta: “Abbiamo avuto una ragazza somala che ci aveva chiesto informazioni per la figlia piccola, se in Italia si poteva fare, e in quell’occasione era uscito fuori che lei aveva avuto questa mutilazione… non era chiaro se voleva farla davvero alla figlia: cercava di capire in che società si trovasse, come funzionava e se era una cosa lecita”. (int. 5, Casa dei Diritti Sociali)

Tra le donne provenienti da paesi in cui si praticano Mgf gli operatori rilevano una forte reticenza rispetto all’emersione della propria personale esperienza e delle tradizioni che appartengono al gruppo di riferimento. Affinché accettino di parlarne, la premessa essenziale è che si sia costruito un rapporto di confidenza e fiducia con gli operatori del servizio. In questi casi – pochissimi quelli citati – le donne possono poi trovarsi a cercare un confronto e a formulare richieste di cura. I servizi in cui queste condizioni si verificano con maggiore facilità sono risultati essere le accoglienze residenziali: “Durante i colloqui manifestano un disagio e tu vieni a conoscenza del fatto che hanno subito mutilazioni genitali, che si portano dietro questo peso, con tutta una serie di difficoltà anche mediche, però questa confidenza arriva dopo diverso tempo…” (int. 19, Coop. soc. Osala)

Quando i professionisti che operano nei servizi hanno una buona co-

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noscenza del fenomeno e delle conseguenze sanitarie, l’emersione del problema risulta facilitata. È possibile che in queste circostanze medici, operatori sanitari o sociali riescano a individuare con tempestività i sintomi di complicazioni dovute alle Mgf e i segni riconoscibili di un vissuto relativo. In questo modo, pur impiegando la dovuta cautela nel sollevare il problema e invitare al dialogo, alcuni dei testimoni intervistati dichiarano di essere riusciti ad avvicinare la sofferenza espressa dalle donne, indirizzarle ai servizi più appropriati e aprire un confronto sulla riproduzione della pratica sulle figlie. Da più parti, invece, soprattutto tra gli operatori delle accoglienze residenziali, è stata espressa una forte riluttanza a sollevare la questione qualora non sia un argomento portato in discussione dalle donne stesse. Si tratta, specialmente per le donne richiedenti asilo, di situazioni di grande fragilità, con gravi vissuti traumatici, rispetto a cui l’eventuale presenza di un’operazione mutilatoria rituale subita nell’infanzia tende a passare in secondo piano. Emergono inoltre considerazioni legate all’inadeguatezza dei mezzi e alla mancanza di risorse (in termini di tempo, personale specializzato, saperi relativi al trattamento) per affrontare il problema in modo adeguato. Al riguardo un’intervistato afferma: “Io conosco che cosa sono [le Mgf]… purtroppo è una cosa molto importante lo so, però queste donne hanno bisogno attualmente di altre cose ed è molto rischioso aprire il discorso se tu non hai esperienze consolidate… io non sono una persona che può affrontare queste cose perché non sono qualificato”. (int. 46, Centro Astalli)

Accade dunque che, anche quando il problema viene portato alla luce dalle donne stesse, e quindi trasformato in una richiesta di cura, un servizio come il centro d’accoglienza si trovi impreparato ad affrontarlo con il necessario impiego di tempo e risorse economiche e professionali. Viene quindi raccolta l’esigenza sanitaria e attivati possibili canali di cura, in rete con i servizi specializzati esistenti sul territorio, senza però intraprendere veri e propri percorsi di rielaborazione del vissuto e di sostegno psicologico. Dichiara un’operatrice intervistata: “Diventa troppo per noi. Le donne non possono rimanere con noi oltre un certo tempo, poi ci sono altre persone da far venire; non possiamo avviare un percorso come questo delle Mgf. […] È un percorso che richiede altri strumenti... i fondi che ci danno dal Ministero sono talmente pochi che non ci permettono di fare tutto. […] Questo è un limite al

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contributo che possiamo dare. Però quando vediamo che veramente è un freno per la persona, molto forte a livello psicologico, allora cerchiamo un aiuto presso altre strutture specializzate”. (int. 1, Coop. soc. Karibù)

Fondamentale diventa allora affidare le donne a una rete di soggetti competenti, specialisti nel trattamento delle mutilazioni genitali. Infatti la stessa intervistata rileva che: “una volta rilevato il problema possiamo individuare i servizi adatti ed entrare in rete con loro per vedere se si può fare qualcosa; ad esempio abbiamo rapporti con il San Camillo e il San Gallicano, gli ospedali che sono abituati ad avere a che fare con gli stranieri e con le Mgf”. (int. 1, Cooperativa Karibù)

3.4.4 La visita ginecologica e il parto Nella maggior parte dei casi menzionati, l’esistenza di Mgf si è rivelata agli operatori sanitari nel corso delle visite ginecologiche o al momento del parto, in una situazione quindi in cui diviene obbligata l’ostensione e la condivisione con il personale medico dei segni della mutilazione. Tuttavia, l’esigenza di effettuare un intervento specifico rispetto a soggetti con Mgf è stato segnalato dagli operatori in prevalenza per i casi di infibulazione; per le mutilazioni del I e II tipo, infatti, sono state raramente riportate situazioni sanitarie critiche e specifiche richieste di intervento espresse dalle donne. Per quanto riguarda l’infibulazione, situazioni problematiche dal punto di vista sanitario si possono riscontrare nel corso delle visite ginecologiche di controllo e durante la gravidanza, sia per la presenza di complicazioni dovute all’asportazione di parti dei genitali esterni e soprattutto all’intervento di sutura (vedi paragrafo 4.3.1), sia talvolta per la difficoltà di effettuare la visita in presenza di un orifizio vaginale troppo ristretto. Particolarmente critico risulta poi – come più volte accennato - il momento del parto, in cui la chiusura totale o parziale delle grandi labbra e il restringimento dell’orifizio vaginale determinano gravi impedimenti all’espletamento naturale del processo. Infatti, la presenza di tessuti cicatriziali estesi provocati dalle mutilazioni, in particolare in presenza di infibulazione, riduce l’elasticità dell’organo vaginale, provocando notevoli rischi per la salute sia della madre sia del bambino. Qualora la

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donna si presenti in ospedale per il parto senza essere stata seguita in gravidanza, diversi intervistati concordano nel preferire il taglio cesareo piuttosto che intraprendere un intervento di deinfibulazione, che comporta particolari difficoltà in quel frangente: “Se ti capitano in ospedale queste donne per il parto e prima non le hai mai viste e conosciute, e magari non parlano italiano, e tu non sai che tipo di intervento hanno già fatto, sinceramente io non voglio rischiare: io piglio e faccio il cesareo. Occorre fare attenzione però perché quello non va fatto in una situazione di urgenza, quando c’è la testa che già spinge…” (int. 28, Casa dei Diritti Sociali)

Se le donne arrivano troppo tardi in ospedale per poter effettuare il parto cesareo risulta quindi necessario assisterle nel parto naturale. La soluzione più praticata in questi casi è il ricorso a “1-2 episiotomie laterali17, che poi vengono ricucite” (int. 87, Policlinico Umberto I). In questo modo viene allargato il canale del parto, e si riducono i rischi dovuti alla restrizione dell’orifizio e alla presenza di esiti cicatriziali molto estesi. Nelle forme di infibulazione reversibili, con cucitura della vulva senza asportazione di clitoride e piccole labbra, il parto naturale presenta meno complicazioni. Infatti, secondo una testimonianza, l’assenza di gravi cicatrizzazioni consente una riapertura naturale dell’introito vaginale, in seguito alla naturale pressione della testa del neonato: “Una volta durante il parto vedevo questa testa che usciva, e io non sapevo come fare, perché avevo paura che lei potesse avere dei danni. Però è andata bene, si è riaperta, piano piano, e questa cosa qui si è risolta positivamente”. (int. 20, Associazione Vita di Donna)

La deinfibulazione rappresenta per tutti i casi menzionati la soluzione più indicata, riducendo i rischi di salute e prevenendo il ricorso a interventi invasivi come il parto cesareo e la doppia episiotomia. Tuttavia, come anticipato, effettuarla con il giusto anticipo non è sempre possibile18, soprattutto quando le donne non effettuano visite ginecologiche in gravidanza e si presentano all’ospedale direttamente per il parto. Un

17 L’episiotomia è una operazione chirurgica che consiste nell’incisione chirurgica (tomia) del perineo, lateralmente alla vagina, attuata per allargare il canale del parto, in modo da ridurre le lacerazioni. 18 La deinfibulazione dovrebbe essere praticata, se possibile, entro il primo trimestre della gravidanza o prima del parto se la paziente si presenta alla visita ostetrica dopo il quinto mese, per ottenere risultati migliori e ridurre il rischio di complicanze (cf. Linee Guida del Ministero della Salute)

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ginecologo afferma che bisogna essere molto cauti. Infatti, egli è del parere che fare la deinfibulazione: “durante il parto non è consigliabile: un po’ i genitali sono più edematosi, quindi sanguinano di più. Far le cose in quel momento è sempre meno opportuno che farle invece quando non c’è la gravidanza, o anche durante la gravidanza ma non al momento del parto”. (int. 28, Casa dei Diritti Sociali)

Infine, nei casi in cui la deinfibulazione avviene in sala parto per consentire il passaggio della testa del neonato, possono sorgere in seguito conflitti tra le donne e il personale medico se le prime richiedono espressamente di essere riportate alla condizione precedente. La legislazione italiana proibisce la reinfibulazione, che è da considerarsi a tutti gli effetti come una mutilazione. E sebbene sia considerato doveroso riparare al meglio le eventuali lacerazioni perineali, come per una partoriente senza Mgf, le richieste di restrizione dell’orifizio vaginale non possono essere soddisfatte dal personale medico. Anche per questo motivo diversi intervistati mostrano di preferire il taglio cesareo, che non incide sull’area genitale e quindi previene incomprensioni e conflitti con le partorienti. Le interviste hanno portato alla luce numerosi casi di tensione tra ginecologo e partoriente, che hanno richiesto talvolta l’intervento di altre figure di sostegno (psicologo) e il coinvolgimento di altri componenti del nucleo familiare della donna, in particolare il marito. “Di recente ho incontrato una donna somala che doveva partorire e non accettava di essere deinfibulata. Voleva essere aperta soltanto quando iniziava il travaglio e poi voleva essere richiusa un’altra volta. Questa donna era così attaccata alla sua cultura che non voleva assolutamente sentire delle complicanze, che potevano sorgere in quanto persona con Mgf”. (int. 63, Ospedale San Camillo)

3.4.5 La deinfibulazione: esperienze e competenze In contesti diversi dal parto, la deinfibulazione costituisce una delle principali richieste di intervento medico sulle mutilazioni genitali espresse dalle donne. Per questa operazione, tuttavia, le pazienti, quando raggiungono una precisa consapevolezza riguardo al desiderio di trasformare la propria condizione, si rivolgono direttamente a specialisti di cui conoscono la particolare competenza, grazie a un meccanismo di passa114


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parola tra conoscenti e, talvolta, grazie a una ricerca e documentazione personale. La deinfibulazione richiede infatti una competenza e un’esperienza che – come abbiamo rilevato – non sempre è presente tra il personale medico dei servizi territoriali. Tra i ginecologi intervistati sono state spesso segnalate difficoltà nel comprendere la particolare modificazione della fisiologia causata dalla mutilazione, la conformazione delle aderenze e delle cicatrici interne; si tratta, perlopiù, di interventi effettuati da operatrici tradizionali, al di fuori di pratiche mediche codificate, che quindi danno luogo a conformazioni ogni volta differenti. Sul territorio di Roma e del Lazio operano però ginecologi specializzati nelle tecniche di deinfibulazione, da cui le donne si recano di propria iniziativa o a cui vengono inviate da altri servizi qualora la loro esigenza venga espressa in un servizio in cui non è possibile effettuare l’intervento per mancanza di strumentazioni e competenze19. Per alcune ginecologhe che operano presso i servizi menzionati si è rivelato di grande importanza, al fine della costruzione di un rapporto di fiducia con l’utenza, il fatto di essere donne e di appartenere alla stessa comunità religiosa. In particolare questo vale per la religione musulmana, che, sebbene non costituisca la radice delle pratiche escissorie e infibulatorie, è stata segnalata dagli stessi intervistati come una variabile importante nell’avvicinamento culturale tra le donne e lo staff medico. Il profilo delle donne che chiedono la deinfibulazione, secondo gli intervistati, è il seguente: donne giovani, che vivono in Italia da molti anni, ben inserite dal punto di vista lavorativo e della conoscenza della lingua, che spesso hanno intrapreso una relazione con uomini italiani e maturato una forte consapevolezza rispetto al vissuto di diversità e alla possibilità di una “normalizzazione”. Ciò comporta da parte dei medici attenzioni particolari, sia per quest’ultimo aspetto: “Io sto attenta anche all’aspetto estetico dell’operazione, quando mi viene richiesta. Cerco di ricostruire un minimo le piccole e le grandi labbra, in modo che non si veda troppo il segno dell’intervento”. (int. 16, Medici Contro la Tortura)

19 Tra i servizi intervistati in cui sono presenti tali figure citiamo: l’A.O. San Camillo Forlanini, l’Istituto San Gallicano (in collaborazione con l’Ospedale Careggi di Firenze, il Policlinico Umberto I, il Fatebenefratelli, l’Associazione Medici Contro la Tortura.

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che, sempre secondo la stessa intervistata, per il bisogno di segretezza avvertito rispetto alla possibilità che i connazionali vengano a conoscenza della propria scelta: “Non possiamo mettere negli ambulatori un servizio specifico per donne infibulate. Bisogna preparare i ginecologi a questa accoglienza, nel privato e nel pubblico. Ci vuole molta riservatezza, la persona non dev’essere additata come nei centri di interruzione di gravidanza: lì c’è il centro per l’IVG, chi ci entra deve interrompere”.

Accogliere le donne infibulate e indirizzarle verso il percorso di deinfibulazione significa instaurare un dialogo aperto, indurle a presentarsi al servizio per visite periodiche nel corso delle quali sia possibile effettuare progressi graduali nella conoscenza reciproca e nella conquista della fiducia; da questa si passa poi ad un’effettiva presa di coscienza e alla formulazione consapevole di una richiesta di cambiamento. 3.4.6 I disturbi psicologici e gli interventi di sostegno Le Mgf rappresentano pratiche sociali che hanno origine nelle tradizioni e sono quindi profondamente radicate nei costumi delle popolazioni in cui sono diffuse; segnano specificamente l’appartenenza al gruppo e rivestono una grande importanza per le bambine nel percorso di conquista di un’identità sociale all’interno della propria comunità. Nei contesti d’origine il dolore e il trauma dell’operazione è quindi accompagnato da processi di compensazione sociale, come il senso di comunione con le compagne e la consapevolezza dell’importanza dell’evento per la famiglia e l’intera collettività. Per questi motivi, analizzando le conseguenze psicologiche che producono le mutilazioni rilevate dagli operatori, si è rivelata importante la distinzione tra prime generazioni – donne immigrate in età adulta – e nuove generazioni, giovani nate in Italia o immigrate in età infantile. Per queste ultime, infatti, crescere o nascere nel contesto migratorio comporta l’attraversamento di mondi culturali differenti e spesso la costruzione di un’appartenenza doppia o molteplice, da cui deriva in molti casi una presa di distanza da tradizioni e costumi del paese d’origine. Tra le donne adulte con Mgf che si presentano ai servizi di cura diversi testimoni rilevano un vissuto di normalità. La mutilazione subita nella prima infanzia non pare aver lasciato traumi evidenti, mentre i disagi derivanti dalle conseguenze sanitarie vengono tollerati come parte della sofferenza dell’essere donna. Un medico rileva: 116


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“Queste donne dicono: ma io sono normale, sono sana, hanno normali rapporti, e non è che tu puoi andare a dire niente che le possa contrariare, in questo senso [...] Se le metti nel cervello che la sua condizione di donna non è normale quella magari “sbarella”, quando avrebbe potuto stare bene fino a 90 anni… Perché dire a una persona che le manca qualche cosa quando non presenta disturbi particolari?” (int. 14, Medici Contro la Tortura)

In alcuni operatori resta forte tuttavia l’impressione che si tratti di un’esperienza molto traumatica, che proprio per questo viene difficilmente raccontata e condivisa, specialmente al di fuori del gruppo culturale d’appartenenza. Come rileva un’infermiera: “Per le donne è un trauma, ma sembra che vogliano sfuggire a questo problema. Non vogliono parlarne e lo vogliono tenere nascosto ad altri non della loro nazionalità”. (int. 60, Ospedale S. Eugenio)

Come anticipato, inoltre, tra le donne richiedenti asilo e rifugiate la sofferenza sia fisica che psichica che può derivare dal vissuto della mutilazione infantile sembra ridimensionarsi soprattutto a fronte dei più recenti traumi legati alle persecuzioni, alla fuga, alle violenze, alla perdita di affetti. Per tutte, migranti e rifugiate, sono poste inoltre in primo piano le numerose e pressanti difficoltà legate alla ricerca di un’abitazione e di un lavoro, e alla cura dei figli, rispetto a cui possono emergere disturbi psicologici e fragilità sociali che richiedono un più urgente intervento. Un’operatrice ricorda di una signora: “C’era una signora somala di 60 anni, che aveva subito la mutilazione nell’infanzia ma le sembrava che non fosse un problema primario. Le sue richieste al centro di accoglienza erano riferite al lavoro e alla casa. Questi erano i suoi veri problemi”. (int. 19, Coop. soc. Osala)

Disagi particolari si rilevano nelle donne più giovani, che hanno subito una mutilazione genitale da piccole e che nell’età dello sviluppo, coscienti della propria diversità, si sentono impaurite dal confronto con le coetanee italiane, o originarie di altri paesi, e con il primo partner sessuale. Anche per loro, tuttavia, la scelta di modificare la propria condizione può rivelarsi difficile, a causa dei timori di marginalizzazione o esclusione dalla comunità di origine.

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3.5 L’attenzione alla prevenzione nei servizi territoriali 3.5.1 Gli strumenti della prevenzione Molte delle difficoltà fin qui rilevate rispetto all’emersione e al trattamento di problematiche connesse alle Mgf tra le donne rappresentano ostacoli anche per le strategie di prevenzione sulle bambine nate in Italia e appartenenti agli stessi gruppi nazionali. Il limitato accesso ai servizi sociali e sanitari in generale delle donne straniere, la reticenza delle medesime a parlare delle eventuali mutilazioni subite, la posizione secondaria attribuita a questi problemi rispetto a richieste più urgenti di assistenza limitano di molto le possibilità di intervento dei servizi territoriali. Dalle interviste non è emersa nessuna esperienza strutturata di prevenzione delle Mgf sulle bambine, ad eccezione dell’attenzione specifica in questa direzione degli operatori più preparati e sensibili al tema. Le visite ginecologiche e soprattutto il parto rappresentano, anche in questa prospettiva, le occasioni principali in cui poter affrontare la questione. Come testimoniato da alcuni intervistati, esiti ecografici che indicano il sesso del nascituro, o la nascita di una figlia femmina, rappresentano lo spunto per invitare la donna a esprimere le proprie intenzioni al riguardo e contestualmente informare sulla legislazione vigente in Italia: “Tanti anni fa è venuta una signora che aveva subito una cosa di questo genere e io scherzando dicevo: “non è che ha intenzione di farlo anche a sua figlia?” E lei: “non ci penso proprio!” (int. 81, Consultorio Torrenova)

Molti degli intervistati che hanno incontrato casi di Mgf, sia nei servizi sanitari sia nelle strutture di tipo sociale, riferiscono di aver constatato parlando del futuro delle figlie, un’autentica volontà di interrompere questo aspetto della tradizione. La profonda sofferenza che accompagna il ricordo e la narrazione della mutilazione subita, nonché le difficoltà legate alla vita sessuale, alle complicazioni sanitarie, alla gravidanza e al parto, costituiscono le motivazioni più forti espresse a questo riguardo. Secondo l’esperienza di un’operatrice infatti: “In molte di queste donne c’è una chiara consapevolezza di aver subito un attacco all’integrità del proprio corpo, e di non voler far vivere questa condizione alle loro figlie”. (int. 19, Coop. soc. Osala)

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In generale, per la prevenzione occorrono, secondo gli intervistati, condizioni che non è sempre facile creare nel contesto di un servizio: la frequenza del contatto tra donne e operatori, ma anche l’adozione da parte del personale dei servizi di punti di vista e atteggiamenti aperti all’ascolto e al confronto. Una premessa fondamentale è dunque la formazione degli operatori, che, acquisendo informazioni e competenze, possono relazionarsi al meglio con questa problematica e trovare modalità efficaci di comunicazione. La filosofia dell’intervento deve ispirarsi, secondo gli intervistati, sia alla dottrina universale dei diritti umani, sia a una prospettiva più interculturale di rispetto delle differenze. Uno dei medici intervistati è del parere che occorre: “essere molto fermi ad impedire le pratiche di Mgf, ma nello stesso tempo non bisogna dare un giudizio negativo sulle persone. Perché se tu attacchi la persona senza tener conto del peso che ha per lei la tradizione, l’accettazione sociale nel gruppo, si rischia di creare un isolamento grosso”. (int. 26, Area Sanitaria Caritas)

In alcuni casi gli operatori testimoniano di aver esteso l’azione preventiva non solo alla donna ma anche al partner. Quando la figura di aiuto proviene dagli stessi paesi o condivide la stessa religione la mediazione appare facilitata), e non mancano narrazioni di casi in cui l’attività di dissuasione ha avuto un esito positivo, anche cercando di rispondere agli argomenti relativi alle preoccupazioni legate al rapporto con la famiglia allargata, ai potenziali conflitti con quest’ultima in occasione dei viaggi nel paese d’origine. Secondo una delle intervistate, gli uomini appartenenti a gruppi culturali ancora fortemente legati alle tradizioni mutilatorie hanno rappresentato i casi più difficili, opponendo grande resistenza sulla base della logica dell’onore familiare. Dopo aver trovato il loro consenso rispetto all’opportunità di proteggere le figlie dal dolore dell’operazione e dalle sofferenze future, le soluzioni proposte sono state quindi di tipo pragmatico: “Il problema era: cosa diciamo ai nonni? Io dicevo sempre: ditegli che l’avete infibulata in Italia, tanto nessuno la spoglia, nessuno le guarda tra le gambe… non lasciatela sola con i nonni fino a 14-15 anni, così che possa proteggersi”. (int. 16, Medici Contro la Tortura)

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3.5.2 Le Mgf tra le bambine e la rappresentazione del rischio Nel corso delle interviste è stato rilevato un solo testimone che riferisse di aver visitato delle bambine che riportavano delle Mgf. Vanno tuttavia considerate a questo proposito le particolari criticità che riguardano l’accesso dei figli degli stranieri in condizione di irregolarità ai servizi pediatrici. Non potendo fruire di una rete di pediatri di base, queste famiglie portano spesso bambine e bambini in visita negli ambulatori di medicina generale, dove vengono curati perlopiù in modo mirato, in risposta ai sintomi che manifestano. Nella maggior parte dei casi non si presenta in questo contesto la necessità di visite generali di controllo che includano anche i genitali esterni. I consultori rappresentano invece il riferimento primario per le vaccinazioni nei primi anni di vita; anche in questo caso, però, come negli ambulatori, non viene effettuato di norma uno screening generale, e pertanto nemmeno una visita dei genitali. Tra gli operatori dunque, in assenza di esperienze concrete, trova spazio l’idea che i genitori che desiderano fortemente aderire alla pratica tradizionale possano farla realizzare nel proprio paese di origine, mentre escludono la possibilità che ciò possa avvenire nel nostro paese, e come conferma un medico: “Bambine nate in Italia con mutilazioni non ne abbiamo mai viste, neanche nate da tanti anni in Italia, ci sono capitati casi di infibulate solo praticati molti anni prima nel loro paese di origine”. (int. 78, Istituto San Gallicano)

In generale, le testimonianze riportano molti dubbi sulla possibilità che le seconde generazioni possano subire delle pratiche di mutilazione, constatando le trasformazioni dei costumi e il venir meno delle pressioni sociali dei contesti d’origine sui genitori migranti. Alcuni tuttavia esprimono una visione meno ottimistica, rilevando l’esistenza di forme di resistenza culturale: “C’è uno zoccolo duro di donne straniere che vanno fiere del loro cutting rituale, con le quali la contrapposizione culturale è molto forte […]. Non ce lo saremmo aspettato, anche perché a dirlo sono anche ragazze non infibulate della seconda generazione che ne parlano con orgoglio”. (int. 78, Istituto San Gallicano).

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In presenza di una convinzione ancora forte, l’elemento che determina la possibilità o meno di continuare la pratica è l’accessibilità di persone al tempo stesso competenti, compiacenti e disposti a compiere un reato penale: “Non è detto che con l’emigrazione queste pratiche siano destinate a finire. Ho incontrato un’infermiera nigeriana che mi diceva: è parte della nostra cultura; una così perché non dovrebbe farlo a pagamento? Se le famiglie non trovano un’operatrice che si prende la responsabilità di farlo non sanno a chi rivolgersi e non lo fanno, ma se la trovano?” (int. 1, Coop. soc. Karibù)

Il solo caso tra gli intervistati che riferisce di aver riscontrato con frequenza delle escissioni (I e II tipo) in bambine piccole è una pediatra che opera presso un ambulatorio a bassa soglia del privato sociale, con una forte utenza nigeriana ed egiziana. Rispetto a tali casi, che rileva attraverso visite di controllo “dalla testa ai piedi”, ipotizza interventi effettuati all’estero ma plausibilmente anche sul territorio per via della tenera età delle bambine e per le condizioni di irregolarità delle famiglie (che impedirebbe loro i viaggi all’estero). La stessa afferma di ricevere richieste di informazioni per effettuare l’operazione e di discutere in queste occasioni sulle ragioni culturali che sottendono queste aspirazioni: “Ci sono madri con bambine piccole, neonate, che vorrebbero farla: ogni volta cerco di convincerle che fare le Mgf alle bambine non è quello che ne farà in futuro una figlia modello, perché loro hanno paura di questo”. (int. 22, Ambulatorio di medicina solidale e delle migrazioni)

3.5.3 Gli attori della prevenzione Da quanto detto finora risulta chiaro come l’attività di prevenzione veda attualmente coinvolti soprattutto gli operatori sanitari (ginecologi, ostetriche) che assistono le donne nelle visite ginecologiche, in gravidanza, nella preparazione al parto e al momento del parto. Le occasioni di relazione e di confronto con le donne e le famiglie sul problema della pratica delle Mgf sulle bambine vengono invece segnalate come molto sporadiche nei servizi di medicina generale, in quelli di accoglienza e orientamento, nonché nei servizi sociali e nelle scuole. 121


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La prevenzione nella maggior parte dei casi è il risultato di un processo che, a partire dal riconoscimento della mutilazione da parte dell’operatore sanitario, prevede la condivisione del problema con la paziente, l’informazione attiva sui possibili danni per la salute della madre e del bambino (se di tratta di una donna in gravidanza), l’apertura di un confronto sulle intenzioni della donna rispetto alle figlie femmine e l’eventuale azione di dissuasione di fronte alla riluttanza della donna ad abbandonare la pratica. Si tratta tuttavia di un processo non strutturato, per cui non esistono protocolli di riferimento e dunque si basa sulla capacità individuale e sulla buona volontà del singolo operatore. Tuttavia, alcuni ginecologi intervistati hanno sollevato notevoli perplessità rispetto al proprio ruolo nell’intervento di prevenzione, ritenendo che la figura del medico non possa costituire l’attore principale in questo processo, dal momento che rischia di compromettere il rapporto con la paziente con un atteggiamento troppo invadente: “Non è che questo problema posso affrontarlo qui mentre faccio una visita ginecologia per un semplice disturbo, perché in quel caso il più delle volte capita che la signora non tornerà più perché le hai rotto le scatole: quello è un problema che va trattato in separata sede”. (int. 88, Istituto San Gallicano) “Se devi affrontare un problema che non sia strettamente presente, fisico, ma di prevenzione, vuol dire che bisogna iniziare un certo tipo di discorso, ma deve partire dall’altra parte, dalla donna; non da te, perché sennò la gente scappa”. (int. 28, Casa dei Diritti Sociali)

Secondo altri intervistati è la rete dei consultori la sede ideale di progetti mirati, soprattutto per la tradizionale attenzione alle problematiche femminili e per le più frequenti occasioni di contatto con l’utenza rispetto ai servizi ospedalieri: “I consultori possono essere il luogo di raccolta di tante esigenze femminili. In ospedale la donna arriva che sta già partorendo. Invece nel consultorio c’è un contatto più regolare, di fondo c’è un’attenzione maggiore all’accoglienza”. (int. 80, Policlinico Casilino)

Si tratta inoltre di un servizio a cui possono far ricorso anche gli stranieri irregolari con tesserino Stp e che può intercettare il fenomeno delle Mgf anche grazie alle frequenti azioni mirate a favorire l’accesso delle donne straniere (es. comunicazione multilingue, gruppi di sostegno). In 122


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particolare è stato sottolineato come all’interno del consultorio andrebbe valorizzata e potenziata la figura del pediatra, attualmente utilizzata solo per le vaccinazioni, per i figli di genitori irregolari che non possono avere un pediatra di base, evitando così il frequente ricorso al pronto soccorso20. “Un conto è andare al servizio pediatrico a “spot”; un conto è creare quel rapporto continuativo che permette alla mamma di avere un punto di riferimento importante. Poi si deve lavorare sui pediatri, che già di per sé, all’interno del mondo medico, sono tra i più sensibili in assoluto a questa problematica e hanno a che fare con tutto il nucleo familiare”. (int. 26, Area Sanitaria Caritas)

Secondo alcuni un altro soggetto importante negli interventi territoriali rivolti alla prevenzione potrebbe essere la scuola, dove è possibile cercare un confronto con le famiglie, ma dove si riconosce anche il rischio di scontrarsi con atteggiamenti di chiusura e di rifiuto nell’affrontare il tema. Il supporto della mediazione culturale, in questo come negli altri ambiti, è la condizione ritenuta più importante per sostenere qualsiasi relazione che punti alla prevenzione “La mediatrice qui da noi affronta il problema in maniera multidisciplinare: tratta gli argomenti sanitari, le eventuali conseguenze pericolose, l’inutilità della pratica stessa, ma anche il discorso sul diritto all’integrità fisica, psichica e sessuale come diritto umano”. (int. 88, Istituto San Gallicano)

3.6 Reti esistenti e reti possibili L’esistenza di network formali e informali tra i servizi per la prevenzione e il trattamento delle Mgf dalle interviste agli operatori non viene confermata. A Roma e nelle province laziali sono state rilevate soprattutto reti informali che si sono sviluppate intorno alle problematiche della medicina delle migrazioni e dell’accoglienza di migranti e rifugiati. Sul ver20 Nel 2008 la Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (Simm), con il Gruppo di lavoro nazionale sul bambino immigrato (Glnmi), la Società Italiana di Pediatria e la Federazione Italiana Medici Pediatri (Fimp), ha presentato una proposta per l’assistenza pediatrica a tutti i bambini stranieri, indipendentemente dallo status giuridico: “A ogni bambino il suo pediatra”, per favorire i controlli sanitari durante i primi mesi di vita e negli anni della crescita, soprattutto quando questa avviene in condizioni igienicoambientali precarie. La proposta è stata trasformata in legge dalla Regione Puglia, ed è stata oggetto di delibera in Friuli Venezia Giulia.

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sante sanitario è attivo il Gruppo Regionale Immigrazione e Salute (Gris Lazio), che esiste dal 1995. Si tratta di una rete di operatori del servizio pubblico e del privato sociale che condividono esperienze e competenze, elaborano strategie comuni e favoriscono interventi sui problemi della salute degli stranieri. Dalla loro esperienza derivano importanti indicazioni sulla possibilità di una rete funzionale che possa anche garantire un più efficace trattamento delle Mgf, mediante pratiche consolidate di invio a servizi specializzati. La possibilità per una rete simile di funzionare al meglio dipende, oltre che dalle azioni di informazione rivolte all’utenza e dalla segnalazione reciproca tra i servizi, anche dal contatto personale e dalle comunicazioni mirate che, precedendo l’invio di un paziente a un altro specialista, aumenta l’efficacia delle prestazioni sul singolo caso. Una rete informale di conoscenze personali viene d’altronde quotidianamente messa in campo da tutti i servizi sociali e sanitari contattati nel corso della ricerca, per fare fronte a particolari problemi di salute o di integrazione di migranti e rifugiati. La stessa rete è stata o può essere utilizzata, secondo diversi intervistati, anche per esigenze particolari connesse alle Mgf, per esempio richieste di deinfibulazione, individuando i servizi più competenti. Riguardo le criticità delle reti esistenti, vengono segnalate la frequente mancanza di una mediazione linguistica presso gli ospedali, per cui gli operatori dei servizi di accoglienza o dei servizi sanitari collegati a questi (come ad esempio il Sa.Mi.Fo.) affermano di dover accompagnare dei pazienti nelle visite per poter colmare queste lacune, con notevole dispendio di risorse. Viene inoltre rilevata una più generale mancanza di risorse e di personale che mina l’efficienza del servizio, non solo per gli utenti migranti, e l’assenza di reti funzionali tra i consultori e i servizi ospedalieri di ginecologia e ostetricia. Seguendo le indicazioni dei testimoni intervistati si evidenzia, da un lato, la necessità di ristrutturare e migliorare l’attività di rete, per garantirne una effettiva funzionalità, e dall’altro di strutturare, all’interno delle reti esistenti, veri e propri protocolli per il trattamento delle Mgf, sostenuti da un’informazione e formazione capillare sul fenomeno e sui servizi territoriali specializzati. Un’esperienza significativa è stata rilevata presso l’Ospedale civile di Latina, dove si sta sviluppando un percorso che porti alla costruzione di un protocollo di intervento specifico. Un’ostetrica ha infatti riferito che:

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“abbiamo sviluppato un protocollo clinico di assistenza per gli eventuali abusi sessuali sui minori e sugli adulti; in questa circostanza sono stati presi contatti con alcune strutture che si occupano di Mgf, come l’Aidos, il San Gallicano, e per sottoscrivere un protocollo di intervento che possa essere rivolto a persone con Mgf”. (int. 74, Ospedale Santa Maria Goretti di Latina)

3.7 Considerazioni sull’offerta di cura e prevenzione In seguito all’esame di queste numerose testimonianze, possono essere svolte alcune riflessioni sulle problematiche e le strategie di intervento emerse dalle interviste rispetto agli argomenti proposti alla discussione e all’analisi: conoscenze ed esperienze sulle Mgf, attività di prevenzione sulle nuove generazioni, capacità di risposta dei servizi e situazione delle reti territoriali. Le rappresentazioni degli intervistati indicano in molti casi un livello insufficiente di conoscenza delle pratiche di Mgf e una scarsa diffusione di saperi specialistici per il loro trattamento e per la prevenzione, anche se non mancano centri specializzati che esprimono un livello di intervento significativo. Ne deriva dunque la necessità di un’azione informativa e formativa capillare e sistematica, rivolta sia a medici e infermieri, sia agli operatori dei servizi di orientamento e di accoglienza, sia ad alcune figure di riferimento del mondo della scuola. Infatti, pur avendo rilevato la frequenza relativamente bassa con cui si presentano ai servizi donne con Mgf, un’adeguata formazione può, da un lato, garantire la preparazione degli operatori nel fronteggiare l’occorrenza di casi; dall’altro lato, garantire la diffusione di saperi e competenze per favorire l’accesso ai servizi delle donne con Mgf e dunque contribuire all’emersione di casi che attualmente non arrivano all’attenzione degli operatori. Accanto alla formazione sul tema specifico, inoltre, molti testimoni segnalano la necessità di una più vasta opera di educazione all’accoglienza e alla relazione con la diversità culturale, per rispondere alle persistenti difficoltà d’accesso delle donne straniere ai servizi e prevenire o ridurre atteggiamenti negativi e respingenti. Il momento del parto, per esempio, in cui con maggiore frequenza vengono alla luce problemi legati alle Mgf, anche in donne che fanno scarso ricorso alle prestazioni del sistema sanitario, risulta, secondo alcune testimonianze, il momento rivelatore 125


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di un più generale problema di inadeguatezza delle strutture e del personale sanitario nel far fronte alle problematiche specifiche sollevate dalle donne migranti. Vengono riportati casi di conflitti medico-paziente dovuti a difficoltà di comunicazione, sia linguistica che culturale, esperienze di disagio per le donne dovute alla violazione dell’intimità in sala parto e alle richieste non necessariamente soddisfatte di essere assistite da una ginecologa donna. Percorsi di educazione alla multiculturalità possono dunque contribuire a prevenire tensioni tra operatori e utenti e favorire, mediante strategie rivolte all’accoglienza, l’accesso delle donne ai servizi di cura e prevenzione. Quest’ultimo aspetto costituisce, d’altronde, la premessa indispensabile di qualsiasi percorso di tutela della salute delle donne e bambine migranti e rifugiate. Le strategie di contrasto e prevenzione delle Mgf potrebbero quindi essere utilmente collocate in un più generale intervento volto a intercettare i bisogni di cura e a creare nei servizi ambienti più aperti e accoglienti. Infine, rispetto alle reti territoriali, la ricerca ha rilevato l’esigenza di migliorare l’azione informativa sui servizi esistenti nella Regione per l’assistenza e la cura delle donne con Mgf, al fine di favorire le prassi di invio alle strutture specializzate. Anche nella prospettiva della prevenzione delle pratiche mutilatorie nelle nuove generazioni, si può rivelare strategico potenziare il collegamento tra i soggetti individuati come attorichiave, affinché il processo possa estendersi dall’assistenza in gravidanza al parto, all’allattamento, fino alle cure sanitarie nei primi anni di vita e nell’età evolutiva.

3.8 Alcuni spunti di riflessione dai focus group21 L’analisi fin qui svolta ci ha fornito, grazie alle testimonianze di operatori qualificati in ambito migratorio e delle Mgf in particolare, un quadro piuttosto dettagliato del fenomeno e dell’offerta di servizi nell’area laziale. Nel paragrafo seguente sarà presentata in maniera sintetica un’ulteriore esperienza svolta nel corso della ricerca-azione, che ha avuto lo scopo di approfondire l’indagine dei vissuti e delle rappresentazioni di coloro che operano all’interno di quei servizi che impattano con le donne 21 Il presente paragrafo è stato redatto da Augusta Angelucci e Giuliana Candia

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con Mgf e più in generale con le loro famiglie. L’esperienza in oggetto è quella della realizzazione di 7 focus group con intere équipe di operatori dei servizi territoriali, svolti presso le sedi stesse di lavoro. L’obiettivo di questi incontri – che prevedono una conduzione atta a stimolare la discussione e lo scambio di punti di vista tra i partecipanti – è stato quello di raccogliere informazioni riguardo tre ambiti specifici dell’indagine: a. la conoscenza pregressa del fenomeno e le loro impressioni derivanti dall’incontro di casi di Mgf; b. le rappresentazioni e le riflessioni riguardanti le donne con Mgf e le bambine cosiddette “a rischio”; c. le possibilità di migliorare le politiche di cura e prevenzione, con suggerimenti derivanti dalle esperienze personali di lavoro. La tipologia degli operatori coinvolti è stata molto varia, comprendendo: medici, ginecologi, pediatri, mediatori culturali, psicologi, assistenti sociali, infermieri, ostetriche e insegnanti di italiano per stranieri. La selezione di un numero maggiore di figure dell’ambito sanitario è stata motivata dalla necessità di una base minima di conoscenze ed esperienze utile alla discussione collettiva22. 3.8.1 La conoscenza e le impressioni sull’incontro Nel corso dei focus group sono immediatamente emerse notevoli discrepanze tra le conoscenze degli operatori dei servizi sociali e quelli del comparto sanitario. Solo questi ultimi hanno infatti avuto modo di confrontarsi con il complesso fenomeno delle Mgf nel corso della propria pratica professionale, mentre per gli altri operatori la conoscenza è stata solo indiretta. Chi non ha acquisito esperienze concrete di lavoro con donne con Mgf – quindi gli operatori sociali che hanno partecipato ai gruppi – dichiara di averne conoscenza unicamente tramite la stampa, la radio o la televisione. Questa fonte di informazione investe naturalmente anche gli operatori sanitari che tuttavia, in seguito al confronto diretto con donne con Mgf, hanno prestato più attenzione anche alla normativa 22 In seguito ai feedback provenienti dall’esperienza di campo delle prime interviste e dei primi due focus group, è risultato inutile contattare altre tipologie di servizi dell’ambito sociale e formativo, in quanto è solo all’interno dei reparti ospedalieri di ginecologia e ostetricia e nei consultori che si rivela la presenza di Mgf. Sono stati quindi coinvolti 2 gruppi in un Centro Territoriale Permanente, uno presso un servizio di mediazione linguistico-culturale ospedaliero e 3 presso reparti ospedalieri specialistici, infine un altro presso un Consultorio Familiare (cfr. lista servizi in allegato). La partecipazione è stata in media di 8 operatori per ogni gruppo.

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italiana in materia e alla consultazione delle Linee Guida23. Tutti loro hanno inoltre avuto modo di confrontarsi, durante la discussione, sulla totale assenza di conoscenze relative alle complicanze sanitarie collegate a queste pratiche all’interno dei tradizionali curricula formativi: cioè dei percorsi universitari seguiti per completare la rispettiva formazione di infermiere, ostetrica, ginecologo e così via. Per alcuni di questi operatori quindi l’esistenza delle principali forme di Mgf si è rivelata per la prima volta nel corso di ordinarie visite ginecologiche o durante l’assistenza al parto di donne che presentavano mutilazioni genitali. Come conseguenza, la discussione si è soffermata sulle impressioni derivate da questo impatto, che per la sua natura – impreparazione dell’operatore sanitario unita all’impressione suscitata nella paziente – può risultare di grande spaesamento. Le osservazioni più comuni riportate sono state quelle di aver tratto un grande imbarazzo di fronte alle modificazioni riscontrate, di un conseguente disagio dovuto anche all’incertezza sperimentata su come portare avanti l’intervento avviato. Le situazioni più comuni sperimentate infatti sono quelle della difficoltà nell’effettuare la comune visita ginecologica per le donne che hanno le grandi labbra chiuse, e della scelta di assistere il parto perché questo avvenga per via naturale o procedendo al taglio cesareo. Un’ostetrica ha dichiarato a proposito che “sono stata molto sorpresa di trovarmi di fronte a genitali modificati e mi sentivo impotente, perché non ne conoscevo l’esistenza prima dell’arrivo di pazienti straniere”. Un altro dato che riflette le impressioni che gli operatori sanitari traggono da questi incontri è l’espressione riferita da un’altra ostetrica: “queste donne hanno dei genitali come quelli delle bambole”: si tratta dunque di un fenomeno strano, inabituale, e – per chi non ha una formazione specifica a riguardo – quanto mai incomprensibile. A riguardo si è fatto riferimento al fatto che tra i diversi colleghi emerge molta curiosità mista alla sorpresa; una curiosità senza dubbio collegata anch’essa al fatto di non avere familiarità con questa casistica medica. Nel dibattito è emerso poi il tema, collegato a quello precedente, dell’atteggiamento delle pazienti che si rendono conto di essere osservate in maniera particolare. In generale, il confronto tra i partecipanti ha fatto 23 È opportuno notare che alcuni degli operatori sanitari provengono da reparti dell’ospedale San Camillo Forlanini, che accoglie il Centro di riferimento regionale per la cura delle Mgf, e che di conseguenza è più probabile sia che incontrino casi di donne con mutilazioni, e sia che vengano sensibilizzati più di altri a tenere conto delle Linee Guida del Ministero.

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emergere come a quelle reazioni di stupore e di interesse da parte del personale medico e paramedico – reazioni considerate come inevitabili e naturali – corrispondesse di fatto un forte imbarazzo nelle pazienti. Nei focus group si è quindi parlato a lungo del pudore delle donne che vengono fatte oggetto di queste attenzioni; pudore che in un certo senso viene violato da un atteggiamento che può apparire come morboso mentre dovrebbe invece, secondo uno dei partecipanti: “conformarsi a un codice di condotta rispettoso delle diversità” delle pazienti. Le riflessioni fatte in proposito hanno portato quindi più di un partecipante a interrogarsi su quanto queste situazioni mettano a rischio la relazione di fiducia che è necessario si instauri tra medico e paziente. 3.8.2 Rappresentazioni e riflessioni sul fenomeno Tuttavia, se escludiamo le conoscenze specifiche riguardanti la tipologia e il trattamento delle complicazioni relative alle Mgf, i diversi partecipanti ai focus group hanno mostrato una conoscenza molto approssimativa degli altri elementi che compongono questo complesso fenomeno. Un’approssimazione riscontrata nelle discussioni che hanno coinvolto tutte le tipologie di operatori – quindi sia dell’ambito sociale che sanitario -, e che riguarda le origini, la diffusione geografica e le motivazioni alla base della pratica tradizionale, nei contesti di origine e in quelli di immigrazione. In particolare, sono emerse le rappresentazioni più comuni ai non specialisti: in primo luogo quella dell’Africa che viene percepita come se fosse un continente omogeneo, del quale non si considerano le specificità nazionali e le differenze culturali. In secondo luogo, quella della confusione tra motivazioni religiose e tradizioni culturali, che porta di norma all’identificazione della religione islamica come fonte della tradizione escissoria, a dispetto delle evidenze empiriche – il gran numero di donne immigrate e musulmane prive di Mgf – e degli sforzi intrapresi dalle campagne informative proprio per sradicare questa falsa credenza24. Sono state citate, dall’uno o l’altro partecipante, alcune motivazioni delle popolazioni che praticano le Mgf; tuttavia si tratta perlopiù di cono24 In uno dei focus group il luogo comune delle Mgf come pratiche volute dall’Islam è stato attaccato da uno dei mediatori partecipanti originario del Marocco, dove appunto la pratica escissoria è assente, dimostrando l’utilità del confronto tra operatori di diverse culture e in generale di uno scambio continuo e proficuo di conoscenze all’interno delle équipe professionali.

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scenze molto superficiali25 veicolate dai mass media, la cui modalità comunicativa è spesso quella della semplificazione per offrire informazioni e chiavi di lettura di immediata ricezione. Non sono mancate inoltre, nella discussione, le espressioni di forte condanna del fenomeno, accompagnate dallo sconcerto e dal netto rifiuto, soprattutto da parte di chi non conosceva affatto le Mgf o le conosceva poco. Possiamo leggerlo nelle parole di una mediatrice peruviana che ha ripetuto più volte: “è impossibile, è inconcepibile che ai nostri giorni si verificano delle simili violazioni!”. Il personale sanitario è però il solo nelle condizioni di identificare con chiarezza l’esistenza di un rischio reale per le figlie di madri che presentano mutilazioni genitali di essere a loro volta sottoposte alla pratica. Per gli altri operatori, che non possono sapere con certezza (se non affrontando direttamente il discorso) se una donna appartiene o no a una famiglia a tradizione escissoria, la rappresentazione del rischio è assolutamente confusa e può far sospettare di qualsiasi madre di origine africana, o peggio che porti il velo, pur se totalmente estranee a quest’usanza. L’immagine del rischio per le bambine è stata inoltre associata un po’ da tutti i partecipanti al fatto che le famiglie siano arrivate da poco in Italia, riflettendo anche qui una rappresentazione piuttosto semplificata di una realtà complessa. Infatti nel corso dei gruppi non sono stati considerati due argomenti importanti: il primo è che le famiglie possano aver modificato il proprio punto di vista sulle necessità delle Mgf già prima dell’emigrazione; il secondo è che sussistono diverse condizioni che possono portare al tenace mantenimento di una pratica tradizionale anche dopo una permanenza di molti anni in un contesto di immigrazione che la rifiuta. I focus group hanno rappresentato senz’altro un’occasione di riflessione sulla condizione delle donne e delle figlie all’interno di questa pratica tradizionale, in particolare riguardo alle dinamiche familiari e alla socializzazione con la società di accoglienza. È emersa infatti in molti la consapevolezza di un percorso difficile su molti fronti: quello delle ragazze che possono vivere con disagio la relazione con il gruppo dei pari avvertendo la propria diversità come un handicap; quello delle madri 25 Vengono citate, ad esempio: la necessità di proteggere le donne dalle violenze nei contesti nomadi; quella di garantire la verginità e l’integrità della donna prima del matrimonio; il tentativo attraverso l’ablazione di eliminare dai genitali della donna la parte che viene identificata come maschile.

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di fronte a diversi paradigmi di “cosa è meglio” per le loro figlie; quello della possibile perdita di fiducia delle figlie nei confronti delle madri e della conseguente conflittualità nei loro rapporti. 3.8.3 Alcuni suggerimenti per la cura e prevenzione L’elaborazione in gruppo di queste riflessioni ha coinvolto gli operatori che hanno preso parte ai focus group portandoli a fare delle considerazioni che riguardano non solo gli aspetti del fenomeno che hanno le implicazioni per la loro pratica professionale, ma più in generale i processi di integrazione che coinvolgono gli immigrati che presentano queste specificità, nonché la società che li accoglie. A partire da questi stimoli sono emersi degli elementi importanti sui quali, secondo questi operatori, sarà necessario intervenire per migliorare le opportunità di cura delle donne e di prevenzione dal rischio per le bambine. Queste indicazioni possono essere riportate schematicamente a quattro ambiti di intervento: a. il primo è la formazione degli operatori dei servizi territoriali. Gli operatori che hanno partecipato ai focus group hanno in primo luogo espresso un personale interesse ad approfondire gli aspetti clinici ma anche antropologici del fenomeno, per operare con maggiore consapevolezza anche nella relazione con chi riporta delle Mgf. Allo stesso modo è unanime l’idea che la formazione debba coinvolgere in generale chi opera in ambito sanitario e sociale, proprio in virtù della necessità di un comportamento rispettoso e deontologicamente corretto nei confronti delle pazienti/utenti e della loro riservatezza. Un personale più consapevole è stato anche reputato maggiormente in grado di operare sul fronte della prevenzione, individuando le possibili situazione di rischio senza creare inutili allarmismi o etichettare i genitori migranti; b. il secondo settore di intervento è quello del miglioramento dell’accesso ai servizi per la popolazione migrante. Nel corso degli incontri non è stata tematizzata una specifica difficoltà di accesso, eppure è emersa da più voci l’opportunità di consentire un maggiore contatto degli immigrati con le strutture pubbliche e del privato sociale, come luoghi e ambiti che permettono di conoscere le norme relative al diritto alla salute e all’integrità psico-fisica;

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c. il terzo ambito riguarda le comunità dei migranti sul territorio romano e laziale e la sensibilizzazione sul tema. Ciò che viene auspicato è il coinvolgimento di soggetti appartenenti a questi gruppi per l’attivazione di campagne di informazione e sensibilizzazione sul diritto alla salute. Si è ipotizzato quindi il coinvolgimento di membri influenti, di mediatori culturali, di donne adulte che hanno rinnegato la pratica nonché leader religiosi che spingano verso il cambiamento dei comportamenti in materia di Mgf; d. infine, l’ultimo ambito è quello relativo alla organizzazione dei servizi. In particolare, sono state avanzate diverse proposte di messa in rete di servizi e di figure professionali cruciali, soprattutto per le attività di prevenzione. Insieme alla formazione dunque è necessario il coinvolgimento diretto delle ostetriche, dei ginecologi e soprattutto dei pediatri di base, poiché sono loro i primi a identificare le persone a rischio di Mgf, e a poter avere un rapporto privilegiato con i genitori tale da consentire un’opera di sensibilizzazione. Allo stesso modo, è stata indicata come strada utile alla costruzione di una politica di prevenzione la messa in rete di servizi socio sanitari che coinvolga le scuole, i medici di base, il servizio delle vaccinazioni e i principali servizi anche del privato sociale che i migranti frequentano più assiduamente per garantire la salute e l’educazione dei loro figli.

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4. Persistenza della pratica tra le comunità immigrate di Laura Di Pasquale

4.1 Premessa metodologica La consistenza del fenomeno Mgf, nei suoi aspetti statici (donne che l’hanno subita) e dinamici (prosecuzione della pratica) è di difficile quantificazione negli stessi paesi in cui questo è tradizione. Le stime disponibili si riferiscono per alcuni paesi a indagini molto datate, e sono poco idonee a rendere conto dei processi di cambiamento in atto. Nell’ambito della ricerca-azione, il tentativo di ottenere delle indicazioni rispondenti alla realtà attuale dei paesi di origine e delle comunità immigrate presenti sul territorio ha portato al coinvolgimento diretto degli opinion leader1 di questi gruppi. La ricerca è stata in questo caso condotta attraverso interviste semi strutturate riguardanti il fenomeno nei paesi di origine, le caratteristiche dei gruppi immigrati sul territorio, la visibilità di problematiche relative alla cura o alla prevenzione all’interno delle comunità e delle associazioni2. La scelta degli intervistati ha tenuto conto in primis delle nazionalità più numerose interessate dal fenomeno presenti nel territorio, anche 1 Intendiamo, per “opinion leader” i rappresentanti di associazioni, i portavoce delle comunità immigrate, i mediatori culturali e gli operatori immigrati che hanno frequenti contatti con connazionali e/o che svolgono una costante attività di interazione con altri attori sociali esterni alle comunità (istituzioni politiche, media) per aspetti sociali concernenti il proprio gruppo nazionale di riferimento. La lista degli intervistati è in allegato. 2 I principali risultati della ricerca sono stati inoltre discussi con tutti gli opinion leader intervistati in occasione di una tavola rotonda ad hoc organizzata il 20 luglio 2009 presso il Centro Servizi del Volontariato di Roma.

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se nel Lazio le comunità migranti africane hanno un peso statistico piuttosto contenuto rispetto ad altri gruppi molto più numerosi, quali quelli dell’Est europeo. Sono stati poi considerati tutti i gruppi nazionali pertinenti e per ciascuno sono stati individuati uno o più opinion leader, in base ai seguenti criteri: l’autorevolezza, la conoscenza della propria comunità di riferimento ed eventualmente di altre comunità migranti, e la disponibilità ad affrontare il tema. Gli intervistati, di quattordici nazionalità differenti3, sono stati individuati e raggiunti attraverso la tecnica snowball con la collaborazione dell’Associazione NoDi, partner del progetto. Quasi tutte le interviste sono state realizzate a Roma e rispetto alla rosa di persone individuate sono stati registrati quattro rifiuti4. Gli opinion leader sono diciassette rappresentanti di associazioni prevalentemente a base mononazionale e sedici mediatori o operatori di servizi per utenza immigrata. In particolare, sono stati intervistati undici mediatori, due operatori dei sindacati, uno scrittore, un’esperta di pedagogia interculturale e il curatore di un sito internet centrato sull’Eritrea. Le associazioni contattate sono quasi tutte socio-culturali/ militanti per la difesa dei diritti di immigrati e rifugiati. Sono stati intervistati anche i membri del comitato di organizzazione di una chiesa. Il numero degli uomini e delle donne intervistate è quasi equivalente, e l’età è inclusa tra i trentacinque e settanta anni, con un‘età media quindi di quarantacinque anni. 4.1.1 Le difficoltà incontrate e le modalità di superamento È importante sottolineare che ottenere il consenso per le interviste e affrontare gli argomenti citati si è rivelato più difficile del previsto, per motivazioni che sono state meglio comprese nel corso della ricerca. Oltre ai rifiuti ricevuti si è notato un atteggiamento poco collaborativo e talvolta risentito nel trattare il tema, soprattutto durante le prime interviste.

3 Le nazionalità coinvolte sono esposte di seguito con l’indicazione tra parentesi dell’incidenza presunta nei rispettivi paesi di origine secondo le stime dell’Oms: Camerun (14%), Costa D’Avorio (45%9 Eritrea (89%), Etiopia (80%), Egitto (97%), Guinea (99%), Mauritania (71%), Mali (92%), Nigeria (19%), Senegal (30%), Somalia (94%), Sudan (90%), Sierra Leone (75%) e Togo (15%). 4 In alcuni casi i soggetti contattati hanno considerato che il tema trattato non li riguardasse affatto e non riguardasse in generale i connazionali – dichiarando che la cosa interessava una minoranza all’interno del paese di origine-, in un caso la referente di un’associazione somala non ha voluto collaborare perché polemica riguardo alla mancata assegnazione di finanziamenti alla propria struttura.

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Rilevata questa difficoltà, si è cercato di dedicare maggior spazio e tempo alla fase di creazione del rapporto intervistato-ricercatrice e a domande più generiche sulle caratteristiche della comunità immigrata a Roma e nel Lazio, al fine di “rompere il ghiaccio” e trovare livelli di condivisione. Durante le interviste è emersa subito l’impressione – poi diventata convincimento – che, trattando nello specifico il tema delle Mgf, le informazioni fornite dagli intervistati non fossero sempre accurate. Ciò derivava da diversi motivi: per alcuni intervistati uomini, la nota censura e impossibilità a trattare l’argomento assume un peso significativo, ma anche, per alcuni, per l’appartenenza a gruppi in cui le Mgf non si praticano; e non ultimo, per il fatto che molti di loro vivono fuori dal proprio paese anche da 20 anni. In alcuni casi, abbiamo avuto l’impressione che gli intervistati tendessero ad edulcorare l’immagine del proprio gruppo nazionale, sia per motivi di orgoglio personale, e sia per proteggere i loro connazionali da ulteriori stigmatizzazioni. Gli uomini intervistati, in genere, avevano una conoscenza più superficiale del fenomeno, del tipo di mutilazione praticata più comunemente nel proprio paese e dei bisogni delle donne con Mgf. Solo in alcuni casi questi ultimi potevano riferire direttamente dell’esperienza della partner o delle donne della propria famiglia (madri e sorelle). Anche le donne che non provengono da zone o famiglie dove sono diffuse le Mgf avevano informazioni molto approssimative sul fenomeno che tende a rimanere avvolto da tabù e conosciuto quasi esclusivamente da chi lo ha subito in prima persona. Tra le donne intervistate che hanno avuto un’esperienza diretta e personale di Mgf invece, si sono naturalmente riscontrati atteggiamenti e livelli di apertura diversi, anche se l’intervista non ha mai inteso toccare il piano personale quanto piuttosto quello della comunità e dell’emergere del tema delle Mgf al suo interno. In generale abbiamo riscontrato una maggiore serenità nell’affrontare l’argomento tra le donne che riportano delle Mgf di grado minore (clitoridectomia o escissione) piuttosto che tra quelle che hanno vissuto l’infibulazione. Molte delle intervistate mostravano comunque una forte ambiguità verso la pratica; alcune di loro l’hanno condannata apertamente, soprattutto l’infibulazione, ma la maggior parte sembrava mostrare un senso di colpa nei confronti di questo atteggiamento di condanna, e sembrava

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così giustificarla velatamente. In alcuni casi era più evidente l’imbarazzo a parlare di aspetti ginecologici o di esperienze vissute come traumatiche e tuttora dolorose in seguito all’infibulazione. In linea di massima, però, dedicando tempi lunghi alle interviste è stato possibile raccogliere molte più informazioni e tracciare un quadro generale del fenomeno.

4.2 Le Mgf nei paesi di origine Confermando la complessità ed eterogeneità del fenomeno delle Mgf, evidenziato da studi socio-culturali ed epidemiologici condotti in diverse zone del continente africano, le testimonianze espresse dagli opinion leader restituiscono l’immagine di una realtà multiforme e sfaccettata, con differenze notevoli tra i diversi gruppi nazionali e all’interno di ciascuno di essi. Per illustrare in maniera più chiara e concisa i risultati della ricerca e offrire una visione generale del contesto di origine dei gruppi considerati, è opportuno tralasciare la descrizione delle caratteristiche delle Mgf nei singoli paesi degli intervistati e dividere questi paesi in due grandi gruppi5, ovvero: a. quelli con un’incidenza di Mgf molto alta: Somalia, Etiopia, Eritrea, Sudan, Egitto, Guinea, Mali, Mauritania e Sierra Leone; b. quelli con un’incidenza di Mgf ridotta o limitata: Senegal, Nigeria, Camerun e Togo. Considerando i paesi con un’incidenza molto alta (tra l’80% e il 97%), approfondiremo soprattutto il fenomeno in relazione a persone provenienti da Somalia, Etiopia, Eritrea, Sudan, Egitto, da dove proviene un numero significativo di immigrati presenti nel Lazio. Gli intervistati di questi paesi, che presentano un livello di conoscenza del fenomeno vario, hanno confermato il dato ribadendo che le pratiche di infibulazione e di escissione sono molto diffuse, e hanno illustrato differenze nelle caratteristiche di base, nelle diverse tipologie presenti e nelle specificità di queste pratiche, anche in merito all’età delle bambine o ragazze nel momento in cui vengono realizzate. Come racconta la rappresentante di un’associazione:

5 Questa divisione è sembrata funzionale tenendo in considerazione i dati sull’incidenza nei paesi d’origine (cfr. capitolo 1) e quelli sulla presenza straniera in Italia (cfr. capitolo 2).

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“Lo fanno tutti (riferita all’infibulazione). È come in Italia la comunione, la fanno tutti e tutti la devono fare; guai se hai un figlio di quella età e non lo fai: esci dalla società!” (int. 118, Somalia)

Le osservazioni fatte dagli opinion leader nel corso delle interviste hanno però anche indicato che le Mgf sono in diminuzione nei contesti di origine, e hanno permesso di individuare possibili forze catalizzatrici del cambiamento, che illustreremo più avanti. Gli intervistati somali hanno colpito per il loro alto livello di scolarizzazione medio e per la conoscenza approfondita che hanno del tema. Hanno spiegato che l’infibulazione o la cosiddetta sunna, o una terza forma intermedia, si praticano in tutto il paese, a età diverse che vanno dai pochi mesi ai 4-5 anni. Nell’accezione data sunna significa tocchetto: un tocco quindi consiste nel tagliare solo un pezzettino, facendo sanguinare la parte incisa, e si può praticare anche a bimbe di pochi mesi. L’infibulazione è invece più frequente dopo i 5 anni ed è la forma più diffusa in Somalia, ma è presentata come una pratica in diminuzione negli ultimi anni. In Eritrea, in Etiopia e in Sudan – sempre secondo gli intervistati provenienti da questi paesi - si praticano sia l’escissione che l’infibulazione. Secondo le referenti eritree, l’escissione si pratica soprattutto nel bassopiano del paese, mentre l’infibulazione è diffusa solo tra i gruppi musulmani. Per quanto riguarda l’Etiopia, pare che l’infibulazione sia diffusa soprattutto tra i musulmani, mentre la maggioranza delle donne etiopi ha subito l’escissione. Il Darfur è la regione del Sudan nella quale l’infibulazione è maggiormente diffusa. Secondo gli intervistati provenienti dall’Egitto invece, nel proprio paese si pratica solo l’escissione, anche se la letteratura parla anche di infibulazione. Il cambiamento nella pratica delle Mgf e la loro diminuzione in Sudan e in Egitto sono state sottolineate con forza dagli intervistati, in contraddizione con i dati Oms che invece riportano un’incidenza molto elevata. Un testimone ha detto: “Prima si faceva in tutto il Darfur, la facevano tutti. Ora c’è la pubblicità e le campagne informative che dicono che non si deve fare… Fino a 10 anni fa lo facevano (…) La facevano e ancora lo fanno adesso, in particolare in alcuni posti viene fatta da coloro che hanno studiato come infermiere ostetriche: si fa a casa, come una festa. Ora però si fa solo la festa senza la mutilazione, ha un valore simbolico”. (int. 122, Sudan)

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I referenti dell’associazione egiziana contattati hanno sottolineato che, mentre prima l’escissione era molto diffusa, in seguito al divieto imposto dalla legge nazionale il fenomeno è rimasto molto marginale e limitato ad una minoranza di gruppi sociali che la pratica clandestinamente. Probabilmente, il quadro suggerito è più positivo della reale situazione nei paesi d’origine; tuttavia è opportuno cogliere lo spunto sui cambiamenti in atto anche in Egitto e discuterli meglio di seguito. Considerando la Guinea e il Mali, con un’incidenza del 99% e 92%, e la Mauritania e la Sierra Leone (75% e 71%), emerge che da questi 4 paesi proviene lo 0,1% dei residenti stranieri in Italia e pertanto non è sembrato necessario approfondire le informazioni minime offerte dagli intervistati, che in linea generale non conoscevano personalmente il fenomeno. Le poche informazioni raccolte su questi paesi e la scarsa conoscenza a riguardo degli intervistati ci confermano che le mutilazioni sono avvolte da tabù e costituiscono una conoscenza tradizionale, tramandata quasi esclusivamente tra coloro che le praticano. “Non ne so niente personalmente. Gli altri (che lo sanno) non parlano, perché hanno fatto un giuramento di non parlare, dicono che se parlano possono morire. Hanno paura, per questo non dicono niente”. (int. 116, Sierra Leone) “Credo che continua ad essere eseguita, però non se ne parla e non è una cosa diffusa. Probabilmente dove si pratica la gente ne parla, ma nel sud che conosco meglio non si pratica e quindi non se ne parla proprio”. (int. 108, Mauritania)

Per quanto riguarda il secondo gruppo sebbene l’incidenza delle Mgf non sia molto alta (in Senegal è stimata del 30%, mentre è più bassa – tra il 14% e il 19% – in Camerun, Togo e Nigeria), sono state raccolte più testimonianze per l’alta presenza di immigrati nigeriani e senegalesi nel Lazio. La situazione dei due paesi, caratterizzati da molte diversità etniche interne, non è di facile comprensione. La maggior parte dei Nigeriani presenti in Italia appartiene agli Ibo, tra i quali le interviste hanno confermato che è diffusa solo l’escissione. Dal punto di vista geografico, secondo gli intervistati, le Mgf sono più diffuse al nord della Nigeria piuttosto che al sud. Riguardo il Senegal le testimonianze parlano di una diffusione prevalente delle Mgf nel nord del paese, e tra alcuni gruppi etnici come ad esempio

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i Peul. Dei gruppi che praticano le Mgf nel Lazio sono presenti soltanto i Peul, anche denominati Fulani per la lingua parlata. Gli opinion leader intervistati sia senegalesi che nigeriani hanno tuttavia specificato che le Mgf sono in netta diminuzione nei loro paesi d’origine.

4.3 Il cambiamento che si registra nei paesi di origine 4.3.1 Alcuni fattori di cambiamento Il tema del cambiamento ha permesso di approfondire quali fossero i fattori che portano al perpetuarsi della pratica o alla disaffezione, e anche quale tipologia di persone potrebbe essere più incline al cambiamento e per quali motivazioni. Come indicato all’inizio del capitolo, i paesi di provenienza degli intervistati sono caratterizzati da situazioni molto diverse. Tuttavia, provando a ricondurre le risposte a un discorso più generale si evidenzia che tutti gli intervistati, tranne una di loro, hanno espresso il loro disappunto e la disapprovazione per le pratiche di mutilazione. Riflettendo sui fattori che agiscono sulle scelte relative alla loro continuazione sono stati isolati come più rilevanti: a. il rispetto della tradizione. È per certi versi una scelta individuale e delle famiglie quella di rispettare la tradizione dell’infibulazione o escissione o di abbandonarla. Si tratta, al di là delle motivazioni evidenti e più volte citate (controllare la sessualità delle donne o garantirne la verginità), del bisogno di essere accettati dalla comunità, ovvero di essere integrati nella propria società e di sentirsi culturalmente conformi ad essa; b. il livello di istruzione. Il livello d’istruzione può essere un fattore importante nel discernere chi all’interno di un paese è più incline a sottoporre le proprie figlie alle mutilazioni, associando un altro livello culturale delle famiglie alla tendenza all’abbandono della pratica e della tradizione. Un numero significativo d’opinion leader assicura però che questo fattore non è determinante quanto l’attaccamento alle filiere culturali che affondano nella tradizione; c. l’etnia o clan e la zona geografica di provenienza e residenza. Sebbene in genere le pratiche di mutilazione siano più diffuse in zone rurali che nei grandi centri urbani chi vive nelle grandi

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città, ma è originario di zone rurali, può rimanere tuttavia fedele alla tradizione. Alcuni intervistati hanno quindi sottolineato che vivere nelle grandi città, non equivale in maniera automatica a una disaffezione dalla pratica. L’appartenenza etnica in molti casi è più determinante della zona di residenza, soprattutto per i primomigranti (interni); d. la possibilità di modificare i riti sociali. Molti intervistati hanno evidenziato che le pratiche dell’escissione o dell’infibulazione non dipendono da motivazioni religiose, ma sono legate alle abitudini culturali e ai riti tradizionali. In alcuni casi tale tradizione, che rappresentava un momento di passaggio per le bambine e di ingresso nella comunità, è stata sostituita dalla sola festa pubblica, che veniva fatta tradizionalmente in seguito alla mutilazione per segnare il passaggio di status della donna. Le motivazioni alla base delle Mgf, sebbene rimangano condannabili, diventano più comprensibili, soprattutto se inserite nei loro contesti storici e socio-culturali. Queste pratiche in alcuni paesi africani sono strettamente legate al controllo della sessualità delle donne e alle strategie matrimoniali. I genitori incoraggiano le proprie figlie a sottomettersi alla mutilazione nella speranza di ottenere un prezzo più alto per la sposa (lo sposo versa alla famiglia una dote come rimborso per la perdita di un elemento fertile). Una sposa vergine viene pagata di più. Le Mgf salvaguardano l’accettazione sociale da parte della comunità, proteggendo la reputazione delle ragazze. L’opposizione a tali pratiche porterebbe inevitabilmente all’emarginazione e all’isolamento. Ma nei vari paesi ci sono anche altre motivazioni: la credenza che le Mgf rendano le donne più fertili e che il clitoride abbia il potere di uccidere il feto durante il parto. O ancora, che l’operazione regoli odori ed umori del corpo, che sia una prescrizione religiosa o che abbia poteri curativi contro la depressione e la malinconia. Gli intervistati hanno però tutti sottolineato un cambiamento importante e la diminuzione significativa della pratica nei paesi d’origine. In molti hanno detto che secondo loro, nei loro paesi, non si praticano quasi più Mgf, però ovviamente ammettono anche di non avere una conoscenza diretta della situazione attuale. I cambiamenti socio-culturali sono difficili da misurare e anche da interpretare, sia per gli studiosi che per gli attori che vivono la fase di transizione, e finanche per coloro che visitano

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questi contesti periodicamente (come gli intervistati). La riduzione dell’incidenza delle pratiche di Mgf è da inquadrare tra i “fatti sociali totali”; è quasi impossibile isolare singoli elementi, il cambiamento riguarda varie sfere ed è catalizzato da forze diverse. A proposito dei fattori che hanno influito sulla disaffezione dalla pratica, il presidente di un’associazione ha detto che: “L’istruzione incide sicuramente sul cambiamento, così come anche l’informazione; le Mgf sono un tabù e per questo non si poteva guardare e spiegare prima, quando la tradizione era più forte, era uno scandalo… non si poteva mettere in discussione. Non era permesso ai figli, nemmeno di discutere di questo. Ora è tutto cambiato, saranno i media, la televisione, la legge, il mondo cambia, gli uomini diventano più colti e capiscono il rischio e capiscono il danno”. (int. 97, Egitto )

4.3.2 Trasformazione attraverso i cambiamenti sociali Le risposte di altri opinion leader hanno messo in luce che i fattori che hanno contribuito maggiormente alla disaffezione dalle pratiche di mutilazione coincidono con i grandi cambiamenti sociali che in generale hanno attraversato i paesi africani, e con altri cambiamenti che riguardano più specificamente determinati contesti nazionali. Eccoli brevemente illustrati: a. l’urbanizzazione. Come si è già sottolineato, le pratiche di Mgf sono più presenti in aree rurali e isolate e in generale meno radicate nelle capitali e grandi centri urbani, anche se la presenza di gruppi di origine rurale non permette di affermare in maniera netta l’assenza della tradizione in questi contesti. Tuttavia il contesto culturale urbano e il maggiore livello di controllo esercitato da parte delle istituzioni – in tutti i paesi in cui la proibizione delle Mgf è legge – favoriscono una più rapida disaffezione verso la pratica; b. i contatti e soggiorni in altri paesi. Anche le migrazioni temporanee in altri paesi per motivi di studio o lavoro hanno favorito l’abbandono delle pratiche di mutilazione. Secondo un intervistato, per esempio, in Sudan l’aver studiato all’estero (esperienza molto frequente prima della guerra) ha permesso a molti ragazzi tornati in patria di mettere in discussione la pratica nella propria famiglia vietando che si realizzasse sulle proprie figlie. In maniera simile, 141


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in Senegal, la riduzione della pervasività di pratiche escissorie ha interessato maggiormente Ibo e Yoruba, poiché gruppi consistenti di giovani – maschi e femmine – hanno condotto gli studi fuori dal paese. Sicuramente le migrazioni internazionali in generale che caratterizzano componenti nigeriane e senegalesi hanno un impatto negativo sulla prosecuzione delle pratiche mutilatorie, sia nel paese di emigrazione che nel paese d’origine; c. i cambiamenti religiosi e il fondamentalismo islamico. Il fondamentalismo islamico, che si è diffuso in molte parti della Somalia dopo la guerra, considera l’infibulazione una pratica tribale dalle origini pre-islamiche. Come hanno indicato i nostri intervistati e documenta la letteratura, i fondamentalisti tendono a sottolineare l’incongruità della pratica con quanto è previsto nell’Islam, supportando tutt’al più la “legittimità islamica” della cosiddetta sunna. La rappresentante di un’associazione ne parla in effetti in questi termini: “Adesso sono coinvolte tante persone che fanno la sunna, non fanno quindi la mutilazione totale (l’infibulazione). Adesso noi (associazioni) stiamo invogliando a lasciare del tutto queste pratiche, perche era una specie di religione, la pratica era qualcosa di religioso. Con la nostra migrazione abbiamo scoperto che non c’entra niente con la nostra religione e questo ci ha dato la possibilità di convincere anche tante donne”. (int. 118, Somalia); d. la guerra. Alcune delle donne eritree intervistate hanno spiegato che le esperienze militari vissute durante la ventennale guerra di liberazione contro l’Etiopia, tra il 1971 e 1991, da molti gruppi femminili, hanno favorito il loro dialogo e il confronto su temi legati alla salute e ai diritti delle donne, portando a una maggiore presa di coscienza e a una disaffezione dalla pratica; e. cambiamenti nella posizione delle donne nella società. Anche se la pratica è ancora diffusa in Somalia, gli intervistati percepiscono dei segnali di forte trasformazione. In particolare, una di esse sottolinea la nuova posizione che le donne hanno acquisito attraverso la migrazione, nel quadro della quale hanno dimostrato di essere in grado di adattarsi più facilmente a nuovi contesti sociali e di poter trovare lavoro più facilmente. La capacità delle donne di sostentare la famiglia d’origine ha messo in discussione l’importanza del matrimonio come strategia della propria

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sopravvivenza e sta lentamente avendo degli effetti sulla pratica delle Mgf. Nelle parole di una mediatrice-operatrice somala: “Oggi con la guerra tutto è cambiato nei rapporti sociali. Una figlia prima si faceva crescere perché doveva essere controllata e trovare il marito e lei doveva essere vergine… Oggi la verginità è ancora importante. Però le ragazze non si fanno crescere solo per trovare marito. Si è capito che servono a mantenere la famiglia. Si cerca di aiutarle ad andare fuori di casa e aiutare la famiglia, perche lei è più adatta. Prima invece, l’uomo per milioni di anni gli ha inculcato che era superiore a lei”. (int. 120, Somalia)

Dimostrando un percorso di riflessione molto articolato, nota anche dei cambiamenti sottili nella pratica che secondo lei segnalano però dei risultati importanti: “Un tempo era veramente uno status, qualcosa che si doveva fare per avere un controllo totale su una donna, su una persona (…) Oggi la mentalità è cambiata. Adesso non si dice sei obbligata a sposarti quell’uomo, perche oggi sei tu a mantenerti e a mantenere la famiglia. Non è che con questo hanno smesso di mutilare le ragazze, però il controllo sulla donna, psicologicamente, si sta piano piano trasformando. Prima o poi cambierà, molte donne si domanderanno perché continuiamo a fare questa cosa?”

4.3.3 Le influenze governative e sovranazionali Gli opinion leader intervistati hanno evidenziato che in alcuni paesi i principali fattori del cambiamento sono le campagne di prevenzione e il rispetto delle leggi nazionali contro le mutilazioni. Le campagne di informazione e prevenzione sono molto diffuse. Molti governi e Ong africane e internazionali si sono mobilitati in questo senso. Le campagne sono state realizzate in modalità e periodi diversi nei vari paesi dell’Africa subsahariana. Diversi intervistati del Sudan hanno sottolineato come le campagne di prevenzione divulgate dalla carta stampata, radio e Tv hanno contribuito all’abbandono della pratica da parte di molte famiglie, e così anche gli opinion leader eritrei ed egiziani. Il pastore evangelico della comunità etiope ci ha mostrato direttamente dei depliant con informazioni sulla prevenzione delle Mgf in amarico che mostra regolarmente ai membri della sua comunità. Altri hanno segnalato l’esistenza di campagne governative svolte nelle scuole e nelle riunioni 143


Le mutilazioni genitali femminili nel Lazio

con la gente dei villaggi. Gli intervistati nigeriani hanno segnalato il ruolo svolto nel loro paese dalle associazioni di donne, alcuni sottolineando come il cambiamento sia iniziato dall’interno del paese piuttosto che per effetto di influenze internazionali. Al contrario, la responsabile di un’associazione ha segnalato il ruolo di campagne e programmi Tv di sensibilizzazione realizzati da soggetti esterni al paese: “C’è sempre un bianco in queste campagne di sensibilizzazione, che viene in Senegal e parla di queste cose; un senegalese non si alzerebbe mai a dire che è sbagliato. Sono sempre i bianchi che parlano di fermare le mutilazioni. Neanche io avrei mai il coraggio di andare a parlare di queste cose e dire: ragazzi, smettetela. Il problema è anche generazionale: in Senegal c’è un grande rispetto verso le persone più adulte. Non avrei mai il coraggio di parlare con una donna più vecchia e dirle: perché fai queste cose?”. (Int. 114, Senegal)

Un mediatore ha una percezione diversa della prevenzione da attuare nel suo paese e la racconta in questi termini: “Ricordo che 4 anni fa facevano campagne di villaggi interi contro le Mgf che giuravano di dire no, non lo facciamo più, quasi come una conversione collettiva contro le mutilazioni. Ci andavano i leader di comunità a parlare, in Senegal si usa molto, e le donne; in Senegal c’erano animatrici rurali, un sistema organizzato di villaggio per le donne. Quando metti insieme i giovani, i capi religiosi, a volte l’ autorità amministrativa, e poi le leader delle donne, tocchi il sistema nel suo profondo, e se riesci ad organizzare questo significa che il discorso si chiude, ci sei riuscito”. (int. 115, Senegal)

Il divieto legislativo sulle pratiche di Mgf è presente in quasi tutti i paesi all’esame. Oltre a programmi di prevenzione ed educazione, vigono misure legali di contrasto alle Mgf e sanzioni penali per i trasgressori. Sono 18 i paesi che rendono in qualche modo illegali le Mgf: Benin, Burkina Faso, Repubblica Centrale Africana, Ciad, Costa D’Avorio, Gibuti, Egitto, Eritrea, Etiopia, Ghana, Guinea, Kenya, Mauritania, Niger, Senegal, Sud Africa, Tanzania e Togo. Secondo l’organizzazione americana Center for Reproductive Rights6 ci sono stati casi di punizioni e arresti in relazione a Mgf in vari paesi africani quali, ad esempio, Burkina Faso, Egitto, Ghana, Senegal e Sierra Leone.

6 Cfr. www.droitsreproductifs.org, consultato il 5 settembre 2008

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Secondo gli intervistati egiziani la legislazione repressiva ha rappresentato un deterrente sufficiente a ridurre drasticamente la pervasività delle Mgf nel loro paese, mentre per altri opinion leader, in Eritrea e in Nigeria sono state più efficaci le campagne di prevenzione. Secondo gli intervistati eritrei, ad esempio, le misure legali hanno inciso poco nel loro paese perchè nuovi divieti vengono imposti in maniera frequente e arbitraria e sono di conseguenza presi in scarsa considerazione. Uno di essi afferma: “È un paese dove vietano tutto, tutto viene vietato. Riescono pure a dirti è vietato fare un matrimonio in grande stile, però la gente lo fa”. (int. 101, Eritrea) È possibile dire al riguardo che sebbene le risposte degli intervistati non permettano di offrire una stima della presenza delle Mgf nei paesi d’origine, mostrano in maniera evidente che è in corso un’inversione di tendenza quasi generalizzata; tendenza che coinvolge numerosi fattori sociali e processi di cambiamento culturali che vanno ad intaccare i meccanismi di perpetuazione delle pratiche tradizionali. I temi del cambiamento e della disaffezione alla pratica delle mutilazioni sono preponderanti nelle risposte degli opinion leader di tutte le nazionalità.

4.4 La riproduzione della pratica nel Lazio 4.4.1 Un fenomeno sommerso, occultato o scomparso? La possibile riproduzione di pratiche di Mgf in Italia è stata negata praticamente da tutti gli intervistati. Questa negazione costante e netta dell’esistenza o della possibilità di realizzazione di queste pratiche, sommata a una certa chiusura manifestata sull’argomento e all’atteggiamento iniziale di diffidenza, è stata messa in discussione all’interno dell’équipe di ricerca; di fatto è apparsa come indisponibilità e a volte chiusura nel riconoscere comunque che il fenomeno esiste seppure in modo sommerso. Nel corso delle interviste sono stati fatti diversi tentativi e proposte varie argomentazioni alla riflessione con i testimoni intervistati, per verificare la possibile esistenza di pratiche di mutilazione attuate anche da parte di pochi soggetti. Tuttavia, le risposte coerenti e articolate degli intervistati, riassunte di seguito, indicano che questa possibilità è molto remota.

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Una divagazione iniziale è però necessaria per sottolineare come le relazioni interetniche incidono sulla rappresentazione dell’altro e di conseguenza sulle opinioni che si possono formare sulla persistenza delle Mgf. Le immagini negative che hanno alcuni gruppi nazionali verso altri gruppi si sono espresse nelle risposte che attribuiscono la persistenza delle Mgf all’interno di questi ultimi. Ciò viene fatto con chiare allusioni alle possibilità che presso “gli altri” possano verificarsi queste pratiche, connotate per l’elemento tribale e illegale, a differenza delle proprie comunità. Di fatto, molti intervistati provenienti da paesi nei quali si pratica l’escissione hanno fatto riferimento alle pratiche di infibulazione in termini dispregiativi e di condanna, sottolineando anche che forse le persone provenienti da quei paesi, potrebbero praticarla sulle proprie figlie in Italia o tornando nei paesi di origine, anche per brevi periodi. L’assenza di discorsi plausibili a riguardo o di informazioni precise in merito rende tuttavia queste opinioni delle semplici valutazioni personali probabilmente condizionate dalla comune visione di incomprensione verso una pratica considerata anormale. I risultati raccolti comunque indicano che l’inversione di tendenza iniziata nei paesi d’origine riguarda ancor di più la situazione in emigrazione. Tutte le intervistate dichiarano di non volerla praticare sulle proprie figlie, e in molti casi quelle che l’hanno subita dimostrano molta amarezza a riguardo. Come accennato in precedenza, l’atteggiamento di alcune delle donne che hanno subito Mgf colpisce positivamente. Alcune mostrano, infatti, un percorso di maturazione tale da poter criticare i propri genitori pur comprendendo che sono stati in qualche modo costretti dal contesto sociale. Un numero esiguo di donne ha mostrato però una grande difficoltà a parlarne perchè non si sentivano autorizzate a mettere in discussione le tradizioni familiari e quelle del proprio paese d’origine. Comunque, una posizione nettamente contraria all’infibulazione è espressa da tutti, sia uomini che donne, mentre l’escissione è condannata meno aspramente. Le interviste sono state anche mirate ad esplorare il tema delle figure (tradizionali o mediche) che praticano le mutilazioni nei paesi d’origine per verificare se sono presenti – e riconoscibili per le loro attività – nelle comunità residenti a livello regionale. Questa ipotesi è stata negata da tutti con riguardo alle ecisseuse tradizionali perchè nella maggior parte dei paesi africani si tratta di donne anziane che, secondo gli intervistati,

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difficilmente avrebbero lasciato il paese d’origine in cerca di lavoro all’estero. Per quanto riguarda i contesti di origine, dove era invece diffusa la pratica escissoria anche in ospedale (l’escissione in ospedale viene descritta come pratica comune, ad esempio, dai testimoni nigeriani), gli intervistati negano anche l’eventualità che ciò si possa riprodurre nel nostro paese ad opera di infermiere o medici africani; esercitando questa pratica illegalmente metterebbero infatti a rischio la possibilità di continuare a lavorare. Accennando all’ipotesi che gli intervistati stessi fossero tenuti all’oscuro delle pratiche svolte tra alcuni connazionali, perché clandestine, alcuni di loro – quelli che vantano la maggiore conoscenza e contatto con la propria comunità – fanno osservare che sarebbe difficile tenere questi fatti all’oscuro di tutti. Il presidente di un’associazione afferma: “A Roma non credo; ci sono ragazze nate qua e non ho mai sentito nessuno che abbia fatto una Mgf sulla figlia, e io conosco quasi il 90% delle famiglie. (…) La gente mormora e se si praticassero, si saprebbe. E poi dove potrebbero farle? Negli ospedali non le fanno, in Egitto c’è qualche medico, o infermiere, o guaritore tradizionale che deve farla di nascosto perché è vietata, ma rischia se è ben pagato, ma qua a Roma mi pare impossibile”. (int. 97, Egitto)

In ogni caso, nessuno degli intervistati ha mai rilevato delle richieste che riguardassero la possibilità di praticare le mutilazioni su delle bambine qui a Roma o nel Lazio, né i referenti delle associazioni e né tantomeno i mediatori e mediatrici che lavorano all’interno di servizi socio-sanitari con utenza straniera e dove – oltre all’assistenza – offrono orientamento sociale, legale e sanitario. Nelle realtà delle occupazioni più note di Collatina e della Romanina in particolare, dove si contano diverse centinaia di eritrei, etiopi, sudanesi e somali insediati da molto tempo non sono mai emerse queste richieste o mai è stato sollevato il tema; gli intervistati hanno sottolineato che per la loro esperienza sono sicuri che le pratiche mutilatorie non avvengano nel territorio romano. In sostanza la risposta più comune è stata: e dove si potrebbe svolgere? E chi potrebbe farlo? Da queste reazioni si può desumere quanto l’esperienza della migrazione catalizzi la disaffezione dalla pratica, che non può essere a volte neanche immaginata come diversa e sradicata rispetto ai contesti nei quali essa si riproduce come tradizione. Tuttavia questa opposizione potrebbe anche esprimere l’intenzione di proteggere 147


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l’immagine della propria comunità da uno stigma molto negativo, dato sottolineato all’inizio del capitolo. Una mediatrice afferma che: “In Italia le cose cambiano. Qui le bambine non vengono infibulate, perché le madri hanno paura. Qui non ci sono operatrici tradizionali, mancano donne che vogliano assumersi questo rischio. Mia sorella ha avuto delle figlie e ha deciso di non operarle. Le sue amiche dicevano che così non avrebbero trovato marito e che già a 15 anni avrebbero cominciato ad andare con gli uomini. Le stesse sue amiche però, anche se sono favorevoli, comunque farebbero fatica a trovare un’operatrice qui”. (int. 119, Somalia)

4.4.2 I fattori di transizione nella migrazione Ma se, come viene dichiarato dagli opinion leader, la pratica viene abbandonata vivendo in Italia, quali sono i fattori che determinano questo cambiamento? Si tratta della sola mancanza delle condizioni materiali (assenza di colei che “taglia”) o ci sono altri fattori riconoscibili che intervengono ad influenzare la disaffezione verso le pratiche mutilatorie? Innanzitutto, a riprova di quanto detto in precedenza, a proposito dei contesti di origine, molte persone erano contrarie alle mutilazioni già prima di emigrare. Questo dato trova un riscontro anche tra i nostri intervistati: forse più scontato in quanto si tratta in un certo senso di un’élite all’interno dei propri gruppi nazionali di riferimento, ma pur sempre significativo. I percorsi di cambiamento anche individuali avvengono in seguito alle trasformazioni e agli interventi in atto nel continente africano, nonchè per percorsi e riflessioni personali sui rischi per la salute e sulle implicazioni per la vita sessuale delle donne. A questo proposito, due intervistate eritree hanno sottolineato come in seguito all’emigrazione hanno colto maggiori opportunità di confronto e informazione sulla sessualità e hanno sviluppato maggiore curiosità per come la sessualità è vissuta da donne che non hanno subito l’escissione. Altri intervistati hanno riferito che molti connazionali hanno cambiato il loro modo di pensare confrontandosi con realtà e persone diverse e non solo italiane. Un’altra considerazione fatta in più occasioni dagli intervistati è che attraverso l’esperienza della migrazione - e quindi del contatto e confronto con contesti altri da quello del proprio ristretto

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gruppo di riferimento - alcune persone musulmane hanno scoperto che l’infibulazione non è affatto prescritta dalla loro religione. Chi trova una guida religiosa informata o sensibile in tal senso, viene condotto quindi abbastanza facilmente verso una nuova visione della pratica mutilatoria come fattore tradizionale non vincolante e tantomeno obbligatorio. Spesso proprio nell’ambiente islamico si è fatto riferimento anche alla circoncisione maschile per accennare al fatto che quella pratica fosse effettivamente corretta dal punto di vista religioso, e il fatto che questa non fosse illegale andava quasi a confermare questo aspetto. A riguardo è stato più volte riscontrato che anche gli ebrei la praticano, affermandone così la maggiore normalità che questa assume anche nel contesto occidentale. Invece, è risultato più problematico per molti intervistati spiegare con degli argomenti lineari gli aspetti culturali della disaffezione alle Mgf nel contesto di accoglienza. Sembra in generale, dalle testimonianze acquisite, che la disapprovazione per pratiche che mutilano il corpo di una persona e limitano le sue capacità e quindi i diritti fondamentali siano state assorbite, metabolizzate a sufficienza, in alcuni casi forse in una maniera inconsapevole ma non per questo però meno efficace, entrando a far parte di un sapere condiviso tra gli immigrati dello stesso gruppo nazionale residenti nel territorio. All’interno del gruppo di intervistate è emerso che il tipo di mutilazione subìto determina l’atteggiamento verso le Mgf. Le donne che hanno subito l’infibulazione infatti, alla luce dei grossi problemi di salute e delle sofferenze, mostrano in genere un atteggiamento di condanna più forte. Coloro che hanno subito l’escissione e, soprattutto, forme minori di escissione, in genere trattano l’argomento con maggiore serenità e apertura al dialogo; mostrando altresì consapevolezza del diritto che hanno le loro figlie di vivere una sessualità più piena o di non essere “discriminate” dagli uomini. Alcune donne svolgono attivamente interventi di prevenzione e informazione attraverso associazioni e gruppi informali a Roma. Gruppi e associazioni di somali ed eritrei per esempio, supportano i connazionali all’arrivo nel nostro paese con informazioni generali e aiuti nella ricerca di un alloggio o recandosi nelle strutture di accoglienza; in queste fasi dell’insediamento svolgono anche attività di informazione medica e prevenzione delle Mgf. Come ha riferito la leader di un’associazione al riguardo: “Le mutilazioni a Roma non si fanno, tutti sappiamo che è vietato,

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nessuno le fa più. L’informazione c’è e circola, adesso stiamo informando tutti i connazionali che c’è la legge. Certo non arriva a tutti, qualche famiglia rimane isolata. (…) Noi cerchiamo di informare il più possibile i nostri gruppi. Coi contatti personali, parlando. Chi arriva con le bambine noi diciamo che qui in Italia è reato.” (int. 121, Somalia)

Da alcune interviste è emerso un rischio esiguo – però esistente – per le bambine, al ritorno nel loro paese d’origine. Gli intervistati hanno escluso questa eventualità per alcuni migranti che non tornano di frequente nei loro paesi a causa dei costi o perchè la situazione politica nei paesi d’origine non è calma o perchè sono rifugiati, come per il caso di migranti della Sierra Leone, Sudan e Darfur, Eritrea, Etiopia. Ad alcuni intervistati questa eventualità appare più probabile per paesi come Nigeria o Senegal, nei quali i migranti tornano più spesso. Proprio parlando del suo paese di origine, un mediatore senegalese ha spiegato che a causa della difficoltà a mantenere economicamente i figli in Italia, alcune famiglie mandano i bambini dai propri nonni o da altri parenti nella madre patria perchè se ne prendano cura. Il ritorno in questi paesi per un lungo periodo delle bambine può essere una situazione di rischio e per questo motivo il mediatore ha suggerito di realizzare attività di informazione preventiva sulle famiglie senegalesi che vivono a Roma, in modo da precludere possibili mutilazioni sulle figlie mentre sono affidate ai nonni, più sensibili ai dettati della cultura più tradizionalista.

4.5 La conoscenza della legge italiana Con la legge 7/2006, l’ordinamento giuridico italiano si è dotato di uno strumento di tutela e cura delle donne con Mgf e di repressione nei confronti della messa in atto di pratiche simili nei confronti delle bambine. La legge è stata portata avanti e sviluppata come uno strumento legislativo non solo repressivo ma anche capace di favorire una nuova cultura di diritti e promuovere la prevenzione. Però, come mostrano direttamente e indirettamente le risposte degli intervistati, non è stata diffusa come sarebbe stato necessario e le Linee Guida stanno tardando ad essere messe in atto. Gli intervistati somali sono quelli che hanno mostrato maggiore conoscenza della legge dal momento che alcuni di loro sono stati

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direttamente coinvolti nella Commissione ministeriale che ha svolto le discussioni preliminari e preparatorie del disegno di legge. Quasi tutti si sono lamentati che la diffusione della legge e delle campagne di informazione ad essa relative non è avvenuta come promesso. La presidentessa di un’associazione somala si è anche lamentata del fatto che le traduzioni dei messaggi informativi sulla legge, che sono stati affissi sui mezzi pubblici, non erano accurate e presentavano delle inesattezze. Anche altri intervistati hanno evidenziato che la legge non è stata accompagnata da attività di prevenzione, e che le campagne di informazione hanno riguardato solo il periodo di approvazione della legge. È opportuno segnalare che molti opinion leader sanno che le Mgf sono vietate, ma non hanno mai sentito parlare di una legge specifica. Circa la metà degli intervistati ha sentito dire che esiste una nuova legge sulle Mgf ma è ignara del contenuto specifico. Uno dei nostri intervistati ha poi mostrato incredulità e risentimento per il fatto che il governo italiano, a suo avviso così incline ad ignorare i bisogni degli immigrati, ha varato una legge specifica sulle Mgf.

4.6 I servizi per le donne con problemi correlati alle Mgf Per esplorare il tema dell’accesso ai servizi e della loro fruibilità per le donne delle comunità migranti che hanno subito delle Mgf abbiamo chiesto, in primo luogo, di conoscere quali problematiche e bisogni fossero espressi dalle donne interessate; in secondo luogo quale fosse il rapporto che scaturiva con i servizi a partire da questi bisogni. Entrambi gli argomenti sono stati considerati - al momento dei colloqui con i testimoni privilegiati - come eccessivamente “personali” per poter essere discussi al di fuori della ristretta cerchia familiare o rete amicale. Si tratta di argomenti dunque che non vengono riferiti facilmente a un mediatore o a un rappresentante di associazione, soprattutto se uomo. Ciò ha prodotto informazioni non del tutto conformi alle aspettative che il gruppo di ricerca prefigurava. Le risposte sono state poco esaustive e orientate perlopiù a delineare i servizi dove in caso di necessità si possono indirizzare le connazionali, soprattutto in occasione del parto. La riservatezza e la timidezza che traspare dalle donne di queste

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collettività riguardo questi temi, rappresenta un ostacolo alla possibilità di chiedere aiuto, orientamento e assistenza su questa materia; ad esempio, ai servizi territoriali ed agli operatori dei centri di accoglienza. In occasione di complicazioni ginecologiche o per problemi relativi al parto, come alcune interviste hanno confermato, la tendenza è quella di affrontare le questioni direttamente con i medici, cercando di evitare qualsiasi intermediazione. In generale, la scarsa dimestichezza con un sistema di servizi sociali e sanitari complesso e articolato, che offre varie sponde di contatto e di orientamento, fa sì che le donne – soprattutto se arrivate da poco tempo, o se hanno poche occasioni di contatti esterni – non cerchino aiuto al di fuori di una ristretta cerchia di amici. Gli intervistati del Sudan e dell’Egitto, riferiscono che in caso di problemi ginecologici le donne si rivolgono principalmente ai propri mariti; quelli nigeriani ed eritrei dicono che tutt’al più si rivolgono a parenti e amiche per avere consigli e indicazioni. Solo i referenti delle comunità del Corno d’Africa hanno invece citato anche le associazioni e le reti informali di connazionali come una risorsa effettiva di supporto e di orientamento per l’accesso ai servizi ginecologici. Secondo le dichiarazioni degli intervistati che sembrano conoscere meglio la situazione medica delle donne con Mgf, coloro che hanno subito l’escissione non tendono ad avere problemi medici specifici o diversi dalle altre connazionali. Sicuramente le conseguenze dell’escissione sono più difficili da identificare per le pazienti. Le infezioni o complicazioni che, secondo la letteratura medica, sono causate da questa specifica pratica, se non avvengono subito dopo il taglio rituale, diventano difficili da mettere in relazione con la mutilazione subita. Invece le donne che hanno subito l’infibulazione sono più soggette a infezioni e hanno soprattutto bisogno di un’assistenza specifica per il parto: “C’è bisogno di servizi specifici, di sapere dove sono, come vi si accede, se no queste donne chi le cura? Hanno fistole, problemi a non finire: problemi con le mestruazioni, quando si devono sposare, e non sono pochi, hanno bisogno di essere aiutate e tranquillizzate su tutto ciò che comporta avere relazioni matrimoniali e sul parto”. (int. 121, Somalia)

Una minima parte di intervistati, soprattutto gli uomini e alcune donne con una conoscenza meno diretta del fenomeno, hanno risposto che in caso di un problema medico o di parto manderebbero donne che 152


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hanno subito forme di Mgf al Pronto Soccorso o dal medico di base. Gli altri hanno dichiarato che le invierebbero da un medico al quale si sono già rivolte anche altre connazionali; in tal modo si darebbero maggiori garanzie perché è un medico già conosciuto e valutato da altre persone di fiducia. La maggior parte degli intervistati è del parere, rispondendo alle domande sul bisogno di servizi specifici per le donne infibulate, che queste necessitino di medici specializzati e personale para-medico preparato a supportarle. Solo tre hanno risposto che alcuni servizi specifici sono già esistenti nel Lazio: uno ha fatto riferimento all’Ospedale San Camillo e altri due all’Ospedale San Gallicano. In genere, sembra che gli immigrati, ancor di più per i servizi ginecologici, fanno riferimento al singolo medico piuttosto che al servizio, e considerano importante la relazione personale con il medico di riferimento. Alcuni degli intervistati hanno conoscenza di medici con esperienza con donne infibulate e che consigliano ai connazionali: si tratta soprattutto di medici stranieri che esercitano presso cliniche private o che hanno studi ambulatoriali in diverse zone di Roma. Secondo la maggior parte degli intervistati, i loro connazionali preferiscono rivolgersi a un ginecologo donna. Ma per le donne che hanno subito forme di Mgf, più importante del genere del medico, sembra essere la conoscenza della propria lingua e soprattutto un’esperienza di lavoro svolto in Africa o con connazionali. Più donne hanno raccontato di aver sentito amiche lamentarsi di atteggiamenti inopportuni. In particolare, riferendosi soprattutto a circa quindici anni fa, donne dei paesi del Corno d’Africa, tra le prime con Mgf a rivolgersi ai servizi pubblici, hanno subito visite mediche collettive, perché i professori chiamavano intorno a sé gli specializzandi per mostrare le loro “stranezze intime”. Le intervistate ridevano raccontando queste esperienze personali ormai lontane nel tempo, però mostravano il fastidio e il risentimento per un sistema che non ha saputo predersi cura di loro. Anche se le donne che hanno raccontato questi episodi hanno detto che la situazione è migliorata oggi, riferiscono di sentirsi ancora trattate con “curiosità morbosa” dai ginecologi. Alcuni intervistati hanno parlato dei problemi generali del sistema sanitario nazionale, evidenziando che le persone immigrate sono costrette ad affrontare le stesse difficoltà degli italiani, a causa della

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disorganizzazione e settorializzazione che caratterizza interi settori del sistema stesso. Per esempio, le intervistate hanno sottolineato problemi relativi alla scarsa attenzione dei medici alla globalità della persona, alla sua storia medica e alla sua sensibilità. Molte delle intervistate hanno sottolineato il bisogno di “delicatezza”, di rispetto culturale e di attenzione alla persona e ai suoi eventuali imbarazzi, nel mostrare il proprio corpo o parlare dei disturbi nella propria sfera ginecologica o sessuale.

4.7 Suggerimenti sulle attività di prevenzione Gli intervistati hanno indicato un rischio molto esiguo legato alla possibilità che le Mgf vengano realizzate sul territorio laziale. Tuttavia, quasi tutti hanno considerato positivamente la possibilità di realizzare attività di prevenzione, sebbene considerino tali attività più utili nei paesi d’origine dei gruppi più a rischio. Il livello appena sufficiente di conoscenza riscontrato negli intervistati sui rischi sanitari legati alle mutilazioni, sull’esistenza della legge e dei servizi specialistici disponibili a Roma per le donne che manifestano delle problematiche legate alle Mgf, rende la promozione di attività di informazione ancor più necessaria e impellente. La maggioranza degli intervistati, che include migranti somali, eritrei, etiopi, sudanesi, senegalesi e nigeriani, ha espresso il bisogno di rafforzare l’informazione dei propri connazionali sui seguenti temi: a. i rischi medici legati alle Mgf; b. l’assenza di un legame tra l’Islam e le Mgf; c. l’informazione su servizi socio-sanitari e sui medici con esperienza di pazienti con Mgf; d. il divieto di praticare Mgf in Italia e anche nel paese d’origine, per chi risiede abitualmente qui. Quasi tutti gli intervistati hanno segnalato che la prevenzione è molto più forte nei loro paesi d’origine. Alcuni, in particolare quelli provenienti dalle aree con un’alta incidenza di Mgf, hanno voluto offrire suggerimenti sul tipo di attività di prevenzione da realizzare nel territorio laziale. La gran maggioranza ha parlato di attività rivolte a un pubblico misto, ovvero che comprenda sia maschi che femmine, nonché famiglie e giovani di ambo

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i sessi ancora single. Gli studi e gli approcci alla prevenzione nell’ambito della salute e dei comportamenti a rischio (come, ad esempio, le campagne per la prevenzione dell’Hiv/Aids) indicano che è possibile agire su tre livelli: sulla conoscenza del fenomeno, sull’atteggiamento e sui comportamenti. Gli intervistati hanno soprattutto evidenziato il bisogno di attività di informazione, e quindi di agire sulla conoscenza e comprensione delle pratiche Mgf. La responsabile di un’associazione somala ha indicato che la sua associazione, di fatto, realizza attività di informazione sulle Mgf durante la fase di accoglienza e orientamento per i connazionali nuovi arrivati. L’attività è stata descritta come una pratica informale e poco strutturata, anche se abbastanza di routine, che è realizzata perlopiù con le donne e con le famiglie identificate come a rischio da responsabili e da volontarie dell’associazione. Attività di informazione diretta e attraverso opinion leader sono state suggerite come appropriate per raggiungere famiglie o donne etiopi e eritree, soprattutto nei luoghi di maggiore aggregazione, informando due o tre persone che poi a loro volta possono parlarne con altri amici e familiari. Strategie simili sono probabilmente appropriate a comunità molto coese e basate su reti e canali capillari. Sono emersi pareri e consigli alquanto differenti su come raggiungere i cittadini di varie nazionalità e alcuni suggerimenti basati sulla conoscenza di comunità specifiche che andrebbero verificati ed eventualmente accolti. In particolare per i cittadini nigeriani è stato suggerito di fare affidamento sul materiale cartaceo perchè il contatto diretto e il dialogo su temi simili creerebbe imbarazzo, ancor di più alla luce delle divisioni etniche che ci sono internamente. Secondo un mediatore senegalese, sebbene sarebbe opportuno veicolare le informazioni attraverso le associazioni esistenti, ciò non è sempre possibile. Questo perché per le donne, anche se senegalesi, ma non appartenenti a gruppi in cui si praticano le Mgf e quindi estranee a questa tradizione, sarebbe molto difficile parlarne ed essere riconosciute come interlocutrici valide dai propri connazionali: un operatore, ad esempio, di un’altra nazionalità riceverebbe in questo contesto maggior rispetto e quindi attenzione. Tra i destinatari della prevenzione alcuni intervistati segnalano i familiari nel paese d’origine, mettendo in luce il ruolo che potrebbero giocare i migranti quando tornano nel loro paese. Come accennato prima, gli

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immigrati andrebbero anche resi piÚ consapevoli dei rischi che potrebbero correre le loro figlie tornando nei paesi d’origine per brevi periodi o piÚ a lungo termine, e sostenuti nel comunicare ai familiari in patria la loro opposizione alla pratica mutilatoria. Infine, riportiamo il suggerimento emerso dalle interviste in maniera diretta, ovvero il bisogno di sensibilizzare, informare e formare il personale medico sugli aspetti organici delle Mgf e su quelli psicologici, in modo da non acuire le difficoltà delle donne coinvolte.

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5. Rappresentazioni della pratica e tendenze al cambiamento di Giuliana Candia

5.1 Visioni dall’interno Nel capitolo che segue si vogliono riportare le voci delle donne migranti, protagoniste delle scelte in merito alla continuazione o all’interruzione delle pratiche escissorie. In qualità di testimoni, queste donne assumono nella nostra ricerca un ruolo ben lontano da quello che viene loro spesso attribuito dall’opinione pubblica, ovvero il ruolo di vittime: sono infatti osservatrici critiche di una tradizione che ha rappresentato e rappresenta per alcune di loro una parte importante della rispettiva identità culturale. Le interviste – focalizzate su pochi items relativi alla personale visione e atteggiamento sulla pratica – sono state realizzate dalle ricercatrici dell’Associazione Nodi che per diversi fattori, quali la stessa provenienza geografica, la familiarità con le Mgf e l’esperienza migratoria, hanno potuto stabilire una comunicazione molto diretta e schietta sui temi affrontati1. Due sole delle interviste sono state realizzate da chi scrive, grazie al contatto con un’utente di un servizio sociale. Nell’ultima parte del capitolo si trova infine un’analisi dei risultati di 6 focus group2 realizzati con altri membri delle comunità immigrate. 1 Le interviste sono state realizzate da Ugoma Francisco (mediatrice culturale di origine mozambicana) che ne ha svolte 6 e da Fatouma Nirina Konaté (operatrice sociale, coordinatrice di centri di accoglienza per migranti, di origine maliana) che ha realizzato tutte le altre. Le testimoni sono state individuate tra utenti di servizi, conoscenti, contatti individuati con il passaparola. 2 I focus group con i membri delle comunità migranti sono stati concepiti come incontri a più voci, con lo stimolo-guida di una conduttrice (la mediatrice culturale esperta in ambito sanitario Salhia Belloumi), e una discussione libera intorno a tre temi principali: il cambiamento verso le Mgf nell’esperienza migratoria, le valutazioni sull’impatto della legge e sul rapporto delle donne con i servizi.

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5.1.1 Caratteristiche socio-demografiche del gruppo intervistato Le interviste sono state 48 in totale, di cui considereremo solo le 38 strettamente pertinenti per la nostra analisi3. Guardando alla nazionalità, abbiamo: 4 donne eritree, 7 etiopi, 2 egiziane, 7 somale, 4 sudanesi, 4 del Mali, 3 senegalesi, 2 nigeriane, 2 della Guinea Konacrì, nonché una donna dello Yemen, una del Niger e una della Sierra Leone. Tra le donne coinvolte che non appartengono a gruppi nei quali si praticano le Mgf (e che non abbiamo quindi considerato in questa analisi) ne sono state intervistate: 2 congolesi, una etiope, una nigeriana, una ghanese e una del Togo. Tra queste, alcune non avevano mai sentito parlare delle Mgf, e hanno affermato di aver sentito parlare dei diversi tipi di mutilazione praticati dalla televisione; mentre delle altre ipotizzano che queste pratiche, comunque, siano svolte nel proprio paese in altre zone rispetto a quelle da cui esse provengono, o da altri gruppi etnici. Il collettivo delle 38 donne su cui si focalizza l’analisi è molto eterogeneo. Oltre che per il paese di provenienza, anche per le diverse classi di età, per il tempo di permanenza in Italia, e per altri dati socio-anagrafici. Rispetto all’età abbiamo suddiviso il collettivo in quattro sottogruppi: il primo di 12 donne tra i 20 e i 29 anni, il secondo ne comprende 15 tra i 30 e i 39 anni, il terzo 7 tra i 40 e i 49 anni e il quarto riunisce 4 donne oltre i 50 anni. Riguardo la permanenza in Italia, sono solo 3 quelle arrivate di recente cioè da meno di 2 anni, mentre la maggior parte del collettivo intervistato abita nel paese da molto tempo. Ci sono 17 donne che sono giunte a Roma da 3 a 9 anni, e altre 18 che vi abitano da più di dieci anni: tra queste naturalmente non ci sono solo le più anziane, ma anche quelle che sono nate in Italia. Riguardo la situazione occupazionale, tra quelle che non sono occupate abbiamo: 11 casalinghe, 2 studentesse e 4 disoccupate, quindi solo temporaneamente fuori dal mercato del lavoro. Tra le donne occupate troviamo una maggioranza di 11 donne impegnate nel lavoro domestico e di cura, 7 in attività di commercio e servizi, 2 nel lavoro sociale e una che si prostituisce. Solo due delle intervistate sono in condizioni di ir-

3 Delle altre dieci interviste, quattro sono state rivolte a uomini e sei a donne di paesi presenti nelle stime dell’Oms ma estranee a ogni tipo di pratica. Dai risultati complessivi emersi, dai numeri ottenuti e dalla pertinenza delle testimonianze ai temi trattati, abbiamo scelto di privilegiare solo quelle di chi proviene da un contesto di prossimità a tradizione escissoria e che di conseguenza è più direttamente chiamata in causa dalle scelte sulle proprie figlie.

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regolarità; in tutti gli altri casi si tratta di un soggiorno regolare, spesso per motivi familiari: per 7 di loro per richiesta o ottenimento dell’asilo politico, mentre in 4 casi hanno la cittadinanza italiana per nascita, acquisizione successiva o matrimonio. Quasi tutte le intervistate sono sposate (ad eccezione di 5 di loro, tra le più giovani), in maggioranza con connazionali – ma in tre casi anche con africani di altre nazionalità, e in altri due con italiani – e tutte hanno uno o più figli. Tra queste, nella maggior parte dei casi, il nucleo familiare vive nel nostro paese, ma ci sono anche in 5 casi delle situazioni miste, in cui nel paese di origine sono rimasti il marito e i figli, solo i figli o anche solo una parte di essi.

5.2 Il senso attribuito alle Mgf nell’esperienza migratoria Le persone intervistate presentano dunque l’estrema varietà della realtà migratoria africana, e in particolare riflettono bene la realtà dell’area romana; realtà caratterizzata dalla coesistenza di molteplici flussi, traiettorie e percorsi di vita, piuttosto che dall’insediamento di alcune specifiche comunità. Riteniamo che un’analisi su una o poche specifiche nazionalità non avrebbe potuto rendere conto dei significati specifici delle Mgf e delle molteplici trasformazioni in atto, proprio perché si tratta di tradizioni culturali al tempo stesso simili e diverse in molti contesti. Senza contare il fatto che tanto la letteratura, quanto l’esperienza empirica, mostra quanto questa usanza abbia poco a che vedere con i confini nazionali, collocandosi più su un asse culturale che interessa le famiglie, i gruppi etnici e l’intera area africana sub sahariana. Due immagini estratte dalle interviste illustrano quest’ultima caratterizzazione. La prima è quella di una donna egiziana, che ignora la stessa esistenza della pratica nel proprio paese, affermando che pensava che essa riguardasse solo le donne dell’Africa nera e dei paesi dell’equatore, in virtù dell’idea che la pratica fosse collegata alla repressione di una sessualità eccessiva stimolata dal caldo. La seconda è quella dell’equivoco in cui cade un’intervistata nigeriana nel rivolgersi all’intervistatrice mozambicana, pensando che naturalmente anche lei, essendo africana, avesse subito delle mutilazioni e ne condividesse l’importanza. La realtà della popolazione interessata dal fenomeno delle Mgf, che come le informazioni acquisite ci confermano è attraversata da profondi

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cambiamenti, è condizionata dalle molteplici appartenenze delle persone interessate, che influenzano via via il senso e la direzione delle scelte individuali e collettive. È una realtà che riguarda la distanza temporale della migrazione, la condizione sociale, l’età, la relazione con il paese di origine, l’origine rurale piuttosto che urbana. Non possiamo parlare in generale delle “donne etiopi” senza considerare che una di loro dice: “nella mia famiglia non si fa perché siamo di Addis Abeba e non si sente molto, mentre mia cugina in campagna l’ha subita”. (int. 135, Etiopia, 36 anni)

Anche il livello culturale appare importante, in quanto un’intervistata riferisce che a fronte delle tradizioni della famiglia di sua madre, che l’avrebbe voluta escissa, ha prevalso l’opposizione ferma e categorica di suo padre che ha vietato che le figlie venissero toccate: “mio padre è infermiere, ha studiato all’università, e i suoi genitori sono della capitale, è gente istruita che non dà valore a queste pratiche”. (int. 169, Etiopia, 35 anni)

Non si tratta qui di voler ricostruire un profilo di chi pratica le Mgf e di chi ne è immune: il fenomeno della violenza sulle donne – assolutamente trasversale riguardo a età, ceto sociale, livello di istruzione e nazionalità – ci insegna come sia impropria una simile caratterizzazione. Ci è però utile considerare i fattori che aiutano a restituire un quadro più veritiero, più dettagliato e che renda conto della complessità di questa realtà. In primo luogo, è doveroso per contrastare un immaginario sociale e una cattiva informazione che vuole il fenomeno come compatto, statico se non addirittura in crescita continua. L’altro motivo è la possibilità, attraverso la definizione di questi fattori, di favorire o accompagnare i processi di trasformazione che portano a un progressivo abbandono della pratica escissoria: processi che coincidono virtuosamente con un maggiore accesso all’informazione, all’educazione sanitaria, all’istruzione, all’indipendenza economica. In breve, a politiche di promozione sociale delle donne, e non solo. Quanto ciò significhi, in un contesto di immigrazione come la realtà romana e laziale, la responsabilità di operare delle opportune politiche di integrazione sociale che curino tutti questi aspetti, è piuttosto evidente.

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5.3 I contesti di origine Come già detto, il nostro collettivo di riferimento è composto in maniera omogenea di donne provenienti da contesti in cui le Mgf si praticavano o si praticano tuttora. La domanda su questo aspetto è stata diretta, ed era mirata a individuare le sole persone cui valesse la pena chiedere se le proprie scelte individuali/familiari avrebbero portato alla continuazione di questa pratica sulle figlie. Il contesto cui ci siamo riferiti è stato esplicitato in termini di: sorelle, cugine, amiche, compagne di scuola. Nell’isolare questo tipo di contesto (quello di prossimità, piuttosto che quello della città di riferimento, l’etnia o il paese), si possono distinguere dalle risposte delle intervistate non solo le informazioni ma anche delle valutazioni personali. Per fare degli esempi, noteremo che anziché limitarsi a rispondere in merito al proprio ristretto contesto di riferimento, una donna del Sudan va oltre, dichiarando quindi una supposta omogeneità di questa realtà a livello nazionale: “sì, l’infibulazione è praticata in tutte le parti nel mio paese” (int. 126, Sudan, 33 anni). Come si diceva più avanti, nel ritenere che il fenomeno non interessi solo il proprio contesto di prossimità, dando per certa la sua diffusione in ambiti ben più estesi, si manifesta in un certo senso un tentativo di accreditarne la validità dandogli una patente di normalità a livello nazionale. Anche questa dichiarazione, di una donna egiziana, va in questa direzione: “si, tutta la mia famiglia la pratica, perché è una regola della società” (int. 153, Egitto, 63 anni) sottende lo stesso significato della precedente: c’è un noi che agisce sulla base di quello che è comune a tutti. Riportare le proprie tradizioni alla normalità sociale corrisponde, nei casi considerati, anche a non mettere in discussione la possibilità di operare scelte alternative, come hanno confermato le scelte delle due intervistate in merito alla continuazione della pratica. Un’altra donna parla invece della diffusione del fenomeno, ma lo fa riferendosi al proprio gruppo etnico e per sottolineare come questo sia specificamente caratterizzato dall’attaccamento alla pratica e come la sua diffusione sia pertanto trasversale al di là del paese di provenienza: “Sì, la mia etnia (peulh) si trova anche in Senegal, Guinea, Burkina Faso, Nigeria…, dovunque siamo, ci tagliano”. (int. 130, Mali, 53 anni). Le poche altre dichiarazioni che non si limitano solo a un “sì”, palesano invece una distanza dalla pratica che si esprime sia in maniera diretta,

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con diversi tipi di giudizi: “sì, ma ultimamente c’è più informazione sulle conseguenze per la salute”, o “sì, ma ormai sembra chiusa questa storia” (int. 166 e 141, Somalia, 35 e 25 anni), e sia in maniera indiretta come dato sul quale non si hanno né informazioni aggiornate e né tantomeno l’interesse. Afferma un’altra: “sì, ma tanti anni fa, adesso non vengono praticate” (int. 123, Sudan, 38 anni); o ancora “credo di si, ma adesso non lo so perché non ho tanti contatti con il mio paese di origine” (int. 134, Etiopia, 32 anni). Tra queste donne che fanno osservazioni specifiche sull’esistenza della pratica nel proprio contesto di origine si riscontra, comunque, che tutte presentano argomenti contrari alle Mgf; si tratta di un segnale che ci mostra come queste siano appunto le più ricettive di questi messaggi di cambiamento, ovvero che appoggiano le loro valutazioni alla consapevolezza che le cose più in generale cambiano insieme al loro personale atteggiamento. La mutilazione praticata nei contesti familiari delle persone intervistate è in 22 casi l’escissione, e negli altri 16 l’infibulazione; riguardo questi ultimi, troviamo donne provenienti da Somalia, Sudan, Egitto, Eritrea, Nigeria e Yemen. La confidenza sviluppata nel corso delle interviste ha poi permesso di rilevare anche il dato relativo alla condizione personale: delle 38 donne originarie di contesti di prossimità in cui si praticano le Mgf sono solo due quelle che non hanno subito alcuna mutilazione, mentre un’altra ha subito il “solo taglio” a fronte di una tradizione familiare di infibulazione. Un dato interessante è che due di queste donne, l’una somala di 25 anni (cui è stata fatta la cosiddetta sunna) e l’altra eritrea di 35 anni, dichiarano di essere state risparmiate dall’intervento per l’opposizione decisa del padre: un segnale evidente di come il ruolo paterno non sia necessariamente solo passivo o totalmente assente rispetto alle scelte operate sulle figlie.

5.4 I mariti e le scelte A questo proposito, le donne sono state intervistate anche sulle tradizioni relative alle Mgf presenti nel contesto familiare del marito che si rivela, nella maggioranza dei casi, anch’esso un contesto a tradizione escissoria, con l’eccezione di pochi casi. Da una parte quello in cui il marito è italiano, e dall’altra quello in cui le donne stesse (le uniche due

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del gruppo) non hanno subito delle mutilazioni. Questa particolarità può essere considerata da un doppio punto di vista: in un’ottica tradizionale, si può pensare che le donne non mutilate vengano evidentemente “accettate” solo da chi non è parte della tradizione escissoria; in un’ottica di emancipazione, al contrario, vi possiamo vedere il segnale che, coloro che sono state liberata da tale pratica, scelgono selettivamente di non legarsi ad altri contesti familiari che la espongano nuovamente al rischio, non solo per sé ma anche per le proprie figlie. Un esempio in questo senso viene da una giovane donna senegalese, nubile e in contrasto con la propria famiglia per via delle sue idee liberali, in quanto dichiara che non lo farà mai alle sue figlie, aggiungendo anche che “se mio marito mi ama, non mi vorrà mai mutilata” (int. 163, Senegal, 27 anni). Ma gli uomini sono vincolati ai propri contesti familiari di origine per quanto riguarda questo tipo di scelte, o non vengono affatto coinvolti a riguardo dalle madri delle loro figlie? Non è questo il quadro che si ottiene dalle testimonianze, che come si è visto comprendono numerosi punti di vista. I mariti delle intervistate che si dichiarano contrarie alla pratica sembrano non meno autonomi rispetto alla famiglia di origine di quanto non lo siano le donne stesse, dal momento che la risposta più comune è quella di un accordo con loro. “Lui ha orrore al solo pensiero” (int. 167, Etiopia, 25 anni); “mio marito è d’accordo con me nel non farlo” (int. 166, Somalia, 35 anni); “Lui è con me ma con gli altri familiari siamo in contrasto” (int. 142, Somalia, 38 anni); “è d’accordo con me perché sta qui in Italia con me” (int. 162, Senegal, 49 anni). Ciò si riflette per tutte le donne che rifiutano la pratica, ad eccezione di una donna somala di 48 anni che non ha toccato le proprie figlie ma ignora il pensiero del marito in proposito, e di una giovanissima nubile che dichiara categoricamente che questa posizione – contraria alle mutilazioni – non è in discussione “anche se non fosse d’accordo con me, la madre sono io e decido io!” (int. 165, Nigeria, 22 anni). Non si tratta solo di un cambio di prospettive anche dal punto dei vista dei maschi, un dato che sarebbe comunque di per sé altrettanto benaugurante, quanto quello delle testimonianze delle donne. Ciò che ci preme sottolineare è lo scambio di vedute che caratterizza l’accordo e quindi la scelta da intraprendere; ciò significa che sussiste un clima familiare tutt’altro che chiuso e ghettizzato tra il maschile e il femminile, come viene di norma rappresentato. Traspare quindi una relazione tra i generi

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all’interno della famiglia che viene profondamente modificata dal contesto della migrazione, dalla nuclearizzazione della vita familiare e da una maggiore solitudine e autonomia dei coniugi rispetto alle proprie esistenze. La questione non viene dichiarata dalle intervistate come “una cosa di donne”, ma quasi tutte si pronunciano sull’opinione del marito. Guardando sull’altro fronte, quello di chi è favorevole a queste pratiche, troviamo solo in parte la stessa forma di condivisione della decisione con il marito, dal momento che l’accordo, in questo caso, si limita al mantenimento da parte di entrambi della tradizione o all’accettazione del condizionamento familiare. Una donna che ha già infibulato le proprie figlie al paese di origine sintetizza così il permanere di questa separazione tra i ruoli familiari: “non lo so qual è la sua posizione, mio marito non si pronuncia su questo argomento” (int. 124, Sudan, 35 anni); ma non sono assenti le condivisioni, soprattutto quando si stanno elaborando delle decisioni diverse da quelle della tradizione familiare: “mio marito è d’accordo con me per fare solo un piccolo taglio” (int. 125, Sudan, 36 anni).

5.5 Interruzione o continuazione La propensione alla continuazione della pratica non risulta essere statica né riguardo le singole variabili che incidono sui possibili punti di vista individuali, né tantomeno riguardo i percorsi di vita che come si è già sottolineato, influiscono sui processi di scelta. Tirando le somme delle scelte possibili o già realizzate rispetto alla propria prole (va considerato che nel collettivo all’esame ci sono ragazze molto giovani e nubili, nonché donne adulte madri e anche nonne, e non tutte hanno avuto figlie femmine), la maggioranza delle intervistate (in numero di 25), mostra in maniera inequivocabile che le cose stanno cambiando e piuttosto velocemente. Di queste, sono 20 i casi che dicono con decisione che non lo hanno fatto o che non lo farebbero mai alle proprie figlie. Non è possibile riscontrare dati comuni rispetto a questo collettivo, che si differenzia per tutte le variabili considerate, se non per la maggiore incidenza di donne lavoratrici, quindi attive al di fuori del contesto familiare, rispetto al gruppo più ridotto di chi salverebbe la tradizione delle Mgf. Le posizioni delle donne decise ad abbandonarla – che vedremo in dettaglio più avanti –

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rappresentano il prodotto di percorsi soggettivi multidimensionali nei quali si sono intersecati processi di modernizzazione, di istruzione, di emancipazione rispetto al genere e alle gerarchie tradizionali. Risultano influenti anche la ricezione di messaggi provenienti da campagne di informazione, di educazione sanitaria, nonché una condizione di integrazione sociale nel senso più profondo; cioè quello che permette di operare una proiezione non già di sé stesso ma dei propri figli in una nuova e diversa comunità. “Non mi scorderò mai di quel dolore e non lo farò mai a mia figlia” (Sudan, 38 anni), dice un’intervistata; altre due confermano la stessa visione: “Non ci penso neanche lontanamente” (int. 167, Etiopia, 25 anni); “Non lo avrei mai fatto se avessi avuto una figlia” (int. 131, Nigeria, 52 anni). Le altre 5 donne che condannano la pratica sono quelle che hanno cambiato idea nel corso della propria vita: non solo donne che hanno maturato una diversa valutazione pur senza aver avuto figlie femmine, ma anche madri che hanno fatto mutilare le loro figlie, o alcune di loro, o che hanno permesso che ciò accadesse, e che oggi sono pronte a condannare senza esitazioni le pratiche escissorie in tutte le loro forme. C’è la donna senegalese di 49 anni che ha permesso che le due figlie rimaste al paese fossero escisse, ma non ha invece toccato la figlia nata negli anni successivi a Roma; stesso destino per una donna somala di 28 anni, che dice che “la figlia più piccola per fortuna si è salvata” (int. 144). C’è un’altra donna nigeriana di 36 anni che elenca motivi a favore della pratica ma anche motivi contro, eppure non ha comunque mai toccato la figlia di ormai 10 anni nata a Roma, e una nonna del Mali di 63 anni invece che dopo aver dato il consenso che ha portato alla morte (per emorragia) della sua nipotina, ha partecipato alla cerimonia per l’abolizione totale della pratica dal suo villaggio. Trovare tra le donne mature e tra quelle anziane un cambiamento di opinione rispetto a ciò che si è sempre fatto è un elemento estremamente favorevole per l’eliminazione della pratica, dal momento che è proprio l’influenza delle nonne e delle loro visioni tradizionali uno dei fattori di maggiore rischio per le bambine, anche per quelle nate nel paese di immigrazione dei genitori. Ma le differenze non finiscono qui: a un ipotetico confine tra chi è contraria e chi è favorevole, si affiancano quelle che potremmo definire ”in bilico” tra una posizione e l’altra; quelle cioè che forse ci aiutano di più ad osservare e a comprendere l’agire dei fattori in gioco. Si tratta di 5

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donne che confessano di non avere delle idee chiare in proposito, che non sanno se lo avrebbero fatto (la più anziana) con una figlia femmina, o se lo farebbero se e quando si trovassero ad averne una. Anche chi porta solo motivazioni che configurano la pratica come valida, afferma e ribadisce che avrà consapevolezza della propria scelta solo quando si porrà il problema: “Non lo so, devo ancora avere una figlia per vedere cosa è meglio per lei” (int. 133, Etiopia, 26 anni) e cita in proposito le dicerie della sua zona di origine, la conoscenza del divieto nel suo paese, la consapevolezza che nonostante quello, alla fine la gente fa come vuole. Altre donne palesano i fattori che vedono come ostativi a una qualsiasi loro determinazione rispetto al futuro: il dovere del rispetto delle decisioni dei nonni nella propria etnia (Maninka, della Guinea Konacrì), oppure il continuare a vivere in Europa piuttosto che ritornare nel paese di origine. Queste donne sono attraversate dalla contraddizione di trovarsi appunto in bilico, perché mostrano di aver ricevuto un’informazione relativa ai danni per la salute, nonché alla proibizione legislativa, e di rendersi conto del contrasto esistente tra quella tradizione e i diversi costumi del paese di immigrazione, ma nonostante ciò non si sentono abbastanza convinte di poter cancellare la realtà, la presenza e l’influenza di una tradizione culturale che vuole fortemente auto-preservarsi, perpetuando il marchio fisico delle bambine come parte di essa. Dice un’intervistata: “Ora ho un maschio, ma non credo che lo farò a mia figlia se l’avrò… dipende… la mia mentalità è un po’ cambiata stando qua, se dovessi rimanere in Italia sicuramente non lo farei, ma se dovessi ritornare nel mio paese tutto dipenderà dai miei familiari”. (int. 151, Sierra Leone, 34 anni)

5.5.1 L’inclusione sociale nel contesto di origine, il rischio nel paese di insediamento Per sottolineare maggiormente le parole e i contenuti portati dalle intervistate, notiamo come venga posto un particolare accento sull’elemento dell’inclusione sociale: le Mgf rappresentano nel contesto di origine un mezzo che garantisce l’accettazione e il rispetto della comunità, e che mette quindi al riparo sia la bambina che la famiglia dai rischi dell’esclusione. Ma questa valenza non è la stessa nel nostro paese: al contrario, 166


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le Mgf rivelano una differenza e possono originare situazioni di imbarazzo e distanza, che producono un senso opposto a quello di accettazione, cioè un senso di esclusione e di differenza vissuto dalle donne, soprattutto quelle più giovani. Questa è l’opinione di una delle intervistate che, malgrado dichiari di non essere lei stessa a disporre della facoltà di decidere, presenta queste osservazioni come elementi in gioco: “Non dipende dai nostri genitori ma dai nostri nonni; e in ogni caso i nostri genitori si adeguano a una convenzione per evitare l’esclusione sociale. Anche se non lo vorrò fare nel futuro, chi sa da chi dipenderà? (…) forse è meglio non farlo perché in questo paese in ospedale sei guardata male, e poi vivendo in Europa si finisce per avere dei problemi psicologici”. (int. 157, Guinea Konacrì, 28 anni)

Le donne si rendono conto di questa differenza di contesti, ed è intuibile che per loro così come per la società di accoglienza, la sfida dell’integrazione è rappresentata dalla possibilità che si creino le condizioni perché le persone possano sentirsi parte del nuovo sistema sociale. Ciò perché il rischio è quello di restare in un limbo, di essere escluso dalla comunità di origine, rifiutandone alcune regole, e di restare comunque ai margini della nuova “comunità” perché sempre percepito come diverso. Il fatto che la maggior parte delle donne occupate tra le intervistate svolga lavoro domestico è già un indicatore delle scarse opportunità di inserimento offerte dal mercato del lavoro e dalla società di accoglienza: un’offerta che pone tutti i migranti, certo non solo quelli africani, in una posizione di subalternità priva di concrete opportunità di ascesa sociale. Com’è noto, l’attività del lavoro domestico è tra quelle che più di altre limitano la possibilità di interazione e di relazione con un numero più ampio e variegato di soggetti (compagni di lavoro, clienti, ecc.), come ad esempio il lavoro nei servizi, o nel commercio; ciò nonostante rappresenta un diverso ambito di relazioni con il quale le migranti si sperimentano in contesti esterni a quelli del nucleo familiare o della comunità. Spesso, e per lunghi periodi, è l’unico ambito esterno con il quale hanno a che fare, almeno fino all’arrivo dei figli, che determinano un nuovo e più intenso rapporto con i servizi sanitari prima e scolastici poi. 5.5.2 Chi mantiene la tradizione Se osserviamo l’ultimo sottogruppo, ovvero quello “zoccolo duro” rappresentato da 8 donne che si dichiarano favorevoli alla pratica e che 167


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pensa che senza dubbio lo avrebbe fatto o lo farebbe alle proprie figlie, troveremo che ben 6 di queste dichiarazioni provengono da donne la cui occupazione principale è quella di casalinga. Pur non volendo attribuire nessuna rappresentatività statistica al gruppo selezionato, questo dato ci sembra molto interessante per due motivi: il primo per le sue dimensioni considerevoli (le donne favorevoli alle Mgf sarebbero più della metà nel sottogruppo delle casalinghe che comprende 11 casi in tutto); il secondo perché sembra supportare l’ipotesi che coloro che hanno minori occasioni di relazione al di fuori del contesto familiare presentano delle visioni più tradizionaliste e attaccate alla cultura e all’identità di origine. La realtà dei migranti contempla infatti un processo di integrazione che non passa solo attraverso la stratificazione degli anni di residenza, ma anche e soprattutto attraverso la quantità e la qualità dei rapporti sociali – ovvero il loro “capitale sociale” – che riescono a costruire negli anni. E la realtà di molte donne immigrate, soprattutto a seguito di ricongiungimento con un marito giunto prima e già inserito, può restare per molti anni ristretta all’interno di un ambito di relazioni molto limitato. Una restrizione che può in alcuni casi essere imposta, ma che può anche poggiare sulla scarsa conoscenza della lingua, lo spaesamento iniziale e il ripiegamento sulla rete di relazioni della comunità di connazionali, laddove è presente. Il mantenimento di una visione conservatrice dei propri costumi tradizionali anche in presenza di un rinforzo in senso negativo da un contesto sociale percepito come “esterno”, estraneo e nemico, ci sembra una probabile conseguenza di questo status. Dice un’intervistata: “Se avessi una figlia farei come nel paese mio, perché credo alla mia cultura; e guarda che mi sono stancata di sentire le chiacchiere dell’occidente, ci devono lasciare in pace, siamo capaci di usare il nostro cervello”. (int. 126, Sudan, 33 anni)

Al contrario sembra che le donne impegnate in attività lavorative abbiano maggiori opportunità di incontro, confronto e scambio con una pluralità di persone, che nella società attuale significa non solo con uomini e donne italiane, ma anche altri migranti di diverse nazionalità. Una donna della Guinea Konacrì, racconta questo episodio che la vede protagonista con la figlia più grande, escissa quando erano ancora al paese: “Mi ricordo un giorno con una mia amica marocchina abbiamo parlato

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di queste cose e mi ha detto che in Marocco non si fa. Allora le ho detto che volevo vedere, perché avevo visto le mie figlie più piccole, ma una donna matura con tutto il clitoride non l’avevo mai vista, così mi ha fatto vedere e sono rimasta… ci siamo fatte anche due risate! In quell’occasione mia figlia c’è rimasta male e io le ho detto: mi dispiace, l’ho fatto per accontentare tua nonna. Poi per tranquillizzarla le ho detto che quando avrà un fidanzato la porto dal medico per fargli capire di che si tratta. Adesso siamo contro queste cose, veramente”.

5.6 Conoscenze, convinzioni e dubbi sulle Mgf Molto è stato riportato in letteratura riguardo i significati e il senso delle Mgf, ma nel rivolgerci alle donne sollecitandole sulle loro decisioni qui e ora, non potevamo che fare riferimento alle motivazioni che loro attribuivano in prima persona alla pratica. Il risultato finale, l’insieme delle motivazioni espresse dalle intervistate, fa riferimento a molteplici visioni, conoscenze e convinzioni che corrispondono tuttavia non già a prospettive individuali e personali, ma prevalentemente, e inevitabilmente, a significati collettivi; dunque a valutazioni con un forte marchio culturale, quale che sia la cultura a cui si attinge: quella della tradizione, quella dell’emancipazione, quella dei diritti umani, quella del rispetto del contesto giuridico, eccetera. Sullo sfondo delle varie risposte possiamo leggere gli elementi fondanti delle Mgf: da un lato, il controllo sociale sul corpo della donna, dall’altro l’importanza dell’istituto del brideprice, cioè del prezzo della sposa. È a questi elementi, l’uno simbolico e l’altro estremamente pratico, che fanno riferimento le donne che invocano le ragioni per cui “è meglio farlo”: per questioni di onore, per il rispetto della comunità, per poter trovare marito. Gli altri fattori girano intorno a questi due elementi fondamentali, sottolineando l’apprezzabilità dal punto di vista estetico, in quanto “garantisce la bellezza” (int. 153, Egitto, 63 anni); dal punto di vista igienico secondo chi dice che: “chi lo fa è pura, è pulita” (int. 128, Mali, 46 anni); da quello della garanzia di una condotta più morale e più serena, per coloro che pensano e affermano che: “si diventa normali, cioè non agitate di fronte al sesso” (int. 133, Etiopia, 26 anni) e “arriverai al matrimonio vergine” (int. 147, Eritrea, 26 anni). Si sottolineano inoltre le ragioni che portano a scegliere ciò che è più indicato per evitare l’esclusione da parte del gruppo di appartenenza: “se non lo fai, non vieni considerata come 169


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parte della società” (int. 147, Eritrea, 26 anni); “i nostri genitori non vogliono la nostra esclusione dalla società, infatti se non lo fai saresti rifiutata” (int. 151, Sierra Leone, 34 anni). Le donne che hanno presentato delle ragioni per cui “è meglio farlo” sono state in tutto 13, a fronte di un totale di 30 donne che invece, sono convinte che “è meglio non farlo”. Come abbiamo visto, le donne favorevoli alla pratica sono solo 8; di fatto tra quelle 13 che hanno portato argomenti a favore, ce ne sono 5 che hanno portato analogamente degli argomenti contro. Si tratta delle donne che hanno cambiato idea, di quelle che si definiscono indecise, e che abbiamo già definito “in bilico”. E ce n’è anche una che si è dichiarata assolutamente contraria alla mutilazione e con questa argomentazione spiega le sue scelte: “Io sono cresciuta con mia nonna, in Eritrea, e lei a telefono mi chiede sempre se non l’ho ancora fatto alla bambina, e io gli rispondo che non lo farò assolutamente. Mia nonna dice che così lei (la bambina) a 12 anni avrà voglia e poi andrà con altri uomini oltre suo marito. Io non so se è vero o è sbagliato, perché visto che a me lo hanno fatto non posso sapere come sarebbe stato senza; se sarei andata con altri uomini. Però non mi importa, non sta a me imporre questa cosa a mia figlia, e comunque non voglio farle male. Non mi importa delle proteste di mia nonna, perché quando sei al paese ragioni molto come vuole la famiglia, mentre quando sei qui in Europa si ragiona come vuoi tu”. (int. 170, Eritrea, 39 anni)

La prospettiva presentata da queste donne, ovvero la rappresentazione di elementi a favore e anche contro le Mgf, permette di cogliere una specificità assolutamente trascurata del cambiamento culturale, che è quella della contemporaneità, della sovrapposizione e dell’ibridazione dei significati. Migrare da un sistema culturale a un altro e riuscire nella scommessa dell’integrazione non significa assorbire – come rappresentato da un immaginario che semplifica e forse anche rassicura – come sole valide, le ragioni e i costumi del contesto di accoglienza e relegare alla sfera più privata e quasi folkloristica alcuni elementi di quella di origine. È più probabile, e comprensibile, un’operazione di continua osservazione, analisi ed elaborazione dei molteplici significati che si hanno a disposizione e che provengono dai multipli contesti ambientali e culturali che si attraversano. In questo senso, ci rivela probabilmente molto più di sé – e di questo processo – la donna che riconosce una validità alle motivazioni sia in favore che contrarie alle Mgf, di chi assume una 170


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prospettiva contraria rivendicandola come propria al nuovo contesto di immigrazione, quello europeo. L’idea che l’eliminazione del clitoride permetta la limitazione della pulsione sessuale è una delle più persistenti, giacchè possiamo infatti trovarla trasversalmente in donne che sono favorevoli e donne che non lo sono affatto, ed è un tema al centro delle riflessioni ed elaborazioni delle madri migranti provenienti da queste aree geografiche. Far crescere le figlie in Europa è vissuto da alcune madri come ancora più rischioso, per la condotta morale delle figlie, di quanto non lo sarebbe stato se fossero rimaste nel loro paese. Ciò perché le relazioni tra i ragazzi e le ragazze sono codificate in maniera molto diversa rispetto a quelle proprie del contesto di origine, come afferma un’intervistata: “Mia sorella al paese non lo ha fatto alla figlia, ma io stando qui a Roma ho paura per la bambina, con tanti modi di fare tra ragazzi e ragazze che non mi piacciono. Quindi, per evitare il disastro, è meglio fare un piccolo taglio”. (int. 125, Sudan, 36 anni).

Ma crescere “in Europa” significa anche, per alcune, dare un diverso credito alle proprie figlie, non necessariamente perché abbraccino i principi della libertà sessuale, ma perché esse stesse rifiutano di togliere loro l’autonomia di decidere per sé e per il proprio destino. Un’autonomia di cui gli stessi genitori fruiscono solo in funzione della distanza dalle norme e dal controllo sociale che esercitano le comunità locali nel paese di origine. Accanto a questa nuova libertà attribuita alle figlie c’è evidentemente l’affrancamento per le stesse da un destino di sopravvivenza legata alla possibilità di trovare marito. 5.6.1 La forza dell’identità Tra gli argomenti che sono stati portati più di frequente tra le donne favorevoli alle pratiche di Mgf, si distingue comunque quello più slegato a ciò che la pratica è in senso materiale, quello che chiude la porta a ogni tentativo di farne oggetto di discussione; ossia il tema dell’identità, della cultura, dell’appartenenza, della tradizione “Fa parte della mia cultura, nella mia famiglia si è sempre fatto, è una nostra identità specifica” (int. 146, Eritrea, 22 anni), “Ci credo fortemente: è purezza, è identità culturale” (int. 150, Yemen, 38 anni).

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Per delle donne che vivono da anni in un diverso contesto sociale e culturale, spostare il tema e le scelte sul destino delle proprie figlie nell’ambito delle cose che fanno parte della tradizione e della propria identità culturale, rappresenta probabilmente più che una mera continuazione di quella tradizione, per collocarsi come un posizionamento reattivo che chiude le porte al confronto. Soprattutto se, come abbiamo visto in una delle interviste citate, il soggetto con cui confrontarsi (il cosiddetto ”Occidente”) non viene vissuto come un interlocutore neutro ma come soggetto che giudica, condanna, si erge a protettore di quelle bambine che i genitori intendono proprio, dal canto loro, proteggere dal pericolo dell’esclusione sociale. In poche parole, ciò capita quando l’influenza culturale e normativa della società di accoglienza viene percepita come un’ingerenza indebita e di stampo coloniale. Questo sentimento viene rafforzato dalla percezione che nel nostro paese ai migranti venga soprattutto richiesto di adattarsi e integrarsi, senza che però vengano offerte delle opportunità effettive di inserimento sociale e confrontandosi con problemi di inefficienza istituzionale se non esplicitamente di discriminazione. Questo è quanto si può osservare nelle parole di una delle donne intervistate: “L’accoglienza è una brutta parola, di fronte a quello che noi stranieri subiamo. Semmai, ci si accoglie tra di noi e basta. È meglio che non parliamo del tema dell’accoglienza, perché ho solamente dispiacere a pensare alla mia esperienza personale e alle condizioni di tanti altri che conosco che sono venuti qui”. (int. 171, Mali, 43 anni)

5.6.2 L’importanza di una corretta informazione sanitaria In un solo caso un’intervistata ha dichiarato tra i motivi per cui è meglio praticare le Mgf il fatto che “non ha mai fatto male a nessuno” (Eritrea, 22 anni); una dichiarazione che nel migliore dei casi può essere considerata di ingenuità, se si pensa sia alle conseguenze a lungo termine dell’infibulazione, sia alle sofferenze e ai rischi della stessa escissione soprattutto se praticata in modo tradizionale. Al contrario, è da considerare che una parte delle donne che valuta positivamente le Mgf le consideri una pratica di cui si può trascurare il portato di sofferenza fisica, per diversi motivi: in primo luogo perché bisogna mostrare coraggio nell’assumere il proprio ruolo sociale e nel costruire la propria identità di donna adulta, in secondo luogo perché la sofferenza è compensata dall’onorabilità 172


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e da una grande festa per la bambina – festa che suggella con i doni e l’attenzione della comunità il patto dell’appartenenza – e infine ma non ultimo, per il fatto che loro stesse portano su di sé i segni di quel consenso sociale. A fronte di queste valutazioni sulla percezione culturale dei traumi e della sofferenza, è necessario sottolineare l’importanza dell’informazione sanitaria in merito ai rischi e alle conseguenze delle diverse pratiche di Mgf. Bisogna pensare all’utilità anche di quello che può apparire come un “portare” l’informazione su quanto le donne stesse vivono in prima persona; come, ad esempio, le difficoltà che possono trovare nella relazione sessuale e le complicazioni per il parto che riguardano le donne infibulate. Questo perchè è stato da più parti sottolineato il fatto che il sesso, e il tema delle Mgf in generale, vengono considerati un tabù di cui non si parla mai, sul quale quindi non si genera un confronto con altre donne. Ed è necessario sottolineare i pericoli della realizzazione di qualunque pratica di mutilazione con i “metodi tradizionali”, che può dar luogo, come hanno potuto testimoniare in prima persona alcune intervistate, anche alla morte delle bambine. Molte donne che spiegano le loro ragioni per non continuare queste pratiche parlano proprio dei rischi e delle complicazioni che possono sorgere, mostrando – anche nell’uso dei termini – l’effetto diretto delle campagne di informazione sanitaria che mettono in guardia su queste problematiche, campagne che si svolgono soprattutto nei paesi di origine. Alcune affermazioni delle intervistate ci riferiscono infatti informazioni specifiche: “Il taglio si fa con strumenti non adeguati” (int. 130, Mali, 53 anni) “Dicono che fa male durante il parto, e che danneggia psicologicamente la donna” (int. 131, Nigeria, 52 anni) “Si perde tanto sangue e può causare l’anemia e anche la malnutrizione”. (int. 152, Niger, 46 anni) Ma nel processo comunicativo influiscono molte variabili, che riguardano il modo in cui viene data l’informazione, il contesto nel quale ciò avviene, la possibilità di comprensione e l’attenzione selettiva di chi la riceve. L’impressione che si ricava in alcuni casi dalle interviste è che non sempre le informazioni sono adeguate o ben tarate rispetto a chi ascolta, ma anche che, con molta probabilità, l’acquisizione delle stesse avvenga in modo dogmatico. Ossia che molte nozioni al riguardo restino un dato asettico per la donna che non trova un riscontro nella propria personale esperienza o conoscenza. Per fare degli esempi, alcune infor-

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mazioni e conoscenze che riguardano i rischi e le conseguenze dell’infibulazione possono non corrispondere in pieno alla realtà del “solo” taglio del clitoride, poiché non causando occlusione non comporterebbe di per sé problematiche relative al parto. Inoltre, parlare di conseguenze psicologiche relative al trauma subìto non è necessariamente corretto per rendere conto della realtà – parliamo soprattutto dei paesi di origine – di tutte le donne che assumono come normale la propria condizione e per le quali, ricordiamo, il trauma trova spesso una forte compensazione nel patto di integrazione con il proprio contesto sociale. In sostanza, dalle interviste si riscontra che c’è una quota di donne che considera le Mgf molto dannose per la salute sulla base di esperienze personali o di prossimità, o perché hanno recepito messaggi convincenti dalle campagne di informazione contro la pratica delle Mgf. Messaggi che le donne hanno integrato con elementi del proprio bagaglio culturale e giungendo alla convinzione – o rafforzandola se già presente – che le Mgf siano una pratica da rifiutare. Un’altra quota di donne invece, sebbene sia stata raggiunta da informazioni di tipo sanitario che mettono all’erta sui rischi (pericolo di decesso, complicazioni a lungo termine e trauma), mostra di non averle fatte proprie; questo perché probabilmente, si è nell’impossibilità di metterle a confronto con esperienze note (la soggezione nell’affrontare certi argomenti si è sempre dimostrato un eccellente strumento per la sopravvivenza di pratiche di violenza); oppure perché queste persone sono carenti sui temi di educazione sanitaria. In questi casi, osserviamo argomentazioni contrarie alle Mgf da parte di donne che non sono comunque convinte che non si debbano più praticare, come nel caso di questa donna del Mali di 46 anni: “Dicono i medici che è un danno gravissimo per la salute della donna, che la traumatizza psicologicamente e che poi il parto diventa complicato… Non so più dire cosa è meglio per una donna. Comunque, io ho subito l’escissione e non ho avuto nessun tipo di problema di cui adesso sento parlare qui a Roma. Ho fatto tutti i figli con parto naturale senza nessuna complicazione, e in più sono sana di mente! Solo Dio sa cosa è meglio per noi donne!” (int. 128, Mali, 46 anni)

5.6.3 Le ragioni contro Considerando ora le risposte alle ragioni contrarie al praticare le Mgf 174


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troviamo, come si è in parte già anticipato, un misto di esperienze personali, di informazioni derivanti da campagne informative e di specifiche posizioni che riguardano i diritti umani delle bambine, l’autonomia di scelta rispetto alla tradizione, l’emancipazione da saperi erronei quali quelli della verginità “costruita” o del legame tra le pratiche di mutilazione e la religione. A queste si aggiungono le considerazioni che investono direttamente l’esperienza della migrazione e della nuova realtà che i genitori e le bambine vivono nel nuovo contesto. Vogliamo riportare alcune delle numerose affermazioni delle intervistate: “Credo che il corpo della donna non vada toccato”. (int. 154, Congo, 34 anni) “Non è vero che non si trova marito se non si fa”. (int. 165, Nigeria, 22 anni) “È soltanto ignoranza: i nostri nonni pensavano di far bene ma mancavano di istruzione”. (int. 141, Somalia, 25 anni) “La legge dal 2003 lo vieta nel nostro paese”. (int. 152, Niger, 46 anni) “È contro ogni religione. L’imam del mio villaggio ci ha detto che l’islam non vuole la sofferenza delle donne”. (int. 168, Somalia, 47 anni) “Non sta a me imporre questa cosa a mia figlia”. (int. 170, Eritrea, 39 anni) “Le ragazze che crescono qui poi si sentono diverse dagli altri, vivendo in Europa avrai probabilmente dei problemi psicologici”. (int. 157, Guinea Konacrì, 28 anni)

Le ragioni contro la pratica rappresentano quindi, per tutte le donne intervistate che provengono da contesti a tradizione escissoria, una serie di conoscenze, convinzioni e valori che sono stati acquisiti non certo solo nel nostro territorio, ma che hanno radici nelle biografie personali. Non secondario, come accennato, il fermento culturale che sta portando avanti ormai da diversi anni un nuovo sguardo e un nuovo atteggiamento verso le Mgf in tutti i paesi interessati. È interessante tuttavia notare che, come è noto nelle ricerche sui migranti, chi ha lasciato il proprio paese tenda sia a idealizzarlo e sia a conservarne un’idea statica, immutabile, pensando che le cose continuino ad andare avanti esattamente come le conosceva prima dell’espatrio, anche molti anni prima. Nella fattispecie, è possibile riscontrare tra gli immigrati – è noto l’esempio degli italiani d’oltreoceano – un atteggiamento particolarmente conservatore e il mantenimento di costumi ormai desueti anche nel paese di origine. Questo ci serve a tener presente che la proposizione di costumi della propria 175


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terra può anche corrispondere a una visione romantica di un mondo in cui nulla cambia, come dimostrano le testimonianze, molto dissonanti circa l’attualità della pratica, di donne provenienti dallo stesso paese.

5.7 Il riferimento agli altri: atteggiamenti e comportamenti È dunque doveroso considerare le comunità migranti, pur provenienti dallo stesso paese, come insiemi tutt’altro che omogenei e la cui influenza sulle scelte individuali dei singoli può avere una rilevanza molto limitata, ad eccezione di specifiche situazioni. Queste situazioni sono quelle nelle quali le persone hanno uno scarso grado di autonomia, sviluppano un legame di dipendenza marcata rispetto a un gruppo o una rete sociale che mette a disposizione beni la cui fruizione è limitata o impedita nel contesto sociale più allargato (ad esempio risorse economiche, opportunità di lavoro, orientamento sociale ecc). Tali sono i casi ad esempio delle centinaia di richiedenti asilo che dai paesi del Corno d’Africa convergono a Roma nelle grandi occupazioni di case gestite e strutturate dai connazionali; dei molti musulmani di diversa provenienza che, all’interno delle comunità organizzate, scambiano appartenenza e condivisione con il sostegno della rete, e in generale di tutti coloro che trovano all’interno di gruppi anche piccoli di connazionali una fonte di sopravvivenza indispensabile o apparentemente tale. Alcuni dei fattori che pongono i migranti in condizione di scarsa autonomia sono impliciti in un contesto “poco accogliente” come quello della nostra burocrazia e, in particolare, della metropoli romana. L’intervento di chi parla la propria lingua e conosce meglio il contesto di accoglienza si rivela indispensabile per fruire delle giuste “dritte” sulle procedure amministrative; l’interpretariato da parte di un connazionale è indispensabile in tutti i tipi di servizi pubblici, dove i mediatori sono l’eccezione e non la regola; le opportunità di lavoro, perlopiù in nero, si rintracciano solo all’interno delle reti che già sfruttano altri connazionali. Il problema dell’alloggio si risolve in ormai migliaia di casi solo tramite l’occupazione di edifici, attraverso azioni collettive; infine, molti ritrovano nelle comunità organizzate un mondo di condivisione che offre riparo e conforto da un razzismo diffuso verso le proprie appartenenze etniche e/o religiose.

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Tra le donne intervistate l’opinione della comunità riguardo le loro scelte non è stata citata come un fattore che abbia un nesso di causalità diretto con il proprio punto di vista sul tema delle Mgf, sebbene questa fosse una delle ipotesi di partenza da verificare nello svolgimento della ricerca. In realtà, come hanno mostrato anche le interviste agli opinion leader, il tema Mgf non sembra oggetto di interesse per delle comunità non particolarmente coese, e molto impegnate a sopravvivere in un contesto che offre poche opportunità di inserimento. Le osservazioni delle 38 donne sui pareri della rispettive comunità si dividono tra: a. chi considera i connazionali come un gruppo non uniforme e dunque non omologato intorno a un pensiero concorde riguardo la pratica (sono 13 casi, di cui solo 2 favorevoli alla continuazione della pratica); b. chi ritiene che gli altri siano d’accordo con la propria posizione (vi sono 3 donne favorevoli alle Mgf, e 4 che sono contrarie e dichiarano che lo sono anche le persone che frequentano abitualmente); c. chi ignora o si disinteressa totalmente della questione (per affermare una ferma posizione favorevole alle Mgf, 3 casi). Se osserviamo come sono articolate le posizioni nei tre gruppi osserviamo che le due intervistate favorevoli alle Mgf del primo gruppo sono quelle che dimostrano di essere consapevoli che l’opposizione alla pratica non viene solo da un’estranea società di immigrazione, ma anche ormai dalla propria stessa gente. Come si è già fatto notare, si tratta di una forma di tradizionalismo che non accetta il cambiamento che ormai è in corso negli stessi paesi di origine. Inoltre altre 4 donne in questo sotto-gruppo affermano un principio di cui è bene tenere conto: che l’opinione delle persone rispetto alle Mgf non dipende dalla nazionalità bensì è funzione in maniera determinante del gruppo etnico e/o clanico di appartenenza o della posizione in proposito della propria famiglia. Queste le testimonianze: “Gli altri membri della comunità ragionano a seconda della loro appartenenza” (int. 128, Mali, 46 anni e int. 132, Nigeria, 36 anni) “Ognuno pensa a modo proprio, a seconda della propria famiglia”. (int. 134, Etiopia, 32 anni e int. 141, Somalia, 25 anni) Vorremmo sottolineare però che il riferimento all’etnia non è un richiamo a un’appartenenza ancestrale rispetto alla quale le persone non operano posizionamenti o prese di distanza: è quanto dimostrano i risultati

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di questa ricerca, in cui ben 25 donne che provengono proprio da gruppi e famiglie nella cui tradizione c’è la pratica delle Mgf hanno deciso in senso inverso a quanto si è sempre fatto, e sono oggi dei soggetti capaci di influenzare e di orientare a loro volta il proprio contesto di prossimità in senso dissuasivo.

5.8 Sfidare la legge, partire, fingere: quelli che non rinunciano Le informazioni raccolte attraverso le interviste lasciano intravedere una decisa inversione di tendenza rispetto alla pratica, soprattutto se consideriamo il contesto della società di immigrazione, ovvero un ambiente in cui le Mgf non sono né condivise né offrono il riscontro sociale che hanno nei paesi di origine. Questo contesto a nostro avviso più che determinare la transizione verso atteggiamenti di disaffezione - o addirittura di condanna - della pratica la facilita, offrendo maggior opportunità di conoscenza di altre realtà, di confronto e di riflessione sul senso delle Mgf dove queste non rappresentano la norma. Questi aspetti sembrano determinanti, mentre nessuna rilevanza è stata data, dalle donne intervistate, alla presenza di una specifica legge in Italia contro le Mgf. Gli unici riferimenti alla proibizione legislativa riguardavano infatti la presenza di leggi specifiche nei propri paesi di origine, citate in generale come deterrenti per la prosecuzione, ma in un’occasione anche per segnalare che l’esistenza della legge ha reso la pratica clandestina, e quindi “alcune persone possono anche condividere la pratica e volerla continuare, ma non faranno capire la loro posizione perché adesso c’è una legge che lo vieta”. (int. 133, Etiopia, 26 anni).

Tenendo conto della verità presente in quest’ultima osservazione, abbiamo chiesto alle intervistate di indicarci, in maniera totalmente anonima, se fossero a conoscenza di casi di persone che hanno praticato delle mutilazioni sulle figlie qui in Italia, per ottenere un semplice riscontro informativo rispetto a questa realtà sommersa. Il dato richiesto si riferisce quindi non più all’interessata o alla sua ristretta cerchia familiare o amicale, ma al più ampio contesto della comunità presente nel territorio, fatta anche di conoscenze superficiali o di contatti solo indiretti. All’in-

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terno di una popolazione di riferimento così vasta abbiamo ipotizzato di poter trovare un numero significativo di testimonianze, a meno di non considerare questa pratica già scomparsa o totalmente sommersa. Di conseguenza, il fatto di avere individuato solo in 4 testimonianze le tracce della pratica clandestina fa pensare non solo alla migliore delle ipotesi (che il dato corrisponda a una realtà ormai in estinzione), ma anche all’attenzione alla dimensione del reato: un’attenzione da parte di chi lo commette a tenerlo sommerso, e da parte di chi ne è a conoscenza a non parlarne. Queste 4 testimonianze rendono conto apertamente della presenza di canali clandestini all’interno delle singole comunità, fatta di persone disposte a realizzare la pratica e tutelati proprio dall’omertà consapevole della proibizione esistente anche in Italia. “Alcune della mia comunità lo fanno, clandestinamente. Ci sono delle donne che si prestano a farlo, dietro compenso in denaro”. (int. 165, Nigeria, 22 anni) “Si, ne conosco molte che lo fanno qui clandestinamente perché sanno che qui è reato”. (int. 166, Somalia, 35 anni)

Solo una delle donne che riportano queste testimonianze (la più anziana) si è dichiarata a favore della pratica, mentre le altre sono tutte contrarie e nella dichiarazione di una di loro c’è un esplicito atto di condanna, che tuttavia non si spinge fino ad una personale assunzione di responsabilità in questo senso. “Ho delle amiche che l’hanno fatto perché specialmente le suocere lo esigevano, lo hanno fatto clandestinamente perché sanno che in Italia è reato, spero che saranno denunciate un giorno” (int. 167, Etiopia, 25 anni).

La maggior parte delle donne intervistate (sono qui 24 casi) ha dichiarato semplicemente di non aver mai sentito che qualcuno lo avesse fatto qui; una piccola parte ha fatto riferimento alla pratica della circoncisione maschile, e anche ai viaggi nel paese di origine per questo intervento su dei bambini figli di conoscenti. Altre donne hanno fatto invece esplicito riferimento al rientro nel paese di origine di conoscenti e amiche per praticare la mutilazione sulle bambine, ma per tutte quelle citate ciò risale a “molti anni fa”, e in un caso di una ragazza egiziana si riferisce alla propria stessa mutilazione:

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“Quando avevo 8 anni siamo tornate ad Alessandria con tutta la mia famiglia per le vacanze e dopo 10 giorni ci hanno preparate – secondo loro – bene psicologicamente insieme alle nonne e poi ci hanno fatto il taglio del clitoride e poi una grande festa, con tanti regali” (int. 138, Egitto, 23 anni)

Le testimonianze su conoscenti che anni fa tornavano al paese per le Mgf provengono da donne del Sudan, della Somalia, Guinea, Egitto. Queste testimonianze ci confermano in generale il rischio che le mutilazioni sulle bambine avvenga nei paesi di origine e quindi fuori dalla possibilità di vigilanza di un qualsiasi operatore in Italia. Un caso tra quelli citati sottopone anche una questione forse trascurata dalla legge 7 del 2006, ovvero quello dei figli di residenti in Italia che restano nel paese di origine affidati ai parenti, sui quali è difficile verificare il grado di responsabilità dei genitori: “Mia nipote, la figlia di mia sorella, era rimasta giù con i nonni, quindi mia sorella stava qui con il marito quando la loro bimba (aveva 8 anni) è stata escissa dalla nonna”. (int. 157, Guinea Konacrì, 28 anni)

L’elemento della responsabilità o della possibilità di imporre la propria volontà quando le bambine sono affidate ai parenti, in particolare ai nonni, è come si è detto una questione molto controversa per le stesse donne che hanno offerto la loro testimonianza. Rispecchia una difficoltà oggettiva, quella di giungere a una situazione di conflitto aperto con i propri familiari; un conflitto che non riguarda cioè il solo confronto verbale sulla “semplice” rottura delle tradizioni da parte dei genitori della bambina, ma un’azione di rottura concreta delle relazioni familiari, o di uno stato di continua vigilanza e sospetto quando ci si trova in vacanza nel paese di origine. Nei due casi in cui è stato riferito di conoscenze dirette in cui le figlie sono state mutilate all’insaputa del genitore non sono state riportate anche conseguenze nella relazione genitori-nonni, mentre in un altro caso raccontato da una delle intervistate, si parla di una rottura categorica tra la madre ignara e la nonna, che ha fatto tagliare a sua insaputa le bambine affidatele per le vacanze. Infine, ci sono altre strade citate per scongiurare una simile e aperta rottura con i propri parenti o con il proprio gruppo di riferimento: quello delle “finte pratiche”. Ne è stata citata sia una fatta nel paese di origine

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e sia una svolta molti anni fa in Italia: il parere comune di queste esperienze è però quello di una cosa anch’essa superata e che si realizzava in un periodo in cui le Mgf erano messe così poco in discussione che sarebbe stato troppo faticoso affermare un punto di vista diverso. Al contrario, oggi la pluralità di posizioni in proposito lascia molta più libertà di scegliere secondo coscienza, e quindi di mettere via anche una ritualità di questo genere, come conclude un’intervistata: “Io stessa ho fatto una finta pratica facendo una grande festa qui in Italia tanti anni fa per evitare la critica della mia comunità, per essere una persona normale in mezzo agli altri, e mi è andata bene perché la mia comunità allora è stata molto orgogliosa di me! Ma adesso apertamente condivido lo stop della pratica: speriamo bene”. (int. 143, Somalia, 48 anni)

5.9 I focus group con i membri delle comunità: confronti sulla transizione e sul da farsi Molti dei contenuti utili a comprendere le caratteristiche e le direzioni del cambiamento nell’ambito del fenomeno Mgf sono già stati evidenziati grazie alle osservazioni delle donne intervistate. L’analisi di due focus group realizzati nel corso della ricerca tuttavia rappresenta un altro importante contributo, per due motivi: in primis, perché dal confronto tra più voci sono emersi con maggiore forza alcuni aspetti solo accennati nei dialoghi individuali; in secondo luogo, perché questi confronti investono i piccoli gruppi di persone riunite nei focus di una richiesta esplicita da parte del ricercatore che modera la discussione: quella di prendere la parola sul tema, di fare advocacy, di ipotizzare soluzioni. Riunire un numero minimo di 6 partecipanti dei gruppi nazionali di nostro interesse in uno stesso luogo e orario è stato particolarmente arduo: è infatti prassi, soprattutto in un approccio di ricerca-azione, proporre a chi mette a disposizione la propria testimonianza il massimo grado di flessibilità e di disponibilità del ricercatore. Chi deve svolgere un’intervista è consapevole dell’impegno e del tempo che questa attività rappresenta anche per l’intervistato, pertanto cerca di ridurne il disagio: incontrandolo sul luogo di lavoro, presso la sua abitazione, di sera, nei fine settimana o in qualunque posto e momento in cui questo sia disponibile. L’intervistatore è poi consapevole che l’unica valida compensa181


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zione del tempo sottratto all’intervistato risiede nel condividere insieme a quest’ultimo il senso dell’investimento personale nella ricerca e del valore che ha la parola degli attori sociali. Tale premessa non ci sembra superflua per sottolineare non solo la difficoltà di mettere insieme le persone per i gruppi di discussione, ma anche il valore dell’impegno di chi ha voluto partecipare. Senza dubbio, proprio per la natura di questo impegno, c’è stata una selezione naturale – sia da parte del ricercatore che da quella dei partecipanti – di soggetti sensibili al tema e al superamento delle pratiche di Mgf, ma questo dato non ha inficiato minimamente i risultati del focus group. 5.9.1 Le rappresentazioni delle Mgf: la festa, l’onore, il passato Come già detto le discussioni dei gruppi non riflettono contenuti differenti nella sostanza da quelli già noti ed espressi nelle interviste. Da quanto riferito, le Mgf rappresentano per le popolazioni che le praticano un’usanza imprescindibile, così come lo era la verginità delle figlie che si doveva a tutti i costi salvaguardare; tramandarle era funzionale alla difesa dell’onore delle donne, e delle famiglie stesse, per evitare umiliazioni insostenibili, come quella di vedersi rimandare indietro una sposa; praticarle mette al riparo dall’eccessivo desiderio sessuale delle bambine, che si potrebbe scatenare intorno ai 14 anni (c’è chi dice 12) quando maschi e femmine iniziano a frequentarsi con maggiore interesse reciproco, e così via. E nel contesto della migrazione? In sostanza, ciò che emerge è che le donne non vogliono più far provare alle proprie figlie le sofferenze che hanno sperimentato perché il dolore stesso, la sofferenza come rito di passaggio e dimostrativo ha perso il valore che gli si dava nel contesto di origine (lo testimonia la stessa medicalizzazione del rito in alcuni paesi dove si praticavano ancora legalmente fino a qualche anno fa). E naturalmente, perché le seconde generazioni delle comunità insediatesi negli anni ’80 sono ormai cresciute, e il feedback delle ragazze cresciute accanto a coetanee di culture diverse è riferito come un vissuto di differenza, di privazione e di problematicità. Inoltre è con una sorprendente disinvoltura che viene affermato che, una volta svelato il carattere per così dire “terreno” di questa usanza, cioè una volta acquisito il principio che non è affatto prescritto dall’Islam come in molti credevano, non

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sarà un problema abbandonarla. È quanto dichiara convinta una delle partecipanti: “Questa cosa era un’abitudine, non era un obbligo religioso, se si lascia alla fine, non è neanche una cosa grave per la verità! Io se avessi una figlia qui, neanche glielo farei!”.

Gli elementi che sono stati però sottolineati dalle partecipanti – in maggioranza donne – riunite proprio per la voglia di prendere la parola su questo tema, sono gli argomenti per spiegare agli italiani cosa sono le Mgf oggi, per loro stesse, e per scongiurare la perpetuazione di uno sguardo negativo su di sé e sulla propria cultura. In sostanza, le Mgf oggi rappresentano, per chi viene da quella tradizione (non per tutte, ma per la maggioranza che soprattutto nella migrazione le abbandona), il ricordo del passato. Un passato da prendere come tale: legato a credenze superate, alla mancanza di istruzione delle famiglie, alla mancanza di emancipazione delle donne. Un passato che le donne che partecipano al focus dichiarano di aver subìto, che si lasciano alle spalle, ma con il quale tuttavia fanno i conti personalmente, non potendo condannare i propri genitori che hanno agito conformemente a quanto ritenevano giusto per le figlie. Non per tutte naturalmente la situazione sarà così lineare, e molte variabili concorrono a determinare la possibilità che si sviluppi o meno una elaborazione di questo genere. Ciò che le partecipanti hanno riportato nel gruppo è però la volontà di spiegare al mondo esterno, al cosiddetto “Occidente che giudica” che non c’è né in loro e nemmeno nei loro genitori che hanno praticato le Mgf, quel carattere di mostruosità che gli si attribuisce. Forse il modo migliore per spiegare questa posizione, è nelle parole di questa donna, che riflette un’elaborazione particolarmente significativa sul cambiamento culturale (quello che attraversa la propria cultura così come tutte le altre): “Purtroppo questa è un’usanza, non è che siamo barbari, ora è superata: come era un’usanza stendere fuori dal balcone il lenzuolo sporco di sangue della sposa 30 anni fa in Sicilia! Mica si sente nessuno dire che erano dei selvaggi, e oggi non c’è più”.

L’altra osservazione che viene fatta nel gruppo, e rivolta in particolare alla ricercatrice italiana che prendeva appunti, era anch’essa mirata a spiegare, a mostrare le Mgf “dal di dentro” il senso che hanno per chi le vive/viveva: 183


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“non è una cosa da condannare, era un costume, della famiglia proprio (….) era un’usanza millenaria, si faceva la festa (….) è una festa quando ti fanno questa cosa, capito?”.

L’intento non è quello di giustificare, e l’invito a non condannare non riguarda l’oggi ma il passato e le usanze delle proprie famiglie. Le Mgf assumevano il senso pubblico della festa, dell’attenzione della comunità intera per la bambina che acquisiva un nuovo e più elevato status sociale; le famiglie come spesso anche le bambine che aspiravano ad essere come le altre, mettevano in secondo piano, o sullo sfondo, il doloroso passaggio in funzione di un beneficio considerato superiore. Questo insieme di saperi e consapevolezze sono oggi appannaggio delle donne provenienti dai gruppi che praticavano le Mgf e di pochi studiosi della materia, mentre la maggior parte delle persone nel contesto di immigrazione limita la propria prospettiva sul tema all’orrore e alla condanna senza mezzi termini di un intero sistema culturale. 5.9.2 L’influenza dei divieti legislativi Certo, tutti i partecipanti ai focus esprimono il proprio punto di vista, ma affermano anche che il rifiuto del passato non vale per tutti e che ci sono quelle che non riusciranno ad abbandonare facilmente la pratica. Come dice più di una di loro: “molti lo sanno che è vietato e non lo possono fare qui, però continuano a volerlo fare, gli piacerebbe (…) Prima quando si diceva che non si doveva fare la gente non ascoltava, le mamme che lo volevano fare lo facevano, c’è sempre qualcuno che lo fa”.

Anche a questo proposito sono già stati osservati alcuni elementi in gioco: le bambine sono poco a rischio qui, perché anche se i genitori hanno il desiderio di realizzare una Mgf, mancano le condizioni materiali per attuarlo. Molti non hanno la possibilità di rientrare nel proprio paese dove molto probabilmente questa opzione sarebbe più praticabile. Mancano le figure tradizionali che realizzano queste pratiche, soprattutto se consideriamo le anziane che praticano artigianalmente le infibulazioni: anche per questo però nel gruppo viene riferito che quelli che non hanno la possibilità di farlo passano dalla tradizione della cucitura (infibulazione) progressivamente verso altre forme più “leggere” come quella che 184


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molti chiamano la sunna, un piccolo taglio. A chi è attaccato alla pratica sembra ammissibile anche una versione ridimensionata, come dice un donna: “io sono convinta che ci sono delle mamme africane per le quali proprio per la cultura che hanno così radicata, anche fare solo un piccolo taglio alla bambina basta per farle sentire a loro agio”.

Sono tuttavia interessanti i commenti che riguardano la considerazione dell’elemento legislativo, della proibizione ufficiale delle Mgf, che si tratti dei paesi di origine o dell’Italia. Come evidenziato, la legge non sradica di per sé delle convinzioni, ma quella nel contesto di immigrazione ha comunque un effetto dissuasivo, per diverse considerazioni. Una prima affermazione ci introduce all’idea dell’applicazione delle legge sostenuta dalla distanza culturale: nei paesi di origine è noto che chi pratica le Mgf esercita un mestiere tradizionale, mentre chi dovesse essere colto in flagranza qui in Italia non beneficerebbe di nessuna indulgenza o comprensione. Così infatti dichiara una donna: “la legge qua è un altro conto, da noi io non ho mai sentito nessuno che è stato condannato, perché da noi è un lavoro, per le donne che devono andare avanti”.

Il secondo elemento che dà maggiore forza alla legge in Italia rispetto a quella dei paesi di origine è legata alla precarietà dello status degli immigrati, uno status debole, appeso a un filo come ormai molti anni di cattiva gestione del riconoscimento dei più elementari diritti di cittadinanza ha insegnato. Quindi altri partecipanti hanno sottolineato che: “secondo me la legge non fa paura nei nostri paesi, ma qua sì perché non ti senti tutelata! (…) Male che vada da noi puoi finire in prigione. Ma qui fa paura il fatto di sapere che ti possono togliere i bambini (...) La paura è qui, nel paese ospitante”

L’interesse e l’attaccamento alla tradizione in questo caso si trova a dover essere misurato su una bilancia al cui estremo c’è il pericolo di perdere la libertà, l’affidamento dei figli, e con alta probabilità, la regolarità del soggiorno. È chiaro che non c’è in gioco solo la legge e la certezza della sua applicazione, ma più in generale la percezione che la propria posizione sia già troppo fragile. Questo tipo di percezione però non va 185


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a favore di un abbandono consapevole di tradizioni da superare, perché non favorisce la spinta all’inserimento nel nuovo contesto sociale e al sentirsene pienamente parte. Uno dei partecipanti ha spiegato questo concetto in modo illuminante: “Secondo me non è solo la tradizione. Se tu non hai un paese che ti accoglie, l’unica scelta che hai è l’appartenenza. Su tante cose è una difesa”.

5.9.3 L’impegno necessario per avvicinare le donne ai servizi, e viceversa L’incontro delle donne con Mgf con i servizi sanitari – gli unici presso i quali si manifesta la loro specificità – presenta di frequente delle esperienze negative. Una citazione: “il medico ha detto perché ha fatto questo? Ma come si è combinata? E la signora ha dovuto spiegare che non lo ha fatto lei ma sua madre”.

Da queste strane reazioni si passa poi al tema delle numerose testimonianze di donne che subiscono visite ginecologiche collettive, già riportato in altre parti della nostra ricerca. Una pratica come quella della visita collettiva, che risulta intollerabile a qualunque donna in situazione di visita ginecologica, non può che rappresentare una evidente mancanza di rispetto e di sensibilità verso chi è fatto oggetto di tanta curiosità. Ce lo confermano le parole di più donne che criticano quanto hanno sperimentato: “quando vai dal ginecologo, già di per sé è una cosa intima, non è che vai volentieri, no? (…) alla visita tu vedi questi medici che ti guardano in modo strano, poi cercano di comportarsi in modo normale però ti vedono sempre come portatrice di una malattia (…).”

Soprattutto, la mancanza di tatto è più pesante verso chi ha meno dimestichezza proprio con delle visite così intime: diverse intervistate hanno specificato che le donne provenienti da diversi paesi africani (soprattutto Corno d’Africa) esprimono un pudore che le porta difficilmente ad affrontare con disinvoltura una visita ginecologica. Un esempio di una donna anziana esprime questo estremo:

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“quella signora ha avuto così tanta vergogna di fare una visita ginecologica che aveva un grosso problema e neanche ne ha mai parlato con me che abitiamo insieme da 26 anni e sono donna anche io! Quando alla fine si è sentita male è dovuta andare in ospedale ed essere operata!”

Il rapporto con i servizi sanitari è quindi difficile perché è presente per certi versi una barriera culturale a monte, prima ancora dell’incontro, e dopo interviene un’altra barriera che è quella dell’incompetenza del personale medico e infermieristico sulla situazione delle donne con Mgf. Le partecipanti sono d’accordo nel considerare gli operatori impreparati rispetto al problema: “non lo conoscono. Il personale sanitario su questo sta proprio a zero, l’Italia è indietro su questo. Io ho avuto un’emorragia e sono venuti tutti a guardare… non è giusto.”

Queste difficoltà vengono superate quando la spinta viene da entrambe le parti: le donne dal canto loro, dopo essersi trovate nella condizione di necessità (come a tutte accade in occasione del parto) dichiarano di non avere più difficoltà nell’avere a che fare con i medici, e avviano controlli anche di screening annuale, o comunque cambiano anche medico da un servizio a un altro manifestando sempre meno problemi. Se sull’altro versante il personale del servizio è in grado di stabilire una relazione di rispetto e di fiducia, entrambe le barriere vengono abbattute: si tratta di non perdere le occasioni quando si offrono, predisponendo appunto un ambiente professionale competente e attento non respingere le utenti con atteggiamenti di rifiuto. La richiesta che il personale medico sia formato e preparato a questo incontro si configura così non come una semplice speranza, ma come un’esplicita pretesa di un diritto da parte di una donna che nel corso dell’incontro ha dichiarato con fermezza: “secondo me è l’ignoranza che gli fa pensare chissà cosa quando si trovano davanti a delle Mgf o a delle situazioni che comunque non conoscono e non capiscono. I medici però non possono condannare le persone che si trovano davanti: il servizio sanitario deve essere preparato alle presenze delle donne che hanno subìto delle mutilazioni, perché se io lavoro e pago le tasse è per avere un servizio sanitario che funzioni e tenga conto anche delle mie esigenze!”.

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5.10 Un confronto con alcuni membri della comunità somala4 Lo spunto per un approfondimento dei temi appena trattati con i membri della comunità somala – presso la quale è più alta l’incidenza di donne con Mgf del terzo tipo, cioè infibulate, rispetto a tutti gli altri gruppi nazionali – è emerso in occasione del convegno organizzato nel giugno 2008 dalle principali rappresentanti femminili della comunità somala nel Lazio5. Questa occasione è apparsa propizia per l’attenzione rivolta al ruolo delle donne (è stato assunto come guida il pensiero di Boutros Gahli “Ora più che mai, la causa della donna è la causa di tutta l’umanità”), e per l’intento di costituire un forum delle donne somale della diaspora; un forum che agisca come strumento di comunicazione su temi quali: l’istruzione delle donne e dei loro figli, l’informazione sanitaria, la presenza delle donne nei centri di accoglienza per richiedenti asilo e, più in generale, la conoscenza e l’autonomia delle donne nel territorio. In questo ambito è stata proposta ad alcuni esponenti della comunità la partecipazione alla ricerca-azione per la realizzazione di focus group. Malgrado l’adesione di taluni, la proposta di incontri di gruppo con membri della diaspora somala ha richiesto una lunga e complessa preparazione, anche per non suscitare pregiudizi nei confronti della proposta stessa: quella cioè di comprendere il modo in cui le loro tradizioni in tema di Mgf potessero attraversare processi di cambiamento. Gli incontri sono avvenuti in case private, ad eccezione dell’ultimo, che si è svolto presso l’Istituto Salesiano del Sacro Cuore (che ha rappresentato storicamente un luogo di riferimento della comunità somala fin dai primi arrivi negli anni ’80) in occasione dell’elezione del presidente della Comunità somala nel Lazio6. In tale sede è stato possibile costituire un focus group di uomini tra i 20 e i 30 anni; si è trattato di persone che stanno sperimentando il disagio dei centri di accoglienza (che sono quindi giunti da poco nel nostro paese), e che nel corso dell’incontro hanno a lungo discusso dei molti problemi che vivono all’interno di queste realtà, lamentando in particolare l’insufficienza dell’assistenza sanitaria e la difficoltà della 4 Il presente paragrafo è stato redatto a partire dai focus group realizzati raccolti da Maria Grazia Scalise. 5 Si tratta del convegno del 15 giugno 2008 dal titolo “Quale futuro per le donne somale dopo 18 anni di guerra civile?” 6 In quell’occasione è stata eletta come presidente la prof.ssa Marian Mohamed Hassan.

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condivisione per uomini e donne di uno spazio comune. Alla richiesta di esprimersi riguardo le loro idee sulle Mgf le risposte di questi uomini sono state molto evasive, manifestando delle opinioni che sono apparse come largamente condivise: la prima era che si trattasse di una questione che interessa solo le donne; la seconda consisteva nella considerazione che per i somali ci fossero, in questo periodo storico, dei problemi ben più urgenti da trattare. Circa la prima opinione, si può riscontrare che è stata solo confermata una visione tradizionale – ma che nasconde le responsabilità maschili nel mantenimento dello status quo –, per la quale i padri non sono affatto determinanti nell’imporre alle figlie l’intervento di infibulazione quanto invece le madri e le nonne, timorose che quelle non vengano scelte per il matrimonio se “aperte”. Riguardo la minore crucialità del tema delle Mgf a fronte del dramma che sta vivendo il popolo somalo, si tratta di una posizione che è stata ribadita anche da rappresentanti femminili della comunità, nell’ambito di alcune conversazioni informali sulla ricerca in corso, mentre non si è riscontrata la stessa chiusura nel corso delle più “intime” discussioni emerse nei focus group con le donne. Anche con queste ultime tuttavia è stato abbastanza arduo superare una certa chiusura; chiusura legata principalmente alla difficoltà dell’elaborazione – sia individuale che collettiva – dei cambiamenti di significato del corpo come entità sociale. Si tratta per loro anche di svincolarsi, nella costruzione di una critica verso le Mgf, da una “introiezione positiva che nei millenni hanno sviluppato, legando la modificazione dei genitali a valori come orgoglio, bellezza, forza, castità, purezza, fedeltà; legandola alla loro stessa identità”7. Gli incontri realizzati con le donne sono stati 3 e si sono svolti presso le abitazioni di alcune di loro8, coinvolgendo donne giunte nel nostro paese da 4 a 20 anni fa. La chiusura cui si è già fatto riferimento ha di fatto pressoché impedito la possibilità di una vera discussione di gruppo, in favore di una sorta di intervista collettiva priva di un reale confronto. Difficile commentare dunque anche i pochi risultati emersi, che disegnano una realtà di segno opposto rispetto a quella esplorata prendendo in esame donne di diverse origini nazionali. Il primo dato che emerge con forza è quello della frustrazione legata a

7 Catania, L., Hussen O.A., “Ferite per sempre”, Derive Approdi, Roma, 2004 8 Sono stati realizzati: un incontro con 7 donne di età compresa tra i 33 e i 72 anni; uno con 6 donne di età compresa tra i 25 e i 65 anni; un terzo gruppo con 8 donne tra i 30 e i 45 anni.

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un inserimento sociale insoddisfacente, in primo luogo per quanto riguarda la collocazione lavorativa. A fronte di un elevato livello di istruzione infatti, sono in poche ad aver potuto esercitare la professione per la quale hanno studiato o che già esercitavano prima di emigrare (medico, infermiera, sociologa), mentre la maggioranza ha dovuto accontentarsi di posti come badante, addetta alle pulizie o impiegata presso i call center. Sottolineando inoltre le difficoltà burocratiche legate anche solo al rilascio del titolo di soggiorno pur in presenza di tutti i requisiti di legge, viene però espressa una generale soddisfazione per i servizi socio-sanitari. Quest’ultima considerazione evidenzia una volta di più il tentativo di eludere o ignorare il tema specifico delle Mgf, che non è stato infatti tematizzato come problema in sé legato alla fruizione dei servizi sanitari. Un altro dato che emerge dagli incontri è quello di una relazione non sempre positiva con le persone della propria comunità, attraversata da difficili dinamiche individuali o di gruppo. Le donne intervenute hanno manifestato di fatto di essere al centro di una rete complessa di rapporti che comprende, oltre ai connazionali residenti a Roma, i familiari rimasti in Somalia, ma anche un insieme di altri familiari spesso residenti anche in più di un altro paese di esodo: il Regno Unito, la Francia, i paesi scandinavi, il Canada eccetera. Riguardo il tema specifico delle Mgf, ciò che viene espresso appare come una forte difficoltà, come già detto, di affrontare il tema in un prospettiva in divenire. Tutte le partecipanti hanno dichiarato di aver subito delle Mgf: le più giovani hanno sottolineato come ciò si sia verificato all’interno di strutture ospedaliere, mentre le più anziane sono state restie a parlarne affermando solo di aver “rispettato la tradizione”. In questo contesto, la maggior parte delle donne consultate a riguardo si è espressa in senso positivo circa il desiderio delle madri di sottoporre le proprie figlie alle Mgf, ribadendone quindi il valore e introducendo – come unico correttivo rispetto alla dannosità implicita in queste pratiche – l’attenzione per l’aspetto igienico sanitario, ovvero per una situazione ospedaliera protetta per la realizzazione della pratica. Tra le più giovani trapela a stento un’insofferenza nei riguardi dell’influenza che le madri vogliono esercitare riguardo questa scelta; le poche dichiarazioni che lasciano intravedere una posizione di segno decisamente inverso sono quelle che mostrano la consapevolezza circa il ruolo dell’educazione. La diffusione dell’alfabetizzazione e dell’istruzione per le donne e per

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le nuove generazioni in particolare, non solo quelle emigrate ma anche quelle nel paese di origine, è vista da queste ragazze come lo strumento principale che le porterà a non assecondare più i rituali della tradizione, soprattutto laddove questi attentino all’integrità psicofisica delle persone. Le difficoltà riscontrate nel tentativo di analizzare più in dettaglio il contesto somalo a Roma, anziché fornire delle risposte auto-evidenti circa le posizioni presenti in questo gruppo nazionale, lasciano molti dubbi sulla possibilità di privilegiare questo ambito – cioè quello delle comunità nazionali ri-composte nel paese di immigrazione. Le stesse considerazioni delle partecipanti ai focus group fanno infatti intuire una relazione poco fluida tra i connazionali residenti, e il fatto che le questioni legate alle Mgf continuano ad essere appannaggio di un insieme familiare che è molto più transnazionale – in quanto composto di legami nel paese di origine e in quello/i di immigrazione – che locale, riconducibile ai nuovi legami sociali che si costruiscono nella realtà di residenza.

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6. Una base di conoscenze da cui ripartire di Giuliana Candia

6.1 Una realtà poco conosciuta Dalle numerose informazioni acquisite lungo il percorso di ricerca-azione emergono diversi elementi conoscitivi sulla realtà della presenza delle Mgf nella Regione Lazio e sul sistema di offerta di cura e di prevenzione. L’analisi di questi elementi viene presentata di seguito tentando una sintesi dei dati provenienti dalle diverse azioni di ricerca, e mettendo in evidenza aspetti senz’altro poco conosciuti o che comunque non sono ancora adeguatamente trattati né approfonditi in questo ambito. Infatti, sebbene la letteratura sulle Mgf sia ormai piuttosto ampia1, e atta a soddisfare esigenze conoscitive relative, da un lato, al trattamento medico – sia terapeutico che riparativo – e dall’altro alla comprensione delle loro origini, motivazioni e significati nelle culture di origine, sono ancora poche le ricerche che analizzano il fenomeno nei paesi di immigrazione delle popolazioni che abitualmente realizzano tali pratiche. Venendo alla realtà del nostro paese, sono assenti studi che permettano di tracciare un quadro realistico della presenza del fenomeno in Italia, e cioè: - della presenza di donne adulte e bambine con Mgf; - dello stato della riproduzione delle pratiche mutilatorie all’interno delle

1 Per una visione d’insieme dei testi sul tema delle Mgf, è disponibile un’estesa bibliografia articolata per le aree disciplinari che affrontano il fenomeno (area antropologica, sociologica e politica; area medico sanitaria e area giuridica) al fondo del presente volume

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comunità immigrate interessate; - del rischio per le bambine di subire tali pratiche nel paese di origine o in quello di immigrazione. Questo dato è tanto più grave se si considera il fatto che tali cifre non sono disponibili per un’accorta programmazione delle politiche di cura e prevenzione; eppure delle stime improbabili vengono estratte e in qualche modo accreditate (agli occhi dell’opinione pubblica) dai mass media per alimentare scandalo attorno al fenomeno. Altrettanto carente è il campo delle analisi che riguarda il sistema di assistenza e prevenzione, e in particolare mancano studi su: • l’organizzazione dei servizi di assistenza sociale e sanitaria in favore della cura e prevenzione delle Mgf; • la domanda di servizi proveniente dall’utenza interessata (le donne che hanno subito delle Mgf e le famiglie che potrebbero volerle realizzare); • le capacità di risposta da parte dei servizi e, più in generale, i rapporti dei servizi territoriali con questo specifico gruppo. Eppure quello che potremmo definire come l’“impatto” delle problematiche derivanti dalle Mgf con i nostri operatori sanitari non è affatto recente, essendosi verificato con l’arrivo dei primi flussi di donne somale negli anni ’80, come ricordano diversi dei testimoni qualificati intervistati nel corso della ricerca. Da allora sono numerosi gli operatori – soprattutto quelli sanitari – che avendo dovuto affrontare questa problematica nel corso della loro pratica professionale, o anche solo per prepararsi a questa eventualità, hanno approfondito le loro conoscenze in materia. Tuttavia i pochi studi che riguardano i servizi sono ancora oggi, a distanza di ormai tre anni dall’emanazione della legge 7 del 2006, unicamente centrati sull’individuazione dei pochi centri specializzati esistenti, cioè dei luoghi ai quali le donne potrebbero essere indirizzate. Ma com’è noto, le donne che soffrono per conseguenze derivanti dalle Mgf non sempre esprimono in maniera diretta una domanda di aiuto, ee resta quindi un fenomeno sommerso, rispetto al quale è difficile operare un pur opportuno orientamento verso delle strutture specialistiche. Le donne entrano in contatto invece quotidianamente con i servizi territoriali, ovvero con quelli sanitari ma anche con quelli sociali, con le scuole, con spazi nei quali vengono erogate prestazioni di accoglienza,

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orientamento, informazione, assistenza. A riguardo, poco o nulla è noto sulle competenze presenti sul tema delle Mgf presso i servizi che costituiscono l’ossatura del Sistema Sanitario Nazionale, o sulle conoscenze in possesso degli operatori sociali, educativi e sanitari che incontrano le donne e le famiglie immigrate o, ancora, sui possibili stereotipi sulla base dei quali entrano in relazione con questi. Attraverso il progetto di ricerca-azione ”Stop Mgf” si è voluto quindi avviare diversi processi ritenuti già in fase di progettazione come essenziali, e che sono stati portati avanti nel ciclo di vita del progetto ma che non si esauriscono con la sua conclusione formale: a. un processo conoscitivo relativo alla dimensione del fenomeno nella Regione Lazio e alla presenza di spazi e luoghi presso i quali già oggi sono attivi interventi in favore delle donne che hanno subito Mgf; b. un processo di coinvolgimento di numerosi attori sociali; coinvolgimento che ha portato molti operatori dei servizi a percepirsi da estranei alla domanda che abbiamo definito “sommersa”, a parte integrante del sistema delle risposte possibili, non ultimo attivandosi per la costituzione di tavoli di definizione degli interventi necessari in favore delle donne con Mgf; c. un processo di diffusione delle informazioni, delle conoscenze e dell’interesse sul tema, tanto presso la community degli operatori dei servizi pubblici e del privato sociale, che presso le comunità immigrate residenti nella regione di cui fanno parte i diversi gruppi a tradizione escissoria, anche – ma non solo – attraverso la stretta relazione con gli altri due progetti Stop Mgf (quello di Formazione e di Comunicazione). I risultati in termini di conoscenza derivano naturalmente dall’interazione e la sovrapposizione di questi tre processi, e verranno esposti sinteticamente nei paragrafi successivi.

6.2 I risultati sulla presenza di donne con Mgf nel territorio regionale È superfluo ribadire quanto sia difficile determinare delle stime di incidenza delle Mgf tra le donne originarie dei paesi a tradizione escisso-

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ria, e ciò per la natura intima delle informazioni necessarie per quanto riguarda le donne adulte, e per la clandestinità che caratterizza negli ultimi anni – e da sempre nel nostro paese – la pratica mutilatoria sulle le bambine. Le uniche stime sulla presenza in Italia di donne con Mgf2 sono riportate nelle Linee Guida del Ministero della Salute3, e utilizzano un procedimento che applica la stessa proporzione rilevata presso i paesi di origine alle componenti femminili dei diversi gruppi nazionali interessati presenti in Italia. L’utilizzo di quello stesso tipo di procedimento, applicato sul dato delle 10.729 straniere di quei paesi (senza distinzione di età) residenti nella regione Lazio, porterebbe la presenza stimata di quelle che hanno subito delle Mgf a un totale di 6.613 unità. Tuttavia tale processo di stima e il dato che ne consegue è tutt’altro che realistico – e dunque insoddisfacente – alla luce di numerose argomentazioni, esposte di seguito, che portano a considerare tale numero eccessivamente elevato a fronte della realtà laziale. 6.2.1 Cambiamenti sociali e culturali: l’impatto sulle diverse fasce di età e sulle diverse generazioni Secondo quanto riportano gli opinion leader delle comunità, intervistati circa la situazione delle Mgf nei rispettivi paesi (cfr. capitolo 4), negli ultimi dieci anni sono intervenuti numerosi processi di cambiamento che hanno ridotto notevolmente l’adesione alla pratica escissoria. Sinteticamente, tali processi in Africa sono stati attivati da: l’accresciuta urbanizzazione, le migrazioni e i soggiorni (anche per studio) in altri paesi, i cambiamenti religiosi (nella fattispecie l’avvento del fondamentalismo islamico), i cambiamenti della posizione delle donne nelle società (soprattutto – ma non solo – nell’emigrazione), la pressione delle campagne informative e di sensibilizzazione, e infine il divieto legislativo introdotto in molti Stati. I rapporti degli enti che si occupano della materia a livello internazio-

2 Facendo riferimento alla stima del Ministero della Salute vogliamo sottolineare che il dato proposto rappresenta un’ipotesi sul numero di donne (e minori) che hanno effettivamente subito delle Mgf; è purtroppo comune, ma del tutto inadeguata, la definizione di tale stima come delle donne (e minori) come “a rischio”. Per utilizzare una terminologia univoca e condivisibile infatti, dovremmo definire come “a rischio” solo coloro che, appunto, rischiano di subire in futuro una mutilazione – nella fattispecie, le figlie di genitori che appartengono a gruppi a tradizione escissoria e più raramente le donne che vi si sottopongono in altre fasi della vita, come precisato nel capitolo 1. 3 Il procedimento e la stima sono riportati nelle Linee Guida alle pagg. 36-37.

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nale confermano con numerosi dati statistici queste informazioni. Il più recente lavoro statistico dell’Unicef mostra la diminuzione lenta ma costante negli ultimi 15 anni delle Mgf in quasi tutti i paesi di origine, e l’età delle donne è un elemento tra i più determinanti: le donne appartenenti alla fascia di età 30-49 anni presentavano, nel 2005, delle percentuali di incidenza dei casi di Mgf leggermente più alte (con delle differenze notevoli da un paese all’altro) di quelle della fascia 15-29 anni4: un segnale che il cambiamento nei paesi di origine era già in moto da almeno trenta anni. È evidente quindi che considerare la stima riportata come omogenea per tutte le fasce di età è improprio, a maggior ragione se applicata alle figlie delle donne che hanno sperimentato la migrazione, come noteremo più avanti. Tra le 38 donne intervistate nella ricerca (cfr. capitolo 5) – donne che hanno subito delle mutilazioni e appartengono a famiglie in cui si praticano tradizionalmente le Mgf – sono la maggioranza (25 casi) quelle che hanno affermato con forza la condanna delle pratiche mutilatorie come pratiche dannose per la salute, crudeli e inutili. Tra queste donne contrarie, ve ne sono 5 che hanno sviluppato questa convinzione in seguito agli effetti di campagne informative o di lutti familiari causati dalle escissioni, cioè cambiando nel corso degli anni la propria posizione, che era in origine favorevole. Ci sono altri 5 casi di donne che hanno espresso delle valutazioni negative sulle Mgf, ma queste hanno anche messo in evidenza la difficoltà di sottrarsi alla forte pressione sociale dei familiari5: gli esiti delle scelte finali sulle bambine sono quindi tutt’altro che determinati e ciò significa che l’adesione alla pratica è frutto di condizioni sulle quali è possibile intervenire. Il dato evidente è dunque che le scelte delle madri stanno subendo un’inversione di tendenza nel ricorso alle Mgf, e non solo grazie all’emigrazione in altri contesti dove le Mgf sono sconosciute o condannate. Sempre secondo il rapporto Unicef del 2005, il confronto tra le madri di età 3049 anni e quelle di età 20-29 anni che hanno almeno una figlia con Mgf ci informa che in Eritrea le madri più giovani hanno quasi dimezzato la pratica, e questo dato è ancora più marcato per l’Etiopia; nel Sudan settentrionale le madri più giovani che hanno scelto la tradizione sono circa 4 Unicef, Female Genital Mutilation/Cutting. A statistical exploration, 2005 5 Le posizioni di queste donne erano tutte relative indeterminate, definite da frasi come “non posso saperlo ora”, “devo trovarmi in quella situazione (avere una bambina) per sapere cosa mi sembrerà più opportuno” e “dipende se abiterò in Europa o tornerò nel mio paese”.

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un terzo rispetto a quelle più mature. Il dato più marcato è però quello dell’Egitto: in questo paese le madri più giovani registrano una percentuale di pratica delle Mgf dieci volte inferiori rispetto a quelle della generazione precedente. Un dato che corrisponde a una generale assenza di visibilità della pratica presso la comunità immigrata, secondo quanto riferito dagli interlocutori delle associazioni egiziane. 6.2.2 La specificità della popolazione residente nel Lazio: gruppi nazionali e tipologia di Mgf Tornando alla popolazione residente nel Lazio, i dati appena citati inducono a considerare diversamente le stime possibili: • in primo luogo perché la componente immigrata nel nostro paese è ancora molto giovane, soprattutto quella dei più recenti flussi di richiedenti asilo provenienti dai paesi del Corno d’Africa; • in secondo luogo perché questi dati dimostrano che il rischio per le bambine di incorrere in una mutilazione non può essere associato alle stime sull’incidenza delle Mgf nei paesi di origine sia perché ciò non è realistico già in quegli stessi paesi, sia perché nella migrazione intervengono molti altri fattori deterrenti; • inoltre, perché la popolazione egiziana, che mostra nel paese di origine una riduzione di un decimo delle Mgf sulle figlie tra le donne più giovani, è il gruppo nazionale più numeroso nel Lazio, rappresentando più di un terzo6 di quella stima di 6.613 tra donne e bambine che si presume abbiano subito un cutting. Altre valutazioni ricavate dai focus group sul cambiamento che si verifica nel contesto di immigrazione (il confronto con altre tradizioni culturali – non solo italiane ma anche di altri migranti, l’acquisizione dell’estraneità dell’Islam a riguardo, il cambiamento del ruolo sociale delle donne, la nuova considerazione per l’integrità fisica delle figlie, la preoccupazione per i possibili vissuti di differenza rispetto ai coetanei) spingono a ridimensionare le stime, almeno riguardo alle fasce di età più giovani nate o cresciute nel nostro paese. Va ricordato infatti che la stabilizzazione delle prime migrazioni forzate degli anni ’80 dall’Eritrea e dall’Etiopia ha prodotto nell’area romana e laziale una consistente seconda e ormai 6 Applicando l’elevata percentuale di incidenza registrata in Egitto alla componente femminile residente nel Lazio (per tutte le classi di età) la stima è di 2.515 unità sulle 2.625 complessive.

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terza generazione. Un altro distinguo va fatto per quei paesi nei quali la diffusione delle Mgf non è omogenea ma riguarda solo alcune etnie, in quanto l’incidenza si riferisce all’intera popolazione nazionale, mentre è estremamente alta per le etnie interessate. Nel Lazio sono due i gruppi nazionali presenti con numeri consistenti per i quali è opportuno fare questa considerazione, ovvero quello nigeriano e – sebbene molto meno numeroso – quello senegalese. Le interviste agli opinion leader hanno rilevato che le Mgf sono diffuse in Nigeria nell’etnia Ibo (ma non solo), un gruppo presente tra i nigeriani del Lazio. Altre informazioni provenienti dall’esperienza di accompagnamento ai servizi sanitari delle nigeriane vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale7, documentano la presenza di pochi casi di mutilazione – del primo grado – tra queste donne. Tuttavia non è possibile, in mancanza di dati più approfonditi sulla corrispondenza tra il gruppo etnico di riferimento e la provenienza geografica del collettivo nigeriano (perlopiù originario dell’Edo State), valutare in che misura gli Ibo siano effettivamente presenti nel territorio. I testimoni intervistati rispetto al Senegal hanno individuato nel proprio paese tre etnie principali che praticano le Mgf, e tra queste quella detta Peul è presente nel nostro paese e nella più piccola comunità senegalese della regione laziale. Anche a questo riguardo, sarebbe opportuno disporre di studi più approfonditi che informino sulle caratteristiche dei gruppi nazionali residenti. Riguardo alla presenza di donne infibulate nel nostro paese, ovvero di donne che hanno subito una mutilazione con chiusura delle grandi labbra, sappiamo che si tratta di una componente minoritaria tra le donne che hanno subito delle mutilazioni. Potrebbe tuttavia riguardare un numero consistente di donne nella nostra regione: applicando le stime sulla diffusione di questa specifica pratica nei pochi paesi dove questa avviene8 (Somalia, Eritrea, Egitto, Nigeria, Sudan e Burkina Faso) sulle percentuali di stima di donne con Mgf nel Lazio (tenendo conto di tutte le osservazioni già fatte in merito) otteniamo una cifra di 1.275 unità. Questo dato, naturalmente sovrastimato come l’altro da cui deriva, potrebbe rappresentare un’unità di riferimento in vista delle definizione di

7 Dati riferiti da V. Tola (int. 59) co-curatrice di “All’aperto e al chiuso. Prostituzione e tratta, i nuovi dati del fenomeno, i servizi sociali, le normative di riferimento”, Ediesse, 2008, Roma 8 Unicef, op. cit. pag. 15

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una politica di promozione della salute delle donne che tenga conto sia delle loro problematiche specifiche che dei bisogni di formazione del personale, soprattutto medico e paramedico, presso le strutture di assistenza sanitaria nonché sociale. 6.2.3 Il riscontro presso i servizi territoriali Venendo alle informazioni provenienti dagli operatori dei servizi, tra i numerosi testimoni qualificati intervistati – alcuni noti per la loro competenza in materia di Mgf, altri operanti in servizi di riferimento specifici o specializzati per la salute dei migranti – non si rilevano che pochi casi in cui si sono incontrate donne con Mgf. Nella maggior parte dei casi gli intervistati fanno riferimento a casi di infibulazione, in quanto a loro avviso i casi di escissione non destano un’attenzione specifica e, secondo più di un testimone, possono passare inosservati a un occhio non attento. Che l’impatto delle donne con Mgf sulle strutture sanitarie sia molto contenuto è dimostrato anche dalla rilevazione quantitativa operata presso un collettivo di riferimento di circa 420 operatori sanitari9 attivi presso presidi pubblici e in parte del privato sociale. Tra questi operatori, che afferiscono a servizi attivi presso le zone di maggior presenza delle comunità nazionali oggetto dell’indagine, sono in totale 114 coloro che hanno incontrato negli ultimi 3 anni almeno un caso di Mgf; tra questi, la maggioranza (78 di loro) opera presso un reparto ospedaliero di ostetricia e ginecologia10 e a sua volta ha raramente assistito più di una donna che presentasse una mutilazione (sono 24 quelli che ne hanno assistite da 2 a 5, e solo 5 operatori hanno esperienza di più casi). Poco più della metà di tutti gli operatori sanitari che hanno incontrato casi di Mgf, compresi quelli dei consultori e di altre strutture (si tratta di 67 operatori sui 114 complessivi), testimonia un’esperienza limitata a un solo caso. Una consistenza così contenuta di accessi alle strutture pubbliche può far pensare a una forte resistenza da parte delle donne a rivolgervisi, o anche all’esistenza di una possibile sanità “parallela” la cui azione sot9 Le figure coinvolte sono, in ordine di grandezza nel campione: infermieri, ostetriche, ginecologi e in misura minore pediatri, psicologi, dirigente infermieristico, medici generali). 10 Naturalmente più operatori afferiscono agli stessi servizi: di conseguenza a 78 casi rilevati non corrispondono altrettante donne, in quanto una stessa donna può essere stata assistita da più operatori (infermiere, ostetriche, ginecologi), ad esempio nella sala parto o nel corso delle cure ospedaliere.

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trarrebbe le donne infibulate al possibile monitoraggio dei servizi sanitari. Le numerose interviste nell’ambito delle comunità immigrate hanno permesso di escludere quest’ultima possibilità. Non risultano infatti presenti centri sanitari “dedicati” per le donne somale o di altre comunità, né le donne coinvolte dalla ricerca-azione hanno mostrato di conoscere alcuni servizi o medici specifici cui si rivolgono in maniera esclusiva loro e le altre connazionali. È invece ampiamente documentata dalla ricerca la resistenza delle donne con Mgf a rivolgersi ai servizi per i problemi relativi all’area genitale-sessuale. A questo si aggiunge la generale minore tendenza delle donne migranti – rispetto a quelle native – a richiedere visite e controlli in funzione preventiva rispetto al possibile insorgere di patologie.

6.3 La consistenza del rischio per le bambine Il tema della presenza di un possibile rischio per le bambine di essere sottoposte a una mutilazione è stato trattato in ognuna delle fasi della ricerca. La presenza di un rischio è associata con evidenza ad un orientamento tradizionale da parte dei genitori in merito all’importanza della pratica, importanza attribuita in funzione della salvaguardia delle tradizioni del gruppo familiare di appartenenza, del supposto contrasto all’esuberanza sessuale delle figlie e della conseguente salvaguardia dell’onore e della possibilità di sposarsi per le stesse. Le considerazioni fatte nel precedente paragrafo – sulla base delle testimonianze acquisite nei focus group, nelle interviste e nelle affermazioni degli opinion leader – sono tuttavia sufficienti a relativizzare l’immagine di una permanenza di questo orientamento tra la maggioranza dei genitori migranti. Il rischio è stato identificato nella ricerca-azione nelle due fattispecie di reato previste dalla stessa legge 7/2006: ovvero riguardo la possibilità che le bambine siano sottoposte alle Mgf nel territorio italiano, o che lo siano nel corso di soggiorni all’estero e più probabilmente nei paesi di origine dei genitori. 6.3.1 Il rischio nel territorio laziale Considerando la prima delle due eventualità, osserviamo che l’esistenza

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di casi di mutilazioni ai danni delle bambine nel nostro territorio appare così invisibile da permettere di dubitare della possibilità che ciò si verifichi realmente, o comunque, di riservare a questa eventualità una probabilità residuale. Il dato di partenza più certo per operare una sintesi delle diverse testimonianze è che, come fanno rilevare alcune testimonianze, nel territorio regionale non sono mai giunte bambine al pronto soccorso per ferite da Mgf. Sono pochi, tra gli intervistati che operano presso i servizi, quelli che hanno ricevuto, negli anni passati – all’epoca dei flussi consistenti dalla Somalia nei primi anni ’90 – delle richieste di informazioni su come e dove fosse possibile realizzare una mutilazione sulla propria figlia. La consapevolezza che abbiamo riscontrato tra i membri e gli opinion leader delle comunità immigrate sull’illegalità della pratica nel nostro paese rende davvero remota l’ipotesi che tale richiesta da parte di migranti possa essere sottoposta nelle strutture sanitarie. Pochi conoscono la specifica legge italiana, ma tutti sono consapevoli che queste pratiche sono vietate “in Europa”: si tratta di un sapere diffuso, tra i tanti saperi di cui sono equipaggiati i migranti, anche quelli forzati, in seguito a percorsi migratori che spesso condividono con molti altri connazionali e non. Anche i dati raccolti sull’esperienza dei 1.122 operatori dei servizi confermano questa considerazione. I testimoni qualificati intervistati in ambito sanitario hanno anche rilevato che tutte le donne con Mgf assistite, con le quali hanno parlato di prevenzione nei riguardi delle nasciture, si sono mostrate contrarie a continuare la tradizione del cutting: alcuni di questi hanno espresso consapevolezza sulla possibilità che si possa anche trattare di posizioni “apprese”, considerate da chi sa che le Mgf sono vietate come le sole da assumere in pubblico. Anche gli opinion leader delle comunità immigrate esprimono convinzione sul fatto che le Mgf non vengono praticate sulle bambine nel territorio; questi rilevano: - la mancanza delle anziane escisseuses; - la totale invisibilità del fenomeno nell’ambito delle rispettive conoscenze all’interno delle comunità; - la perplessità che un/a operatore/trice sanitario/a originario/a di gruppi a tradizione escissoria si presti a realizzare delle Mgf mettendo a repentaglio la possibilità di svolgere ancora la sua professione in seguito a una condanna.

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Tuttavia, alcuni dubbi sono stati sollevati sulla possibilità che del personale infermieristico o comunque delle donne in grado di realizzare delle Mgf si espongano a questo rischio. Si tratta di una considerazione espressa da un’operatrice sociale del Ruanda: perché chi ha le competenze professionali e condivide il valore del cutting rituale non dovrebbe prestarsi a realizzarlo dietro compenso? La conferma della presenza clandestina di Mgf sul territorio – ancorchè residuale - si concretizza in alcune interviste: 4 delle 38 donne intervistate hanno dichiarato di conoscere persone che lo hanno fatto con l’intervento di praticanti del paese di origine. Nel complesso, i risultati della ricerca confermano che l’abuso delle Mgf sulle bambine realizzato nel territorio non è totalmente assente, ma è tutt’altro che una pratica diffusa o rispetto alla quale dei genitori possano trovare un diffuso consenso all’interno del loro stesso gruppo di connazionali residenti. In sostanza sembra che le Mgf assumano sempre più le caratteristiche e i significati sociali di un abuso sull’infanzia anche nella prospettiva dei migranti che le praticano, con l’ingresso della pratica nella totale clandestinità; un dato che fa perdere molti punti di contatto con la ritualità legata al festeggiamento e all’ufficializzazione presso la comunità sociale di riferimento che si limiterebbe ormai al solo gruppo familiare nel paese di origine o a un gruppo familiare molto ristretto in quello di immigrazione. 6.3.2 Il rischio nei paesi di origine Mentre la situazione del rischio nel nostro territorio assume contorni piuttosto nitidi grazie alle informazioni acquisite, quella relativa alla possibilità che le bambine vengano mutilate nel corso di un soggiorno nei paesi di origine è molto più indefinita. Nessuno degli intervistati ha delle informazioni a riguardo; gli operatori socio-sanitari, come anche gli opinion leader delle comunità, esprimono solo come ipotesi l’idea che i genitori, che desiderano praticare una Mgf sulle proprie figlie, possano farlo più facilmente nel proprio paese. L’idea è che, nel contesto di origine, le conoscenze delle famiglia permetterebbero di reperire la persona che possa farlo, anche nella clandestinità. Inoltre le lunghe permanenze all’estero occulterebbero anche un’eventuale lunga assenza dalla scuola per curare le ferite e il trauma conseguente. Si tratta di un tema molto

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delicato, perché bisogna considerare che la permanenza prolungata nel paese di origine rappresenta una pratica comune, spesso necessaria, per qualsiasi migrante (soprattutto quelli originari di paesi molto distanti): ci sono lunghe permanenze dei nuclei familiari nei paesi di origine durante le vacanze estive; la permanenza dei bambini presso le famiglie di origine per periodi prolungati, con o senza la presenza di uno dei genitori; o anche l’affidamento ai familiari per diversi anni dei figli dopo un primo tentativo di tenerli con sé in Italia. Queste situazioni rappresentano un rischio per le bambine nei casi in cui: • i genitori siano favorevoli alle Mgf; • i genitori subiscano l’influenza del proprio contesto familiare, che spinge affinché la mutilazione venga praticata, pur in assenza di un consenso effettivo (a riguardo, si sono riscontrate nelle interviste esperienze di donne che hanno permesso la mutilazione delle figlie nel paese di origine, ma non l’hanno realizzata per quelle nate in un altro contesto); • pur in presenza di un esplicito divieto da parte dei genitori, le donne più anziane della famiglia agiscono in loro assenza. In linea generale, le testimonianze raccolte nelle interviste alle donne e agli opinion leader rivelano che laddove i familiari delle bambine nel paese di origine siano – nonostante i divieti legislativi e un clima culturale in continuo movimento – favorevoli alle Mgf, sarà piuttosto difficile evitare che vengano praticate delle mutilazioni sulle bambine loro affidate. Ciò sembra avvenire con maggiore probabilità se i genitori sono distanti, o si trovano per varie motivazioni (non solo culturali ma anche ad esempio economiche) a dover cedere all’influenza dei propri familiari. Le affermazioni delle donne intervistate in merito, lasciano supporre che una maggiore stabilità del soggiorno e dell’integrazione nel paese di accoglienza possa rappresentare una maggiore garanzia per le bambine di venire tutelate dalle ingerenze dei familiari nel paese di origine. Alcune donne hanno fatto notare che, l’eventualità di dover vivere nuovamente nel paese di origine, le metterebbe davanti a una scelta obbligata rispetto alle aspettative dei parenti; anche la necessità di affidare le bambine alle nonne per la difficoltà economica di tenerle con sé a Roma, riduce il loro potere decisionale nei confronti dei propri genitori che si fanno carico dei nipoti. L’entità così come la stessa realtà di questo fenomeno è assolutamente

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ignota, e d’altro canto l’analisi quantitativa non ha rilevato nessun riscontro di casi di bambine che presentassero mutilazioni, mentre solo uno dei testimoni qualificati ha dichiarato di aver visitato bambine con segni di escissione. Tuttavia, in presenza di Mgf ormai cicatrizzate, è difficile definire in che contesto sia avvenuto l’intervento; questo potrebbe infatti essersi consumato al di fuori delle condizioni individuate dalla legge per la sua perseguibilità. La legge 7/2006 prevede appunto la punibilità “altresì quando il fatto è commesso all’estero da cittadino italiano o da straniero residente in Italia, ovvero in danno di cittadino italiano o di straniero residente in Italia” (art. 6 comma 1), quindi se la bambina o i suoi genitori erano ancora residenti nel paese di origine al momento in cui è stata realizzata la mutilazione, non c’è reato perseguibile dallo Stato Italiano.

6.4 Il contatto con i servizi: le richieste delle donne, le competenze presenti e le difficoltà della relazione Il rapporto del sistema dei servizi territoriali socio-sanitari con le donne con Mgf è determinato dalla domanda di cura e assistenza che queste esprimono. La popolazione di quante hanno subito delle mutilazioni è infatti invisibile agli occhi degli operatori dei servizi territoriali. 6.4.1 Il contatto con i servizi sociali e le scuole Le interviste svolte con il personale che opera presso i centri di orientamento e informazione, delle scuole di ogni ordine e grado, dei centri di accoglienza residenziale per migranti e dei centri educativi per bambini immigrati, hanno mostrato che sono pochissimi i casi in cui sono stati espressi loro problemi legati alle Mgf. Ciò è accaduto unicamente nel contesto delle accoglienze residenziali, ovvero in quegli spazi in cui la lunga permanenza permette di stabilire tra ospite ed operatore un rapporto stretto di fiducia e di intimità. Come confermano i focus group realizzati con le donne immigrate, i problemi della sfera ginecologica sono per alcune motivo di grande imbarazzo e pudore, e più di una ha sottolineato come nessuna riuscirebbe a parlarne al di fuori della ristretta cerchia delle parenti o di poche amiche.

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Oltre a questo dato, è da notare che il personale dei servizi citati ha molto di rado delle conoscenze specifiche riguardo al fenomeno e, anche quando le hanno, tendono a non attribuire quella realtà – e la sua alterità – alle persone, a loro familiari, con cui interagiscono quotidianamente. Se per un verso ciò è positivo perché le donne vengono accolte senza pregiudizi o rappresentazioni sulla loro condizione, per un altro verso è evidente che ciò impedisce di cogliere delle possibili domande latenti di assistenza per problematiche attinenti le mutilazioni subite. Gli unici servizi presso i quali si riscontra al contrario un’attenzione a riguardo sono i centri di accoglienza per donne richiedenti asilo, dove sono presenti mediatrici culturali, operatori spesso formati anche su questi temi, e una notevole presenza, tra l’utenza, di donne fuggite dai paesi del Corno D’Africa. Quando si sono verificati dei casi di richieste di aiuto, il personale dei centri di accoglienza ha in alcune occasioni inviato le donne ai servizi territoriali (consultori familiari), e in altri servizi noti per la specializzazione nell’assistenza alle problematiche legate alle Mgf (Ospedali San Camillo e San Gallicano). Molto più problematica appare la situazione riguardo un’eventuale assistenza psicologica. Gli operatori sociali rilevano che le donne giunte per richiesta d’asilo hanno subito numerosi traumi e violenze che configurano una situazione psicologica particolarmente delicata. A fronte di questa situazione però, non ci sono risorse supplementari che consentano di garantire un accompagnamento personalizzato, né il personale dispone delle necessarie competenze per un sostegno psicologico ad hoc. Nei casi in cui si registrano maggiori conoscenze e attenzione a riguardo si preferisce quindi operare una sorta di contenimento psicologico, nell’impossibilità di gestire delle eventuali crisi conseguenti all’espressione e all’approfondimento delle sofferenze vissute. 6.4.2 Il contatto con i servizi sanitari e le richieste espresse Al contrario del settore sociale ed educativo, nell’ambito dei servizi sanitari e in particolare in quelli dedicati alla salute riproduttiva, gli operatori possono rendersi conto della presenza di una Mgf nel corso dell’assistenza alle donne. Tuttavia non sempre ciò corrisponde né alla rilevazione di problematiche specifiche, né a richieste in merito da parte delle pazienti.

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Come testimoniano numerose interviste a operatori sanitari con un’esperienza a riguardo, sono infatti quasi esclusivamente le mutilazioni di terzo grado (infibulazione) a comportare gravi conseguenze fisiologiche (di diverso tipo) alla donna, o a determinare complicazioni per l’assistenza alla stessa (per la visita ginecologica o per il parto). Sono invece residuali, secondo le testimonianze di medici e infermieri – ma anche nell’opinione di diversi opinion leader delle comunità interessate – le problematiche associate alle forme stimate come più diffuse tra la popolazione residente nel Lazio, ovvero le escissioni di diverso tipo senza cucitura dei tessuti. Secondo i dati dei questionari, il tipo di mutilazione riscontrata più di frequente dagli operatori sanitari è l’infibulazione. In virtù del contrasto di questo tipo di dato con quello della stima di diffusione dell’infibulazione stessa (cfr. paragrafo 6.2.2), è lecito avvalorare l’ipotesi della disattenzione del personale medico e paramedico nei confronti di casi di mutilazione sia poco evidenti che a-problematici. I dati dell’indagine quantitativa tra il personale dei servizi sanitari11 sui motivi per cui le donne con Mgf incontrate vi si erano rivolte, attestano che nella maggioranza dei casi il contatto avviene per una gravidanza in corso (nel 70% dei casi). Come riportato nelle Linee Guida, un intervento di deinfibulazione in vista del parto dovrebbe essere realizzato intorno alla 15esima settimana di gestazione; tuttavia non è frequente che le donne si rivolgano al servizio già dal principio della gravidanza, amentre accade di frequente che giungano direttamente per il parto. I testimoni intervistati dichiarano che spesso, sia per la mancanza delle condizioni per realizzare la deinfibulazione all’ultimo momento e sia per evitare conflitti di tipo culturale, i medici preferiscono realizzare un parto cesareo piuttosto che naturale. Le altre motivazioni di contatto con i servizi rilevate dall’indagine quantitativa vanno dai disturbi mestruali, o urinari, ad altre patologie più specificamente riconducibili alla mutilazione subita; patologie presenti nei dati in misura inferiore a quella della gravidanza, ma comunque non trascurabile (cfr. paragrafo 2.6 grafico 34). Alcuni medici intervistati riferiscono che raramente le donne individuano i disturbi per i quali si rivolgono ai servizi come conseguenza delle Mgf subite diversi anni prima. 11 Si ricorda che sono stati raccolti dati soprattutto tra il personale dei servizi ospedalieri di ostetricia e ginecologia, dei consultori familiari e degli ambulatori per migranti del privato sociale.

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Solo nel 10% dei casi che hanno risposto all’indagine quantitativa, le donne assistite intendevano ricevere un intervento di deinfibulazione. Non si tratta dunque della richiesta più comune, e secondo le testimonianze dei medici più esperti in materia, tale richiesta emerge sempre da una relazione di grande fiducia tra paziente e ginecologo. In ogni caso, si tratta di una scelta che richiede un’opportuna elaborazione psicologica da parte della donna e dalla prima richiesta possono passare mesi, e numerosi incontri successivi (dove vengono anche espressi dubbi e ripensamenti), trattandosi di un intervento di modificazione radicale del proprio corpo e di una modalità di riconoscersi nella propria identità culturale. Per tracciare una sorta di profilo delle donne che giungono a fare richiesta della deinfibulazione, secondo gli intervistati, troviamo che si tratta di donne giovani, che vivono in Italia da molti anni, ben inserite dal punto di vista lavorativo e della conoscenza della lingua, che spesso hanno intrapreso una relazione con uomini italiani e maturato una certa consapevolezza rispetto al proprio vissuto di diversità e alla possibilità di un intervento di recupero delle caratteristiche originarie dei propri genitali. 6.4.3 L’offerta di cura e le difficoltà riscontrate Dalle informazioni raccolte emerge la presenza sul territorio laziale di due soli centri che vantano una specializzazione nel trattamento delle Mgf: si tratta del reparto di ostetricia e ginecologia dell’Ospedale San Camillo – che dal 2007 è anche Centro di riferimento regionale per il Lazio in questo settore – e dell’Ospedale San Gallicano, presso il quale si trova un centro di patologia vulvare. Oltre queste due strutture però, presso le quali l’afflusso di utenza straniera porta anche a un contatto piuttosto frequente con i casi di mutilazioni genitali, l’accesso delle donne con Mgf viene registrato presso diversi altri servizi territoriali in cui operano specialisti in grado di intervenire in merito. L’impostazione metodologica della ricerca-azione ha portato a individuare appunto, tra i servizi con più alta incidenza di popolazione immigrata, quelli presso i quali i medici – ginecologi in particolare – potessero testimoniare incontri, difficoltà e interventi di cura su donne con Mgf. La differenza rispetto ai due poli citati prima è che qui la competenza è perlopiù nelle mani di un singolo specialista (o più di uno), che ha

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approfondito strumenti e metodi per intervenire in merito, anziché di un’intera équipe dedicata12. Inoltre i casi registrati in questi servizi sono poco frequenti. Se quindi le competenze vengono sviluppate sulla base della sensibilità dei medici, e della possibilità di ricevere una domanda di cura da parte di donne con Mgf, possiamo ipotizzare che i servizi presso i quali queste ultime possono trovare una valida assistenza siano anche più diffusi. Altre testimonianze infatti, provenienti dalle interviste e dai focus group con le donne immigrate dimostrano che queste entrano inizialmente in contatto con i servizi sanitari del proprio territorio, e che l’elemento più importante di questo contatto è l’attenzione – da parte del personale medico – alla relazione con la paziente. In assenza di quest’attenzione, fatta essenzialmente di rispetto e di pudore delle sensibilità individuali (che sembra quasi eccessivo definire educazione all’interculturalità), possono verificarsi incidenti comunicativi e relazionali: i casi più noti sono quelli in cui altri colleghi sono chiamati a visionare la mutilazione riscontrata, o quelli in cui vengono espressi giudizi radicali in merito. A volte la ricerca di uno specialista più “familiare” – perché ha già visitato altre conoscenti, o perché africano/a, o perché ha esperienze di lavoro nei paesi in cui si praticano le Mgf – è frutto di una cattiva esperienza con il personale dei servizi cui ci si è rivolte; a volte è invece conseguenza dei commenti uditi sulle esperienze di altre connazionali. Il dato certo comunque è che tra gli operatori sanitari, così come tra le donne che hanno preso parte alla ricerca, è diffusa la convinzione che siano necessari interventi significativi nell’ambito del settore dei servizi sanitari per migliorare la qualità dell’accoglienza e dell’assistenza a chi è portatrice di mutilazioni genitali. I dati dell’indagine quantitativa dicono a riguardo che i tre quarti degli operatori che hanno assistito donne con Mgf hanno avuto delle difficoltà nella relazione. Per la metà di loro si è trattato di difficoltà di comprensione per motivi linguistici, ma molti (quasi il 40%) hanno dichiarato anche che i problemi nascevano dalla loro mancanza di esperienza. Questo dato riflette un senso di inadeguatezza confermato anche dagli operatori sanitari che hanno discusso nei focus group la relazione con le pazienti con Mgf. I curricula universitari di ginecologi, ostetriche, infermiere, non prevedono una formazione su questo tema e molti di loro ne scoprono 12 Tali casi riflettono la situazione del Policlinico Umberto I, dell’Ospedale Fatebenefratelli, del Policlinico Casilino, dell’ambulatorio dell’Associazione Casa dei Diritti Sociali e dell’Associazione Medici contro la tortura.

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l’esistenza e i risultati, direttamente e con grande sorpresa, sui corpi delle pazienti. Vengono riportati a riguardo vissuti di imbarazzo, disagio, incertezza su come intervenire dal punto di vista medico, ma anche relazionale. D’altro canto questa pratica tradizionale suscita vissuti molto contrastati in chi è chiamato ad assistere le donne, e chiama in causa pregiudizi, stereotipi, giudizi, rifiuti che evidentemente non favoriscono la relazione di aiuto con le pazienti. L’analisi multivariata (cfr. paragrafo 2.7) evidenzia in che modo le molteplici informazioni, conoscenze e rappresentazioni in possesso degli operatori nutrano delle posizioni che raramente possiamo definire realmente consapevoli del complesso vissuto della persona che ha subito una Mgf. Possiamo trovarne una conferma nel fatto che oltre alle difficoltà di comprensione linguistica, gli operatori sanitari affermano che con le donne in questione hanno sperimentato anche: situazioni di conflitto, resistenze a seguire le indicazioni mediche e infine situazioni di disagio per le richieste avanzate dalle donne, di infibulazione o re-infibulazione dopo il parto (cfr. paragrafo 2.6, grafico 35). Dal canto loro, le donne immigrate riportano insoddisfazione per l’ignoranza diffusa che genera disdicevoli comportamenti di stupore e i già citati atteggiamenti morbosi di curiosità. Molte di loro sono arrivate a Roma ormai da venti anni e ritengono che sia giunto il tempo perché la loro casistica non susciti più clamore ma un atteggiamento competente. L’attenzione di queste donne, che hanno superato tali difficoltà al punto da poterne oggi parlare articolando delle critiche puntuali, va a quelle loro connazionali il cui rapporto con i servizi può essere gravemente inibito dalla mancanza di accortezze in generale verso la popolazione straniera (mediazione culturale) e in particolare verso chi riporta delle mutilazioni genitali (conoscenza della materia e delle sue implicazioni culturali). La richiesta più diffusa, sulla quale si esprime l’accordo delle donne coinvolte nella ricerca-azione, è quindi quella di un cambiamento nella preparazione del personale medico sia dal punto di vista clinico che culturale, e di un’organizzazione dei servizi che renda più agevole l’accesso alle donne immigrate, sia per le cure, che per ricevere le informazioni che rendano effettivo il diritto alla salute.

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6.5 La prevenzione esistente e quella necessaria L’ultimo aspetto che viene trattato è quello degli interventi di prevenzione esistenti affinché si riduca il rischio che le bambine di genitori regolarmente residenti in Italia (ma non solo) subiscano di nascosto un cutting rituale. Come osservato nel paragrafo 6.2.2, l’opinione comune degli intervistati è che questa eventualità sia molto remota, e ciò sulla base di un riscontro presso le rispettive comunità (per gli opinion leader) e dei feedback ricevuti dalle rispettive pazienti per gli operatori sanitari. Tuttavia il rischio è presente nella misura in cui sussistono posizioni, all’interno dei gruppi immigrati che appartengono a quella tradizione, che vedono ancora con favore la realizzazione di una mutilazione in funzione del “bene” per la bambina. Un bene identificato con molti valori propri alla tradizione, valori immateriali e a volte materiali (pensiamo all’istituto del prezzo della sposa13) che contrastano tuttavia con quello, riconosciuto dal nostro ordinamento e dalla legislazione internazionale, del diritto all’integrità psico-fisica. Le opinioni raccolte nell’ambito della ricerca dai diversi membri delle comunità interessate, ci permettono di disegnare un profilo “al contrario” di chi può essere favorevole alla riproduzione della pratica. Sono infatti più contrarie a continuarla le donne che: • hanno acquisito delle informazioni corrette e pertinenti circa i danni sanitari; • hanno appreso che la religione islamica non richiede la mutilazione bensì la condanna; • hanno avuto modo di confrontarsi su questo tema con donne di altri paesi e culture; • conoscono i servizi territoriali, li utilizzano e esprimono critiche costruttive a riguardo; • affermano un ruolo attivo all’interno dei rapporti familiari (sia rispetto alla propria madre che al marito); • sono impegnate in attività lavorative; • temono per il disagio delle proprie figlie. Inevitabilmente emerge come siano le donne meno integrate, ovvero 13 Per una dettagliata descrizione del sistema basato sul “prezzo della sposa” si rimanda a: Pasquinelli C., “Infibulazione. Il corpo violato”, Meltemi, Roma, 2007

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quelle con meno occasioni di scambio e confronto con la società circostante, di conoscenza del suo funzionamento e dei propri diritti, quelle che trovano principalmente nella propria comunità di riferimento un’alternativa all’esclusione sociale e alla precarietà, e di conseguenza conservino posizioni più tradizionali, anche in vista di un possibile rientro nel paese di origine. Proprio in virtù di questo isolamento relativo sono minori anche le possibilità che gli operatori dei servizi svolgano una prevenzione mirata nei loro confronti, perché spesso manca un rapporto avviato di conoscenza e fiducia dovuta alla scarsa competenza linguistica acquisita anche dopo un periodo di permanenza medio-lungo nel nostro paese. 6.5.1 Le attività di prevenzione realizzate Malgrado le Linee Guida del Ministero della Salute sulle Mgf abbiano proposto indicazioni molto utili per un’attività di vigilanza e di prevenzione da parte degli operatori sociali, educativi e sanitari, la scarsa diffusione delle stesse non ne ha permesso la messa in pratica se non da parte degli operatori sanitari più accorti. Gli operatori sociali, anche quelli a conoscenza del fenomeno, hanno mostrato una disarmante mancanza di attenzione rispetto alla possibilità che le famiglie e le donne con cui lavorano quotidianamente potessero desiderare di praticare una Mgf sulle figlie, e il coinvolgimento nella ricerca-azione ha spinto molti di loro: - ad approfondire il tema; - a chiedere una formazione più specifica; - a riflettere sulle proprie possibilità di individuare dei fattori di rischio e di aprire un dialogo con le famiglie interessate. L’emotività che il tema delle Mgf sulle bambine chiama in causa rappresenta essa stessa una materia ad alto rischio, che può sviluppare atteggiamenti di allarme sociale, di etichettamento, di sospetto ingiustificato; ossia atteggiamenti compromettenti anziché virtuosi in vista della prevenzione. Il discorso sugli orientamenti della famiglia a riguardo e sul diritto all’integrità psico fisica delle bambine è sempre delicato, ma viene affrontato con maggiore facilità nel contesto dell’assistenza ginecologica di donne che riportano delle Mgf e che hanno delle figlie piccole o che hanno in corso una gravidanza, trattando del destino del/la nascituro/a. È invece

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già più difficile se non ci sono questi presupposti, ma la sola constatazione che la donna ha essa stessa una mutilazione. In mancanza di un rapporto più che rodato tra ginecologo e paziente infatti questa potrebbe allontanarsi, considerando un’invadenza il tentativo del medico di affrontare il tema. Non a caso, nei due centri specializzati del San Camillo e del San Gallicano (ma anche in alcuni servizi delle Asl e del privato sociale) si ricorre alla preziosa funzione di mediatrici culturali, indispensabili in questo contesto per supportare l’intervento del ginecologo e agevolare la trasmissione di contenuti sia culturali che sanitari. In tutti i casi, la possibilità di un accompagnamento della donna nel parto e nei primi controlli può permettere di sviluppare quel rapporto che rappresenta la condizione della credibilità del medico. Senza dimenticare l’importanza dell’assistenza della bambina stessa nei primi anni di vita e nell’età evolutiva, come vedremo più avanti. Anche alcuni gruppi delle comunità immigrate sono attivi nella prevenzione, in parte per l’impulso di campagne informative che provengono dagli stessi paesi di origine dei loro connazionali, dove le Mgf sono vietate, e in parte quando assistono le famiglie appena giunte in Italia (perlopiù per la richiesta di asilo politico) per informarle sul divieto esistente. Da alcuni opinion leader è giunta la critica alle istituzioni sulla campagna pubblicitaria della legge 7/2006, che è durata per poco tempo, e per aver aspettato più di due anni per avviare nuove attività di comunicazione e informazione; un fatto che avrebbe potuto penalizzare quanti fossero incorsi per ignoranza della legge nelle pene previste, privilegiando il solo versante repressivo della legge stessa. Da altri è stato invece osservato che bisogna mantenere un’attenzione alla dimensione transnazionale delle migrazioni, al fatto che molti migranti hanno anche figli/e rimasti nei paesi di origine che potrebbero beneficiare di un’efficace attività di informazione e prevenzione sui genitori, informazione quindi che non si limiti al divieto legislativo. 6.5.2 La vigilanza sulle bambine Come già fatto notare, gli ospedali laziali non hanno registrato casi di bambine in emergenza in seguito alla pratica clandestina di Mgf né dall’emanazione della Legge né prima, quando queste erano già perseguibili come lesioni personali gravi. Ma mancano anche informazioni in

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generale sul numero di bambine in carico presso i servizi sanitari che riportano delle mutilazioni dei genitali, una casistica senz’altro presente – anche se è difficile ipotizzare in che misura – tra quante provengono dai paesi a tradizione escissoria14. Nel corso della ricerca solo una pediatra, afferente a un servizio di medicina gestito dal privato sociale e specifico per migranti, ha dichiarato di aver visitato diversi casi di bambine che presentavano escissioni; la stessa ha fatto notare che raramente i pediatri visitano integralmente le bambine e hanno quindi l’occasione di poter rilevare una mutilazione15. Anche in questo caso dobbiamo notare come l’assenza di informazioni di base e approfondimenti sulle Mgf dal curriculum formativo, porti all’incapacità di rilevare problemi, domande inespresse, e finanche abusi come quello sui genitali delle bambine. Il dato più grave rilevato è comunque quello messo in luce da alcuni operatori sanitari del privato sociale, cioè il fatto che per i bambini in condizione di soggiorno irregolare, ovvero figli di immigrati non in regola, la possibilità di vigilanza è ancora meno concreta per la mancanza di un pediatra di base. Naturalmente, appare evidente come qualsiasi norma che vada ad incidere sulla fiducia dei migranti irregolari nella possibilità di rivolgersi ai servizi pubblici, non può che danneggiare ulteriormente le opportunità di cura anche dei loro figli, e nella fattispecie la possibilità di prevenzione e di vigilanza sulla sicurezza delle bambine. Al contrario i testimoni qualificati intervistati hanno fatto notare la necessità di garantire maggiormente l’accesso dei bambini non iscritti al Ssn alle cure pediatriche, attraverso protocolli che prevedano la disponibilità dei pediatri attivi presso i Consultori Familiari. È superfluo far notare come simili provvedimenti avrebbero una ricaduta positiva anche per la prevenzione dei danni causati dalle circoncisioni rituali maschili, comuni in alcune comunità immigrate che sperimentano difficoltà di accesso presso le strutture pubbliche, e per le quali alcuni operatori hanno espresso molta preoccupazione. È comune l’idea che l’età in cui avviene la mutilazione delle bambine si stia abbassando, sia nei paesi di origine che in quelli di immigrazione, 14 Il 22 settembre è stato riportato un comunicato della Federazione italiana medici pediatri Fimp di 30.000 tra donne e bambine che hanno subito l’infibulazione (sic) nel nostro paese malgrado il divieto, per annunciare un protocollo di accordo per una campagna di prevenzione dalle Mgf presso i pediatri. Il dato riportato non derivava, secondo quanto riferito dal responsabile della Fimp contattato telefonicamente nell’ambito della ricerca, da un processo di stima, né tantomeno da una ricognizione effettuata tra i medici pediatri. 15 Intervista n. 22, Ambulatorio medicina sociale e delle migrazioni, Roma.

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per via della clandestinità obbligata dalle leggi in vigore, nonché della possibilità di avere una minore resistenza da parte delle bambine16. Quest’ultimo elemento mostra una volta di più come i cambiamenti culturali stiano restringendo sempre più l’area di manovra di questa pratica tradizionale. Ma questo dato dovrebbe rappresentare anche un’indicazione utile per individuare gli attori della prevenzione, che si confermano appunto i pediatri ben più del personale scolastico, che entrano in contatto con le bambine solo a partire dai 3 anni17, se non dai 6 anni in su. L’importanza delle insegnanti resta cruciale altresì per il rapporto privilegiato con le mamme, con tutte le conseguenze positive in termini di possibile prevenzione (verso altre figlie, altre donne, il proprio paese di origine ecc…) già citate. Infine, vale la pena fare menzione di due elementi che riflettono le contraddizioni della legge e del tentativo di affrontare in maniera determinista un fenomeno complesso come quello delle Mgf. Il primo è quello della perseguibilità del genitore che consente, autorizza o richiede una mutilazione per la propria figlia nel proprio paese di origine. C’è da chiedersi infatti fino a che punto possa spingersi il tentativo di tutela delle bambine in una situazione dai contorni così sfumati come quella dell’esistenza ormai transnazionale dei nuclei familiari. La seconda questione è quella dell’applicabilità della legge stessa. La mutilazione genitale per le bambine rappresentava, anche prima dell’emanazione della legge 7/2006, un reato perseguibile, commesso però da genitori che dal loro punto di vista agiscono in buona fede nei confronti delle figlie. La consapevolezza di questo dato non può non colpire gli operatori sociali, educativi e sanitari impegnati in attività di assistenza delle famiglie immigrate, rendendo estremamente difficile la possibilità di scegliere nel senso di una denuncia dei genitori: denuncia che porterebbe paradossalmente a un danno multiplo proprio per la vittima che oltre che mutilata sarebbe anche allontanata da questi. Ancor più difficile è assumere un ruolo di delatori per i/le connazionali che disapprovano la realizzazione delle mutilazioni. E ciò malgrado ormai le posizioni di ferma condanna rappresentino un sentire comune anche all’interno dei gruppi immigrati. Una donna intervistata afferma: “Io non lo farò mai a mia figlia; ho delle 16 Cfr. Fusaschi, M. I segni sul corpo. Per un’antropologia delle modificazioni dei genitali femminili. Bollati Boringhieri, Torino, 2003, pag. 94 17 Solo se i genitori sono in regola, perché i bambini hanno accesso, a prescindere dalla regolarità del soggiorno, solo per la scuola dell’obbligo.

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amiche che lo hanno fatto clandestinamente perché sanno che in Italia è reato, spero che saranno denunciate un giorno”18.

6.6 Considerazioni finali e raccomandazioni Riprendendo sinteticamente i contenuti esposti nei paragrafi precedenti, tenteremo un’esposizione organica delle raccomandazioni operative che emergono dalle informazioni raccolte e dalle valutazioni dei diversi attori sociali coinvolti nel fenomeno delle Mgf, delle sue trasformazioni, delle possibilità di assistenza, di tutela e prevenzione. 6.6.1 Il fenomeno visto nella sua realtà attuale nel Lazio Le Mgf in quanto fatto sociale “totale” vanno incontro ormai da decenni a profonde quanto rapide trasformazioni negli stessi contesti in cui hanno avuto origine. Ciò determina nel nostro territorio una presenza immigrata – fatta di diversi flussi provenienti dai paesi interessati (profughi nei primi anni ’90, migrazioni da lavoro, ricongiungimenti familiari, flussi di richiedenti asilo negli ultimi anni) e di II e III generazioni nate qui – che evidentemente non corrisponde agli statici ritratti che le organizzazioni internazionali ci offrono dei paesi di origine. Se da un lato l’incidenza delle Mgf appare presso i servizi del Lazio molto bassa, dall’altro la realtà di questa quota di donne delle comunità immigrate è tutt’altro che omogenea, soprattutto in relazione al proprio vissuto relativo alla mutilazione subita, ai diversi gradi di (eventuale) problematicità che questa comporta loro19, all’età e alle aspettative relative al benessere proprio e delle proprie figlie. La capacità di risposta del sistema dei servizi territoriali rispetto alle domande espresse, e soprattutto a quelle ancora inespresse, dipende molto dalla possibilità di conoscere effettivamente questa realtà, aldilà di rappresentazioni ec-

18 Intervista n. 167, Etiopia, 25 anni. 19 Riteniamo utile una suddivisione dell’”area delle problematicità” in: 1) donne adulte con Mgf che non esprimono problematicità a riguardo, se non una minoranza di casi che riporta specifici problemi sanitari; 2) giovani donne infibulate che vivono con ambivalenza la loro condizione e desiderano modificarla in vista di una diversa relazione con la propria cultura di origine e il proprio partner, e necessitano di assistenza medica e psicologica; 3) giovani e giovanissime con Mgf che crescono nel contesto di immigrazione e vivono una sofferenza acuta rispetto all’accettazione della cultura di origine e alla differenza vissuta in quello di immigrazione, rispetto alle quali è necessario un forte sostegno psicologico.

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cessivamente statiche o folkloristiche o unicamente emotive rispetto al tema. Sulla base di queste considerazioni, è opportuno portare avanti un lavoro di approfondimento delle conoscenze che riguardano il fenomeno delle Mgf, attraverso: a. possibilità di diffusione delle ricerche svolte nell’ambito dei progetti dell’avviso 1, sviluppando occasioni di confronto e scambio nonché valutando la possibilità di costituire un coordinamento o un tavolo tematico presso il Dipartimento Pari Opportunità; b. la promozione di studi sulle differenze esistenti all’interno della popolazione composta di donne provenienti dai paesi a tradizione escissoria, in termini di fasce di età, presenza di prime e seconde generazioni nella migrazione, gruppi etnici di appartenenza; c. la promozione di programmi di ricerca-azione (che prevedano anche studi di casi su servizi) sulle problematicità espresse e inespresse dalle donne adulte e dalle giovanissime, l’impatto che determinano sui servizi, sul loro operato ed sull’approccio alle Mgf; d. la costruzione di un processo di stima che permetta di riflettere in maniera realistica la casistica presente sui territori; e. la promozione di ulteriori incontri di diffusione delle conoscenze all’interno di gruppi territoriali di operatori di servizi territoriali, del volontariato e delle comunità immigrate; f. la diffusione di materiali di informazione che riflettano la realtà effettiva della popolazione residente rispetto alla problematicità riscontrata. 6.6.2 Le possibilità di eradicazione della pratica qui e nei paesi di origine Il cambiamento di atteggiamento nei confronti delle Mgf è frutto – secondo gli opinion leader e le donne intervistate – dell’accesso delle donne a una molteplicità di diritti (come quello alla salute, all’istruzione, al lavoro) e di esperienze di confronto, di socializzazione, di autonomia decisionale. Non deriva dunque unicamente dall’esperienza della migrazione, ma in quella trova un potente acceleratore, una spinta nella direzione di una messa in discussione dei tradizionali assetti familiari, economici, sociali e culturali. È quindi utile sviluppare azioni che consentano l’in-

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tegrazione delle donne nonché dei nuclei familiari migranti, attraverso programmi di empowerment e di promozione del benessere che si rifletta sulle figlie, qui e nei paesi di origine. Ne consegue la raccomandazione di promuovere: a. azioni di avvicinamento delle donne ai servizi sociali e sanitari attraverso diversi strumenti comunicativi (materiali di informazione e/o pubblicitari sui servizi esistenti multilingue, diffusione e visibilità in diversi contesti, organizzazione di incontri ad hoc con organizzazioni di donne migranti); b. l’informazione sul diritto alla salute e all’integrità psicofisica, per compensare una lettura esclusivamente repressiva della legge, con modalità di comunicazione e di interpretazione della stessa e dei diritti ad essa legati adeguate e comprensibili20; c. garanzia di accesso alle cure sanitarie e all’istruzione anche delle persone in condizione di temporanea irregolarità, affinché la tutela dei diritti umani sia effettivamente universale; d. la moltiplicazione dell’offerta di formazione linguistica per facilitare il contatto con il nuovo contesto di accoglienza21 e l’autonomia; 6.6.3 I bisogni formativi degli operatori L’indagine quantitativa ci restituisce l’immagine di una maggioranza di operatori schierati contro la pratica, ma con posizioni più ideologiche che consapevoli. Approcci derivanti da una conoscenza superficiale o ideologica possono rivelarsi contrari non già alla pratica, ma alle donne stesse che necessitano di accoglienza presso i servizi, di rispetto per il personale vissuto, e di buon senso nella relazione di aiuto. La ricercaazione ha messo in evidenza come la scarsa formazione degli operatori dei servizi socio-sanitari territoriali porti spesso a: 20 È utile il rimando all’intervista n. 128 riportata al paragrafo 5.6.2 in cui una donna riferisce, senza riuscire a spiegarselo e rimettendo tutto “nelle mani di Dio”, quanto ciò che viene affermato dai medici vada contro la propria esperienza personale. 21 Secondo una recente ricerca promossa dal Cesv-Spes a Roma (presentata alla giornata seminariale “Integrazione sociale a Roma e scuole di italiano per migranti”, Roma, 28 /11/2008) l’offerta di corsi di lingua nell’area romana ha interessato circa 13.000-14.000 migranti, di cui ben il 40% accolti dalle organizzazioni del volontariato. L’offerta pubblica è quindi notevolmente sottodimensionata rispetto alla richiesta effettiva, nonché rispetto al dato di 20.000 nuovi residenti stranieri che si aggiungono annualmente alla popolazione residente nel Comune, e all’accumulo di bisogni formativi linguistici degli anni precedenti. Le donne, soprattutto quelle che non lavorano, sono quelle che risentono maggiormente la scarsa conoscenza della lingua italiana.

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- incapacità di lettura del fenomeno e/o di rilevazione di una domanda inespressa/latente, sia a fini curativi che preventivi; - inadeguatezza nella risposta di assistenza; - difficoltà nella gestione della relazione di aiuto; - distanza delle donne dai servizi. Dai diversi aspetti rilevati a riguardo ne consegue la necessità di percorsi formativi ispirati a: a. conoscere adeguatamente del fenomeno nella sua complessità, che include la realtà attuale e contestuale delle donne con Mgf presenti sul territorio; b. calibrare dei contenuti formativi rispetto ai diversi pubblici di destinatari; c. fornire agevoli chiavi di lettura rispetto al proprio contesto di lavoro; d. costruire una relazione di aiuto improntata ai principi della mediazione sociale e culturale, che tenga cioè conto dei significati dei diversi attori in gioco; e. evitare allarmismi e abusi di autorità nell’attribuzione di significati a contesti e condizioni vissuti dalle donne; f. rispettare i vissuti nonché l’autonomia di scelta delle donne rispetto alla propria salute (ad es. limitando il ricorso al parto cesareo coatto); g. permettere agli operatori sanitari di affrontare conmaggiore competenza le visite e gli eventuali interventi necessari con le donne con Mgf; h. agevolare il confronto con esperienze di lavoro realizzate in altri contesti italiani ed europei; i. indicare un accesso alle reti anche informali di servizi sul territorio in grado di fornire supporto per le attività di prevenzione e cura. 6.6.4 Il miglioramento della rete di servizi territoriali per l’accesso alle opportunità di cura e prevenzione Sottolineando le necessità di formazione e di empowerment delle donne, mettiamo infine in evidenza la necessità di alcuni interventi che consentano di rendere effettiva una politica di cura e prevenzione che colga la

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domanda inespressa, ovvero la misura della capacità del sistema dei servizi di garantire effettivi diritti di cittadinanza sociale. Tra questi: a. il potenziamento della mediazione culturale in tutti i servizi sociali, educativi e sanitari presso i quali la popolazione immigrata rappresenta ormai una quota di utenza significativa; b. la predisposizione di spazi di ascolto e di sostegno psicologico per i/le giovani di seconda generazione, costruiti all’interno di percorsi mirati che prevedano attività di ricerca-azione, formazione e confronto con le comunità migranti del territorio; c. garantire l’accesso alle cure pediatriche di base, la formazione e l’attivazione di reti formali e informali che favoriscano la prevenzione verso le bambine; d. promuovere l’attivazione di tavoli di confronto e di contatto tra reti già esistenti ma informali sui territori costituite tra servizi pubblici, del privato sociale e le organizzazioni delle comunità immigrate; e. coinvolgere le associazioni e i gruppi informali delle donne migranti provenienti dai paesi interessati dal fenomeno per l’individuazione degli strumenti comunicativi più adatti per la cura e la prevenzione, nonché per permettere l’emersione di richieste di aiuto per chi teme di subire (o ha subito di recente) una mutilazione genitale per sé o per le proprie figlie.

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Lista dei testimoni qualificati, degli opinion leader intervistati e dei servizi territoriali il cui personale ha partecipato ai focus group a) Testimoni qualificati dei servizi - Area sociale 1 Marie Terese Mukamitsindo – Responsabile Centri d’accoglienza di Sezze Romano e Roccagorga (Cooperativa Karibù) – Sezze Romano 2 Pietro Benedetti – Responsabile “Sa.Mi.Fo.” e Ambulatorio Astalli – Roma 3 Klaudia Jaeger – Psicologa “Sa.Mi.Fo.” – Roma 4 Carlo Bracci – Presidente Medici Contro la Tortura – Roma 5 Laura Bisegni – Operatrice Casa dei Diritti Sociali – Roma 6 Jacopo Zanotti– Operatore Casa dei Diritti Sociali – Roma 7 Maria Quinto – Responsabile Ambulatorio S. Egidio – Roma 8 Farah Valijou – Ginecologa Poliambulatorio Casilino (Associazione Medici Stranieri in Italia) – Roma 9 Hassan Sabri – Membro direttivo Associazione Medici Stranieri in Italia – Roma 10 Carlo Stasolla – Coordinatore Centro d’accoglienza “Pedro Arrupe” (Centro Astalli) – Roma 11 Stefania Krilic – Responsabile immigrazione Servizi Sociali Comuna li– Latina 12 Elisabetta Belisario – Responsabile centri socio-educativi Virtus Pon- te Mammolo – Roma 13 Bianca Maisano – Responsabile Ambulatorio Caritas – Roma 14 Andrea Taviani – Medico Medici Contro la Tortura – Roma 15 Renato Manes – Medico Medici Contro la Tortura – Roma 16 Leili Kohsravi – Ginecologa Medici Contro la Tortura – Roma 17 Manuela Fabbretti – Infermiera Medici Contro la Tortura – Roma 18 Giada Casucci – Responsabile progetto “Pensieri Migranti” – Monte rotondo 19 Tania Tocci – Responsabile “Sportello donna” e “Casa internazionale dei diritti umani delle donne” (Cooperativa O.SA.LA.) – Roma 20 Gabriella Pacini – Ostetrica Ambulatorio Casa Internazionale delle Donne – Roma 21 Lucia Ercoli – Responsabile Ambulatorio di medicina solidale e delle migrazioni – Roma 22 Amani Tigli – Pediatra Ambulatorio di medicina solidale e delle mi-


grazioni – Roma Rosana Fernandes – Direttrice Fondazione Andolfi – Roma Lorena Cavalieri – Vicepresidente Fondazione Andolfi – Roma Monica Serrano – Associazione Laboratorio 53 – Roma Salvatore Geraci – Responsabile Area Sanitaria Caritas – Roma Monia Marchetti – Psicologa Sportello Donne Osala – Roma Gianni Cirillo – Ginecologo Ambulatorio Casa dei Diritti Sociali Roma 29 Giuseppe Lombardi – Servizi Sociali comunali – Monterotondo 30 Anna Pepe – Insegnante 194° Circolo Elementare – Roma 31 Daniela Serra – Insegnante Scuola dell’Infanzia – Ladispoli 32 Silvana – Insegnante Scuola dell’Infanzia – Ladispoli 33 Alessia – Insegnante Scuola dell’Infanzia – Ladispoli 34 Carolina – Insegnante Scuola dell’Infanzia – Ladispoli 35 Simona – Mediatrice culturale Agenzia territoriale per l’Edilizia Resi- denziale (UIL) – Civitavecchia 36 Mara Caporale – Dirigente Politiche Sociali del Comune – Ladispoli 37 Claudio Santini – Insegnante Liceo Azzarita – Roma 38 Silvia Forchini – Educatrice Cooperativa sociale “Casa Azzurra” Roma 39 Dalila Novelli – Responsabile Sportello immigrate Assolei – Roma 40 Maria Oresta – Coordinatrice associazione culturale Dedicato Donne (DEDO) – Roma 41 Valeria Fulgero – Insegnante e responsabile intercultura Scuola Ele- mentare e dell’Infanzia 126° CD “Iqbal Masih” – Roma 42 Antonella Rossilli – Insegnante e responsabile intercultura Scuola Elementare e dell’Infanzia 126° CD “Iqbal Masih” – Roma 43 Silvana Brizi – Operatrice sociale Centro d’accoglienza (Arci) – Vi- terbo 44 Silvia Agostini– Operatrice sociale Centro d’accoglienza (Arci) – Vi- terbo 45 Maria – Operatrice sociale Centro d’accoglienza (Arci) – Viterbo 46 Lazrak Benkadi – Coordinatore e responsabile Centro d’accoglienza “Casa di Giorgia” (Centro Astalli) – Roma 47 Francesca De Masi – Operatrice sociale Centro d’accoglienza “Enea” – Roma 48 Carmine Fabio Attanasi – Operatore sociale Centro d’accoglienza “Enea” – Roma 49 Paola Scarante – Assistente sociale Consultorio Asl RMG – Tivoli 23 24 25 26 27 28


50 Letizia Antenucci – Assistente sociale Consultorio Asl RMG – Villa Adriana 51 Gabriela Anusca – Mediatrice Centro Servizi per l’Immigrazione (CSI) – Tivoli 52 Abachina Lioubov – Mediatrice Centro Servizi per l’Immigrazione (CSI) – Tivoli 53 Dott.ssa Fidanza – Assistente sociale Centro Sociale Comunale Guidonia 54 Dott.ssa Paolillo – Assistente sociale Centro Sociale Comunale Guidonia 55 Massimo Guidotti – Coordinatore didattico Centro interculturale “Celio Azzurro” – Roma 56 Miriam Lani – Responsabile Casa d’accoglienza Colli Aniene – Roma 57 A.R. Vicentini – Ginecologa ambulatorio Caritas – Tivoli 58 Ricci – Pediatra ambulatorio Caritas – Tivoli 59 Vittoria Tola – Consulente del Dipartimento per le Pari Opportunità – Roma b) Testimoni qualificati dei servizi - Area sanitaria 60 Philomenne Nvenga – Infermiera capo sala Reparto di ginecologia Ospedale S. Eugenio – Roma 61 Filippo Gnolfo – Responsabile servizi immigrazione Asl RMA – Roma 62 Maria Edoarda Trillò – Pediatra responsabile del Dipartimento Mater no Infantile Asl RmC – Roma 63 Augusta Angelucci – Psicologa Asl di Palestrina e Ospedale San Ca- millo – Palestrina/Roma 64 Ennio Painvain – Specialista in ginecologia ed ostetricia Ospedale S. Giacomo – Roma 65 Antonio Cappelli – Medico chirurgo e docente dell’Università “La Sapienza” – Roma 66 Maurizio Di Felice – Ginecologo Ospedale San Camillo– Roma 67 Daniela Valeriani – Ginecologa Ospedale San Camillo – Roma 68 Giuseppe Alcaro – Responsabile servizi STP Asl RmB – Roma 69 Donatella D’Angelo – Responsabile Ambulatorio associazione Citta- dini del Mondo – Roma 70 Giuseppina Carreca – Ambulatorio per migranti Asl Latina – Latina 71 Cristina Florio – Assistente sociale Consultorio – Latina 72 Elisa Meloni – Ginecologa Consultorio – Aprilia-Cisterna-Cori


73 Sabrina Pistilli – Ostetrica Ospedale Santa Maria Goretti e delegata alle pari opportunità del Comune di Cori – Latina-Cori 74 Marilisa Coluzzi – Ostetrica Ospedale Santa Maria Goretti – Latina 75 Francesca Romana de Angelis – Ginecologa e responsabile della Struttura complessa Tutela dell’Infanzia, della Donna e della Famiglia dei Monti Lepini – Latina 76 Daniela Saraceni – Ginecologa Consultorio via delle Resede – Roma 77 Patrizia Bardelloni – Assistente sociale Consultorio di Pietralata – Roma 78 Aldo Morrone – Dirigente INMP Istituto San Gallicano – Roma 79 Giovanna Scassellati – Ginecologa e responsabile Centro di riferimento ragionale per le mutilazioni genitali femminili presso Ospedale San Camillo – Roma 80 Ivana Arena – Ostetrica Policlinico Casilino – Roma 81 Adriana Dodde – Ginecologa Consultorio via di Torrenova – Roma 82 Maria Rita Maturi – Ginecologa centro medico “Artemide” – Roma 83 Paola Iole – Ginecologa Consultorio – Monterotondo 84 Maria Antonietta Di Battista – Ostetrica Consultorio – Monterotondo 85 Safiatou Kalle – Ginecologa ospedale di Civitacastellana – Civitaca stellana 86 Francesca Botta – Psicologa Ambulatorio per gli stranieri Policlini- co Umberto I – Roma 87 Marina Baldocci – Ostetrica Clinica Ostetrica e Ginecologica Policli nico Umberto I – Roma 88 Roberto Sindico – Ginecologo Istituto San Gallicano – Roma 89 Gennaro Franco – Dermatologo Istituto San Gallicano – Roma c) Opinion Leader delle comunità migranti 90 Felicité Mbezele (Camerun) – Presidente Centro per le arti e le culture africane “Abeng Dzam” 91 Feliz Kouame (Costa D’Avorio) - Presidente Movimento degli Africani a Roma 92 Justin Wandjia (Camerun) - Presidente associazione Tam Tam Villa ge 93 Marguerite Welly Lottin (Camerun) – Presidente associazione inter culturale Griot e componente Consulta Immigrati del Comune di Roma 94 Sandrine Sieyadji (Camerun) – Mediatrice culturale associazione


No.Di. 95 Teodoro Ndjock Ngana (Camerun) - Presidente Associazione Kellam 96 Susanne Diku (RD Congo) – Ginecologa Responsabile Ambulatorio del centro Welcome 97 Arch. Amer (Egitto) - Presidente associazione Egiziani 98 Lofty El Hosery (Egitto) - Segretario generale associazione Egiziani 99 Tarekegne Taka (Etiopia) - Presidente associazione etiopica 100 Mulu Ayele (Etiopia) – Presidente associazione comunità etiopica in Italia 101 Sacerdote (Eritrea) – Chiesa Evangelica S. Tommaso in Parione 102 Ribka Sibhatu (Eritrea) – Esperta di educazione interculturale 103 Presidente associazione Adbet (Eritrea) (chiede di restare anonima) 104 Rita Cester (Eritrea) – Mediatrice culturale eritrea 105 Stefano Pettini (Eritrea) - Curatore sito www.eritreaeritrea.org 106 Mamadou Aliou Sow (Guinea) - Presidente Unione immigrati della Guinea in Italia (UIG) 107 Fatouma Nirina Konaté (Mali) – Operatrice sociale Centri di accoglienza 108 Dah Ould Mohamed (Mauritania) – Mediatore culturale Asl RMC 109 Mary Obioma (Nigeria) - Associazione donne nigeriane 110 Dorothy Ukegnu (Nigeria) – Mediatrice culturale Istituto San Gallicano 111 Udunna Emmanuel Onyewuchi (Nigeria) – Operatrice e mediatrice casa famiglia e sportello Caritas 112 Romanus Nwaereka (Nigeria) - Sindacalista Cisl 113 Godwin Chukwu (Nigeria) – Letterato e volontario per la comunità nigeriana 114 Agnes Kam Leng Lam (Senegal) - Presidente associazione donne senegalesi 115 Ibrahim Kamara (Senegal) – Mediatore culturale 116 Angela (Sierra Leone) – Mediatrice culturale Istituto San Gallicano 117 Mauro Caruso (Somalia) – Consigliere Associazione Nazionale comunità Italo-somala 118 Zahra Omar (Somalia) – Vicepresidente associazione di cooperazione allo sviluppo in East Africa ACSA 119 Anonima (Somalia) – Mediatrice culturale e operatrice centri di accoglienza 120 Jamila (Somalia) – Mediatrice Cooperativa Karibù


121 Lula Osman (Somalia) - Presidente Associazione Donne Somale (Adeso) 122 Suliman Ahmad Hamed (Sudan) – Presidente Comunità Zagawa in Italia 123 Eltaib Yassir (Sudan) – Presidente associazione comunità sudanese 124 Jean Benissan (Togo) – Mediatore culturale e responsabile Anolf (Cisl) d) Elenco interviste a membri delle comunità a tradizione escissoria (anonime, è riportato il paese di origine e l’età) 123 124 125 126 127 128 129 130 131 132 133 134 135 136 137 138 139 140 141 142 143 144 145 146 147 148

Sudan Sudan Sudan Sudan Sudan (Maschio) Mali Mali Mali Nigeria Nigeria Etiopia Etiopia Etiopia Etiopia Egitto (Maschio) Egitto Etiopia Etiopia Somalia Somalia Somalia Somalia Somalia Eritrea Eritrea Eritrea

38 35 36 33 44 46 48 53 52 36 26 32 36 30 26 23 23 26 25 38 48 28 30 22 26 26

anni anni anni anni anni anni anni anni anni anni anni anni anni anni anni anni anni anni anni anni anni anni anni anni anni anni


149 Eritrea (Maschio) 150 Yemen 151 Sierra Leone 152 Niger 153 Egitto 154 RD Congo 155 RD Congo 156 Guinea KonacrĂŹ 157 Guinea KonacrĂŹ 158 Ghana 159 Mali 160 Togo 161 Senegal (Maschio) 162 Senegal 163 Senegal 164 Senegal 165 Nigeria 166 Somalia 167 Etiopia 168 Somalia 169 Etiopia 170 Eritrea

31 38 34 46 63 34 22 49 28 54 65 31 42 49 27 60 22 35 25 47 35 39

anni anni anni anni anni anni anni anni anni anni anni anni anni anni anni anni anni anni anni anni anni Anni

e) Elenco strutture che hanno ospitato i focus group con operatori 1 Servizio di mediazione linguistico culturale A.O. San Camillo, reparto DH Legge 194/78 (1 Assistente sociale, 4 mediatrici, 3 tirocinanti) 2 Centro Territoriale Permanente Nettuno (18 studenti corsi mediatori) 3 Centro Territoriale Permanente Nettuno (6 studenti corsi mediatori) 4 Reparto patologia neonatale A.O. San Camillo (8 Ostetriche) 5 Reparto patologia neonatale A.O. San Camillo (10 medici di reparto) 6 A.O. San Camillo, reparto DH Legge 194/78 (10 infermiere professionali e caposala) 7 Consultorio Familiare Trullo Asl RmD (2 ginecologhe, 2 ostetriche, 2 infermiere, assistenti sociali, una psicologa, una pediatra, una mediatrice)


Elenco dei servizi territoriali che hanno collaborato all’indagine quantitativa suddivisi per zone di somministrazione (cfr. capitolo 2) Zona 1: Castelli SCUOLE C.D. Guidonia V - Guidonia C.D. Guidonia III - Guidonia C.D. Tivoli – Tivoli (RM) I.C. - CTP “Todini” – Guidonia (RM) SERVIZI SANITARI Consultorio - Tivoli (RM) Consultorio – Guidonia (RM) Ospedale – Palestrina (RM) ASSOCIAZIONI Caritas – Tivoli (RM) CSI – Tivoli (RM) Focus cds – Tivoli (RM) Cilo – Guidonia (RM) Zona 2: litorale sud1 SCUOLE C.D. LATINA I - Latina C.D. SEZZE II - Sezze SERVIZI SOCIALI Servizi sociali - Latina Servizi sociali – Sezze (LT) Servizi sociali - Ferentino (LT) ASSOCIAZIONI Associazione Valentina - Latina Associazione Karibù - Sezze (LT) SERVIZI SANITARI Ospedale - Latina Consultorio ,piazzale Canturan 7 -Latina Ospedale - Fondi (LT) Ospedale Frosinone - Reparto Ostetricia Ginecologia - Frosinone Zona 3: litorale sud 2 SCUOLE


Scuola Secondaria “Copernico”- Pomezia (RM) Ist. Professionale - Pomezia (RM) SERVIZI SOCIALI Servizi socio-educativi - Nettuno (RM) ASSOCIAZIONI Ass. Casa di Giorgia - Roma SERVIZI SANITARI Consultorio - Pomezia (RM) Consultorio - Nettuno (RM) Ospedale - Anzio (RM) Zona 4: Ovest SCUOLE Scuola elementare “Mar dei Caraibi” - Roma I.C. “Leonardi” - Roma ITCS “Paolo Toscanelli” - Roma Scuola Superiore “Giulio Verne” - Roma Istituto Alberghiero “Paolo Baffi”- Roma Scuola elementare “Evangelisti” - Roma C.D. “Alfieri” - Roma ASSOCIAZIONI Caritas Ostia - Roma Centro Enea - Roma SERVIZI SOCIALI Servizi Sociali XVIII Municipio - Roma Servizi Sociali – Fiumicino (RM) SERVIZI SANITARI Consultorio - Ladispoli (RM) Ospedale “Grassi” - Ostia (RM) ASL RM/D - Roma Ospedale “S.Camillo”, DSDH 194 - Roma Ospedale “S.Camillo”, Reparto Ostetricia - Roma Consultorio Trullo - Roma Consultorio Via della Magliana 256 - Roma Consultorio L.go Quadrelli 5 - Roma Consultorio Via Consolata 52 - Roma Consultorio Municipio XVIII - Roma Consultorio Via Silveri 8 - Roma Consultorio Via Cornelia 114 - Roma


Zona 5: Nord SCUOLE C.D. Orte – Orte (VT) S.M.S. “ A. Deci” - Viterbo ASSOCIAZIONI Ass. Erinni - Viterbo Arci - Viterbo Ass. Differenza Donna - Viterbo Caritas - Viterbo SERVIZI SOCIALI Ufficio politiche sociali - Viterbo Ufficio integrazione sociale persone svantaggiate della provincia - Vt SERVIZI SANITARI Ospedale S.Martino - Viterbo Consultorio - Nepi (VT) Consultorio - Orte (VT) Consultorio - Vetralla(VT) Ospedale - Civita Castellana (VT) Ospedale - Civitavecchia (RM) Ospedale - Rieti Zona 6: Nord est SCUOLE Istituto Tecnico Matteucci - Roma I.C. “V. R. Fucini” - Roma I.C. Monte Pollino - Monterotondo (RM) SERVIZI OCIALI Servizi Sociali - Monterotondo (RM) Servizi Sociali IV Municipio - Roma ASSOCIAZIONI Ass. Pedro Arrupe - Roma Ass. Pensieri Migranti - Monterotondo (RM) Ass. Piccole Canaglie - Monterotondo (RM) SERVIZI SANITARI Ospedale - Monterotondo (RM) Consultorio - Monterotondo (RM) Zona 7: Est


SCUOLE 21° C.D. “F.Cecconi”- Roma 81° C.D. “M.Polo”- Roma 82° C.D. “G. Marconi”- Roma 175° C.D. - Roma 189° C.D. - Roma S.M.S. Via Rugantino, 91- Roma CPT CTP 06 C/O S.M.S. Via Rugantino, 91 - Roma SERVIZI SOCIALI Servizi sociali Municipio VII - Roma Servizi sociali Municipio VIII - Roma ASSOCIAZIONI Centro di Medicina Solidale e delle Migrazioni di Tor Bella Monaca Roma VIRTUS - Roma SERVIZI SANITARI Consultorio Municipio VII – VIII - Roma Consultorio P.zza Mirti 45 - Roma Consultorio Via Manfredonia 43 - Roma Consultorio Tor Cervara 307- Roma Consultorio Via della Resede 1- Roma Consultorio Torrenova - Roma ConsultorioVia delle Canapiglie - Roma Zona 8: Centro SCUOLE Cristoforo Colombo - Roma I.C. V. Guicciardini , 8 - Roma 4° C.D. “C.Pisacane”- Roma 19° C.D. “E.Toti”- Roma 107° C.D. “G.Cesare”- Roma 126° C.D. - Roma Seconda Opportunità/CTP - Roma SERVIZI SOCIALI Servizi Sociali Municipio VI - Roma Servizi Sociali Municipio I - Roma ASSOCIAZIONI SaMiFo - Roma


Ambulatorio Astalli - Roma Medici Contro la Tortura - Roma Focus – CDS - Roma Ambulatorio Sant’Egidio - Roma Ambulatorio Caritas - Roma Help Center - Roma Centro d’accoglienza via Zurla - Roma CIR - Roma SERVIZI SANITARI ASL rm/a - Roma Ospedale “Fatebenefratelli” - Roma Consultorio Municipio VI - Roma Consultorio Via Casilina - Roma Consultorio P.zza Condottieri 34 - Roma Consultorio Via Herbert Spencer 282 - Roma Ospedale “S.Anna”-Consultorio Salaria - Roma Ospedale “S.Eugenio” - Roma


PROFILI DELLE AUTRICI E DEGLI AUTORI Giuliana Candia, sociologa, è direttore dell’Associazione Parsec - ricerche e interventi sociali di Roma presso la quale si occupa del coordinamento scientifico di progetti di ricerca-azione nell’ambito delle migrazioni, dei fenomeni correlati in Italia (accesso ai servizi e ai diritti sociali; discriminazione sociale, culturale e religiosa; tratta e sfruttamento sessuale) e delle relative politiche di accoglienza, integrazione e di contrasto alle discriminazioni. Ha curato inoltre ricerche specifiche sulle discriminazioni molteplici legate al genere e all’appartenenza sociale, culturale, etnica e religiosa. Tzeinesch Casai, sociologa, è tra le fondatrici dell’Associazione di donne migranti NoDi (I Nostri Diritti), si occupa da diversi anni di prevenzione e sostegno alle donne con Mgf e di sensibilizzazione sul tema in diversi ambiti. Collabora come mediatrice culturale con l’Istituto INMP San Gallicano e presso i Centri Servizi per l’Immigrazione della Provincia di Roma e come coordinatrice di strutture di accoglienza per migranti e rifugiati. Ha coordinato il progetto di comunicazione e sensibilizzazione tra le comunità migranti nel Lazio “Stop Mgf”. Laura Di Pasquale, antropologa sociale specializzata in antropologia politica e immigrazione, ha collaborato con diverse strutture (Oim, Parsec, Cespi) nell’ambito di progetti di ricerca e di formazione nell’ambito dell’asilo politico, dei percorsi delle seconde generazioni nonché della prevenzione in ambito sanitario e dell’Hiv/Aids tra le comunità migranti. Di recente ha prodotto (per conto del Cospe) il report su Razzismo e discriminazione in Italia per l’Agenzia Europea per i Diritti Umani (FRA) e per la rete ENAR. Maura Misiti, demografa, è ricercatrice dell’Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali del CNR. Si occupa di ricerche su atteggiamenti, opinioni e percezioni verso i cambiamenti demografici e sociali; di ricerche connesse alle politiche sociali e pari opportunità, di tematiche demografiche connesse all’approccio di genere (violenza, bilancio di genere, MGF), di analisi qualitative di tipo testuale mirate all’integrazione degli strumenti di analisi statistico/quantitativa, Tra l’altro ha curato Il Silenzio e le parole. II Rapporto nazionale Rete antiviolenza tra le città Urban, (Franco Angeli, 2006), Immigrazione nuove famiglie


e ruoli di genere a scuola, in famiglia e nella società di Lucca (IRPPS, 2007). Luca Rondini, laureato in scienze politiche e dottorato in scienze sociali presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma, opera nella gestione di strutture di accoglienza ed è coautore del volume “Abitare i territori dell’integrazione”(Goliardica, 2005). Francesca Rinesi, dottore di ricerca in demografia, collabora con l’Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali del CNR, l’Istat e L’Università “La Sapienza” di Roma. Si occupa di ricerche sulle dinamiche di popolazione, con particolare attenzione verso i temi di fecondità e famiglia. Giovanna Scassellati, ginecologa, è dirigente dell’A.O. San Camillo Forlanini di Roma presso il quale è anche referente del Centro di riferimento Regionale per la terapia delle donne portatrici di mutilazioni genitali femminili, istituito con delibera regionale 187/2007. Ha redatto con Vittoria Tola il testo “Mutilazioni Genitali Femminili. Dimensioni culturali e problematiche socioassistenziali” (Poletto, 2001) Giorgia Serughetti, ricercatrice presso l’Associazione Parsec, dottoranda in Studi Culturali all’Università di Palermo e collaboratrice del Dipartimento di Sociologia dell’Università di Milano-Bicocca. I suoi ambiti di studio includono: i fenomeni migratori e il diritto d’asilo (minori stranieri, integrazione sociale e lavorativa degli immigrati e dei richiedenti asilo, detenzione amministrativa degli stranieri), la protezione internazionale dei diritti umani, la tratta di donne e la prostituzione.




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