Tesi Laurea Costanza Univ. Siena

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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI SIENA FACOLTA' DI SCIENZE POLITICHE Corso di Laurea in Scienze Internazionali Curriculum in Scienze Internazionali per la Cooperazione allo Sviluppo

Interventi di cooperazione per l’infanzia in Uganda: un caso di studio

Relatore: Chiar.mo Prof. Federica Guazzini Correlatore: Chiar.mo Prof. ALESSANDRA VIVIANI Tesi di Laurea di Costanza Ceppatelli

ANNO ACCADEMICO 2009-2010

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INDICE Introduzione..........................................................................................2 CAPITOLO 1. L’Uganda: da colonia a stato nazione.............................4 1.1 Il dominio coloniale...........................................................................8 1.2 Il processo di decolonizzazione.........................................................15 1.3 L’Uganda indipendente....................................................................18 CAPITOLO 2. L’Infanzia in Uganda.....................................................35 2.1 I bambini e il Lord’s Resistance Army di Joseph Kony......................36 2.2 La scolarizzazione............................................................................44 CAPITOLO 3. Tutela dei diritti dei minori.........................................54 3.1 3.2 3.3 3.4

Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo..................................54 Convenzione sui diritti del fanciullo.................................................57 Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli................................72 Carta africana sui diritti e il benessere del minore...........................80

CAPITOLO 4. La cooperazione............................................................83 4.1 La cooperazione decentrata allo sviluppo.........................................93 4.2 Le organizzazioni non governative....................................................95 4.3 Le attività di cooperazione italiana in Uganda..................................96 CAPITOLO 5. Il fieldwork..................................................................106 5.1 Centro Internazionale per la Pace tra i popoli di Assisi...................106 5.2 AS.SO.S Terni................................................................................111 5.3 L’esperienza di ricerca sul campo...................................................114 Conclusioni........................................................................................131 Bibliografia.........................................................................................133

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INTRODUZIONE Il tema affrontato in questo lavoro riguarda principalmente la condizione dell’infanzia in Uganda, un paese dove la povertà, le dittature e i conflitti, che hanno coinvolto in modo particolare i bambini, hanno messo in ginocchio l’intera popolazione. La scelta di quest’argomento nasce, prima di tutto, dal tipo di studi che ho compiuto, riguardanti la cooperazione allo sviluppo e, in secondo luogo, dal mio particolare interesse per l’Africa, che mi ha portato ad effettuare uno stage curriculare in Uganda. L’elaborato è articolato in cinque capitoli. Nel primo ho preso in esame la storia socio-politica del paese dagli esordi del popolamento, all’epoca dell’invasione del dominio coloniale, per poi affrontare il periodo delle dittature degli anni ‘70- ‘80 del XX secolo e i movimenti d’insurrezione armata principalmente rilevanti nel nord Uganda, per seguire con l’evoluzione politica del paese fino a lambire la stretta attualità. Il secondo capitolo tratta la situazione dell’infanzia in Uganda. Viene tratteggiata la nascita e lo sviluppo delle scuole nel paese, la suddivisione

del

sistema

scolastico,

le

riforme

introdotte

recentemente e le difficoltà dei minori nell’accesso all’istruzione, dovute allo stile di vita, alle malattie e soprattutto alle scarse risorse economiche delle famiglie. In particolare l’analisi si sofferma sulla drammatica situazione dei bambini-soldato in nord Uganda. Nel terzo capitolo si affronta dal punto di vista giuridico la tutela dei diritti dei bambini in Africa, partendo dall’analisi della Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989 elaborata dalle Nazioni Unite, della Carta Africana dei diritti dell’uomo e dei popoli e la successiva Carta africana sui diritti e il benessere dei bambini, soffermandomi sugli articoli riguardanti la tutela dei minori in caso di conflitto e il diritto all’istruzione. L’elaborato prosegue nel quarto capitolo spiegando la nascita e l’evoluzione della cooperazione internazionale allo sviluppo e le sue 3


varie

modalità

d’intervento

in

Uganda,

dedicando

particolare

attenzione al lavoro delle ONG e della cooperazione italiana sul tema dei minori nel paese. Per finire, nel quinto capitolo, viene fornita una disamina dei progetti e delle attività svolte dal Centro Internazionale per la pace dei popoli di Assisi e della Onlus Assos di Terni, con la quale collabora per i progetti in Africa, nel distretto di Arua, concludendo con un focus sulla mia esperienza di ricerca e del lavoro di cooperante che ho svolto sul campo durante lo stage effettuato nel villaggio di Oluko dal 28 luglio al 23 agosto 2009. L’obiettivo di questo elaborato di tesi è, quindi, proprio quello di far riflettere, attraverso un’analisi della storia, della condizione dell’infanzia e tutela dei diritti del minore, degli interventi di cooperazione, sulla situazione di estremo disagio nella quale si trovano paesi come l’Uganda e sul lavoro che viene svolto dagli operatori della cooperazione per migliorare le loro condizioni di vita.

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CAPITOLO 1 L’Uganda: da colonia a stato nazione Come per le altre società dell’Africa sub-sahariana, gran parte della storia dell’Uganda1, precedente alla conquista coloniale, ci è stata tramandata oralmente, in quanto la documentazione scritta disponibile inizia a partire dal XIX secolo, epoca in cui gli esploratori e i conquistatori europei si sono imbattuti in queste società. Possiamo dire che il gruppo etno-culturale insediato da più tempo sul territorio dell’attuale Uganda fu quello Twa, un popolo di pigmei; successivamente, circa 2000 anni fa, nell’area s’insediarono popolazioni di Bantu che cacciarono i Twa, ma furono a loro volta incalzati da etnie nilotiche provenienti da settentrione, e costituite principalmente da allevatori, i Bahima. I primi due sistemi sociopolitici dell’area si considerano, quindi, quelli degli agricoltori Bantu e degli allevatori Bahima, anche se è solo a partire dal XV secolo e prevalentemente nell’area meridionale che si formarono i regni più importanti di cui abbiamo traccia: Buganda, Ankole, Bunyoro e Toro. Le popolazioni nilotiche insediate a settentrione si organizzarono, invece, in entità di dimensioni inferiori e principalmente organizzate in tribù2. Potente nel XVII secolo, il Bunyoro, situato più a nord rispetto agli altri regni e composto principalmente da allevatori, declinò nel secolo seguente, permettendo ai regni vicini, Ankole e Buganda, di estendersi a sue spese. La monarchia riprese vigore verso la metà del XIX secolo, quando il re Kabarega creò un esercito professionale e si procurò armi da fuoco grazie a trafficanti venuti da Khartoum. I sovrani, chiamati mukama, non avevano residenza fissa, e delegavano l’amministrazione del territorio ai capitribù. Il regno di Ankole, invece, toccò il suo apogeo sotto il dominio di Mutambuka, tra il 1839 e il 1867. La denominazione “Uganda” in realtà sarà utilizzata dai Britannici con riferimento al territorio sotto il loro controllo dal 1894 al 1962 compreso tra il Rwanda, il Congo, il Sudan, il Kenya e la Tanzania. Nel presente elaborato, però, tale denominazione sarà utilizzata anche con riferimento al periodo precoloniale. 2 J. Sellier, Atlante dei popoli d’Africa, Bologna, Il Ponte, 2009 1

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Il più potente dei quattro regni fu sicuramente il Buganda. Situato sulla riva nord-occidentale del Lago Vittoria, priva di rilievi, dove il clima si prestava alla coltivazione dei banani, mentre le malattie del bestiame rendevano difficile l’allevamento, la società che si venne a formare differiva da quelle vicine quanto ad articolazione politica. Il Buganda (“regno dei Ganda”) si presentava nel XV e XVI secolo come una confederazione di clan guidata da un re (kabaka). La sua espansione risale al XVIII secolo, lungo le rive del lago e verso l’interno, a spese dei Bunyoro. Fu allora che i kabaka rafforzarono le loro prerogative, ponendo sotto il loro diretto controllo le province conquistate. Si affermò così un sistema politico centralizzato e burocratico che finì col dare al Buganda una grande omogeneità culturale. Tre kabaka si succedettero al comando: Suna (ca.18251856), Mutesa (1856-1884) e Mwanga (1884-1898) 3. Alla fine del XVIII secolo, il Buganda entrò in rapporto commerciale con i gruppi arabo-swaili, con l’intermediazione degli Nyamwezi,

popolazione

bantu

che

occupò

la

parte

centrale

dell’attuale Tanzania. Il kabaka si assicurò così il monopolio dei commerci, scambiando avorio con armi da fuoco. Questo commercio iniziò negli anni Quaranta del XIX secolo, quando un commerciante arabo-musulmano riuscì a entrare nel territorio e ad essere ricevuto a corte dal kabaka Suna. I trafficanti arabi arrivarono sulle sponde del lago Vittoria alla ricerca d’avorio, ma soprattutto di schiavi. Dopo pochi anni, però, furono espulsi dal Buganda a causa delle lotte dinastiche successive alla fine del regno di Suna e vi rientrarono solo verso il 1860, con il nuovo kabaka Mutesa, che in un primo momento sembrò addirittura volersi convertire all’Islam. I rapporti però si deteriorano con l’ingresso in Buganda di alcuni insegnanti arabi dall’Egitto, secondo i quali le moschee avrebbero dovuto essere ricostruite e la carne macellata secondo criteri islamici. Arrivarono perfino a accusare Mutesa di aver mangiato carne di maiale e di non essere circonciso, tanto che il kabaka sentì minata la sua autorità e

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J.P.Chrétien, J.L.Triaud, Histoire d’Afrique. Les enjeux de memoire, Paris, Karthala, 1999, p. 323

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si sentì offeso. Le conseguenze furono gravi e i rapporti peggiorarono sempre di più4. Seguendo la rotta che da Zanzibar arrivava al lago Vittoria, arrivarono anche gli europei. Il primo fu il britannico John Hanning Speke, che scoprì il lago Vittoria dopo essere partito nel 1857 con l’obiettivo

di

esplorare

quella

zona.

Nel

1860

Speke

lasciò

nuovamente Londra alla volta dell’Africa, con lo scopo, questa volta, di svelare il mistero delle sorgenti del Nilo, e fu in questo viaggio che riuscì a incontrare i sovrani dei regni dell’Uganda meridionale, ossia Bunyoro e Buganda, per poi proseguire verso il Sudan. Sulla via del ritorno incontrò Samuel Baker, inviato dalla britannica Royal Geographical Society, il quale aveva esplorato la regione dei laghi e era arrivato a scoprire il lago poi intitolato al marito della regina Vittoria, Alberto. Baker tornò nel Bunyoro nel 1872 come governatore della provincia egiziana di Equatoria per aiutare l’Egitto a espandere il proprio dominio fino all’odierna Uganda, ma l’impresa si rivelò ardua. Nel 1875, infatti, il giornalista americano Henry Morton Stanley5 visitò la corte di Mutesa, rimanendone affascinato. Il kabaka invece interpretò l’arrivo dello straniero come un modo per difendersi dal pericolo egiziano: sapeva delle armi possedute dagli Inglesi così, attraverso una lettera di Stanley pubblicata sul Daily Telegraph, invitò i missionari cristiani europei in Buganda, nella speranza che portassero armi con sé. L’appello di Mutesa fu raccolto prima di tutto dalla Church Missionary Society, i cui primi missionari arrivarono in Buganda nel 1877. A costoro seguirono nel 1879 quelli cattolici della Società dei Missionari d’Africa6. Entrambi i gruppi religiosi si stabilirono, per volere del kabaka, vicino alla corte e furono liberi di operare. Le aspettative del sovrano, però, andarono deluse quando i cristiani affermarono la loro volontà di occuparsi solo di questioni J.D. Fage, Storia dell’Africa,SEI, Torino, 1995, pp. 290 ss. Stanley era un giornalista inglese inviato in Africa alla ricerca di David Livingstone, il missionario britannico di cui si erano perse le tracce durante la spedizione del 1866-73, i cui intenti erano promuovere lo sviluppo africano attraverso la diffusione del cristianesimo e del commercio inglese. Su questo, cfr. I. Soi, Una politica condizionata. Ribelli e rifugiati in Uganda, Roma, Aracne editrice, 2007, p. 20 6 La Church Missionary Society (CMS) fu fondata nel 1799 e era la più importante società missionaria anglicana. Quanto alla Società dei Missionari d’Africa, vedi infra, nota 7 4 5

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religiose, e non di traffico d’armi. Sette anni dopo l’arrivo dei missionari Mutesa morì e gli successe il figlio Mwanga, che si trovò a dover affrontare una situazione molto difficile, poiché erano presenti sul

suo

territorio

tre

differenti

gruppi

religiosi:

musulmani,

protestanti e cattolici, oltre ai fedeli della religione tradizionale, che si stavano trasformando in gruppi di pressione per influenzare la politica del kabaka. Le spaccature erano anche generazionali, perché gli anziani rimasero su posizioni più tradizionali, mentre i giovani si lasciarono attirare dalle nuove religioni. L’unità del Buganda iniziava, quindi, a dare segni di cedimento e Mwanga non si dimostrò all’altezza della situazione. Per paura di perdere il suo potere e il controllo sul territorio iniziò una politica di persecuzioni, soprattutto verso i cristiani. Le conseguenze di queste persecuzioni furono però impreviste: molti baganda si avvicinarono al cristianesimo; i cristiani decisero di organizzarsi per combattere il kabaka e molti capi si opposero alla politica sterminatrice di Mwanga, perché sacrificava i componenti della futura classe dirigente baganda. I cristiani e i musulmani si armarono, perché, sentendosi minacciati dal kabaka decisero, nel 1888, di allearsi per sconfiggerlo, ma dopo averlo detronizzato e costretto all’esilio iniziarono a combattersi tra loro. Nel 1890 le due fazioni cristiane, preoccupate per l’intraprendenza musulmana, decisero di reintegrare Mwanga, che a quel punto doveva difendersi dalla fazione musulmana, la quale, sebbene si fosse rifugiata in Bunyoro, rappresentava ancora un pericolo. Il kabaka si fece quindi convincere

dai

Padri

Bianchi7

a

firmare

un

trattato

con

il

rappresentante della Società per la colonizzazione tedesca Karl Peters, a scapito di F. J. Jackson della Imperial British East Africa Company (IBEA)8. I componenti della Società dei Missionari d’Africa erano comunemente chiamati Padri Bianchi, a causa del colore della loro tunica. I cattolici, quando ebbero la conferma che la Francia non aveva interessi in quella zona dell’Africa orientale, iniziarono a fare pressioni perché Mwanga si appoggiasse ai Tedeschi e non ai Britannici che appoggiavano i protestanti. Su questo cfr. L. Pazstor (a cura di), Guida delle fonti per la Storia dell’Africa a Sud del Sahara negli Archivi Ecclesiastici d’Italia. Collectanea Archivi Vaticani, Inter Documentation Company Ag. Zug. Switzerland, 1983 8 L’Imperial British East Africa Company (IBEA) fu creata nel 1887 per garantire gli interessi britannici nell’Africa orientale e contrastare quelli tedeschi. Su questo cfr. I. Soi, op. cit., p. 23 7

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L’antagonismo

anglo-tedesco

in

Buganda

è

facilmente

comprensibile se si considera che, durante la Conferenza di Berlino del 1884-85, i territori dell’Africa orientale erano stati assegnati alla Gran Bretagna e alla Germania. Nel 1890 Londra e Berlino firmarono un accordo che stabiliva le relative aree d’influenza: in base a tale accordo l’odierna Uganda e Zanzibar furono assegnate agli Inglesi che, nello stesso anno stabilirono una base fissa in Uganda. L’accordo tra Mwanga e Peters fu quindi annullato dall’accordo del 18909. Il capitano Frederick Lugard dell’IBEA firmò allora un nuovo accordo con Mwanga e si stabilì a Kampala. Le “guerre di religione” che avevano insanguinato il regno si conclusero nel 1892 con l’intervento di Lugard che determinò la vittoria dei protestanti nella battaglia di Mengo e la definitiva restaurazione di Mwanga. Per la prima volta un kabaka doveva il suo potere a degli stranieri, evento che in pratica ne limitava l’autorità. Nel 1892 Lugard fece ritorno in Gran Bretagna e l’anno successivo il governo di Londra si sostituì all’IBEA in Buganda. Il 12 aprile 1894 il Buganda venne dichiarato protettorato britannico. Successivamente

gli

Inglesi

attaccarono

il

Bunyoro

costringendo Kabarega alla fuga. Il mukama però non si arrese e ebbe così inizio un lungo periodo di guerriglia tra le forze fedeli al mukama e gli Inglesi. Nel 1896 i Britannici dichiararono il Toro e il Bunyoro loro protettorati e nominarono un nuovo mukama per il Bunyoro.10 1.1 Il dominio coloniale L’avvio della colonizzazione si ebbe nel 1899 con l’arrivo del commissario Harry Johnston. Il suo primo compito fu quello di stringere accordi con i capi locali per “pacificare” il protettorato. Il primo di questi patti fu stipulato nel 1900 con i capi baganda, noto come Buganda agreement, che concesse privilegi particolari ai baganda rispetto agli altri sudditi11. I. Soi, op. cit., pp. 22-25 M. L. Pirouet, Historical Dictionary of Uganda, The Scarecrow Press Inc, Metuchen, NJ-London, 1995, pp. 150 ss. 11 B. Okello, A History of East Africa, Fountain Publishers, Kampala, 2002, p.137 9

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Il governo del regno era organizzato nel modo seguente: il kabaka continuava a regnare sul Buganda però adesso sotto approvazione del Commissario britannico; alla sua morte il nuovo kabaka sarebbe stato eletto dal lukiiko, cioè dall’assemblea dei capi, una sorta di parlamento ante-litteram. In merito al problema della terra, fu stabilito che l’intero territorio baganda sarebbe stato diviso in due categorie: metà lasciata ai britannici, la cosiddetta “terra della corona”, mentre l’altra metà fu suddivisa tra il kabaka, i capi provinciali, i ministri, le missioni e coloro che appartenevano alla cerchia regale. Tale riforma fondiaria ebbe notevoli conseguenze nei rapporti capi-governati, e generò vaste migrazioni interne12 di baganda alla ricerca di buona terra. Fu inoltre introdotta una tassa sulle capanne, una sulle armi, e sancito il diritto di sfruttamento minerario all’amministrazione britannica. Dopo aver firmato l’accordo con il Buganda, nel giugno del 190013, Johnston firmò quello con il Toro per confermare il dominio britannico anche sul piccolo regno. A differenza del precedente, non ci furono grandi trattative e le clausole furono stipulate senza considerare le tradizioni e la situazione del Toro. In base al patto furono fissati i confini del regno14 di cui veniva riconosciuta l’indipendenza, incorporato però nel protettorato britannico, e il riconoscimento del mukama come sovrano. Fu riconosciuta la proprietà su parte della terra al sovrano e ai principali capi, mentre la parte restante fu dichiarata “terra della corona”. Inoltre, furono introdotte le tasse sulle capanne e sulle armi che dovevano essere raccolte dai capi e poi trasmesse dal mukama ai britannici, annullando ogni altra forma di tributo. Nel caso in cui l’accordo non fosse stato rispettato, l’amministrazione avrebbe avuto il diritto Gli spostamenti della popolazione all’interno del territorio del Protettorato non erano gli unici che coinvolgevano la popolazione; parte di essa, infatti, si spostava anche verso i territori vicini, anche per sfuggire alle difficili situazioni climatiche, in particolare riguardo ai periodi di siccità: “There is drought in the country in consequence of which there is very little food and great deal of sickness, and that many of this (From Kamswaga, District Koki) people were crossing over into German Territory”; Uganda Province Monthly Reports 1906-N° 147-7 December 1906, Uganda National Archives, Entebbe, cit. da I. Soi, op. cit., p. 26 13 B. Okello, op.cit., p.140 14 Al territorio originario furono aggiunte delle zone a sud e a est, alcune delle quali appartenevano al Bunyoro, come Mwenge; cfr, I. Soi, op, cit, p.27 12

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d’installare la forma di governo che preferiva. In pratica, tale trattato minava alla base l’autorità del mukama e dei capi, perché toglieva loro la capacità d’imporre i tributi e toglieva al sovrano il diritto di nominare i capi15. L’accordo con l’Ankole venne firmato nel 1901. Prevedeva benefici ben più limitati rispetto agli altri regni, in quanto i Britannici non erano convinti che il mugabe avesse il pieno dominio sui suoi capi. L’accordo, comunque, stabiliva i confini del regno e concedeva il diritto di nominare i propri successori al mugabe e ai capi. A questi furono affiancati dei funzionari baganda, affinché potessero portare avanti le diposizioni del patto, in quanto mancava loro la formazione necessaria per poterlo fare al meglio. In caso contrario, ossia se il mugabe e i capi avessero fallito, il governo del protettorato avrebbe potuto rimuoverli dall’incarico e sostituirli. Fu introdotto un sistema di tassazione e tutta la terra fu dichiarata “terra della corona”, tranne una piccola parte che fu concessa al sovrano e ai capi più importanti16. Per quanto riguarda il Bunyoro, questo era il regno che più di ogni altro in Uganda aveva dimostrato ostilità verso il dominio coloniale. Era uno dei regni più antichi e forti della regione e per tutti gli anni Novanta del XIX secolo aveva combattuto la sua guerra contro il dominio britannico e il Buganda, suo alleato. Uno degli effetti più drammatici della resistenza anti-coloniale fu la divisione del territorio del regno e la perdita di molte province a favore del Toro e del Buganda. La questione delle lost counties segnerà gran parte della

storia

ugandese

per

i

successivi

sessant’anni.

Un’altra

conseguenza della ribellione fu la sostituzione dei capi banyoro con capi baganda, motivo di malessere e numerose ribellioni17. Dalla fine degli anni Venti del XX secolo le condizioni del Bunyoro iniziarono a migliorare: con la morte del mukama Kabarega e l’arrivo nel 1927 del nuovo Commissario di distretto britannico Postlehwaite s’instaurarono buoni rapporti di collaborazione tra i M. L. Pirouet, op, cit., pp. 340-342 Ibidem, p. 39 17 B. Okello, op. cit., p.140 15 16

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bunyoro e i britannici, con conseguenze positive per l’economia e soprattutto per l’agricoltura. Questi buoni rapporti furono sanciti nel 1933 dagli Accordi del Bunyoro, che andarono a completare la serie di accordi con i regni dell’Uganda. Furono stabiliti i confini, ma con grande disappunto banyoro non fu risolto il problema delle lost counties18. Negli accordi era previsto che il mukama e i suoi eredi fossero riconosciuti come i sovrani legittimi del regno. Il trattato, quindi, dava grande risalto alla figura del mukama ma non riconosceva la posizione dei capi, che non furono entusiasti di firmare l’accordo.19 I Britannici, al loro arrivo nella regione ugandese, avevano concentrato la loro attività nel Buganda, che usarono come quartier generale, e negli altri tre regni. La parte settentrionale dell’odierno Uganda fu incorporata al dominio coloniale solo in un secondo momento, e per un motivo molto semplice: la zona era meno conosciuta quindi rappresentava un rischio troppo alto. Inoltre, a differenza della parte centro-meridionale, non erano presenti grandi regni governati da sovrani con i quali era possibile trattare20, ma vi erano una serie di “principati” che rendevano la situazione politica più complicata. L’importanza della regione era però strategica: era fondamentale assicurarsi che fosse controllata dall’amministrazione britannica per evitare che la gestione del Nilo fosse compromessa, con gravi danni per il Sudan e l’Egitto, entrambi sotto la Union Jack. I Britannici si affidarono quindi ad alcuni ufficiali che avevano il compito di negoziare accordi in base ai quali i vari capi locali si mettevano sotto protezione. Tale politica fu inaugurata nel 1898 con la missione MacDonald nel Karamoja e nell’Uganda settentrionale e terminò intorno al 1918. La Gran Bretagna dava un’importanza

18

Tale disappunto fu manifestato ufficialmente dal mukama in occasione della cerimonia per la firma degli accordi. Da quel momento la campagna per la restituzione delle lost counties divenne sistematica e continua, ma i Britannici si rifiutarono di risolvere la questione perché l’unione delle due province al Buganda era stata sancita dagli Accordi del 1900; M.L.Pirouet, op. cit., pp. 220-1 19 I. Soi, op. cit., p. 30 20 A. M. Gentili, Il leone e il cacciatore. Storia dell’Africa Sub-Sahariana, Roma, Carocci, 2008, pp. 396-99.

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inferiore alla regione rispetto a quella assegnata alla parte centromeridionale dell’odierno Uganda21. Le ragioni per questa disparità d’interesse, e di conseguenza di trattamento, sono diverse e prime tra tutte l’arretratezza della regione e la vicinanza del confine. Il confine tra Uganda e Sudan AngloEgiziano venne, infatti, demarcato solo nel 1914 e fino a allora c’erano stati diversi passaggi di territori tra gli odierni Uganda, Sudan e

Repubblica

Democratica

del

Congo.

L’incertezza

circa

l’amministrazione della regione rendeva meno conveniente il suo sviluppo rispetto a quella meridionale, già saldamente in mano alla Gran Bretagna. Inoltre, l’amministrazione ugandese aveva il timore che il dominio sudanese si potesse espandere più a sud, fino a occupare il territorio dell’attuale Uganda. Finché il confine tra le due amministrazioni

non

fosse

stato

stabilito

con

certezza22,

il

Commissario considerava sciocco spendere risorse per quella regione, considerato che potevano essere utilizzati per altre aree, in modo che lo sviluppo del territorio non avvenisse a vantaggio di un’altra amministrazione, nello specifico quella sudanese. Nel giro di vent’anni l’intera regione, con l’esclusione della Karamoja, era sotto il dominio britannico anche se restavano molti problemi da risolvere. Prima di tutto i funzionari coloniali cercarono di normalizzare la situazione disarmando le popolazioni, ma la composizione politica della regione, ossia la presenza di diversi principati indipendenti l’uno dall’altro, resero tale pratica difficoltosa. I Britannici infatti volevano organizzare la zona come era stato in precedenza per la regione centro-meridionale, quindi dividendo il territorio in province amministrate da agenti con l’ausilio dei capi locali. Inoltre si andava a stravolgere la vita economica della regione, perché l’obiettivo coloniale era di inserire colture come il cotone e il tabacco e di modificare il tradizionale modo di vita dei pastori, costringendoli a far pascolare i loro capi solo in determinate aree con I. Soi, op. cit., pp. 32-33 In realtà in confine tra Sudan e Uganda è stato oggetto di trattative ben oltre il 1914. Infatti risulta che anche nei decenni successivi diverse porzioni di territorio siano passate da un’amministrazione all’altra; per esempio nel 1926 il confine venne modificato nella zona di Tereteinia e a metà degli anni trenta venne ridiscussa la frontiera nell’area della tribù Kuku; cfr, Ibidem p. 33. 21 22

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confini ben definiti. Nonostante tutti questi problemi, i Britannici riuscirono nel loro intento, e entro la fine del 1914 furono stabiliti i confini della regione settentrionale dell’Uganda e i poteri furono trasferiti dal Commissario al Governatore23. Per quanto riguarda i cambiamenti nell’economia del paese apportati durante il colonialismo, un settore da sviluppare e sfruttare affinché

il

protettorato

potesse

rendersi

indipendente

era

l’agricoltura, da trasformarsi da un’agricoltura per lo più di sussistenza

ad

un’agricoltura

per

l’esportazione,

che

quindi

producesse ricchezza. Per aiutare gli abitanti nell’applicazione dei suggerimenti

coloniali,

fu

istituito

il

Scientific

and

Forestry

Department. Si trattava di convincere i contadini a coltivare prodotti come il cotone, il caffè e il tè con metodi più moderni. Il primo prodotto agricolo che dette un buon risultato in termini economici fu il cotone. Infatti, questo era già presente, selvatico, sul territorio ugandese in buone quantità, ma nel 1904 furono distribuiti i suoi semi

ai

contadini

e

quindi

iniziò

la

sua

produzione

per

l’esportazione24. L’abbandono dell’agricoltura di sussistenza e l’introduzione di colture per l’esportazione determinò un aumento della domanda di manodopera per i campi, la quale, a sua volta, determinò un incremento dell’ingresso di lavoratori dagli stati coloniali vicini, che arrivarono a superare la popolazione della regione. Il commercio, invece, era nelle mani degli indiani. Arrivati, nel 1896, nell’Africa orientale britannica come forza lavoro per la costruzione della ferrovia, l’Uganda Railway, gli indiani si diffusero in tutta l’area, costituendo una comunità piuttosto numerosa e per lo più dedita agli scambi commerciali. Dopo la crisi dovuta alla Grande depressione del 1929-33, ci fu nel Secondo dopoguerra una decisa ripresa nelle esportazioni ugandesi. Furono finanziati nuovi progetti, incoraggiato l’arrivo dei B.Okello, op. cit., pp. 144-146 L’iniziativa, riguardante l’introduzione della coltura del cotone per l’esportazione, la prese K. Borup della Church Missionary Society Industrial Mission; S. Lwanga-Lunyiigo, “Ouganda: l’ère coloniale (1894-1962)”, in G. Prunier & B. Calas (a cura di), L’Ouganda contemporaine, Karthala, Paris, 1994, p.76 23

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primi turisti e lo sviluppo dell’industria estrattiva. La costruzione delle infrastrutture divenne un nodo centrale per l’area e già dall’inizio del XX secolo iniziarono i lavori per la costruzione di strade adeguate e per l’ampliamento delle ferrovie25. Per quanto concerne l’esercito, i Britannici cercarono di non essere coinvolti in prima persona, come accadde in tutta l’Africa coloniale26, nelle guerre per la conquista del territorio: infatti per combatterle impiegarono per lo più indiani e africani, naturalmente sotto il loro comando. Nella seconda metà del XIX secolo la Gran Bretagna effettuò una riforma del reclutamento dei militari, grazie all’esperienza fatta in India27. In Africa orientale le milizie delle compagnie britanniche ebbero una vita più lunga rispetto a quelle dell’Africa occidentale, e solo all’inizio del 1900 fu creato un esercito comune a tutti i territori della regione. Tale “esercito comune” dell’Africa Orientale Britannica era conosciuto come King’s African Rifles (KAR)28, a cui l’Uganda partecipava con un battaglione. In un primo momento il battaglione era composto da indiani e sudanesi, mentre gli autoctoni furono reclutati dal 1903. Dal 1913 le truppe indiane non furono più utilizzate, privilegiando gli Acholi e coloro che provenivano dalle regioni settentrionali dell’Uganda29. Era stata, quindi, inaugurata una politica coloniale che portò a un’evoluzione economica, organizzativa e sociale secondo le linee guida sancite dai Britannici, contribuendo alla nascita di un’élite ugandese, ma anche indiana. 1.2 Il processo di decolonizzazione B.Okello, op. cit., p.201 Cfr. P. Calchi Novati e P. Valsecchi, Africa: la storia ritrovata, Roma, Carocci, 2005 27 Nel 1857 in India ci furono una serie di ammutinamenti delle truppe indigene, musulmane e indù, la cosiddetta Rivolta dei Sepoy. Le cause della ribellione furono varie, come l’insofferenza al dominio e alle pratiche britanniche, tra le quali l’utilizzo di grasso di maiale o di vacca per lubrificare le cartucce, elementi che contaminavano i militari di fede musulmana e induista. Tra le conseguenze della rivolta ci fu la riorganizzazione dell’esercito della Compagnia delle Indie Orientali, che passò sotto il controllo della Corona Britannica; su questo si veda S. Wolpert, Storia dell’India dalle origini della cultura dell’Indo alla storia di oggi, Bompiani, Milano, 1985, pp. 216-20 28 S. Lwanga-Lunyiigo, op. cit., p.78 29 La scelta di preferire i militari provenienti dalle regioni settentrionali (in particolare Acholi, Lango e West Nile) fu fatta dai Britannici in base alla logica di voler razionalizzare le risorse ugandesi. Ossia, nonostante i terreni settentrionali fossero più adatti alla coltivazione di quelli meridionali, i costi del trasporto dei prodotti rendevano tali coltivazioni antieconomiche; si decise così di scoraggiare l’agricoltura al nord e di sfruttare tale regione per l’esercito; in proposito, cfr. S. R. Karugire, Roots of Instability in Uganda, Fountain Publishers, Kampala, 1988, p. 33 25 26

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Alla fine della Prima guerra mondiale il governatore del protettorato, Sir Robert Coryndon, aveva dato vita a due organi di governo: l’Executive Council e il Legislative Council30. Il primo era presieduto dallo stesso Governatore, era composto da impiegati e aveva il compito di amministrare i principali dipartimenti. Il secondo, invece, era composto da rappresentanti della comunità bianca e da un rappresentante di quella asiatica. Tale disparità di rappresentanza non fu accettata dagli asiatici che, però, dovettero attendere fino al 1933 per avere uguale trattamento. Gli ugandesi africani, invece, non erano presenti nei due consigli. Gli equilibri si alterarono con la Seconda guerra mondiale. Al termine della stessa, gli ugandesi africani iniziarono a chiedere di essere partecipi della vita pubblica del protettorato con l’obiettivo di una futura indipendenza. Nel 1945 e nel 1949 le rivendicazioni ugandesi sfociarono in scontri violenti, causati dalla richiesta di poter controllare il mercato del cotone e del caffè, e di poter eleggere i propri capi. Uno dei risultati tangibili fu che, nel 1945, i primi tre africani entrarono a far parte del Legislative Council31. Gli anni Cinquanta, invece, furono gli anni della formazione dei primi

partiti

politici,

attori

importantissimi

nel

processo

di

decolonizzazione. I motivi del ritardo nella loro formazione furono dovuti soprattutto alla possibilità che i Britannici diedero ai sudditi di partecipare ai loro governi locali. Nonostante questo nel secondo dopoguerra le cose cambiarono. Infatti, gli ugandesi che avevano ricevuto un’istruzione superiore o che avevano studiato all’estero, iniziarono a lottare contro il dominio coloniale32. L’opposizione a tale dominio fu rafforzata anche dal rientro in patria di coloro che avevano combattuto nella Seconda guerra mondiale e che, avendo avuto modo di conoscere i bianchi anche fuori dall’Uganda, si erano resi conto che non erano imbattibili, infrangendo, così, il “mito della superiorità” dell’uomo bianco. Gli altri elementi

che

contribuirono

alla

formazione

della

coscienza

M.L. Pirouet, op. cit., p.218 Ibidem, p. 43 32 I. Soi, op. cit., pp. 43-44 30 31

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indipendentista ugandese sono da ricondurre alle conseguenze della guerra mondiale, con la formazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, il consolidamento geopolitico internazionale dei due blocchi e la diffusione dello stesso comunismo nell’Europa orientale. Il primo partito ugandese ad essere costituito fu, nel 1952, l’Uganda National Congress (UNC). Nonostante le figure principali dell’UNC fossero baganda33, il partito riuscì a andare oltre le barriere etniche e nazionali, tant’è che ricevette sostegno dall’Egitto e dall’India, e instaurò rapporti stabili con paesi comunisti come la Cina maoista34. Questo, però, era visto come un possibile pericolo dai baganda che avevano il timore di perdere i propri privilegi. A causa della natura trans-etnica del partito, anche nel resto del paese, questi era visto con sospetto. L’impegno a livello locale nelle varie regioni era notevole, ma l’appoggio alla causa del kabaka35 non fece altro che supportare l’accusa di essere un partito del Buganda. Nel 1954 fu fondato il Democratic Party (DP), che si fece portavoce del malcontento dei cattolici. Nel 1955 componenti dell’UNC36 fondarono il Progressive Party, dominato da uomini d’affari africani protestanti. Nel 1959 fu l’ora dell’anti-baganda Uganda People’s Union (UPU). Nel 1960 si unirono all’UPU alcuni membri anti-baganda dell’UNC, dando vita all’Uganda People’s Congress (UPC) d’ispirazione protestante, il cui leader era Apollo Milton Obote37. Un altro dei partiti sorti nella seconda metà degli anni I principali fondatori e leader del partito provenivano dal principale istituto d’istruzione superiore, protestante, poco fuori Kampala: quello di Buddo; S.R. Karugire, op. cit., p.37 34 S. Lwanga-Lunyiigo, op. cit., p.82 35 La crisi tra il kabaka Mutesa II e il governatore Sir Andrew Cohen iniziò nel 1953, quando il primo si oppose fermamente all’idea di una possibile unione dei territori dell’Africa orientale. I baganda si unirono al sovrano nella lotta, arrivando quasi a sostenere la volontà indipendentista anche rispetto al resto di ciò che successivamente sarà l’Uganda. Il Governatore, nel novembre dello stesso anno, chiese al sovrano di impegnarsi su tre fronti: sostegno alle decisioni del governo britannico, cooperazione per lo sviluppo dell’Uganda unita e cooperazione con il governo britannico e del protettorato. Mutesa rifiutò tali impegni e così fu deportato in Gran Bretagna; M.L.Pirouet, op. cit., pp.129-133 36 In particolare coloro che si erano impegnati per il ritorno dall’esilio del Kabaka; S.R. Karugire, op. cit., p.40 37 Milton Obote, di religione protestante, nacque nel 1925 nella regione del Lango, nell’Uganda centro-settentrionale, dove studiò nelle scuole di Lira e Gulu. Nel 1950, dopo averlo frequentato solo per due anni, lasciò il Makerere College e si trasferì in Kenya, dove iniziò a collaborare attivamente con il Kenya African Union. In quegli anni, infatti, in Kenya vi era un grande fermento per le lotte sindacali e l’insurrezione Mau Mau nel territorio kikuyu. Obote rimpatriò nel 1957, entrando nella scena politica ugandese come rappresentante Langi nel Legislative Council. Dopo aver militato nell’UNC, fu uno dei fondatori e leader dell’UPC. Alle elezioni del 1961 per il Legislative Council prevalse il DP, ma Obote come leader del secondo partito nazionale capeggiava l’opposizione. La situazione fu ribaltata nel 1962, anno delle elezioni per l’assemblea nazionale vinte dalla coalizione UPC-KY: kabaka Mutesa II fu nominato presidente 33

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Cinquanta fu l’Uganda National Movement, il cui argomento politico privilegiato era il nazionalismo economico, tanto che organizzò il boicottaggio dei commercianti europei e indiani38. Sull’onda del “vento del cambiamento”39, il governo coloniale stabilì, per la “Perla d’Africa”40, di arrivare alla decolonizzazione con alcune linee guida che ponessero in essere una serie di riforme nell’intento di garantire un processo d’indipendenza con meno traumi possibili. Uno dei passi fu, nel 1954, la revisione degli accordi del Buganda sottoscritti nel 1900. In base alle nuove clausole fu stabilito che i membri del lukiiko fossero eletti dai “consiglieri provinciali” e che kabaka Mutesa II potesse tornare in patria solo dopo la deliberazione del lukiiko, e diventasse un monarca costituzionale41. Nel 1956 il governo del protettorato promise che nel giro di pochi anni sarebbero state organizzate le prime elezioni dirette dal Legislative Council. Così, nel 1958, fu creata la commissione che aveva il compito di organizzare le elezioni42. Tale commissione stabilì che tutti gli elettori (africani e non) sarebbero stati riuniti in un unico collegio e che sarebbe stato garantito il suffragio universale, basato sull’età, sulla

residenza

ugandese da

almeno cinque

anni

e

sull’occupazione o proprietà terriera. Per definire quale forma dovesse avere il governo dell’Uganda indipendente, nel 1960 fu istituita un’altra commissione, la Relationship Commission, che aveva anche il compito di cercare di studiare il tipo di relazioni da instaurarsi tra governo e autorità locali. A questo proposito la commissione decise di accogliere la richiesta del Buganda di avere un regime federale, mentre ai regni occidentali fu concesso un regime semi-federale e un governo centralizzato al resto del paese43. Nel dicembre 1960, temendo di perdere i privilegi garantiti dagli accordi del 1900 in caso d’indipendenza dal Regno Unito, il Buganda dell’Uganda e Obote Primo ministro, M.L.Pirouet, op. cit., p. 294. 38 S. Lwanga-Lunyiigo, op. cit., p.83 39 Espressione usata da Harold MacMillan, primo ministro britannico, nel 1960, per indicare il periodo in cui gli stati africani raggiungono l’indipendenza. 40 Winston Churchill definì l’Uganda “la perla d’Africa” per la straordinaria bellezza del suo territorio. 41 I. Soi, op. cit., p. 46 42 B. Okello, op. cit., p. 219 43 S. Lwanga-Lunyiigo, op. cit., p. 85

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proclamò la propria indipendenza. Tale atto non venne preso in seria considerazione dal governo del protettorato, ma servì a boicottare le elezioni dai baganda. Nel marzo 1961 avvennero, comunque, le elezioni che videro vincitore il Democratic Party, il cui leader Kiwanuka divenne capo del Legislative Council, mentre l’opposizione era capeggiata da Milton Obote. All’inizio del 1962 si tennero le elezioni per il lukiiko, vinte dal Kabaka Yekka (KY)44 alleatosi con l’UPC. Nell’aprile dello stesso anno ebbero luogo le elezioni politiche in Uganda, per l’Assemblea Nazionale, vinte dalla coalizione dei partiti UPC e KY; di conseguenza Milton Obote fu proclamato Primo ministro, mentre Mutesa II Presidente. Il 9 ottobre 1962 sulla collina di Kololo fu ammainata per l’ultima volta la bandiera britannica45. 1.3 L’Uganda indipendente Al momento dell’indipendenza Obote era il leader da cui tutti i cittadini si aspettavano il grande sviluppo del paese. Come in tutti i paesi dell’Africa Sub-Sahariana, infatti, all’indipendenza veniva associata l’aspettativa di uno sviluppo economico e sociale, la quale, però, non venne soddisfatta da Obote. Infatti, nonostante la transizione dal protettorato all’indipendenza fosse stata pacifica e fosse stata redatta una costituzione che sembrava rappresentare un accettabile compromesso tra le diverse aspirazioni degli ugandesi, i problemi che affliggevano l’Uganda erano notevoli. C’erano divisioni dovute

alla

religione,

all’appartenenza

etnica,

alle

asimmetrie

regionali di sviluppo e politiche, tutti fattori che indebolivano molto il governo centrale46. Vi era poi la natura stessa della coalizione del governo, basata sull’opportunismo politico dei due partiti, e dell’UPC che era un partito di forti personalità, alcune delle quali si opponevano al potere di Milton Obote. Il Primo ministro basava infatti Il Kabaka Yekka, letteralmente “solo il kabaka”, venne fondato nel 1961 in opposizione al Democratic Party, con la dichiarata funzione di proteggere gli interessi del Buganda e del suo sovrano, il Kabaka. Ogni voto ottenuto dal KY era, quindi, considerato un voto per il sovrano; P. Mutibwa, Uganda since Indipendence. A Story of Unfulfilled Hopes, Hurst & Company, London, 1992, p. 18 45 B. Okello, op. cit., p. 221 46 P. Mutibwa, op. cit., p.28 44

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la sua politica su un’ideologia nazionalista, non molto favorevole al multipartitismo che, successivamente, mostrerà anche caratteri socialisti. Nonostante i problemi i primi anni d’indipendenza furono abbastanza tranquilli. Obote governava seguendo una politica di cautela, anche se il mantenimento del potere era la sua priorità. In particolare cercò d’indebolire le scuole cattoliche e venne creata un’organizzazione musulmana antagonista a quella già esistente, con la quale il governo cercava di attirare a sé l’appoggio degli islamici e, contemporaneamente, contrastare uno dei principali leader baganda, capo di quest’ultima. Lo scopo era d’indebolire il Buganda colpendo la fazione

maomettana

della

famiglia

reale

e,

parallelamente,

guadagnare le simpatie dei musulmani non baganda, in particolare quelli delle regioni settentrionali. Inoltre non era garantita l’indipendenza del potere giudiziario, venivano promulgate leggi favorevoli alla classe politica al potere e, alcune istituzioni potenzialmente pericolose come i sindacati e gli apparati religiosi furono osteggiati47. La crisi del governo Obote aveva radici negli avvenimenti precedenti: il problema ideologico in seno al suo stesso partito e le lost counties. Nel gennaio 1964 il Primo ministro, durante un discorso a Lira, affermò che un sistema monopartitico sarebbe stato ideale per l’Uganda, causando una prima spaccatura all’interno dell’UPC. Tuttavia, il colpo definitivo all’unità del partito fu dato dalla questione del socialismo. Nel 1964 le tesi del presidente ugandese non erano propriamente socialiste, mentre il Segretario generale del suo partito, Kakonge, avrebbe gradito una maggiore influenza di tali idee nelle politiche dell’UPC. La conseguenza fu che Kakonge perse il suo posto di segretario, che fu occupato da Ibingira, che dopo meno di un anno sarà uno dei più accesi oppositori di Obote. Il partito si divise in due opposte fazioni: la prima, quella di Obote, sosteneva una politica nazionalista che si faceva paladina degli interessi degli svantaggiati ugandesi settentrionali e orientali; la seconda fazione, 47

Ibidem, pp. 30-32

20


quella di Ibingira, era più conservatrice e si faceva portavoce degli interessi delle popolazioni bantu48. Il secondo grave problema, che portò alla rottura dell’alleanza di governo con il KY, era quello delle lost counties. Come previsto nel 1960 dalla commissione Munster (la Relationship Commision), nel 1964 fu indetto un referendum per far sì che fossero gli stessi abitanti delle province in questione a decidere se tornare sotto la sovranità del Bunyoro o rimanere sotto quella del Buganda. Iniziò una dura lotta tra le due parti, in particolare il governo del kabaka fece di tutto per ottenere un risultato favorevole, tanto da trasferire delle persone a lui fedeli nelle province oggetto del referendum per avere la maggioranza dei voti. Ma si dimostrò tutto inutile, perché gli abitanti delle province votarono per tornare nel loro regno d’origine, ossia il Bunyoro49. Il risultato del referendum portò a una grave crisi in Buganda, della quale si avvantaggiò Obote, che approfittò della situazione per rompere l’alleanza con il KY, ormai elemento d’indebolimento piuttosto che di forza per il suo governo. Essere leader del maggiore partito ugandese, però, non garantiva la sicurezza di Obote. La forza della fazione di Ibingira e la sua determinazione a ottenere il potere si rivelò durante una seduta del parlamento del 1965 quando accusò il Primo ministro e la sua cerchia (tra cui il vice comandante dell’esercito Idi Amin Dada50) di Una delle divisioni interne all’Uganda riguardava i gruppi linguistici presenti al suo interno, che sono: bantu (nella parte meridionale), nilotici (nell’Uganda centrale e nord-orientale) e sudanesi (nella regione nord-ocidentale); I. Soi, op. cit., pp. 50-51 49 Nella provincia di Bugangaizi 5275 persone votarono per il reintegro nel Bunyoro mentre 2253 per restare nel Buganda; nella provincia di Buyaga, invece, i votanti per il reintegro furono 8327 contro 1289; M.L. Pirouet, op. cit., p. 221 50 Le origini di Amin rimangono ancora abbastanza oscure. E’ noto che nacque nel West Nile, probabilmente nel 1925, da una famiglia musulmana Kakwa (gruppo etnico originario della regione divisa tra il Congo, il Sudan e l’Uganda. Parlano una lingua sudanica e molti sono musulmani). Nel 1946 si arruolò nel King’s African Rifles dove si fece un’ottima reputazione sportiva grazie al suo fisico possente. Nel 1962, pochi mesi prima dell’indipendenza, rimase coinvolto nel massacro di alcuni pastori Turkana in Kenya, ma non furono presi provvedimenti seri contro di lui, per paura che tale atto potesse creare qualche difficoltà al processo d’indipendenza ugandese. Al contrario, grazie alla protezione accordatagli da Obote, in due anni venne promosso colonnello dell’esercito. Nel 1965-66 fu coinvolto nel contrabbando di oro, caffè e avorio, che poi portò alla crisi e alla degenerazione dittatoriale del regime di Obote. Quello stesso anno venne promosso Chief of Staff dell’esercito e l’anno successivo generale di divisione. In pochi anni ottenne un grande potere, anche grazie allo spazio che Obote diede all’esercito, sua arma principale. Sebbene fosse stato inizialmente un valido alleato per il presidente, pochi anni dopo l’indipendenza le differenze tra i due iniziarono a emergere fino a diventare insormontabili. Obote e Amin erano entrambi originari dell’Uganda settentrionale, ma di due gruppi differenti e per certi versi antagonisti. Un altro fattore che contribuiva a allontanare i due erano i rapporti con il Sudan. Infatti, se da un lato il presidente cercava d’avere buoni rapporti con il suo omologo sudanese ostacolando l’attività della guerriglia, dall’altro Amin continuava a appoggiare i ribelli. Tutti questi fattori rendevano ormai 48

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essersi arricchiti con oro, avorio e denaro ottenuti grazie al coinvolgimento ugandese in Zaire51. Tale mozione ebbe tanto successo che il parlamento decise di dare vita a una commissione che indagasse

sulle

accuse

mosse

al

Primo

ministro

e

ai

suoi

collaboratori. I due gruppi contrapposti erano quindi quello di Obote e Idi Amin da una parte, e Ibingira e Opolot (comandante dell’esercito) dall’altra. In questo clima maturò la crisi del 1966. Il 22 febbraio 1966 Obote anticipò tutti e fece arrestare cinque parlamentari, tra cui Ibingira, con la motivazione che si era costituito un gruppo che aveva intenzione di rovesciare il governo52. Due giorni dopo sospese la Costituzione del 1962 e abolì la carica di Presidente della

repubblica.

Subito

dopo

propose

Idi

Amin

comandante

dell’esercito, mentre Opolot fu rimosso. Con l’arresto di Ibigira e la rimozione di Opolot, rimase solo il kabaka a fronteggiare Obote e Idi Amin. In pratica si era ripresentata la situazione degli anni Cinquanta, che vedeva il Buganda contrapporsi al governo centrale coloniale, per riaffermare la propria, parziale, indipendenza che era stata minacciata anche dal tentativo di Obote di controllare le risorse del regno. Tale contrasto culminò nel maggio 1966 con la battaglia di Mengo53, le cui conseguenze furono la fuga di Mutesa II verso la Gran Bretagna e l’inizio di una lunga rappresaglia contro i baganda che, a causa della strenua resistenza opposta alle forze governative, causarono il primo vero bagno di sangue dell’Uganda indipendente. C’è da aggiungere che la mancanza di una guida privò il popolo della possibilità di sollevarsi contro il governo e le truppe di Idi Amin, le quali, non dovendo affrontare una resistenza organizzata, riuscirono in poco tempo a piegare l’opposizione. Il 15 aprile 1966 Obote presentò in Parlamento, circondato dall’esercito, una nuova, provvisoria, Corte Costituzionale, che riduceva molto il ruolo della monarchia, anche se ufficialmente non impossibile la convivenza di Obote e Amin, e nel gennaio 1971 tale situazione si risolse con la conquista del potere da parte del Generale ugandese. I. Soi, op. cit., p. 52 51 Attuale Repubblica Democratica del Congo 52 E. Hooper & L. Pirouet, Uganda,The Minority Rights Group, London, 1989, p.6 53 Il 24 maggio 1966 le truppe di Amin irruppero nel palazzo di Mutesa a Mengo, uccidendo diverse centinaia di baganda e costringendo il kabaka alla fuga; A.R. Nsibambi, La crise ougandaise de 1966, in G. Prunier, B. Calas, op. cit., p.94

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aboliva la divisione in regni. Un altro importante provvedimento fu l’abolizione della carica di Primo ministro e il ripristino di quella di Presidente della repubblica, che ora accentrava su di sé tutti i poteri dell’esecutivo, ricoperta dallo stesso Obote. La Costituzione definitiva fu votata dal Parlamento nel settembre 1967 e prevedeva l’abolizione dei regni tradizionali con la conseguente creazione di una repubblica, la nomina di Obote a Presidente esecutivo, e la ridefinizione delle province ugandesi54. Con la crisi del 1966 e la successiva svolta del 1967 Obote aprì la

strada

a

un

sistema

mono-partitico

e

all’introduzione

di

un’ideologia socialista; infatti nel dicembre 1969 l’UPC promulgò la Common Man’s Charter55 e, dopo un attentato contro il Presidente, furono aboliti tutti i partiti ugandesi, con l’eccezione dell’UPC che quindi diveniva l’unico partito ugandese legale. Quello stesso mese Obote fece in modo che passasse una risoluzione che prevedeva che il presidente dell’UPC diventasse anche il presidente dell’Uganda. Un altro importante provvedimento della nuova Corte Costituzionale era l’introduzione della Detention Bill, ossia la legge che permetteva la detenzione preventiva; tale arma fu utilizzata largamente da Obote per liberarsi di tutti, o quasi, i suoi oppositori politici56. Con la svolta del 1966-67 l’Uganda iniziò a vivere un periodo di terrore che sembrò terminare solo con il rovesciamento del regime di Milton Obote nel 1971. La mossa che condannò il governo di Obote fu il suo tentativo, per consolidare il potere del governo centrale, di indebolire l’esercito dividendolo in due gruppi che cercò di contrapporre lungo linee etniche. Da una parte vi era, infatti, il gruppo dei nilotici, soprattutto Acholi e Langi, dall’altra il gruppo dei sudanesi, in particolare quelli provenienti dal West Nile. Il secondo gruppo, capeggiato da Idi Amin, era presentato dal Presidente come un pericolo esterno, straniero, per l’altra parte dell’esercito considerato composto da “veri” ugandesi. I Cfr, M.L. Pirouet, op. cit., p. 121 La Common Man’s Charter è il primo documento con il quale Obote cercò di dare una base ideologica alla sua politica, che cercava di spostare verso il socialismo; il sottotitolo del documento, infatti, è First Steps for Uganda to Move to the Left; M.L. Pirouet, op. cit., pp. 115-6. 56 I. Soi, op. cit., pp. 54-55 54 55

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rapporti con Idi Amin, deterioratasi con il passare del tempo, erano ormai irrimediabilmente compromessi. Inoltre, Obote diede vita a una serie di organizzazioni armate esterne all’esercito, con lo scopo di creare una forza alternativa a quella regolare57. La svolta avvenne nel 1970

quando,

approfittando

dell’assenza

del

comandante

dell’esercito, il Presidente decise di riorganizzare il sistema delle forze armate, privando Idi Amin di un ruolo effettivo all’interno delle stesse. Le

scelte

del

Presidente

causarono

un

progressivo

allontanamento di Amin e un saldarsi delle sue posizioni a quelle dei musulmani del Buganda, che rappresentavano uno dei principali gruppi di opposizione al regime. Presto, quindi, la gente iniziò a identificare Amin come il solo che si opponeva con forza al “Presidente tiranno”. L’occasione per il cambio di regime si presentò all’inizio del 1971. Infatti, l’11 gennaio Obote lasciò l’Uganda per presenziare ad una conferenza del Commonwealth a Singapore58; Amin colse l’opportunità e, grazie all’appoggio di buona parte dell’esercito e della popolazione, rovesciò il regime. Il 25 gennaio la radio ugandese dette la notizia del golpe e comunicò il nome del nuovo presidente ugandese: Idi Amin Dada. La conquista del potere fu giudicata positivamente non solo dai baganda e in generale dagli ugandesi, ma dalla stampa internazionale. I primi atti del nuovo presidente, in effetti, furono di riconciliazione e pacificazione: rilasciò i detenuti politici, cercò di riunire i musulmani e le varie fazioni della chiesa protestante e fece tornare in patria il corpo del primo presidente ugandese Mutesa, morto in esilio nel 1969, per celebrare i funerali di stato. Contemporaneamente, però, iniziò una segreta vendetta nei confronti di alcune sezioni dell’esercito, seguendo le divisioni etniche, da un lato i sudanesi e dall’altro gli Acholi e i Langi fedeli a Obote. Gli P. Mutibwa, op. cit., p.72 Il Presidente dovette lasciare Kampala, nonostante le voci insistenti di un possibile colpo di stato, perché uno dei principali punti in agenda della Conferenza era la decisione britannica di vendere armi al Sudafrica. La lotta per la liberazione del Sudafrica era per Obote, Nyerere e Kaunda d’importanza fondamentale, per questo motivo il Presidente ugandese si vide quasi costretto ad andare a Singapore; Ibidem, p.76 57 58

24


omicidi, che non riguardavano solo soldati ma anche civili, ebbero luogo durante i primi due anni di presidenza, in quattro ondate coincidenti con altrettanti tentativi di colpo di stato o con disordini lungo i confini. Amin tentò di mantenere segreti tali massacri, tanto che quando iniziarono a diffondersi voci in tal senso, il Presidente cercò

di

sviare

l’attenzione

dell’opinione

pubblica,

interna

e

internazionale, con altre mosse, come l’espulsione degli israeliani e degli asiatici nel 197259. Dopo poco più di un anno dalla presa del potere da parte di Amin, iniziarono i tentativi di rovesciarne il governo che, però, fallirono grazie al supporto di cui ancora godeva Amin in patria. Da quel momento iniziò il cosiddetto periodo di consolidamento del potere di Amin, caratterizzato dall’eliminazione di personaggi scomodi per il regime e dal rafforzamento della sua influenza in aree chiave, come la sicurezza e l’amministrazione statale, usando come tattica, tra le altre, quella d’inserire nei posti di comando musulmani60 e nubiani. Nel marzo 1974 però ci fu un altro tentativo di colpo di stato, questa volta promosso da alcuni ufficiali dell’esercito, che accelerò il processo che portò poi Amin a controllare direttamente l’esercito. Nello stesso periodo fu, inoltre, creato il Consiglio di difesa che ben presto si sostituì al Gabinetto, al quale spesso si limitava a comunicare le decisioni prese. La riforma dell’amministrazione prevedeva invece la divisione del paese in nove province a capo delle quali mise dei governatori, per lo più ufficiali dell’esercito e della polizia. Nel luglio 1975 ci fu l’evento che forse segnò l’apice della carriera

di

Amin,

il

summit

tenutosi

a

Kampala

dell’OUA

(Organizzazione dell’Unità Africana) e la sua nomina a capo della stessa. Il mese successivo Amin si autoproclamò Presidente a vita dell’Uganda, ma nonostante le apparenze, il dittatore era indebolito dall’ancora presente opposizione all’interno dell’esercito. Infatti, nel 1978 alcuni ufficiali gli chiesero di dar vita ad un governo civile. Per Ibidem, p. 89 Idi Amin, musulmano, ha sempre favorito i correligionari, e soprattutto dopo l’espulsione degli asiatici e degli israeliani, il cui vuoto fu colmato dagli arabi; I. Soi, op. cit., p. 58 59

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25


contrastare questa opposizione interna, il Presidente inviò un battaglione che attaccò il battaglione Simba (quello degli oppositori), una parte del quale si rifugiò oltre confine, dove però furono inseguiti dai fedeli di Amin. Questo fatto segnò il destino del regime. Già da tempo, nei vicini Tanzania e Kenya, si stavano organizzando i movimenti d’opposizione al regime. I nuovi tentativi d’allargamento territoriale ugandese ai danni dei due vicini avevano, infatti, causato gravi conseguenze, tanto che, anche a causa di problemi

economico-finanziari,

venne

sciolta

l’East

African

Community61, l’organizzazione economica nata dal susseguirsi di accordi tra Uganda, Kenya e Tanganyka già dal 1917. Il colpo di grazia al regime venne dalla Tanzania. Nell’autunno 1978 una nuova ribellione

del

battaglione

dell’esercito

oppositore

causò

uno

sconfinamento di truppe ugandesi in territorio tanzaniano, episodio che determinò la forte reazione del vicino, e nell’aprile 1979 un consistente gruppo di soldati ugandesi e tanzaniani entrarono a Kampala, accolti favorevolmente dalla popolazione. Amin e i suoi uomini lasciarono la città a scapparono verso nord62. Il problema a questo punto era riuscire a dare ordine a un paese nel caos; soprattutto considerato che il movimento che l’aveva liberato da Amin aveva al proprio interno molte anime, alcune delle quali apertamente in contrasto. La liberazione dell’Uganda era stata, infatti, opera dell’’Uganda National Liberation Front (UNLF) e della sua ala

militare,

l’Uganda

National

Liberation

Army

(UNLA).

L’organizzazione era stata creata solo nel marzo 1979, in occasione della

conferenza

di

Moshi63,

in

Tanzania,

durante

la

quale

s’incontrarono più di venticinque gruppi d’opposizione, per decidere come rovesciare il regime e che assetto istituzionale dare al paese. Accanto all’UNLF fu creato anche il National Consultive Council (NCC), composto da trenta membri rappresentanti i gruppi presenti a Moshi,

Per i dettagli sull’East African Community e la sua rifondazione si rimanda a W. Oluoch, Legitimacy of the East African Community, in Journal of African Law, 53, 2 (2009) 62 Ibidem p.58 63 M.L. Pirouet, op. cit., p. 225 61

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che aveva il ruolo di parlamento, e il National Executive Council (NEC) che aveva il potere esecutivo ma era subordinato al NCC64. A capo del NEC fu eletto il professor Lule, che poi in quanto tale, sarebbe diventato il Presidente dell’Uganda. Lule ricoprirà la carica di presidente fino al giugno 1979, quando gli subentrerà Binaisa, il quale, a sua volta, sarà espressione del compromesso tra i vari gruppi che gestivano il potere e, come il suo predecessore, anche lui era baganda, fatto non trascurabile considerato quanto era importante l’appoggio del Buganda nell’epoca del dopo-Amin. Gli errori politici commessi da Lule saranno gli stessi che poi porteranno alla caduta di Binaisa, che si contrapporrà all’esercito e si opporrà al gruppo che appoggiava il ritorno di Obote, di cui faceva parte anche il Presidente della Tanzania Nyerere. Il 10 maggio Binaisa fu rovesciato e Obote tornò in patria per dare vita alla campagna elettorale in vista delle elezioni generali che si sarebbero tenute in dicembre. I partiti che si fronteggiarono durante questa campagna elettorale furono essenzialmente tre: l’UPC di Milton Obote, il DP di Paul Ssemogerere e l’UPM (Uganda Pariotic Movement) di Yoweri Museveni. La campagna elettorale e le successive elezioni furono un continuo di intimidazioni e brogli, che culminarono con la scrittura di un documento, il Legal Notice n.10, nel quale era stabilito che nessun risultato valido delle elezioni sarebbe stato annunciato senza la previa autorizzazione del capo della Military Commission. In pratica, tale

documento,

avendo

valore

retroattivo,

rese

possibile

la

falsificazione del risultato elettorale. Iniziò così il secondo regime di Milton Obote e il ritorno in clandestinità di Museveni, che non accettò il risultato elettorale e riprese la guerriglia contro il regime65. Il nuovo governo, che iniziò nel dicembre 1980, si reggeva soprattutto grazie all’esercito, anche in considerazione del fatto che era costretto a vivere in territorio ostile, ossia in Buganda, di conseguenza l’appoggio garantito dall’esercito e dai suoi comandanti era di fondamentale importanza per Obote. 64 65

P. Mutibwa, op. cit., p. 127 Ibidem, p. 151

27


La prima fase della contrapposizione armata tra il NRM/NRA iniziò nel febbraio 1981 quando i guerriglieri attaccarono una stazione di polizia a Kiboga. I ribelli iniziarono a usare l’Uganda centrale, quindi l’area intorno a Kampala, come loro campo base, visto anche l’appoggio che davano loro le popolazioni bantu locali. Presto quest’area diventerà teatro di scontri e massacri. La reazione di Obote fu decisa e saggiamente abbinata a una politica di buone relazioni internazionali, tali che la comunità internazionale non pensò di ostacolarla e, anzi, istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale concessero al

Presidente

ugandese molti prestiti che poi andarono a finanziare la guerra interna al paese. Col tempo però alcuni uomini vicini al governo di Kampala66 iniziarono a rendersi conto dei costi, umani, finanziari e politici, di uno stato costante di guerra, per cui cominciarono a fare pressioni per avviare negoziati di pace con il NRM. Le voci di dissenso all’interno del regime si fecero sempre più forti e culminarono nel colpo di stato dell’esercito del 1985. L’evento che convinse gli oppositori interni al regime di Obote ad intervenire fu la sostituzione di Oyite-Ojok con Smith Opon-Acak. Questo fece saltare gli equilibri perché fu la conferma che il Presidente favoriva la parte Langi dell’esercito a scapito degli Acholi. Il colpo di stato del 1985 sembrò per alcuni versi ricalcare le orme di quello del 1971. Obote lasciò la capitale per partecipare a una cerimonia lasciando la diposizione di far arrestare gli alleati di Okello, il quale, però, si mosse prima stringendo un’alleanza con i rimanenti soldati del FUNA (Former Uganda National Army), dando vita a una coalizione tra Acholi e Nilotici occidentali contro il Presidente. Gli alleati di Okello arrivarono a Kampala nel luglio 1985 e lo stesso mese rovesciarono il regime. Il mese successivo al colpo di stato i ribelli di Museveni invasero Fort Portal, nel Toro, dove 66

Il rappresentante più in vista di questo gruppo era il vice-presidente, nonché Ministro della difesa, Paulo Muwanga. Altri uomini di Obote che iniziarono a dare importanza a una conclusione non armata della guerra erano i rappresentanti Acholi dell’esercito, ossia Tito e Okello, perché si resero conto che il presidente favoriva i Langi e quindi sarebbero stati sempre loro i più esposti e sacrificati alla guerra. Era, infatti, sempre più comune che i soldati Langi fossero inviati in aree più sicure di quelle coperte dai soldati Acholi; Ibidem, p. 161

28


insediarono un governo, ad interim, antagonista di quello di Kampala. Nonostante tutto, il 17 dicembre 1985, le parti firmarono un accordo di pace, che però non poterono mai rispettare anche perché non erano in grado di smobilitare i propri eserciti. La situazione precipitò subito dopo la firma degli accordi, a causa della decisione di Okello di rafforzare l’esercito governativo con elementi reclutati nel Karamoja. Questo fatto determinò un durissimo scontro con il NRA67. Il 26 gennaio 1986 il NRM/NRA entrò trionfalmente a Kampala68. L’era di Museveni, che dura ancora oggi, era iniziata. Le forze dell’UNLA, di cui Okello era il leader, retrocedettero rifugiandosi nel Sudan e nell’Uganda del Nord, per riorganizzarsi come UPDA (Uganda People’s Democratic Army). Alla situazione caotica del paese contribuì la nascita, nel Nord Uganda, di una serie di movimenti religiosi per combattere il governo dell’NRA di Museveni. Tra queste organizzazioni emersero i tre movimenti dello Spirito Santo. Il primo di questi, l’HSM (Holy Spirit Mobile Force), fu fondato da una giovane donna, Alice Lakwena, detta “la strega del nord”, che si diceva messaggera di Dio con poteri sovrannaturali, e nasceva da un culto incentrato sulla guarigione dei singoli soldati e delle donne sterili69. Il movimento iniziò a organizzarsi nell’agosto 1986 e a muovere guerra contro il governo, contro le streghe e contro i soldati impuri, reclutando molti ex soldati, ai quali, dopo i primi successi militari, si unirono altri segmenti della popolazione. Venne creato dalla Lakwena un complesso rituale d’iniziazione e purificazione con il quale si liberava lo spirito dei soldati dalla stregoneria e dagli spiriti maligni e assicurava ai soldati protezione contro le pallottole nemiche. Il movimento, composto da circa 10000 persone marciò, verso Kampala, fino a che arrivato a Jinja, a circa trenta miglia dalla capitale, venne sconfitto dalle truppe governative e furono molti i morti e i feriti. Sconfitta nel 1987, Alice Lakwena riparò in Kenya 70. Sulla composizione, organizzazione e finalità dell’NRA si rimanda a P. Ngoga, Uganda: The National Resistance Army, in C. Clapham (a cura di), African guerrillas, Bloomington, Indiana university press, 1998 68 I. Soi, op. cit., pp. 60-63 69 S. Finnstrom, For God & My Life. War and Cosmology in Northern Uganda, in: P. Richards (ed. by), No Peace No War. Anthropology of Contemporary Armed Conflicts,Oxford, Currey, 2005, pp. 98-116 70 Sull’emergere del movimento, la sua organizzazione e la relazione con la popolazione locale vedi H. Behrend, War in Northern Uganda. The Holy Spirit Movements of Alice Lakwena, Severino Lukoya and Joseph Kony (1986-97), in C. 67

29


Dopo la sua sconfitta le idee e le pratiche che aveva prodotto furono riprese con alcune variazioni da suo padre Severino Lukoya71, che combatté tra l’87 e l’89, e più tardi da suo cugino Joseph Kony72, di cui parleremo in seguito. Museveni

esercitò

una

repressione

ferrea

nei

confronti

dell’UPDA e dell’HSM, finché, il 3 giugno 1988 il comandante dell’NRA, il maggiore Salim Saleh, firmò un accordo di pace con i comandanti dell’UPDA, offrendo un’amnistia a tutti i ribelli che avessero

accettato

la

smobilitazione.

La

maggior

parte

dei

combattenti accettò l’amnistia e l’UPDA cessò di esistere. In seguito alla sconfitta militare di Alice Lakwena sembrava che Museveni avesse ormai il controllo del paese, ma fu proprio in quel momento che Joseph Kony, sedicente cugino della Lakwena, fondò un nuovo gruppo ribelle denominato prima Forza mobile dello Spirito Santo, e successivamente Esercito di Resistenza del Signore (Lord’s Resistance Army-LRA). Kony, anche lui di etnia acholi, affermò di avere ereditato i poteri spirituali di Alice e di essere il medium di forze soprannaturali che, agendo attraverso la sua persona, potevano permettere alla popolazione acholi di abbattere il governo di Museveni. Quando, nel gennaio 1986, Museveni conquistò Kampala, Kony aveva venticinque anni. Nato a Odek, nel distretto di Gulu, aveva manifestato sin da bambino profondi segni di squilibrio e d’instabilità mentale. I suoi genitori lo avevano affidato così ad uno stregone locale.

Ciononostante,

negli

anni

successivi

era

peggiorato

ulteriormente. Sebbene i rituali e le credenze dei seguaci di Kony differissero leggermente da quelli dei seguaci di Alice, sembra che i due capi avessero lavorato in stretta collaborazione prima della sconfitta dell’HSM. L’LRA pose inizialmente le sue basi in Uganda, poi nel Sud Sudan. Il programma politico di Kony si avvicinava per molti aspetti a quello propugnato da Alice: intendeva rovesciare il governo e Clapham (a cura di), op. cit., pp.107-113 71 Ibidem, pp.113- 115 72 Ibidem, pp. 115-118

30


purificare la popolazione acholi per portarla al potere. Filo conduttore di questi intenti era la violenza, ma i giovani combattenti dell’LRA definivano Kony un “santo maestro”, “un profeta buono”. Kony è un personaggio molto carismatico, che è riuscito per anni a guidare, incontrastato, una fanatica crociata contro il governo di Museveni. Il suo intento dichiarato è quello d’imporre il decalogo dell’Antico Testamento al posto della Costituzione attualmente in vigore in Uganda introducendo anche alcuni elementi dell’Islam. Il suo credo abbraccia, quindi, diversi tipi di credenze, che legittimano il ricorso alla violenza contro chiunque si opponga con la ragione o il semplice buon senso al suo disegno73. In un primo momento gli attacchi dell’LRA si concentrarono su obiettivi governativi, ma a partire dal 1991 cominciarono a essere presi di mira anche luoghi pubblici; case, scuole, ospedali e altri edifici vennero distrutti e con il tempo le violenze vennero estese anche alla popolazione. Nonostante le continue controffensive organizzate dall’esercito governativo, basate su attacchi militari e strategie d’isolamento e disorganizzazione dei distaccamenti dell’LRA, le forze di Kony hanno continuato a rappresentare una pesante minaccia per il Paese. Nel 1991, quando l’LRA iniziò a attaccare i luoghi pubblici, il governo lanciò una durissima offensiva militare conosciuta come “Operazione Sesamo”. In quest’operazione il governo isolò il nord e catturò molti oppositori politici del regime di Museveni. Inoltre, lo stesso governo obbligò i contadini a unirsi alla caccia dei guerriglieri con qualsiasi arma di cui potessero disporre. L’unico risultato reale di questa operazione fu che gli uomini di Kony s’infuriarono contro i contadini, i quali furono oggetto di brutali vendette. Nell’agosto 1991, il governo annunciò la sconfitta di Kony. Molti credettero che l’incubo fosse ormai finito; da quel momento, fino alla metà del 1993, non ci furono più atti brutali di violenza e sembrò che la regione acholi cominciasse a rialzarsi, ma la pace non durò a lungo. Durante la seconda metà dell’anno, i guerriglieri di Kony 73

I. Ciapponi, I bambini primo bersaglio. Il dramma del Nord Uganda, EMI, Bologna, 2004, pp. 59-61

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iniziarono a ricevere il sostegno del regime islamico del Sudan. La guerra civile sudanese, infatti, collide con il conflitto in nord Uganda, in quanto la guerriglia in Acholiland è diventata l’estensione di lotte di potere e d’ interesse regionale e internazionale. Sul fronte regionale l’Uganda ha fornito armi e protezione allo SLPA (Sudan People’s Liberation Army); per ritorsione, il governo sudanese ha dato protezione e armi all’LRA. Sul fronte internazionale, sia il governo ugandese sia lo SPLA hanno ricevuto supporto militare e politico dagli Stati Uniti, in parte per ridurre l’influenza del governo islamico di Karthoum74. Il sostegno del governo sudanese ha reso possibile la graduale trasformazione del gruppo dei ribelli in una costante minaccia per il governo ugandese e per la popolazione civile. La trasformazione dell’LRA in un esercito vero e proprio ha riguardato non solo la capacità offensiva, cioè l’approvvigionamento di armamenti moderni e propri

di

un

esercito

regolare,

ma

anche

l’introduzione

di

un’organizzazione, di una gerarchia, nonché di una disciplina militare. Il loro equipaggiamento bellico crebbe quantitativamente e migliorò qualitativamente. Durante gli ultimi mesi del 1993, dopo una fallita iniziativa di pace guidata dal ministro ugandese Betty Bigombe, i guerriglieri ripresero gli attacchi nella regione acholi, in modo particolare contro la popolazione civile. Cominciò così il periodo più crudele della guerra. La popolazione smise di essere una vittima accidentale sul campo di battaglia per diventare parte integrante di una strategia diabolica dove l’unico intento era controllare, umiliare e distruggere la popolazione acholi. I ribelli distrussero e saccheggiarono scuole, case, campi, villaggi, torturarono e uccisero migliaia di persone; moltissime scapparono, cercando rifugio oltre il confine, mentre migliaia di bambini e bambine furono rapiti durante le incursioni ribelli nei villaggi.

74

Ibidem, pp. 68-70

32


A partire dal 1994, gli atti violenti non fecero che aumentare. L’LRA cominciò a rapire i bambini e le bambine per rinforzare numericamente le sue truppe75. Dalle testimonianze di giovani prima arruolati e poi fuggiti dall’LRA si parla di numerose atrocità, stupri, uccisioni e mutilazioni compiute verso i bambini sequestrati e i villaggi attaccati76. L’8 dicembre 1999 è stato siglato l’accordo di Nairobi tra il Presidente Museveni e il Presidente del Sudan. In quest’occasione, il Parlamento ugandese ha approvato un’amnistia che ha garantito ad ogni guerrigliero che lasciava le armi gli aiuti necessari per rifarsi una vita normale. Con l’accordo di Nairobi, i due paesi hanno promesso di non fornire nessun tipo di appoggio ai gruppi armati contrapposti ai rispettivi governi. Il governo del Sudan, in particolare, si è impegnato a disarmare l’LRA e a far rientrare in Uganda i bambini soldato. Tuttavia, i capi dell’LRA, che non hanno partecipato alle negoziazioni di pace, hanno accolto l’accordo tra le due nazioni come una minaccia per la loro sopravvivenza. I ribelli hanno proseguito così i loro attacchi e alla fine del 1999 l’LRA ha invaso nuovamente la regione acholi. Le incursioni e i rapimenti sono continuati per tutto l’anno e, soprattutto nei primi mesi del 2000, si sono verificati numerosi combattimenti fra i guerriglieri e i militari. Nel corso di queste operazioni molti bambini soldato sono stati rilasciati e consegnati ai centri di recupero. Durante la conferenza internazionale tenutasi a Winnipeg, in Canada, nel settembre 2000, è stato firmato un accordo fra Sudan e Uganda che prometteva il rilascio di circa 6000 bambini rapiti dall’LRA e tenuti in Sudan, nonché il disarmo e la smobilitazione di tutti i gruppi di opposizione armata presenti nei rispettivi territori. Le relazioni tra Karthoum e Kampala sembravano così normalizzate. Dalla fine del 2000, il Sudan sembrava avere smesso di fornire armamenti e appoggio logistico all’LRA, che aveva spostato le proprie basi più a sud, vicine al confine77. Ma neanche questa volta la pace G. Albanese, Soldatini di piombo. La questione dei bambini soldato, Milano, Feltrinelli, 2005, pp. 12-16 Il problema dei bambini soldato verrà affrontato nel secondo capitolo 77 I. Ciapponi, op. cit., pp. 70-71 75 76

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durò a lungo e la guerriglia riprese. E’ stato solo nel 2006 che è arrivato l’ultimo accordo di cessazione delle ostilità tra il governo ugandese e l’LRA che sembra aver messo definitivamente fine a vent’anni di conflitto armato78. Oltre al ruolo del governo sudanese, comunque, la popolazione, vittima indifesa di questo esasperato conflitto, ha sempre lamentato anche una scarsa volontà politica del governo ugandese di risolvere questa drammatica situazione. Il presidente Museveni, uomo del sud, vede nel nord un concorrente al suo potere, perciò dal mantenimento dello stato d’instabilità del nord sembra derivare la sua permanenza al governo. Vi è, quindi, il dubbio che la guerra in nord Uganda sia funzionale in realtà a tenere a bada il gruppo etnico degli acholi, tradizionalmente ostili nei confronti del presidente ugandese79. Per quanto riguarda le riforme politiche apportate da Museveni, una delle più importanti è stata l’approvazione, nel 1995, di una nuova

Costituzione,

che

rinviò

al

2001

il

passaggio

al

multipartitismo, che è effettivamente avvenuto solo grazie a un referendum nel 200580. Il Presidente Museveni venne rieletto nel 1996 e nel 2001. Nel 1996 l’Uganda sostenne fortemente Laurent-Désiré Kabila nella prima guerra del Congo, e fu a favore della destituzione del dittatore Mobutu. Dal 1998 al 2003 l’Uganda intervenne nella seconda guerra nell’ex Zaire, dando appoggio ai gruppi ribelli del paese, stavolta contro Kabila, reo d’aver voltato le spalle a Museveni. Nelle elezioni presidenziali del febbraio 2006 Museveni è stato confermato

Presidente

per

la

terza

volta

consecutiva,

cosa

permessagli in seguito alla riforma costituzionale del 2005. Queste sono state le prime elezioni aperte a più partiti. L’opposizione, guidata da Kizza Besigye, non ha ottenuto la vittoria e ha sollevato numerose proteste per presunte irregolarità nel voto. International Crisis Group, Peace in Northern Uganda?, Africa Briefing n° 41, 13 settembre 2006, consultato il 3/07/2010, http://www.crisisgroup.org/en/regions/africa/horn-of-africa/uganda/B041-peace-in-northern-uganda.aspx 79 G. Albanese, op. cit., pp. 17-20 80 Sul sistema di democrazia apartitica introdotto da Museveni si rimanda a G. Carbone, L’Africa. Gli stati, la politica, i conflitti, il Mulino, Milano, 2007 78

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Molti sono stati i progressi in campo economico e del rispetto dei diritti umani dal 1986, ma ancora gravi sono i problemi dell’Uganda, su diversi fronti. L’economia resta in condizioni precarie e il problema dei servizi, dall’istruzione alla sanità, presenta problematiche di non facile risoluzione.

CAPITOLO 2 L’infanzia in Uganda La vita per i bambini in Uganda non è affatto semplice e ogni giorno devono affrontare nuovi problemi e sfide. Come risulta dalle statistiche Unicef, circa 20.000 bambini ogni anno vengono infettati dal virus dell’HIV trasmesso loro dalla madre, e più della metà dei circa 2 milioni di orfani presenti nel paese ha perduto i genitori a causa dell’AIDS; la malaria, le infezioni respiratorie acute e la diarrea sono, inoltre, tra le principali cause di mortalità infantile e il tasso di analfabetismo è ancora basso81. I bambini e le donne costituiscono l’80% dei 1,4 milioni di persone costrette a fuggire dalle loro case a causa dei conflitti e ad abitare nei più di 200 campi profughi per IDP82 (internally displaced Contesto: Uganda, UNICEF, consultato il 4/6/2010, http://www.unicef.org/french/infobycountry/uganda_background.html 82 R. Muggah, Protection failures: outward and inward militarization of refugee settlements and IDP camps in Uganda, in R. Muggah (a cura di), No refuge:the crisis of refugee militarization in Africa, Londra, Zed books, 2006, pp. 89-134 81

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person) sparsi per il paese, potendo usufruire di servizi di base molto limitati. Nei distretti colpiti dagli attacchi dell’LRA, circa 40.000 minori non accompagnati, “i pendolari della notte”, si spostano ogni sera a piedi dalle loro case nei villaggi periferici fino ai centri urbani, in cerca di protezione dagli attacchi e rapimenti dei ribelli, che nonostante questo, hanno rapito più di 25.000 bambini dal 198683. In questo capitolo verranno affrontati soltanto due dei temi riguardanti la condizione dell’infanzia in Uganda che si ritengono significativi nell’ambito dell’elaborato di tesi. Il primo riguarda la guerra civile combattuta nel nord del paese tra il gruppo di ribelli capeggiati da Joseph Kony e l’esercito nazionale, che è tuttora una delle maggiori cause di malessere per i bambini in quella zona e successivamente ci si soffermerà sull’analisi della scolarizzazione nel paese e il suo sviluppo nel tempo.

2.1 I bambini e il Lord’s Resistance Army di Joseph Kony La concezione dell’infanzia come periodo protetto di crescita sana è stata smentita in Uganda del nord. Per i bambini che vivono qui, gli anni di conflitto hanno rappresentato un costante regno del terrore perpetrato dal gruppo ribelle Lord’s Resistance Army. I ribelli dell’LRA, chiamati “olum” in lingua Acholi, hanno seminato in questi anni morte e distruzione nei distretti di Gulu, Kitgum, Pader, Lira, Apac, Katakwi e Soroti. Agli ordini di Joseph Kony i guerriglieri si sono spinti a fasi alterne verso sud con l’intento dichiarato di destituire a Kampala il presidente Yoweri Museveni e il suo governo. Questo gruppo armato rappresenta una delle maggiori piaghe che affliggono “la perla d’Africa”84. In questi anni i ribelli hanno razziato i villaggi e catturato migliaia di bambini che vengono obbligati a abbandonare le proprie case, a veder morire i genitori e torturare i membri del proprio Contesto: Uganda, UNICEF, consultato il 4/6/2010, http://www.unicef.org/french/infobycountry/uganda_background.html 84 D. H. Dunson, Uccidi o sarai ucciso. I bambini soldato, Milano, Paoline, 2009, p. 49 83

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villaggio, ad assistere a uccisioni di massa e orrende mutilazioni, minacciati loro stessi di morte. I maschi vengono picchiati, uccisi, costretti a combattere e a trasportare i bottini delle razzie nei villaggi, mentre le bambine vengono violentate, costrette a combattere o date in moglie agli ufficiali come premio del loro valore, creando una sorta di ordinamento sociale all’interno dell’esercito per cui i capi militari sono anche a capo di famiglie composte da mogli bambine, i cui figli sono destinati a ingrossare le fila dei combattenti85. Secondo una stima del 2004, i ribelli sono circa quattromila; il novanta per cento dei guerriglieri sarebbe stato rapito in età preadolescenziale o adolescenziale86. Impedire questi sequestri vorrebbe dire, innanzitutto, porre fine all’esasperata violenza che avvolge il bambino non appena viene rapito. La strategia dell’LRA si basa proprio sulla pratica sistematica della violenza fisica e psicologica, sia per garantire la disciplina nei campi dove si trovano i ragazzi rapiti, sia nei confronti dei civili. I bambini rapiti entrano a far parte del movimento solo dopo l’unzione, in lingua acholi “wiro ki moo”, che viene somministrata sul corpo della nuova recluta secondo un rituale ideato dallo stesso Kony. Lo scopo è duplice: serve a proteggere il giovane combattente dal fuoco delle pallottole e a vincolarlo al movimento attraverso un legame ritenuto indissolubile dagli stessi ribelli. Viene detto ai bambini che l’olio è il potere dello Spirito Santo e che chi ubbidirà alle sue regole non morirà negli scontri armati, perché saranno uccisi soltanto coloro che lo avranno offeso87. L’LRA è organizzato in brigate e tutti i bambini subiscono un addestramento militare in campi provvisori in nord Uganda e nelle basi del sud Sudan. Per ottenere disciplina e scatenare la violenza i ribelli obbligano i ragazzi a compiere atti particolarmente violenti, spesso anche sotto effetto di stupefacenti, come uccidere un loro G. Albanese, op. cit., pp. 19-21 Contesto: Uganda, UNICEF, consultato il 4/6/2010, http://www.unicef.org/french/infobycountry/uganda_background.html 87 I. Ciapponi, op. cit., p.77 85 86

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coetaneo. I maschi vengono scelti in base alla loro robustezza, in quanto dovranno maneggiare armi e trasportare carichi pesanti; le ragazze, invece, vengono selezionate in base all’età e alla bellezza. Alcuni di loro sono rimasti con i ribelli per qualche mese, altri sono rimasti nei campi militari per anni prima di essere rilasciati o di riuscire a fuggire. Dopo il rapimento inizia la lunga marcia nella boscaglia, per raggiungere i campi. I bambini vengono divisi in piccoli gruppi e vengono costretti a camminare per giorni, trasportando le armi e la refurtiva, spesso senza acqua né cibo. La fame, lo sfinimento e le infezioni ne uccidono migliaia88. I bambini che sono riusciti a scappare hanno raccontato89 che dopo il sequestro sono stati picchiati e bastonati dai comandanti e i soldati dell’LRA per qualsiasi disobbedienza commessa, se pur minima.

Venivano

picchiati

anche

per

farli

camminare

più

velocemente nella boscaglia; quelli che non riuscivano a tenere il passo e si lamentavano, perché stanchi o feriti venivano addirittura uccisi dai loro stessi coetanei. Obbligarli a uccidere collettivamente altri bambini produce sensi di colpa e paure, poiché la stessa fine toccherà a loro se tenteranno di scappare. Inoltre sono costretti a picchiare e uccidere, se necessario, i civili inermi che incontrano durante le operazioni di saccheggio; sevizie effettuate proprio nella loro regione, contro la loro stessa gente. Le

testimonianze

dei

bambini

descrivono

una

struttura

strettamente gerarchica all’interno dell’LRA, dove Joseph Kony si trova naturalmente al vertice, con il ruolo di generale. Questa gerarchia è fondata su un’emulazione delle esperienze familiari dei bambini, in quanto il nucleo dell’organizzazione interna è quello che i bambini descrivono come famiglia, resa possibile dalle ragazze rapite, che sono obbligate a sposare i ribelli90. L’LRA riconosce quattro categorie di membri: i bambini al di sotto dei tredici anni sono riconosciuti come “fratelli”; i bambini rapiti Ibidem, pp. 78-79 Testimonianze prese in esame in, The scars of death. Children abducted by Lord’s Resistance Army in Uganda, Human Rights Watch, 1997 90 S. Mckay, Girls as ‘weapons of terror’ in Northern Uganda and Sierra Leonean rebel fighting forces, in «Studies in Conflict and Terrorism», 28, 5 (2005), pp. 385-97 88 89

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da poco, che non hanno ancora ricevuto l’addestramento militare, si chiamano “reclute”; quelli che hanno già ricevuto l’addestramento sono, invece, i “soldati”; infine in vetta ci sono i comandanti, noti anche come “insegnanti”. I bambini-soldato che mostrano entusiasmo per l’arte militare divengono presto comandanti. Ogni bambino rapito è legato a una famiglia guidata da un comandante e i poteri degli uomini alla guida di ogni famiglia sono tali che effettivamente essi possiedono i bambini loro affidati come se fossero “beni mobili”. Secondo Amnesty International, il grado di proprietà sui bambini della famiglia è tale che la loro condizione è coerente con la definizione internazionale di schiavitù. Questo tipo di schiavitù si basa essenzialmente sulla violenza, strumento mediante il quale si ottiene l’obbedienza. Tutti i bambini sono inoltre obbligati a eseguire una molteplicità di compiti domestici e non, in condizioni disumane e in continuo pericolo di vita91. Le bambine e le ragazze, oltre a essere sfruttate sessualmente, sono obbligate a eseguire tutti i lavori domestici che nella società rurale acholi spettano alla donna, come cucinare, pulire, procacciare acqua e cibo. Durante i continui spostamenti, la preparazione dei pasti deve essere eseguita velocemente in modo tale che il fumo della cottura non sia visto. L’oppressione degli uomini sulle donne, la poligamia e la sottomissione sessuale sono pratiche esistenti nella società ugandese indipendentemente

dall’LRA.

Tra

i

guerriglieri,

però,

tali

comportamenti vengono spinti all’estremo, violando tutti i diritti delle donne; concedere le ragazze ai soldati rappresenta una forma di premio e d’incentivo, infatti la loro assegnazione è una dimostrazione di status, è simbolo di prestigio. Più alta è la posizione all’interno della gerarchia dell’LRA, maggiore è il numero di ragazze che un ribelle può avere. La maggior parte delle giovani vittime intervistate si definisce “aiutante”, non moglie; le ragazze preferiscono scegliere questo termine proprio per manifestare la riluttanza a riconoscere, sia a loro 91

I. Ciapponi, op. cit., p. 81

39


stesse che agli altri, le relazioni sessuali che hanno forzatamente dovuto subire. Gli esami medici condotti sulle ragazze che sono riuscite a salvarsi mostrano che quasi il 100% a contratto la sifilide e altre malattie a trasmissione sessuale. Il tasso di contagio da HIV tra i rapiti è sconosciuto, ma sicuramente è in crescita per via della violenza degli uomini sulle donne, che comprende anche la possibilità di trasferirle a un altro “marito” 92. L’instabilità della situazione militare e i continui spostamenti si riflettono anche sui cambiamenti delle relazioni. In un anno le ragazze possono cambiare diversi “mariti”, solo le donne che hanno avuto già figli sembrano godere di una situazione leggermente migliore potendo usufruire di alcuni privilegi come lavorare poche ore, ricevere più cibo e soprattutto non essere obbligate a partecipare alle sevizie o ai combattimenti. Molti bambini, per riuscire ad ottenere la libertà, si arrendono all’esercito governativo durante gli scontri per farsi catturare; altri, invece, se riescono a sopravvivere, vengono abbandonati dagli olum perché malati o feriti. Il numero dei bambini che si libera dalla ferocia dell’LRA è aumentato a partire dal 2002 e questo è dovuto in parte alla crescita esponenziale dei sequestri e in parte all’aumento dell’attività ribelle all’interno del territorio ugandese. Trovandosi in un ambiente geografico più familiare, per i bambini è più facile fuggire e ritrovare la via di casa, oltre che trovare aiuto molto prima percorrendo distanze più brevi93. Quando tornano ai loro villaggi i bambini spesso si trovano orfani o scoprono che a uccidere i loro genitori sono stati proprio i ribelli. Gli abitanti dei villaggi li accolgono con diffidenza e ostilità perché li ritengono dei criminali per aver partecipato alla violenta e spietata causa ribelle94. Ancora più difficile è il rientro delle ragazze, che spesso portano con sé uno o due figli, concepiti e nati durante la S. Mckay, Reconstructing fragile lives: girls’ social reintegration in northern Uganda and Sierra Leone, in «Gender and Development», 12, 3 (2004), pp. 19-30 93 I. Ciapponi, op. cit., pp. 81-87 94 Cfr, S. Finnstrom, Meaningful rebels? young adult perceptions on the lord’ s resistance movement/army in Uganda, in C. Christiansen, M. Utas, H. E. Vigh (a cura di), Navigating youth, generating adulthood: social becoming in an African context, Uppsala, Nordiska Afrikainstitutet, 2006 92

40


permanenza nei campi dei guerriglieri. Le giovani madri insieme ai loro bambini sono ritenuti parte integrante della “famiglia” ribelle e pertanto vengono emarginati. I bambini che riescono a tornare a casa, oltre al rifiuto sociale e alla povertà, devono poi affrontare anche i malesseri derivanti dalle esperienze vissute con l’LRA95. Tutto questo fa si che, per i piccoli olum gli stadi di sviluppo vengano distorti e che per molti l’infanzia o l’adolescenza siano perdute per sempre. Stando alle testimonianze, i traumi che i bambini soldato subiscono sono essenzialmente di tre tipi: vessazioni fisiche, sessuali e emotive. Non pochi di questi bambini si vantano del numero di persone che hanno ucciso, consapevoli della paura che generano in chiunque stia loro di fronte. Abituati alla forza derivante dalle armi e all’autorità conferita da un’uniforme, per loro diventa quasi inconcepibile vivere diversamente e credere in altri valori. Hanno imparato ad essere cinicamente indifferenti alla morte e alle sofferenze inflitte al prossimo. Ci sono anche casi di reazioni opposte, cioè di bambini che si ritengono responsabili di quanto è accaduto loro e che sono emarginati dalla comunità, con poca stima nelle proprie capacità, e che rischiano di vivere sensi di colpa enormi. Quelli che riescono a scappare, dopo i lunghi mesi passati nella savana, come evidenziato precedentemente, sono in condizioni fisiche generalmente pessime a causa dell’alimentazione inadeguata, delle scarse condizioni igieniche, delle malattie sessuali e delle violenze subite. Alle ragazze, poi, capita di essere costrette a abortire. A tutto ciò si aggiunga il trauma sociale determinato dall’allontanamento forzato dalla famiglia e, più in generale, dagli affetti. La separazione è già di per sé un fatto traumatico e in molti bambini questa esperienza è resa ancora più drammatica dal lungo periodo trascorso lontano da casa. Alcuni di loro sono talmente piccoli al momento del rapimento che possono non conservare alcun ricordo della loro vita precedente e Cfr, J. N. Corbin, Returning home: resettlements of formerly abducted children in Northern Uganda, in «Disasters», 32, 2 (2008), pp. 316-35 95

41


dei familiari. Gli orfani sembrano i più difficili da aiutare perché sanno di non avere nessun posto dove andare96. Il processo di recupero di questi minori diventa, quindi, una fase importantissima. Alcuni degli ex ribelli, una volta tornati a casa, per superare il trauma

mettono

in

atto

quello

che

gli

psicologi

chiamano

“comportamenti dissociativi”, cioè rimuovono dalla coscienza piccoli segmenti o interi episodi di cui sono stati vittime o protagonisti. Si tratta di un meccanismo di autodifesa che può degenerare in forme di tipo patologico e impedire il normale sviluppo psichico. Il problema dell’integrazione degli ex bambini soldato non va quindi considerato nei termini di un intervento a breve termine, ma richiede un impegno lungo e costante, esito di una stretta collaborazione fra comunità locali, missionari e organismi non governativi. Cosa non sempre possibile, soprattutto per difficoltà di ordine economico. La sofferenza di questi bambini viene, di solito, presentata in maniera parziale come se il resto, il processo riabilitativo, non costituisse una parte rilevante della loro storia. Invece è proprio il dopo che conta, è il cammino da compiere a partire da ciò che circonda questi piccoli reduci, il loro contesto culturale e sociale, l’unica base possibile per cominciare un percorso di vita nuovo97. Le organizzazioni umanitarie internazionali che intervengono durante i disastri bellici stanno sviluppando la consapevolezza che, nei progetti di assistenza, le azioni intraprese non devono solo rispondere ai bisogni fisici di base, ma anche a quelli che contribuiscono

alla

salute

mentale

dell’individuo

nelle

sue

componenti psicologica e sociale. Il benessere e lo sviluppo di un individuo, infatti, dipendono da un percorso dinamico di interazioni tra i suoi bisogni e le sue risorse, presenti sia a livello individuale, sia nell’ambiente in cui vive. La risposta ai bisogni dipende, quindi, dall’interazione tra soggetto e ambiente.

96 97

G. Albanese, op. cit., pp. 45-52 Ibidem, pp.57-59

42


Sotto questo profilo la realtà del nord Uganda si presenta molto difficile. La violenza fisica, sessuale ed emotiva a cui sono esposti mina le fondamenta della vita dei bambini, distruggendo le loro case, mandando in pezzi le comunità e abbattendo la loro fiducia negli adulti. Il supporto psicologico è, quindi, essenziale per la guarigione, la crescita e lo sviluppo dei bambini e dovrebbe essere sempre incluso, sin dall’inizio, nei programmi di soccorso e reintegro sviluppati per aiutarli98. Dal 1997 alcune organizzazioni non governative, insieme ai religiosi locali, hanno avviato un programma di aiuto umanitario. Inizialmente questo programma comprendeva interventi finalizzati a far fronte all’emergenza fame, a quella sanitaria e abitativa; successivamente è apparso indispensabile un tipo d’intervento più articolato che aiutasse la popolazione anche a superare i traumi psicologici provocati dalla guerra, la quale, oltre a seminare terrore, morte e distruzione tra la popolazione acholi, ha colpito lo sviluppo del nord Uganda in tutti i suoi aspetti. Particolarmente grave è il problema dell’istruzione: molte scuole sono state distrutte e molti insegnanti uccisi. Il tasso di analfabetismo ha superato, tra il ’97 e il 2004, il 60%. La

mancanza

professionale

di

costituisce,

scolarizzazione infatti,

un

e

di

ostacolo

una

formazione

ulteriore

per

il

reinserimento, il quale ha costi sociali molto elevati sia per le famiglie sia per l’intera società, che dovrà provvedere alle cure, alla riabilitazione e all’istruzione dei bambini. La ripresa dell’attività scolastica segna per i bambini il raggiungimento di un minimo grado di stabilità, condizione essenziale per ridurre lo stress psicologico causato dalla guerra. Riprendere l’attività scolastica è senza dubbio il metodo più produttivo: consente, infatti, di ricostruire un clima di normalità spezzando l’incubo dell’emergenza continua, permette ai bambini di condividere i traumi vissuti e offre importanti occasioni formative per educare al dialogo e alla pace99. 98 99

I. Ciapponi, op. cit., p. 105-107 I.Ciapponi, op. cit., pp. 87-88

43


In nord Uganda, precisamente a Gulu, sono attivi dal 1995 due centri di riabilitazione per il recupero dell’infanzia perduta. I due centri, World Vision, gestito dall’omonima ONG americana, e Gulu Support the Children Organisation (GUSCO), gestito da norvegesi e personale locale, accolgono i bambini scappati dai ribelli. A Lira, nel 2003, è stato poi fondato il “Rachele Rehabilitation Centre”, un nuovo centro destinato al recupero fisico e psicologico nonché alla scolarizzazione dei bambini e ragazzi fuggiti dai campi dell’LRA. Secondo fonti ONU sono oltre 25.000 i minori strappati dalle loro famiglie e arruolati a forza o ridotti in schiavitù. Tutto questo terrore ha fatto si che ogni notte, nei distretti del nord, circa 40.000 bambini lasciassero le loro case e i loro villaggi per recarsi nei centri urbani o nei campi profughi più grandi per timore degli attacchi e dei rapimenti da parte dei ribelli. Soltanto i centri delle città erano, infatti, più sicuri perché sorvegliati dai soldati governativi. Il fenomeno dei “night commuters” o pendolari della notte, è iniziato nel giugno del 2002, quando l’LRA ha cambiato strategia, concentrandosi sul rapimento dei bambini dai 5 ai 15 anni. Le famiglie hanno così iniziato a mandare a dormire in città tutti i bambini sopra i cinque anni, per proteggerli dai raid notturni dei guerriglieri, mentre gli adulti rimanevano nei villaggi per difendere le loro proprietà. Questi bambini dormivano nei ricoveri provvisori, nelle chiese vuote, nel perimetro degli ospedali, sulle verande o nelle stazioni degli autobus oppure per strada. Il pendolarismo notturno è stato un fenomeno esteso anche a tutti i campi degli sfollati all’interno del paese, in quanto la mancanza di misure di sicurezza impediva la sorveglianza notturna dei campi100. Il conflitto ha provocato, quindi, una grave crisi umanitaria, caratterizzata da una persistente mancanza di sicurezza in numerose regioni e da spostamenti consistenti della popolazione, obbligata a lasciare le proprie case a causa dei continui attacchi e a rifugiarsi nei più di 200 campi profughi presenti sul territorio. Kun Li, Children bear the brunt of Uganda’s 19-year conflict, UNICEF, consultato il 12/07/2010, http://www.unicef.org/infobycountry/uganda_25704.htmlh 100

44


2.2 La scolarizzazione L’istruzione formale fu inizialmente introdotta alla fine del 1800 dagli arabi che crearono delle scuole coraniche. A queste seguirono le scuole delle missioni cristiane, sempre molto attive nella diffusione dell’istruzione. Di particolare rilievo fu l’opera del vescovo Tucker, membro della Church Missionary Society, il quale fondò nel 1893 una scuola per insegnanti, anglicani, a Mukono101. Da quegli anni i cristiani, sia cattolici che protestanti, furono molto attivi e fondarono innumerevoli

istituti,

inizialmente

per

i

figli

dei

capi,

ma

successivamente aperti anche ai figli della gente comune. Nel 1905 la Church Missionary Society aprì anche una scuola per ragazze102. Fino agli anni Venti l’iniziativa nel campo dell’istruzione fu lasciata esclusivamente

alle

missioni;

ma,

dal

1922,

il

governo

del

protettorato iniziò a interessarsene. Uno dei primi importanti atti governativi fu l’apertura, quello stesso

anno,

dell’istituto

tecnico

(che

poi

diventerà

istituto

d’istruzione superiore) Uganda Technical College di Makerere. Nel 1963 il Makerere College diverrà una delle tre sedi della University of East Africa con il nome di Makerere University College103. Nel 1924 la Commissione Phelps-Stokes, che aveva il compito di esaminare l’istruzione nell’impero britannico in Africa, arrivò in Uganda, dove criticò aspramente il governo coloniale per aver lasciato l’iniziativa quasi

esclusiva

alle

missioni.

Nel

1926

fu

quindi

creato

il

Dipartimento per l’istruzione, con lo scopo di potenziare il sistema educativo del Protettorato104. Dal 1924 al 1950 il governo britannico rese, comunque, operative solo tre delle 53 scuole secondarie per africani esistenti. Altre tre furono finanziate da privati e le restanti 47 furono rese operative da organizzazioni religiose. I. Soi, op. cit., p. 40 M.L. Pirouet, op. cit., p. 138 103 Il Makerere College nel 1949 stabilì una serie di collaborazioni con la London University tanto che nel 1953 alcuni studenti di Makerere ottennero i primi diplomi dell’università londinese; S. Lwanga-Lunyiigo, op. cit., p. 81 104 M. L. Pirouet, op. cit., pp. 137-38 101 102

45


L’educazione fu fortemente desiderata sia dai contadini che dalle élite e, dopo l’indipendenza, molti villaggi, specialmente nel sud, costruirono scuole, assunsero insegnanti e riuscirono a ricevere assistenza dal governo per rendere operative le proprie scuole. Nel 1975 il governo introdusse un programma scolastico locale, non più ripreso da quello britannico, e venne pubblicato molto materiale scolastico in Uganda. Le iscrizioni alle scuole continuarono a salire per tutti gli anni ’70 e ’80, finché il crollo dell’economia e la crescente violenza interna al paese non fece cessare quasi del tutto le pubblicazioni105. Il sistema educativo soffrì gli effetti del declino economico e dell’instabilità politica durante il caos portato dai governi di Idi Amin e Milton Obote negli anni ‘80, le spese per la scuola aumentarono e le iscrizioni diminuirono. Quindi quando, negli anni ‘90, la pace fu ristabilita, l’intero sistema scolastico necessitava di diverse riforme. Le commissioni nominate per riesaminare il sistema educativo trovarono i programmi e le politiche d’esame carenti, i libri di testo insufficienti, gli stipendi degli insegnanti troppo bassi e la loro preparazione non adeguata. Il primo programma per riformare questo sistema fu guidato dall’obiettivo d’incrementare la qualità dell’istruzione e costituire un Ministero capace di attuare i programmi. Conosciuta come “La Riforma”, questa fu attuata con una notevole assistenza tecnica e finanziaria da parte di donatori internazionali, in particolare la Banca Mondiale e l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID). Il governo ugandese approvò un primo programma di riforme nel 1992, la cui fase di attuazione ebbe inizio nel 1993 e s’incentrò principalmente nel trovare le risorse per le scuole e ristrutturare l’autorità all’interno del Ministero dell’educazione usando il dialogo tra le parti interessate per cambiare politica e procedure. Gli obiettivi, le politiche e i programmi della riforma vennero presentati in quella che fu definita la “Carta Bianca”, ossia una lista globale d’idee per J. Moulton, Uganda: external and domestic efforts to revive a derelict primary school system, in J. Moulton e altri, Education reforms in sub-saharan Africa: paradigm lost?, Westport, Greenwood Press, 2002, pp. 55-60 105

46


migliorare l’educazione. Quest’ultima, però, benché descrivesse come raggiungere gli obiettivi programmati non includeva un budget per attuarli e non suggeriva le priorità. Queste decisioni venivano lasciate ai donatori internazionali106. Gli sforzi che portarono alla Carta Bianca iniziarono nel luglio 1987 con la formazione di una Commissione di controllo del sistema scolastico (EPRC). Il rapporto di quest’ultima fu passato, nel novembre 1989, ad una successiva commissione con una maggiore rappresentanza del partito politico del Presidente, il Movimento di Riforma Nazionale (NRM). Basata su due anni e mezzo di discussioni e consultazioni la nuova Commissione rilasciò duecento specifiche raccomandazioni riconsiderando una per una tutte quelle fatte dall’EPRC. Il risultato fu che, nonostante fossero state introdotte numerose modifiche, la Carta Bianca rimase molto simile al rapporto della prima Commissione. Le questioni più importanti sollevate dalla Carta Bianca furono l’educazione programmi

primaria di

universale

materie

sia

e

gratuita,

pratiche

che

l’inclusione accademiche,

nei la

democratizzazione, e la suddivisione dei costi tra il governo e le famiglie. Nel 1992 il governo ugandese negoziò un programma di assistenza finanziaria e tecnica per un totale di 108 milioni di dollari con

l’USAID,

conosciuto

come

il

Supporto

per

la

riforma

dell’educazione ugandese (SUPER). Il progetto iniziò nel 1993 e i suoi obiettivi erano l’aiuto al Ministero dell’istruzione per incrementare la qualità dell’istruzione, gestire il sistema educativo e incrementare l’equità nell’accesso. Come condizioni per l’assistenza dell’USAID il governo accettò di: incrementare i termini e le condizioni di servizio degli insegnanti; provvedere all’approvvigionamento dei materiali per l’istruzione nella scuola primaria di cui c’era bisogno per l’effettivo insegnamento; costituire una formazione degli insegnanti unificata; migliorare la gestione da parte dei distretti dei vari livelli scolastici;

106

Ibidem pp. 58-63

47


migliorare l’equità tra maschi e femmine che s’iscrivevano e che effettivamente terminavano la scuola primaria. Oltre a questo venne formulato un altro programma di riforma della scuola, finanziato questa volta dalla Banca Mondiale e firmato nel 1993 con un credito di 52 milioni di dollari per il settore dell’educazione (PREP). Anche questa riforma richiedeva al governo alcune condizioni per il rilascio dei fondi: incrementare l’accesso alle scuole mediante il recupero degli edifici esistenti e la costruzione di nuove scuole e college per la formazione degli insegnanti; riformare i programmi

e

il

sistema

degli

esami;

migliorare

la

gestione

dell’istruzione attraverso un coordinamento tra le scuole; migliorare le pratiche di programmazione e gestione dei dati; sviluppare un’unità di pubblicazione e stampa. Tale riforma era, quindi, un complesso di obiettivi compresi nella Carta Bianca e condizioni stabilite dalla Banca Mondiale e dall’USAID nel loro accordo con il ministero dell’istruzione. Il coordinamento dei rispettivi programmi divenne complementare: l’USAID si prese la responsabilità di sostenere la formazione degli insegnanti e migliorare la loro preparazione, mentre la Banca Mondiale si occupò di sostenere la costruzione delle scuole, le riforme dei programmi, la valutazione e l’accertamento delle riforme e le pratiche di progettazione. Il secondo programma di riforme, Universal Primary Education (UPE), fu un obiettivo politico deciso dal nuovo governo ugandese per far iscrivere tutti i bambini in età scolastica senza costi per i genitori. L’UPE fu annunciato nel 1996 e la sua attuazione fu iniziata a gennaio 1997 con l’inizio dell’anno scolastico107. Nel 1997, quindi, il Presidente Museveni entrò nell’ambito delle riforme dell’istruzione determinato a mantenere le promesse fatte durante la campagna elettorale usando la sua autorità politica per ordinare i cambiamenti su come il governo e i genitori dovessero dividersi il finanziamento dell’educazione primaria. Il personale dell’ufficio dell’educazione dell’USAID e i membri del parlamento che Ibidem, pp. 61-64

107

48


avevano una formazione professionale e esperienza nel campo dell’educazione cercarono invano di sollecitare un dialogo che avrebbe almeno modificato la proposta del Presidente, la quale avrebbe provocato un improvviso aumento delle iscrizioni senza l’opportuna preparazione. La Carta Bianca, infatti prevedeva una realizzazione graduale dell’UPE (libera e obbligatoria), iniziando dai primi quattro gradi nel 1991, i secondi due nel 1995 e i gradi più alti nel 1999. La Carta prevedeva anche che le scuole, gli insegnanti e i libri di testo venissero incontro all’aumento delle iscrizioni. Nel 1996, però, nessuna graduale realizzazione dell’UPE era ancora stata effettuata e il

Presidente

decise

di

rendere

quest’ultima

immediatamente

obbligatoria per tutti i bambini, con una modifica alla politica originale. Secondo tale modifica quattro bambini per famiglia potevano beneficiare della scuola gratuita e dovevano essere registrati entro la prima settimana di scuola. La notizia di questa opportunità si diffuse rapidamente in tutto il paese. I funzionari del ministero dell’istruzione e i politici passarono il resto dell’anno scolastico 1996 cercando di chiarire e realizzare la politica dell’UPE. Non c’erano stati programmi per l’aumento delle facilitazioni e il personale era insufficiente per gestire l’eventuale aumento delle iscrizioni. Nessuno conosceva gli effetti che la nuova politica avrebbe avuto per le scuole e gli insegnanti. In tutta la nazione il numero delle iscrizioni duplicò da 2,6 del 1993 a circa 5,2 milioni del 1998. Il Presidente delegò la realizzazione del programma a una Commissione di attuazione guidata da un commissario per l’educazione e composta da rappresentanti di ciascun dipartimento che facevano rapporto direttamente a un Ministro dell’istruzione di nuova nomina scelto direttamente dal Presidente. La burocrazia del Ministero dell’istruzione fu, quindi, marginalizzata e le decisioni furono prese direttamente all’interno della Commissione. Il Presidente, inoltre, sostituì il segretario permanente per l’istruzione in quanto aveva appoggiato un approccio più graduale all’UPE. Fu quindi chiaro che gli ordini potevano essere 49


emessi solo dalla Commissione d’attuazione; persino l’USAID e la Banca Mondiale continuarono i loro programmi senza contestare quelle

che

erano

chiare

interruzioni

allo

sviluppo

del

loro

programma108. La politica di Museveni portò senza dubbio a un’iniziale soddisfazione, ma in poco tempo gli insegnanti, i genitori e il parlamento chiesero che l’iscrizione si traducesse in istruzione. Un ufficiale del ministero dichiarò che se le politiche dell’UPE avessero fallito nel procurare una buona istruzione ai bambini, Museveni avrebbe potuto non essere rieletto. Sempre di più, quindi, il Presidente doveva affrontare un dilemma: l’enorme importo di denaro che sarebbe servito per equipaggiare le scuole sovraffollate di bambini sarebbe dovuto essere tolto dall’unico articolo di bilancio abbastanza grande da sostenere queste spese, cioè quello militare. Museveni, però, non poteva permettersi di tagliare le truppe finché i gruppi ribelli minacciavano il suo esercito e il paese. Per sostenere i costi dell’UPE e altre iniziative sociali che gli consentissero di essere rieletto doveva quindi porre fine alle ribellioni. L’Uganda, come abbiamo visto, presenta un caso di riforma dell’istruzione di base per cui il ministero dell’istruzione sviluppò un suo proprio progetto, la Carta Bianca stabilita nel 1992 senza la guida di donors. L’agenda del governo includeva programmi per garantire l’accesso alle scuole a più bambini, migliorare la qualità e la rilevanza dell’istruzione e approvare la gestione all’interno del settore. Furono però i donatori esterni piuttosto che il ministero ad indicare la via nel delineare l’effettiva realizzazione di questa riforma. Il gabinetto del Presidente non aveva ancora approvato la Carta Bianca quando la Banca Mondiale e l’USAID apparvero con le loro proposte di sostegno alla riforma offrendo un aiuto combinato di 160 milioni di dollari. La Banca e l’USAID si trovarono in una posizione di forza per guidare le componenti della riforma da loro favorite con la conseguenza che queste politiche e programmi furono realizzati con

108

Ibidem, pp. 65-70

50


successo all’interno dei successivi 5 anni, spesso eludendo il ministero dell’istruzione stesso. Nel 1997 il neo eletto Presidente che aveva messo fine alla guerra civile e alle devastazioni del precedente decennio mise da parte queste riforme per dichiarare l’educazione primaria obbligatoria e libera. Il ministero dell’istruzione e i donatori esterni che avevano lavorato per migliorare la qualità delle scuole videro questa dichiarazione come una battuta d’arresto. Subito le scuole si riempirono di bambini, ma le classi, gli insegnanti e i materiali scolastici specialmente nei gradi più bassi non erano più abbastanza, anche se molte famiglie che non erano state in grado di affrontare il costo della scuola si sentirono sollevate109. Dopo il 1997 i donatori si avventurarono di nuovo nell’arena dell’istruzione e si accordarono con il ministero per pianificare una nuova fase della riforma che avrebbe riconciliato gli obiettivi dell’accesso e della qualità con un costo realistico. Lo schema del nuovo piano rese evidente che molto era stato fatto durante la prima fase della riforma, ma suggerì anche quanto l’Uganda fosse ancora lontana dal raggiungimento di molti degli obiettivi stabiliti nel 1992. La scuola primaria libera e gratuita era stata ordinata e le iscrizioni erano raddoppiate, ma le scuole erano sovraffollate e lontane dal ricevere

adeguate

risorse.

Un

importante

programma

per

la

formazione degli insegnanti venne introdotto in tutto il paese, ma doveva ancora essere istituzionalizzato all’interno del ministero, gli stipendi degli insegnanti erano stati alzati secondo un salario di sussistenza, ma spesso il pagamento fu ritardato. L’amministrazione dell’istruzione primaria venne decentralizzata, ma sia agli uffici centrali che a quelli dei distretti mancarono le adeguate capacità per gestire i servizi110. Quindi, se le riforme dell’Uganda vengono viste come un entità singola che aveva l’obiettivo di portare tutti i bambini a scuola dove avrebbero ricevuto una buona educazione, allora chiaramente né le riforme del ’92 né l’UPE ebbero successo; se invece 109 110

Ibidem, pp. 79-81 Ibidem, pp.83-86

51


l’obiettivo si pone sulla realizzazione di alcune politiche e programmi si deve concludere che ci sono stati molti successi dovuti ai contenuti di questi ultimi. Per quanto riguarda la struttura del sistema scolastico, essa dopo l’indipendenza ha mantenuto le caratteristiche di quella vigente in epoca coloniale. L’educazione primaria dura sette anni e inizia intorno ai 6/7 anni di età, segue un ciclo di quattro anni (detto secondario) e due anni di scuola superiore prima di accedere, eventualmente,

all’università.

Tuttavia,

nonostante

il

drastico

aumento della frequenza scolastica dovuto alla riforma, soprattutto nelle aree rurali, sono ancora molti i bambini che non accedono alle scuole per mancanza di strutture nei luoghi di residenza oppure per mancanza di risorse economiche da parte delle famiglie. Una volta completato il ciclo primario è possibile proseguire con il ciclo secondario

oppure

frequentare

dei

corsi

triennali

in

scuole

professionali. Solo il 40% circa degli studenti accede al ciclo secondario, soprattutto perché questo, così come l’università, sono a pagamento111. La giornata tipo di un bambino ugandese che frequenta la scuola può essere influenzata da molti fattori: il livello di educazione, la residenza urbana o rurale, il genere. Il giorno inizia molto presto; infatti l’orario delle lezioni va dalle 7:00/8:00 del mattino fino alle 15:00, ma molti bambini devono raggiungere la scuola a piedi percorrendo anche cinque o sei miglia ogni giorno, in quanto il governo non contribuisce al servizio di trasporto pubblico; inoltre prima d’incamminarsi la maggior parte di loro deve svolgere alcuni lavori domestici, come andare a prendere l’acqua, pulire la casa, accudire gli animali se vivono in campagna. Una volta tornati da scuola i lavori si ripetono; le bambine procurano l’acqua e cucinano, mentre i maschi mungono le mucche o le capre, spaccano le legna o aiutano facendo altri lavori del genere. I compiti, quando rimane un po’ di tempo, vengono svolti dopo cena. Per questo alcuni insegnanti G. Namirembe Bitamazire, Minister of education and sport Uganda, Status of education for rural people in Uganda, FAO, consultato il 12/6/2010, http://www.fao.org/sd/erp/addisababa/session%202%20country %20presentation/uganda.doc 111

52


chiedono agli studenti che si devono preparare agli esami di rimanere a scuola anche il pomeriggio per assicurarsi che abbiano un luogo dove possono studiare senza essere occupati da altre mansioni. Per evitare questo tipo di problemi i genitori che hanno la possibilità economica preferiscono mandare i loro figli in college, in modo da potersi concentrare sui loro studi senza essere distratti dal troppo lavoro. La maggior parte delle famiglie, però, non ha questa possibilità e frequentare la scuola diventa molto duro, soprattutto per chi vive in aree rurali molto lontane dalle strutture scolastiche. In queste zone, inoltre, è ancora molto forte il pregiudizio di genere; quando le famiglie sono povere tendono a utilizzare i pochi soldi disponibili per assicurare un’istruzione ai maschi invece che alle femmine. La gravidanza in adolescenza contribuisce poi al naturale abbassamento della percentuale delle ragazze che vanno a scuola contribuendo al disequilibrio di genere. Le materie che vengono insegnate alla scuola primaria sono matematica, scienze, storia, geografia, religione, musica e arte, mentre dalla scuola secondaria in poi vengono introdotte anche materie come fisica, biologia e chimica. Gli studenti dei livelli primario e secondario vestono con le uniformi imposte dalla scuola112. Per concludere possiamo dire che nonostante i significativi passi avanti fatti nell’ambito dell’istruzione, sono ancora molti i bambini e ragazzi che non frequentano le strutture scolastiche o che non continuano gli studi dopo la scuola primaria, soprattutto tra le bambine; mentre sarebbe invece importante puntare sull’infanzia per garantire un futuro migliore all’intero paese.

112

George O. Ndege, Uganda, sta in Toyin Falola, Teen life in Africa, Westport, Greenwood Press, 2004, pp 270-278

53


CAPITOLO 3 Tutela dei diritti dei minori 3.1 Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo I diritti umani sono quei diritti essenziali che appartengono ad ogni persona. Rappresentano gli standard minimi senza i quali nessuno può vivere e svilupparsi degnamente e sono inalienabili e universali. E’ con la nascita dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, nel 1945, che la tematica dei diritti umani e delle libertà fondamentali balza

sulla

scena

internazionale.

La

Carta

istituita

da

tale

Organizzazione pone tra i suoi fini quello di “promuovere e incoraggiare il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione” (art.1 par.3). L’enunciazione tra i fini dell’ONU del rispetto dei diritti umani, accanto al mantenimento della pace (art.1 par.1), mostra che tra questi esiste un duplice rapporto: per un verso, il rispetto dei diritti umani costituisce, oltre che un valore in sé, una condizione indispensabile per lo stesso mantenimento della pace e della sicurezza internazionale; per altro verso, la pace che l’ONU intende garantire non si risolve nella sola assenza di violenza nei rapporti internazionali, ma è una pace fondata sul rispetto dei diritti umani. La connessione tra il mantenimento della pace e il rispetto dei diritti umani emerge in maniera esplicita dall’art.55 della Carta, con il quale si apre il capitolo IX, dedicato alla cooperazione internazionale113. 113

Ugo Villani, La protezione internazionale dei diritti umani, Roma, Luiss University Press, 2006, pp. 15-16

54


Nonostante l’importanza del rispetto di tali diritti va osservato che la Carta non poneva, a carico degli Stati membri, un obbligo immediato, ma piuttosto l’obbligo, graduale e programmatico, di agire, collettivamente o singolarmente, e di cooperare con l’ONU per promuovere il rispetto e l’osservanza universale dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. L’assenza, nella Carta, di precisi obblighi degli Stati di rispettare i diritti umani e di poteri decisionali dell’ONU è confermata dal fatto che la stessa nozione di diritti umani era, nel ’45, ancora vaga e generica, né poteva riconoscersi una posizione unanime nella comunità internazionale circa l’individuazione di un gruppo di determinati diritti fondamentali dell’uomo. L’impossibilità di individuarli con esattezza rendeva improponibile il riconoscimento di specifici corrispondenti obblighi degli Stati. L’azione dell’ONU, quindi, ha provveduto in primo luogo a precisare il contenuto della categoria dei diritti umani e a promuovere l’arricchimento e lo sviluppo di tali diritti, in corrispondenza alle nuove istanze, bisogni, ideologie che venivano emergendo dalla comunità internazionale. L’espressione “diritti dell’uomo” è stata così tradotta per la prima volta a livello internazionale in un articolato elenco di singoli diritti rigorosamente definiti nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948, la quale non ha valore vincolante nell’ambito del diritto internazionale, anche se alcune delle norme in essa contenute sono oggi considerate consuetudinarie e il suo riconoscimento da parte di tutti gli Stati del mondo riconosce alto valore morale ai principi fondamentali in essa contenuti114. Già in tale Dichiarazione, e ancor più nei successivi atti adottati dall’Assemblea generale, è emersa una distinzione in diverse categorie o, come si suol dire, “generazioni” di diritti dell’uomo. Si tratta comunque di una distinzione convenzionale, che non esprime alcuna diversificazione di valore o d’importanza tra le diverse categorie o generazioni e che non intacca il carattere universale,

Il contesto giuridico internazionale di riferimento, 18 novembre 2009, UNICEF Italia, consultato il 3/05/2010, http.//www.unicef.it/print/594/il-contesto-giuridico-internazionale-di-riferimento.htm 114

55


indivisibile e interdipendente dei diritti dell’uomo115. Seguendo la tradizionale distinzione in tre generazioni di diritti dell’uomo, vediamo che la prima è costituita dai diritti civili e politici, oggetto specifico del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 16 dicembre 1966. Sono questi i principi di matrice essenzialmente occidentale e liberale e spesso ritenuti innati in ogni essere umano in quanto tale, riconoscibili in ogni tempo e in ogni luogo. Tra i diritti civili possono ricordarsi il diritto di eguaglianza davanti alla legge, il diritto di libertà personale, ad un processo equo, il diritto al rispetto della vita privata, la libertà d’informazione, di pensiero, ecc.; tra quelli politici il diritto di associazione politica, di elettorato attivo e passivo ecc. Nella seconda generazione rientrano i diritti economici, sociali e culturali, anche questi oggetto dell’omonimo Patto internazionale del 16 dicembre 1966. Nell’ottica di tali diritti l’uomo non è visto più quale entità astratta e ideale, ma come persona concreta, con i suoi bisogni, le sue aspirazioni, le sue esigenze. Di conseguenza gli si riconoscono il diritto al lavoro, di associazione sindacale, di sciopero, il diritto alla protezione della famiglia, all’assistenza sanitaria, all’istruzione, ecc. La

terza

generazione

dei

diritti

umani

è

il

risultato,

principalmente delle istanze dei PVS, tese a realizzare la liberazione dei popoli dalla dominazione straniera sia politica che economica. Si tratta di diritti che appartengono sia all’individuo che al popolo di cui egli fa parte e che comprendono in primo luogo il diritto di autodeterminazione dei popoli e quindi il diritto allo sviluppo116. La concreta attuazione di tale diritto richiede uno sforzo congiunto dei Tale carattere è stato più volte affermato dall’ONU, ribadito dalla Conferenza mondiale sui diritti dell’uomo tenuta a Vienna dal 14 al 25 giugno 1993 e, più di recente, nella Dichiarazione sul diritto e la responsabilità di individui, gruppi e organi della società di promuovere e proteggere i diritti umani e le libertà fondamentali universalmente riconosciuti, adottata dall’Assemblea generale con la risoluzione n.53/144 del 9 dicembre 1998, e nella risoluzione n.53/168, adottata il 10 dicembre 1998 per il cinquantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, nelle quali l’Assemblea riafferma “que tous le droits de l’homme sont universels, indivisibles, interdépendants et étroitement liés, de manière équitable et équilibrée, sur un pied d’égalité et en leur accordant la meme importance”. Cfr. U. Villani, op. cit., pp. 17-18 116 Il diritto allo sviluppo ha trovato il suo primo esplicito riconoscimento nella Carta di Banjul sui diritti dell’uomo e dei popoli del 28 giugno 1981, adottata dall’Organizzazione dell’Unità africana, ed è definito, nella Dichiarazione approvata dall’Assemblea generale dell’ONU con risoluzione n.41/128 del 4 dicembre 1986, come “un diritto inalienabile dell’uomo in virtù del quale ogni persona umana e tutti i popoli hanno il diritto di partecipare e di contribuire ad uno sviluppo economico, sociale, culturale e politico nel quale tutti i diritti dell’uomo e tutte le libertà fondamentali possono essere pienamente realizzati, e di beneficiare di tale sviluppo”. Cfr. U. Villani, op. cit., pp. 18-19 115

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PVS, dei Paesi sviluppati e dei competenti organismi internazionali, ma è evidente che la responsabilità principale grava sui Paesi più avanzati,

detentori

delle

risorse

finanziarie

e

tecnologiche

indispensabili per promuovere un effettivo avanzamento dei Paesi in via di sviluppo o economicamente sottosviluppati. La specificazione dei diritti umani si è sviluppata anche in considerazione della particolare vulnerabilità di certe categorie di persone, i cui diritti sono esposti a un più elevato rischio di violazione e richiedono pertanto strumenti specifici e più intensi di tutela. Sono state così elaborate la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro la donna del 1979, con il Protocollo facoltativo del 1999, la Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e i membri della loro famiglia del 1990 e la Convenzione sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, completata con due Protocolli facoltativi del 25 maggio 2000, relativi, rispettivamente, alla partecipazione dei fanciulli ai conflitti armati e alla vendita, alla prostituzione e alla pornografia dei fanciulli117. 3.2 Convenzione sui diritti del fanciullo Negli

anni

‘70

qualcosa

cominciava

a

cambiare

nella

considerazione dell’infanzia e dell’adolescenza: stava cambiando principalmente

la

“cultura

adulta”.

Si

passava

da

una

sottovalutazione del bambino e della sua esistenza118, al suo riconoscimento, sociale e culturale. Studi, ricerche sperimentali, innovazioni legislative stavano prendendo sempre più piede. Il rapporto e le relazioni tra il mondo degli adulti e quello dei bambini è stato, quindi, oggetto di riflessioni a livello mondiale; anche se gli stili di vita, i comportamenti e i valori sono diversi nelle varie società, è stata posta in rilievo la necessità che il superiore interesse del bambino, nel rispetto delle diversità territoriali e culturali, debba orientare ogni intervento sull’infanzia. E’ stato affermato al Summit

117 118

Ibidem, pp. 17-20 E. Catarsi, I servizi per l’infanzia in Europa, Milano, Juvenilia

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mondiale sull’infanzia tenutosi a New York il 30 settembre 1990119 che l’infanzia e l’adolescenza costituiscono un settore privilegiato cui deve essere assicurata un’adeguata protezione. La protezione speciale deve tradursi in un complesso di misure positive destinate a riequilibrare la posizione del minore rispetto all’adulto favorendo il pieno godimento dei diritti di cui è soggetto. Nella Dichiarazione mondiale sulla sopravvivenza, la protezione e lo sviluppo dell’infanzia sottoscritta a New York da 71 capi di stato e di governo e nel piano di lavoro che ha seguito il Summit, è stato posto in rilievo che l’adempimento degli obblighi convenzionalmente assunti non dipende tanto dal comportamento dei singoli stati ma dalla cooperazione internazionale tra i paesi del nord e del sud del mondo120. La Convenzione sui diritti del fanciullo ha, però, fatto seguito a altre importanti Dichiarazioni. Il

primo

strumento

internazionale

a

tutela

dei

diritti

dell’infanzia è stata la Convenzione sull’età minima adottata dalla Conferenza Internazionale del Lavoro nel 1919. Oltre questa, la prima significativa attestazione dei diritti del bambino si ha con la Dichiarazione di Ginevra121 adottata dalla Quinta Assemblea Generale della Società delle Nazioni nel 1924. Tale documento, che precede di più di vent’anni la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, non è stato concepito come strumento atto a valorizzare il bambino in quanto titolare, ma solo in quanto destinatario passivo di diritti. Inoltre, la Dichiarazione non si rivolge agli Stati per stabilirne gli obblighi, ma chiama in causa più genericamente l’umanità intera affinché garantisca protezione ai minori. Dopo lo scioglimento della Società delle Nazioni e la nascita dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e del Fondo Internazionale delle Nazioni Unite per l’Infanzia (UNICEF) nel 1946, si fa strada il UNICEF, Children and development in the 1990s: A Unicef source book on the occasiono f the World Summit for Children 29-30 settembre 1990, United Nations, New York, Unicef, 1990. UNICEF, The state of the world children 1993, Published for Unicef by Oxford University Press 1993 120 D. Grant, La condizione dell’infanzia nel mondo: una promessa da mantenere, Rapporto Unicef 1991 121 Sul “diritto di Ginevra”, vd. G. Venturini, Necessità e proporzionalità nell’uso della forza militare secondo il diritto internazionale, Milano, Giuffrè, 1988, p. 87 119

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progetto di una Carta sui diritti dei bambini, che integri la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, con lo scopo di sottolinearne i bisogni specifici122. La stesura e l’approvazione della Dichiarazione dei diritti del fanciullo da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite avviene all’unanimità il 20 novembre 1959. Il documento si propone di mantenere i medesimi intenti previsti dalla Dichiarazione di Ginevra, ma chiede agli stati sia di riconoscere i principi sia di impegnarsi nella loro applicazione e diffusione. La nuova Dichiarazione include una serie di diritti non previsti nella precedente Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, quali il divieto di ammissione al lavoro per i minori che non abbiano raggiunto un’età minima, il divieto d’impiego dei bambini in attività produttive che possano nuocere alla loro salute o che ne ostacolino lo sviluppo fisico o mentale e il diritto del minore disabile a ricevere cure speciali. Pur non essendo uno strumento vincolante, bensì una mera dichiarazione di principi, essa gode di una notevole autorevolezza morale che le deriva dal fatto di essere stata approvata all’unanimità e di essere un documento estremamente innovativo. Introduce il concetto per cui anche il minore, al pari di qualsiasi altro essere umano è un soggetto di diritto, riconosce il principio di non discriminazione e quello di un’adeguata tutela giuridica del bambino sia prima che dopo la nascita, ribadisce il divieto di ogni forma di sfruttamento nei confronti dei minori e auspica l’educazione dei bambini alla comprensione, alla pace e alla tolleranza123. A vent’anni da questa Dichiarazione viene proclamato l’Anno Internazionale del Bambino e l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, a seguito della proposta nel 1978 del Governo polacco di una codificazione dei diritti del minore sulla linea della Dichiarazione del 1959, decise di insediare un gruppo di lavoro della Commissione dei Diritti Umani dell’ONU, allo scopo di elaborare un progetto di Convenzione internazionale per i diritti del bambino. Numerosi Stati Tappe storiche, 18 novembre 2009, UNICEF Italia, consultato il 3/05/2010, http://www.unicef.it/print/595/tappestoriche-convenzione-diritti-infanzia.htp 123 Ibidem 122

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erano però ostili a questa possibilità. Principalmente sostenevano che questo testo non avrebbe rimpiazzato la Dichiarazione del 1959, che era

stata

accettata

dalla

comunità

internazionale,

mentre

la

Convenzione poteva essere fatta valere solo nei confronti degli Stati che l’avessero ratificata. Il rifiuto di altri era legato alla mancata volontà di stabilire una distinzione tra i bambini e le altre categorie di persone, e questo rendeva inutile l’elaborazione di testi specifici. Comunque il progetto non fu abbandonato, ma a causa di tutti questi problemi, s’instaurò un dibattito lungo e laborioso che portò alla conclusione dei lavori solo dieci anni più tardi124. La Convenzione fu approvata con voto unanime ed è in vigore a livello internazionale dal 2 settembre 1990, dopo il deposito della ventesima ratifica; il numero assai rilevante degli Stati che hanno partecipato alla stesura dello strumento e che rapidamente hanno ratificato l’accordo internazionale a carattere universale (154 al momento in cui venne scritta), sottolinea che nonostante la specificità dei vari sistemi giuridici, delle diverse tradizioni storiche e culturali, delle diverse religioni, la tutela della condizione minorile rappresenta un obbligo che tutti gli stati s’impegnano a salvaguardare nel proprio ordinamento giuridico125. Essa è stata ratificata da tutti gli Stati del mondo (191), ad eccezione degli Stati Uniti e della Somalia. La Somalia, uno fra gli stati più poveri al mondo, non ha ancora un governo centrale riconosciuto da tutte le fazioni in lotta e dunque non può materialmente ratificare un accordo internazionale. Discorso diverso va fatto per gli Stati Uniti, che hanno firmato la Convenzione nel 1995, ma tardano a ratificarla per l’opposizione del Senato. Uno dei motivi principali è costituito dalla forte contestazione, nell’ala più conservatrice dell’opinione pubblica e del mondo politico americano, del divieto di comminare la pena di morte a chi compie reati in minore età, previsto dall’art. 37 della Convenzione.

M. Agrimi, La tutela internazionale dei diritti del fanciullo, ONU ITALIA, consultato il 20/05/2010, http://www.onuitalia.it/diritti/infanzia/tutela.html 125 A. Berghè Loreti, La tutela internazionale dei diritti del fanciullo, Padova, Cedam, 1995, p. 4 124

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Il corpo è costituito da un Preambolo126 e da tre parti. Nel Preambolo si afferma che la Convenzione costituisce applicazione dei principi di dignità della persona umana ed eguaglianza consacrati nella Carta delle N.U. Si sottolinea che «i fanciulli hanno i diritti propri di ogni membro della famiglia umana», quindi soggetti di uguale dignità rispetto ad ogni altro uomo, ma in una fase diversa dell’esistenza, degna di maggiore attenzione e di maggiore tutela. Il riconoscimento di tali diritti nel Preambolo è collegato alla tutela della famiglia127, vista come unità fondamentale della società e ambiente naturale per la crescita e il benessere di tutti i suoi membri, in particolare dei fanciulli128. La Convenzione Internazionale sui Diritti del Fanciullo ha rappresentato un grande passo avanti nel processo di tutela dei minori, andando più avanti dell’espressione “fanciullo” (child) del titolo, l’art.1 della Convenzione si riferisce, infatti, ad “ogni essere umano avente età inferiore ai diciotto anni, salvo che, secondo le leggi del suo Stato, non abbia raggiunto prima la maggiore età”. Inoltre i minori non vengono considerati solo oggetto di tutela nei rapporti giuridici familiari, ma anche soggetti titolari di posizioni giuridiche autonome nei confronti sia dello Stato sia dei genitori. Dal punto di vista sostanziale, la Convenzione di New York rappresenta, dunque, il più alto approdo a livello universale nel processo di specificazione dei diritti minorili, comprendendo un insieme di previsioni che si sovrappone a quelle contenute nei Patti internazionali generali, rivolto non più alla totalità degli esseri umani, bensì alla tutela specifica dei minori, anche quando ripete garanzie di portata generale. In questo modo si ottiene il risultato di adattare il contenuto dei singoli diritti alle esigenze peculiari poste dall’età giovanile, fornendo agli Stati direttive più particolari cui attenersi nell’adozione delle misure necessarie129. M. Dogliotti, I diritti del minore e la Convenzione dell’ONU, in Diritto di famiglia e delle persone, Milano, 1992, p. 301 127 F. Pocar, Verso uno Statuto del minore, in I diritti dell’uomo, 1992, n.2, p. 40 128 F. Gustapane, La convenzione dei diritti del fanciullo, sta in L. Lippolis, La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo verso il Duemila, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2001, pp. 313-314 129 Su questo cfr, G. Maggioni, C. Baraldi (a cura di), Cittadinanza dei bambini e costruzione sociale dell’infanzia, Quattro Venti, Urbino, 1997 126

61


La Convenzione comprende 54 articoli ed è suddivisa in tre parti: la prima contiene l’enunciazione dei diritti che impegnano a diversi livelli di responsabilità; in primo luogo i genitori e la famiglia, in secondo luogo lo Stato, in terzo luogo la Comunità internazionale, attraverso un sistema di protezione e un meccanismo di controllo. Segue la seconda parte che riguarda l’individuazione dei vari organismi e strutture per la tutela dei diritti e la terza in cui si trova la normativa sulle procedure di ratifica, deposito e emendamento dello strumento130. Le diverse disposizioni sono in larga misura di derivazione occidentale, ma di proposito hanno una formulazione aperta, in modo da poter consentire la loro applicazione in altri ambiti culturali. I diritti protetti dalla Convenzione possono essere raggruppati sotto tre principali titoli. Quelli concernenti le libertà e i diritti fondamentali quali, ad esempio, il diritto alla vita, all’uguaglianza, a un nome e a una nazionalità, così come alla libertà di coscienza di espressione e religione. Ci sono i diritti che riguardano certe speciali protezioni da pericoli a cui il bambino è particolarmente suscettibile come gli abusi fisici o psicologici o i maltrattamenti, i rapimenti o i traffici illeciti o ancora sfruttamento economico o sessuale e il coinvolgimento nei conflitti armati. Per finire, ci sono i diritti che cercano di promuovere uno sviluppo proprio del bambino attraverso l’accesso

ad

alcune

necessità

basilari

come

l’educazione,

l’informazione, il divertimento, il gioco e le attività culturali131. I diritti riconosciuti ineriscono ogni aspetto della condizione esistenziale del bambino e perciò riguardano anche le formazioni sociali, come la famiglia e la scuola, in cui la sua crescita ha luogo. Quattro

principi

fondamentali

aiutano

l’interpretazione

della

Convenzione e costituiscono una guida per l’elaborazione dei programmi nazionali di attuazione. In primo luogo il principio di non discriminazione sancito dall’art. 2 della Convenzione132. A. Beghè Loreti, op.cit., p.5 M. Agrimi, La tutela internazionale dei diritti del fanciullo, ONU ITALIA, consultato il 20/05/2010, http://www.onuitalia.it/diritti/infanzia/tutela.html 132 Art. 2: “Gli Stati parti si impegnano a rispettare i diritti che sono enunciati nella presente 130 131

62


In base a tale principio, le autorità pubbliche, ma anche le formazioni sociali e gli individui, tenendo conto delle rispettive condizioni sociali e personali di partenza, si impegnano a costruire ambienti in cui tutti i bambini abbiano pari opportunità, compresi i portatori di handicap (art. 23), i fanciulli rifugiati o di origine straniera (art. 22), i membri di minoranze o gruppi autoctoni (art. 30) etc. E’ interessante rilevare che viene affermato il principio di non discriminazione nei confronti del minore anche per condizioni o situazioni concernenti i genitori, i tutori o gli altri membri della famiglia, coerentemente, purtroppo, alla consapevolezza che spesso atteggiamenti

di

discriminazione

nei

confronti

di

bambini

e

adolescenti, soprattutto nell’attuale scenario dei conflitti armati che sempre più poggiano su basi etniche, religiose o razziali, trovano la propria origine proprio nel credo, nelle opinioni espresse, nell’attività politica e nello status dei soggetti adulti che costituiscono l’ambiente familiare in cui i minori vivono. Il superiore interesse del fanciullo costituisce un altro principio fondamentale133. Ad esso deve avere riguardo sia lo Stato “in tutte le disposizioni relative ai fanciulli”, sia i genitori nell’esercizio della loro “responsabilità comune per quanto riguarda l’educazione del fanciullo ed il provvedere al suo sviluppo”134. L’interesse superiore del fanciullo disegna perciò il ruolo che, secondo la Convenzione, spetta alla famiglia ed allo Stato: alla prima viene riconosciuto, come si afferma nel Preambolo, il suo ruolo tradizionale di “unità fondamentale della società ed ambiente naturale per la crescita ed il benessere di tutti i Convenzione ed a garantirli ad ogni fanciullo nel proprio ambito giurisdizionale, senza distinzione alcuna per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere del fanciullo o dei suoi genitori o tutori, della loro origine nazionale, etnica, o sociale, della loro ricchezza, della loro invalidità, della loro nascita o di qualunque altra condizione. Gli Stati parti devono adottare ogni misura appropriata per assicurare che il fanciullo sia protetto contro ogni forma di discriminazione o di sanzione motivata dallo status, le attività, le opinioni espresse o il credo dei suoi genitori, dei suoi tutori o di membri della sua famiglia”. 133

Art. 3: “In tutte le decisioni riguardanti i fanciulli che scaturiscano da istituzioni di assistenza sociale, private o pubbliche, tribunali, autorità amministrative o organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve costituire oggetto di primaria considerazione”. 134 Art. 18: “…la responsabilità di allevare il fanciullo e di garantire il suo sviluppo incombe in primo luogo ai genitori o, all’occorrenza ai tutori. Nell’assolvimento del loro compito essi devono venire innanzitutto guidati dall’interesse superiore del fanciullo”.

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suoi membri ed in particolare dei fanciulli”, attribuendo determinati diritti – doveri ai genitori; sull’esercizio di questi, però, lo Stato, attraverso le sue istituzioni, è chiamato a sorvegliare135 e a sostituirsi, nel caso in cui l’interesse superiore del fanciullo esiga che questi venga separato dai suoi genitori136. In quest’ultimo caso è diritto del fanciullo godere di una protezione sostitutiva conferita o garantita dallo Stato137. L’altro principio fondamentale è costituito dal diritto alla vita, alla sopravvivenza e allo sviluppo138. Ogni bambino detiene, in quanto essere umano, un prioritario diritto alla vita; nella Convenzione il termine “sviluppo” assume un ampio significato ed include, oltre alla salute fisica, importanti dimensioni qualitative della crescita della persona: lo sviluppo psichico, emotivo, spirituale, cognitivo, sociale e culturale. Infine il principio riconosciuto dall’art. 12: il dovere di ascoltare le opinioni del fanciullo139. E’ questo un diritto importantissimo, che ha

permesso

di

colmare

alcune

lacune

e

di

registrare,

conseguentemente, notevoli passi in avanti nel riconoscimento e nel potenziamento della centralità e del rispetto che deve essere garantito alla personalità del minore, costituendo il principale diritto che consente di ribaltare la prospettiva della categoria sociale dell’infanzia da oggetto di protezione a soggetto titolare di diritti140. Purtroppo è da rilevare come nella Convenzione manchino i diritti di cd. terza generazione: il diritto alla pace, all’ambiente e allo sviluppo. Il Comitato scientifico italiano dell’UNICEF, in sede di 135

Art. 3 n. 2 Art. 9 137 Art. 20 138 Art. 6: “Gli Stati parti riconoscono che ogni fanciullo ha un diritto innato alla vita. Gli Stati parti si impegnano a garantire nella più ampia misura possibile la sopravvivenza e lo sviluppo del fanciullo”. 139 Art. 12: “Gli Stati parti devono assicurare al fanciullo capace di formarsi una propria opinione il diritto di esprimerla liberamente ed in qualsiasi materia, dando alle opinioni del fanciullo il giusto peso in relazione alla sua età ed al suo grado di maturità. A tal fine , verrà in particolare offerta al fanciullo la possibilità di essere ascoltato in qualunque procedimento giudiziario o amministrativo che lo riguardi, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o un’apposita istituzione, in conformità con le regole di procedura della legislazione nazionale”. 140 M.Balboni, La convenzione sui diritti del fanciullo, in Nuove leggi civili commentate, 1992 pp. 1151 ss. 136

64


redazione del progetto di convenzione propose il seguente articolo: “Il bambino ha il diritto innato alla pace e alla sicurezza internazionale, quali condizioni essenziali per il godimento di tutti i suoi altri diritti umani, soprattutto del diritto alla vita”141. Questo diritto è enucleato dall’art. 28 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, ed è inoltre riconosciuto a livello regionale dalla Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli 142, di cui parleremo in seguito, ma non da uno strumento vincolante delle NU, e avente il maggior numero di ratifiche, specificamente rivolto alla protezione dei diritti dei minori. L’art. 28 sancisce che “ognuno ha diritto ad un ordine sociale ed internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati”. Una spiegazione della mancata presenza nella Convenzione di New York di un articolo che riprendesse tale disposizione, ci proviene da M.R. Saulle, negoziatore italiano dell’ultimo triennio della Convenzione:

“Trovandomi

in

un

consesso

di

pedagogisti,

in

prevalenza, e di diplomatici, risultò problematico fare accettare il principio di assicurare al minore un insieme di diritti superiore a quello riconosciuto a ciascun essere umano da qualsiasi altro strumento internazionale esistente (…). Non tutti i diritti sono stati inseriti nella Convenzione essendo allora la situazione internazionale (e non solo) alquanto diversa. Ad esempio fu appena sfiorato il problema dei bambini coinvolti nei conflitti armati (…). Del resto, allora gli spostamenti delle persone erano contenuti dall’esistenza dei blocchi che impedivano i grandi flussi migratori e l’Organizzazione mondiale della sanità proclamava ‘Salute a tutti da qui al 2000’. Ma la caduta del muro se ha portato venti di democrazia, ha in qualche modo peggiorato la situazione dei bambini”143.

141

“Archivio Pace Diritti Umani”, n. 17-18, 1–2/1999 Art. 23. 143 M.R. Saulle, La Convenzione delle NU sui diritti del bambino e la sua applicazione negli ordinamenti interni con particolare riferimento all’ordinamento italiano, in Affari sociali internazionali n. 2, 2004, pp. 75–76 142

65


Manca un esplicito riconoscimento del diritto all’ambiente, e gli articoli che ne trattano144 non fissano impegni precisi riguardo alla salvaguardia dei diritti delle generazioni future. Ancora una volta la proposta del Comitato scientifico UNICEF non fu accolta145. Si è persa inoltre l’opportunità di inserire in uno strumento giuridico vincolante, il diritto allo sviluppo, finora riconosciuto a livello universale, solo dalla Dichiarazione del 1986. Il riconoscimento della centralità della persona umana nelle politiche di sviluppo sarebbe stato particolarmente opportuno in uno strumento di tutela dei minori. Infine la Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989 istituisce (art. 43) un sistema di garanzia per rendere effettivo l’impegno assunto dagli Stati contraenti di riconoscere e garantire ad ogni fanciullo sottoposto alla loro giurisdizione i diritti enunciati nella Convenzione stessa (artt. 3- 41) e negli eventuali Protocolli aventi ad oggetto il riconoscimento di ulteriori diritti146. Questo sistema è previsto nella parte II della Convenzione e precisamente negli artt. 42 – 45. Il primo di questa serie di articoli obbliga gli Stati contraenti a utilizzare mezzi attivi e adeguati per assicurare la più ampia diffusione dei principi e delle disposizioni della Convenzione tanto tra gli adulti quanto tra i bambini, mentre nessun obbligo incombe legalmente su entità non statali. La ratio di questa disposizione è evidente: le persone, per poter far valere il

144

Artt. 24 e 29. Il primo riconosce il diritto alla salute, facendo un accenno all’ambiente ai punti c. e d. del paragrafo 2, dove si afferma che nell’utilizzo di tecniche prontamente disponibili per fornire alimenti nutritivi e acqua potabile bisogna tener conto dei rischi di inquinamento ambientale. Il secondo disciplina il diritto all’educazione del fanciullo prevedendo tra le sue finalità, alla lettera e., il rispetto dell’ambiente naturale. 145 “ Gli Stati parti nell’affermare il diritto–dovere di assicurare alle generazioni presenti e future un mondo vivibile, riconoscono il diritto del bambino a vivere in un ambiente naturale non inquinato e si impegnano ad assicurare un’educazione del bambino diretta a: sviluppare il rispetto dell’ambiente naturale; conservare e difendere gli equilibri naturali; sviluppare una coscienza critica nei riguardi dei consumi inutili; valorizzare le sue capacità creative e di immaginazione, in armonia con l’ambiente naturale, quale premessa per una corretta crescita psicofisica”. Cfr. : “Archivio Pace Diritti Umani”, op. cit., p. 5. 146 Si pensi al Protocollo opzionale concernente il coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati, ma anche il Protocollo opzionale concernente la vendita di bambini, la prostituzione di bambini e la pornografia rappresentante i bambini (entrambi del 25 maggio 2000).

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rispetto di un diritto di cui sono titolari, devono precedentemente conoscere quali diritti sono stati sanciti. L’articolo più significativo è, però, l’ art. 43, il quale istituisce l’organo su cui si basa il sistema di garanzia previsto dalla Convenzione: il Comitato sui diritti del fanciullo. Si tratta dell’organo cui è demandato l’effettivo controllo sull’applicazione delle norme convenzionali e, il meccanismo di controllo previsto, assume la forma dei rapporti periodici che gli Stati si impegnano a trasmettere al Comitato; rapporti contenenti tutte le informazioni

sui

provvedimenti

adottati

per

armonizzare

la

legislazione e la prassi nazionale alle disposizioni convenzionali, sottolineando eventuali difficoltà che ne impediscano l’attuazione. Il Comitato è composto da dieci esperti di riconosciuta alta moralità e competenza specifica, che siedono a titolo personale e che sono scelti dagli Stati contraenti rispettando il principio dell’equa ripartizione

geografica

e

della

rappresentanza

dei

principali

ordinamenti giuridici147. E’ previsto che i rapporti debbano essere presentati entro i due anni successivi all’entrata in vigore della Convenzione e, periodicamente, ogni cinque anni (art. 44), tramite il Segretario generale dell’ONU. Il Comitato, sollecitato dall’interpretazione del processo di redazione del rapporto nei termini di “una buona occasione per procedere

all’esame

globale

delle

diverse

misure

prese

per

armonizzare la legislazione e la politica nazionale con la Convenzione e per seguire i progressi realizzati nell’ambito del godimento dei diritti riconosciuti attraverso tale strumento”148, nella prima sessione di lavoro ha adottato delle linee guida per agevolare la redazione dei rapporti iniziali, affinché potessero essere il più possibile orientati ai problemi e autocritici. Tali rapporti devono contenere l’indicazione delle eventuali difficoltà che impediscono agli Stati di adempiere agli 147

I membri del Comitato, oltre che una competenza riconosciuta nel settore oggetto della Convenzione, devono possedere anche un’alta moralità; restano in carica per un periodo di 4 anni e sono rieleggibili. Nel caso in cui il seggio si renda vacante, lo Stato che aveva presentato la candidatura nomina un altro esperto tra i suoi cittadini che rimarrà in carica fino alla scadenza del mandato corrispondente (art. 43 par. 2, par. 6 e par. 7) 148 Nazioni Unite A/47/41, Allegato III al Rapport du Comité des droit de l’enfant, p. 14, Ginevra, 1992

67


obblighi loro incombenti, nonché le informazioni utili a fornire al Comitato un’efficace comprensione della situazione riguardante l’applicazione della Convenzione nel Paese in questione (art. 43 par. 2). La situazione esistente all’interno dei singoli Stati deve poi essere oggetto di valutazione rispetto allo standard internazionale che riflette le comuni valutazioni degli Stati. Affinché possa esercitare in modo migliore la sua attività di controllo, il Comitato può richiedere agli Stati contraenti ulteriori informazioni (art. 44 par. 4) e invitare le istituzioni specializzate, l’UNICEF e ogni altro organo delle Nazioni Unite a dare pareri e a sottoporgli rapporti sull’attuazione della Convenzione nei settori di rispettiva competenza (art. 45 lett. a); può trasmettere a tali organismi ogni rapporto statale che contiene una richiesta di consigli tecnici o di assistenza tecnica (art. 45 lett. b); può raccomandare all’Assemblea generale di invitare il Segretario generale a procedere, per conto del Comitato stesso, a studi su specifiche questioni attinenti ai diritti dell’infanzia (art. 45 lett.c). Per dare una maggiore concretezza alla sua attività e per meglio raggiungere gli scopi per cui è stato istituito, il Comitato, in base alle informazioni ricevute con i rapporti periodici, può indirizzare raccomandazioni ad ogni stato parte, (art. 45 lett. d) in modo da suggerire le modalità più opportune per l’adempimento degli obblighi previsti dalla Convenzione. Il primo Comitato è stato eletto nel Marzo del 1991 e ha tenuto la sua prima sessione ordinaria di lavoro a Ginevra nel settembre dello stesso anno. Tuttavia il Comitato, in occasione della prima sessione ed in considerazione del numero senza precedenti di Stati già parti della Convenzione149, ha richiesto all’Assemblea generale ONU di autorizzare il Segretario generale a prevedere almeno due sessioni ordinarie all’anno150 e la costituzione di un gruppo di lavoro pre–sessione che si riunisca nei due mesi precedenti, al fine di 149 150

In quel momento erano 98 gli Stati parti alla Convenzione. Alla sua quinta sessione, il Comitato chiederà agli Stati parti di portare a tre il numero di sedute annuali, decidendo anche di convocare sessioni straordinarie di lavoro, facoltà prevista dall’art. 3 del suo Regolamento interno.

68


esaminare preliminarmente i rapporti presentati dagli Stati ed individuare così i punti cruciali da trattare nel colloquio con i rappresentanti dei governi151. Al termine della sessione, il Comitato adotta delle osservazioni conclusive sul rapporto dello Stato, nelle quali

sono

contenute

raccomandazioni

per

una

più

efficace

attuazione dei diritti dell’infanzia ed eventuali questioni di cui rendere conto nei successivi rapporti. Non è, però, contemplata, né per gli Stati contraenti, né per i singoli individui vittime delle violazioni la facoltà di denunciare unilateralmente

ad

un

organo

competente

l’infrazione

delle

disposizioni convenzionali. Ciò fa intendere come la Convenzione sui diritti del fanciullo non è molto avanzata sotto il profilo del sistema di garanzia. Il solo meccanismo di garanzia previsto è quello dei rapporti periodici sullo stato d’implementazione dei diritti nei vari Stati membri, in cui si riporta periodicamente la situazione interna e quali progressi si sono compiuti nella via della loro realizzazione. Il sistema si basa, in sostanza, sull’attribuzione a carico degli Stati di un mero obbligo di “rendiconto”, mentre il Comitato svolge unicamente una funzione di controllo generale sull’attività di attuazione di tali obblighi, controllo che è di tipo solo preventivo e in cui, inoltre, i controllori e i controllati potrebbero anche coincidere. Il sistema della trasmissione periodica dei rapporti al Comitato, pur assolvendo un’importante funzione di “pubblicità” di carattere sia interstatale, sia sociale, non compie il passo successivo di attribuire agli Stati e ai singoli la facoltà di rivolgersi ad un organismo internazionale per denunciare, o anche semplicemente comunicare, l’inadempimento di obblighi convenzionali da parte di stati membri della Convenzione. Un’altra carenza nella procedura di controllo risiede poi nella mancata previsione di un adeguato regime di pubblicità delle attività del Comitato e di un raccordo tra tale organo e i parlamenti nazionali, che sarebbe fondamentale per promuovere le necessarie iniziative 151

Il gruppo di lavoro pre – sessione conclude la discussione dei rapporti con una lista di questioni prioritarie che il Comitato intende discutere con lo Stato interessato. La delegazione dello Stato riceve la lista prima della sessione con l’invito di rispondervi per iscritto. Questa procedura dà ai governi l’opportunità di preparare adeguatamente la propria audizione.

69


legislative sulla base delle valutazioni e delle considerazioni espresse da quest’ultimo152. Un’ altra funzione molto importante che il Comitato ha, è quella d’interpretazione del contenuto delle norme sui diritti umani esercitata attraverso i General Comments, lo scopo dei quali è quello di assistere gli Stati parti nel compimento dei loro obblighi sanciti dalla Convenzione e di sostenere le organizzazioni internazionali e le agenzie specializzate nel conseguire la piena realizzazione dei diritti riconosciuti nella Convenzione. Il Comitato ha elaborato, fino ad oggi, dieci Commenti Generali, tra cui il primo che riguarda gli scopi dell’educazione, il terzo sull’HIV/AIDS e i diritti dell’infanzia, il sesto sul trattamento dei bambini separati dalle proprie famiglie e non accompagnati, fuori dal loro paese d’origine. Alla Convenzione sui diritti dell’infanzia si affiancano, inoltre, due Protocolli opzionali approvati dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 2000 e sono il Protocollo opzionale concernente la vendita, la prostituzione e la pornografia rappresentante bambini e il Protocollo opzionale concernente il coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati153: “Il coinvolgimento e l’utilizzo di bambini nei conflitti armati rappresenta una barbara evoluzione delle guerre moderne. I conflitti non vengono più portati avanti dai soli soldati, secondo gli schemi che per secoli li hanno caratterizzati e sui quali si è sviluppato il diritto internazionale della guerra e le relative norme del diritto internazionale umanitario. Le popolazioni civili, e soprattutto, i bambini, sono sempre più i soggetti attivi negli scenari di guerra contemporanei. La Convenzione sui diritti dell’infanzia tutela i bambini coinvolti nella guerra con varie disposizioni, in particolare all’art.38. Tuttavia, la gravità della questione ha spinto verso la codificazione di uno strumento giuridico ad hoc rappresentato dal Protocollo opzionale”154. 152

Cfr. M. Balboni, La Convenzione sui diritti del fanciullo, in Nuove leggi civili commentate, 1992, p. 1154 ss; M. Mascia, L’internazionalizzazione dei diritti dell’infanzia, in Pace, diritti dell’uomo, diritti dei popoli, 1990, p. 69 ss. 153 Protocolli opzionali, 18 novembre 2009, UNICEF Italia, consultato il 5/05/2010, http://www.unicef.it/print/621/protocolli-opzionali.htp 154 La traduzione qui riportata del protocollo è quella pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n.77 del 2 aprile 2002 – Supplemento Ordinario n.65

70


Per quanto riguarda, poi, il coinvolgimento dei minori nei conflitti armati un ulteriore sviluppo per la tutela internazionale dei diritti del fanciullo si è venuto a determinare per via indiretta a seguito della Conferenza Diplomatica che si è tenuta a Roma nel luglio del 1998, sotto l’egida dell’ONU, per la creazione di una Corte Penale Internazionale. Lo Statuto della Corte attribuisce al tribunale la giurisdizione sui crimini di genocidio, sui crimini contro l’umanità e contempla, in particolare, all’art.8, tra i crimini di guerra soggetti alla

giurisdizione

penale

internazionale

"il

reclutamento

o

arruolamento di fanciulli al di sotto di quindici anni in forze armate nazionali o il loro impiego mediante partecipazione attiva alle ostilità". L’elemento di maggior rilievo in questa disposizione è che per la prima volta l’impiego dei fanciulli nei conflitti armati viene a configurarsi come crimine di guerra. Inoltre, la formulazione testuale della norma porta

a

ritenere

partecipazione

superata

diretta

e

implicitamente

indiretta,

la

risultando

distinzione vietata

fra

qualsiasi

partecipazione attiva del fanciullo alle ostilità. Un limite riscontrato nel testo dello statuto, però, è che l’età minima di arruolamento dei bambini, fissata oggi a 15 anni, dovrebbe essere innalzata a 18. D’altra parte è contraddittorio il fatto che, mentre il limite di età per la coscrizione obbligatoria è fissato a 15 anni, lo Statuto stabilisce che nessun minore sotto i 18 anni può essere giudicato dal tribunale155. Un modello innovativo di tutela internazionale in materia di diritti umani è, invece, quello rappresentato dalla Carta africana sui diritti e il benessere dei bambini del 1990, che ha dischiuso una nuova prospettiva di giustizia minorile internazionale156.

M. Agrimi, La tutela internazionale dei diritti del fanciullo, ONU ITALIA, consultato il 20/05/2010, http://www.onuitalia.it/diritti/infanzia/tutela.html 156 OUA, African Charter on the Rights and Welfare of the Child, Addis Abeba, 11 luglio 1990. La Carta Africana è entrata in vigore il 29 novembre 1999. Su questo cfr. B. Thompson, Africa’s Charter on Children Rights: a Normative Break with cultural Traditionalism, in International and Comparative Law Quarterly, 1992, p. 432 ss. 155

71


Questo

strumento

convenzionale

è

riuscito

laddove

la

Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei minori del 1996 ha fallito157. Con la Carta africana, per la prima volta, alla specializzazione della tutela non si accompagna un indebolimento delle procedure di controllo; queste, infatti, consistono nell’esame dei rapporti periodici (a cadenza triennale e non quinquennale) elaborati dagli Stati, ma anche nella ricezione di comunicazioni individuali. Si crea così un sistema di garanzia direttamente accessibile agli individui e che, peraltro, realizza una tutela non solo dei diritti civili e politici ma anche di quei diritti (economici e sociali) tradizionalmente non giustiziabili che, operando nel sociale, presuppongono l’adozione di misure positive e la disponibilità di risorse finanziarie da parte dello stato perché possano essere realmente soddisfatti e garantiti. 3.3 Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli L’adozione della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli da parte dell’organo supremo dell’Organizzazione dell’Unità africana (OUA), la Conferenza dei capi di stato e di governo africani, riunita a Nairobi il 28 giugno 1981, traduceva la volontà dell’Organizzazione regionale di dotare il continente africano di un sistema di promozione e di protezione dei diritti dell’uomo e dei popoli adattato ai propri bisogni e alle proprie tradizioni158. Il processo storico159 che condusse all’adozione della Carta ebbe inizio nel 1961 con la Conferenza di Lagos, organizzata dalla Commissione

internazionale

invitarono

governi

i

dei

africani

giuristi, a

dare

durante piena

la

quale

attuazione

si alla

Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo nei loro ordinamenti 157

La Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei minori, infatti, è risultata essere un accordo istitutivo di un sistema di garanzia molto debole e inefficace, oltre ad essere anche lacunoso per ciò che riguarda il catalogo dei diritti previsti. Su questo cfr. M. De Salvia, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, III ed., Napoli, Editoriale Scientifica, 2001 158 M. Papa, La Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli: un approccio ai Diritti Umani tra tradizione e modernità, in I diritti dell’uomo cronache e battaglie, 1998, p. 5 ss. 159 Per quanto riguarda i cenni storici sulla Carta africana, cfr. G. M. Palmieri, Il sistema regionale africano di promozione e di protezione dei diritti dell’uomo e dei popoli: profili istituzionali, in “Rivista internazionale dei diritti dell’uomo”,1 (1991), pp. 57-87; A. Sinagra, Protection internationale des droits de l’homme sur le plan universel, in AA.VV. Le médecin face aux droits de l’homme, Padova, 1990, p.55 ss

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interni e a studiare la possibilità di adottare una Convenzione Africana dei Diritti dell’Uomo. La Conferenza di Lagos ha rappresentato in Africa quello che il Congresso

dell’Aja

del

1948

ha

rappresentato

per

l’Europa

occidentale, in quanto entrambi gli incontri conclusero i propri lavori con proposte volte a creare un nuovo assetto istituzionale per il rispettivo continente, accompagnandolo a progetti specifici in tema di tutela dei diritti dell’uomo. Il Congresso dell’Aja portò l’anno seguente alla creazione del Consiglio d’Europa e due anni dopo, alla firma della Convenzione europea dei diritti dell’uomo160. La Conferenza di Lagos fu seguita, due anni più tardi, dalla creazione dell’OUA a opera della Carta di Addis Abeba del 24 maggio 1963. Invece, le proposte in tema d’istituzione di un meccanismo di protezione dei diritti dell’uomo, definite come “Legge di Lagos”161, trovarono sbocco ben vent’anni dopo, nel 1981, nell’adozione della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli da parte della Conferenza dei capi di stato e di governo dell’OUA riunitasi a Nairobi. La “Legge di Lagos” invitava i governi africani a dare piena attuazione alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 tutelando adeguatamente tali diritti negli ordinamenti interni e a studiare la possibilità di adottare una Convenzione africana dei diritti dell’uomo che prevedesse sia l’istituzione di una tutela giurisdizionale a opera di una Corte di giustizia sia l’introduzione dell’istituto del ricorso

individuale.

L’influenza

esercitata

dal

modello

della

Convenzione europea è evidente. Va piuttosto notata l’audacia della proposta in un momento storico in cui gli stati africani, che andavano man mano acquistando l’indipendenza manifestavano, per un bisogno naturale di consolidamento, il più grande attaccamento ai principi di sovranità nazionale e di non ingerenza nei rispettivi affari interni162. 160

Su questo cfr. G. Sperduti, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il suo sistema di garanzia, in Riv.dir.int.,1963, p. 161 ss; V. Starace, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e l’ordinamento italiano, Bari, Levante Editori, 1992. 161 Cfr, il testo della “Legge di Lagos” in Rev. Universelle droits de l’homme, 1989, p. 509 ss. 162 Sui risvolti politici, cfr. P. Calchi Novati e P. Valsecchi, Africa: la storia ritrovata, Roma, Carocci, 2005

73


Sebbene la Conferenza di Lagos fosse seguita, dopo soli due anni, dalla creazione dell’OUA, si manifestò nella comunità degli stati africani una notevole refrattarietà ad assumere impegni in tema di diritti dell’uomo in una fase storica in cui, da un lato predominavano le

tesi

che

miravano

a

subordinare

la

tutela

dei

diritti

al

conseguimento di un certo grado di sviluppo economico e, dall’altro, la maggioranza dei regimi africani prevedeva, al suo interno, derive autoritarie che sempre più divergevano nei fatti dalla tutela dei diritti riconosciuti nella Dichiarazione Universale del 1948. Soltanto un mutamento profondo della situazione politica poteva a sua volta modificare l’atteggiamento degli stati africani in merito a questo. Tale mutamento si verificò nella seconda metà degli anni ’70, allorché la denuncia delle efferatezze compiute da tre dittatori (Idi Amin Dada in Uganda, Jean Bedel Bokassa nell’Impero Centrafricano e Macias Nguéma in Guinea equatoriale) scosse l’opinione pubblica. Tale mutata situazione accelerò le iniziative delle Nazioni Unite e della Commissione internazionale di giuristi in favore di una Convenzione africana di tutela dei diritti dell’uomo. L’insieme di tali fattori e di tali nuove spinte portò, nel 1979, all’adozione da parte della Conferenza dei capi di stato e di governo riunitasi a Monrovia, in Liberia, della decisione AGH 115(XVI) 1979, che invitava il Segretario generale dell’OUA a organizzare nei più brevi tempi una riunione ristretta di esperti altamente qualificati al fine di elaborare un progetto di una Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, che

prevedesse

anche

la

creazione

di

organismi

idonei

alla

promozione e protezione di tali diritti163. Già nel giugno 1980 giunsero sul tavolo del Consiglio dei ministri a Banjul le conclusioni del Comitato di esperti. Nel gennaio 1981 la bozza di Carta africana venne adottata dal Consiglio dei ministri, riuniti nuovamente a Banjul164, in vista della sua trasmissione alla Conferenza dei Capi di Stato e di governo prevista a Nairobi sei mesi più tardi. Il biennio 163 164

G. M. Palmieri, op. cit., pp. 60-62 Per questo motivo la Carta africana è anche conosciuta come “Carta di Banjul”

74


1982-83 la Carta raccolse circa quindici ratifiche, nonostante ne servissero ventisei, pari alla maggioranza assoluta dei membri dell’OUA e i successivi 1984-85 furono anni di stasi. La svolta decisiva fu rappresentata dalla Presidenza senegalese dell’OUA. Nel 1986 il Presidente Abdou Diouf profuse un grande impegno personale per convincere i suoi pari a ratificare la Carta e il risultato fu tangibile, visto che si riuscì a raggiungere le ventisei ratifiche e il 21 ottobre la Carta entrò finalmente in vigore, segnando l’impegno della maggioranza

degli

stati

dell’OUA

a

rendere

operanti

le

sue

disposizioni tanto sul piano nazionale che su quello delle relazioni internazionali africane. L’Uganda ha ratificato la Carta nel maggio del 1986. Per quanto riguarda il contenuto della Carta africana vediamo che la prima parte, intitolata “dei diritti e dei doveri”, si suddivide in due capitoli: il primo dedicato ai diritti dell’uomo e dei popoli; il secondo dedicato ai doveri. Viene messa in rilievo, innanzitutto l’affermazione secondo la quale “i diritti fondamentali dell’essere umano si fondano sugli attributi della persona umana, il che giustifica la loro protezione internazionale…”. Questa affermazione trova conferma nell’articolo primo dove gli Stati contraenti riconoscono i diritti, doveri e libertà enunciati dalla Carta e s’impegnano ad adottare misure legislative o d’altra natura per applicarli. Essa esclude inoltre che vi possa essere contrapposizione tra il diritto dei popoli e i diritti dell’uomo, anzi istituisce una necessaria e logica correlazione nel senso che il rispetto effettivo dei diritti dei popoli mira a una migliore garanzia dei diritti individuali165. La Carta africana sancisce, tra gli altri, i doveri dell'individuo verso la famiglia, la società e la comunità internazionale, il dovere di non discriminare, il dovere di mantenere i genitori in caso di bisogno, il dovere di lavorare al meglio delle proprie capacità e competenze, il dovere di preservare e rafforzare i valori positivi della cultura africana166. G. M. Palmieri, op. cit., pp. 62-64 Carta africana sui diritti dell’uomo e dei popoli, Centro studi per la pace, consultato il 7/5/2010, http://www.studiperlapace.it/view_news_html?news_id=20050107175617 165 166

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I diritti umani riconosciuti dalla Carta africana sono civili e politici ed economici e sociali. E’ la prima convenzione internazionale sui diritti umani a riconoscere anche i diritti dei popoli, nonostante nella Carta non ci sia una chiara definizione della parola “popolo”. L’enunciazione di tali diritti (art. 19, 20, 21) costituisce, comunque, una delle sue caratteristiche più originali e salienti. L’art.19 stabilisce l’uguaglianza di tutti i popoli nella dignità e nei diritti. L’art. 20 comincia con la proclamazione del diritto dei popoli all’esistenza e prosegue con il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione. Gli Stati parti della Carta debbono apportare la loro assistenza ai popoli, affinché questi possano liberarsi dal dominio straniero. Il diritto ad esercitare la sovranità sulle risorse naturali, di cui all’art. 21 della Carta, è strettamente legato al precedente. I successivi tre articoli fanno parte dei diritti di terza generazione in opposizione ai diritti civili e politici (prima generazione) e economici, sociali e culturali (seconda generazione). Si tratta del diritto allo sviluppo, alla pace e a un ambiente soddisfacente, propizio allo sviluppo. Questi ultimi tre diritti si fondano sulla nozione di solidarietà che si esprime nel concetto stesso di comunità internazionale167. Per

quanto

riguarda

gli

organi

dell’OUA

incaricati

di

promuovere i diritti dell’uomo e dei popoli e di assicurare la protezione dell’Africa, la Carta all’art. 30 istituisce la Commissione africana dei diritti dell’uomo e dei popoli168. La composizione e il funzionamento della Commissione sono regolati dalla Carta stessa che vi dedica un capitolo, nonché dal regolamento interno che la Commissione ha adottato il 13 febbraio 1988, avvalendosi di un potere

di

auto-organizzazione

riconosciutole

dall’art.42.

La

Commissione si compone di 11 membri nominati per un periodo di sei anni dalla Conferenza dei capi di stato e di governo dell’OUA. I membri non solo devono essere personalità africane, ma possedere la Keba Mbaye, Les droits proteges et les procedures prevues par la charte africaine des droits de l’homme et des peuples, sta in G. M. Palmieri, La Charte africaine des droits de l’homme et des peuples, op. cit., pp. 45-47 168 L’idea di dar vita ad una Commissione africana dei diritti dell’uomo emerse nel corso della Conferenza di Dakar organizzata nel 1967 dalla Commissione internazionale dei giuristi. Tale Conferenza adottò una dichiarazione che propose la costituzione di un commissione africana dotata di competenza consultiva e di poteri di raccomandazione, su questo cfr, G. M. Palmieri, op. cit., p. 59 167

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nazionalità di uno degli stati contraenti. Nonostante questo siamo in presenza di un organo d’individui e non di stati e lo status dei membri è volto a garantirne l’indipendenza e l’imparzialità nello svolgimento delle proprie funzioni. La Commissione elegge un presidente e un vice-presidente il cui mandato è di due anni e è indefinitamente rinnovabile, così come quello degli altri membri169. Le funzioni svolte dalla Commissione sono quelle di: raccogliere documentazione, compiere studi e ricerche sui problemi africani nell’ambito dei diritti dell’uomo e dei popoli, organizzare seminari, colloqui e conferenze, diffondere informazioni e altre funzioni dette di “promozione”. Particolare rilievo assume poi la funzione definita di “protezione” dall’art.30 o di controllo secondo cui la Commissione deve assicurare la protezione dei diritti dell’uomo e dei popoli nelle condizioni fissate dalla Carta. Nessun parere della Commissione è, però, vincolante per gli Stati170. Una delle ultime questioni affrontate dalla Commissione è stata la creazione di una Corte africana prevista dal protocollo addizionale della Carta, firmato il 10 giugno 1998 ed entrato in vigore il 25 gennaio 2004 con la ratifica di 15 paesi africani e ad oggi arrivata alla ratifica da parte di 25 Stati. L’Uganda l’ha ratificato nel 2001171. Le funzioni della Corte sono quelle di completare l’azione della Commissione attraverso l’esercizio di competenze sia di natura consultiva che contenziosa (artt. 2, 3 e 4). Si possono rivolgere alla Corte

la

Commissione,

gli

Stati

parte

e

le

organizzazioni

intergovernative africane. I singoli individui e le organizzazioni non governative possono adire la Corte solo se lo Stato chiamato in causa abbia riconosciuto tale possibilità. In realtà, la discrezionalità dell’accesso individuale è, nel sistema di protezione dei diritti, la regola. Per quanto concerne la ricevibilità (artt. 6 e 8) delle richieste verrà valutata in base al dettato dell’art. 56 della Carta, che già si E.A. Ankumah, The African Commision on Human and Peoples’Rights, Martinus Nijhoff Publishers, London, 1996, pp. 16-18 170 Ibidem, pp. 21-28 171 Documentazione Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli in Archivio Pace e diritti umani, consultato il 9/5/2010, http://unipd-centrodirittiumani.it/it/pubblicazioni/Carta-africana-dei-diritti-delluomo-e-dei-popoli/498 169

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applica alle richieste che giungono alla Commissione. E’ previsto, tra le condizioni di ammissibilità, il preventivo esaurimento dei gradi di giudizio interno. In realtà occorre che il regolamento interno razionalizzi i compiti e i rapporti tra Corte e Commissione in modo da rendere efficace questa sorta di coabitazione. Le udienze sono pubbliche, anche se sono previste eccezioni che verranno stabilite dal regolamento interno172. I giudici sono undici, nominati dalla Conferenza dei Capi di stato e di governo in base alle candidature avanzate dai singoli paesi tra personalità giuridiche di chiara fama e in base a un criterio che tenga in considerazione la rappresentanza adeguata dei due sessi (artt. 10-14). I giudici rimangono in carica per sei anni, il mandato è rinnovabile per un massimo complessivo di dodici anni. Le funzioni vengono esercitate a tempo parziale, eccetto che dal Presidente (art. 15). Le condizioni d’indipendenza e d’imparzialità dei giudici sono stabilite in base al diritto internazionale e le decisioni sono prese a maggioranza (quorum di sette giudici ex art. 23) con possibilità, di rendere note le opinioni individuali, anche dissenzienti. Non esiste la possibilità di appello, ma la Corte può interpretare la decisione fino a modificarla in caso di sopravvenienza di fatti nuovi (art. 28). Le decisioni della Corte dalle quali emerga la violazione di un diritto, possono prevedere il pagamento di una giusta compensazione (art.27). L’esecuzione da parte dello stato condannato è volontaria sotto il controllo del Consiglio dei ministri dei paesi aderenti. La Corte, in casi di straordinaria necessità e urgenza, al fine di evitare danni irreparabili alle persone, può ordinare le misure provvisorie necessarie. Tale

ultima

possibilità

potrebbe

risultare

un’arma

fondamentale dell’operato della Corte in un continente così instabile come quello africano. Se correttamente gestita la Corte potrebbe diventare un potente baluardo dei diritti umani in un continente in cui tali norme vengono spesso sottovalutate. Essa può, in un primo momento, dare le D. Tega, Africa: la corte africana dei diritti dell’uomo e dei popoli ha finalmente visto la luce. Un nuovo tassello nel sistema universale di protezione dei diritti, Forum costituzionale, consultato il 9/5/2010, www.forumcostituzionale.it/site/index3.php?option=com... 172

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competenze necessarie alla Carta per rinforzare il lavoro compiuto dalla Commissione. Inoltre, la giurisprudenza sviluppata dalla Corte, che concerne i diritti che sono riconosciuti dalla maggior parte degli stati africani, può servire da punto di riferimento e d’ispirazione per le giurisdizioni interne, i governi e le società civili dei differenti paesi, al livello dell’interpretazione di questi diritti173. Il rapporto con la Conferenza dei Capi di stato e di governo sarà un altro punto nodale: la Corte riuscirà nel suo compito se sarà in grado di ritagliarsi una piena indipendenza rispetto al potere politico. Anche la previsione (art. 10) dell’accesso gratuito all’assistenza legale per i singoli in difficoltà economiche pare essere una condizione imprescindibile per il funzionamento della Corte, così come le misure di protezione e di facilitazione per tutti coloro, parti o testimoni, che sono chiamati a comparire davanti alla Corte. L’indipendenza dei giudici è un’altra condizione che deve essere assicurata. Solo i giudici della Corte possono, all’unanimità, sospendere un collega, ma la decisione può essere riconsiderata dalla Conferenza dei Capi di stato e di governo, con il pericolo di creare una sorta di posizione di subalternità della Corte nei confronti della Conferenza e, più in generale, del potere politico174. Concludendo mi sembra importante fare un richiamo alla realtà nella quale la Carta africana è chiamata a intervenire. Sotto questo profilo va sottolineato come la situazione dei diritti dell’uomo e dei popoli nel continente africano presenti delle caratteristiche abbastanza gravi ed è per questo che la Carta non può non apparire una sorta di traguardo che potrà essere raggiunto soltanto attraverso la continuazione dello stesso processo storico che ha portato, malgrado numerose difficoltà, all’entrata in vigore della Carta stessa. Da queste considerazioni discende l’importanza centrale che riveste nel sistema africano la funzione di promozione che la Carta affida alla Commissione. Tale funzione implica, tra l’altro, lo svolgimento di F. Viljoen, “Application of the African Charter on Human and Peoples’Rights by domestic courts in Africa”, 143 Journal of African Law (1991) 174 C. Heyns, Le role de la future cour africaine des droits de l’homme et des peuples, in AA.VV, L’application nationale de la Charte africaine des droits de l’homme et des peoples, Bruylant, 2004, pp. 245-247 173

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un’opera capillare di formazione e informazione per far si che la Carta diventi uno strumento nelle mani degli individui che vogliono ottenere il rispetto dei loro diritti da parte degli stati contraenti175. 3.4 Carta africana sui diritti e il benessere del minore Per quanto riguarda i trattati regionali sui diritti dei bambini, il solo esistente è la Carta Africana sui Diritti e il Benessere del minore adottata

dalla

Conferenza

dei

capi

di

stato

e

di

governo

dell’Organizzazione per l’Unità Africana ad Addis Abeba l’11 luglio 1990 e entrato in vigore il 22 novembre 1999176. L’Uganda l’ha ratificata nel 1994. Questa Carta nasce, come viene esplicitato nel Preambolo, dalla preoccupazione per la situazione critica di gran parte dei bambini in Africa, in ragione di fattori peculiari relativi a circostanze socioeconomiche, a tradizioni e a condizioni di sviluppo, a calamità naturali, conflitti armati, sfruttamento e fame, che i minori vivono quotidianamente nel continente. La Carta africana sui diritti e il benessere del minore si può definire un’ implementazione specifica alla Carta africana e offre una serie di articoli che trattano con precisione i diritti e doveri del minore177. Essa

si

basa

su

altri

trattati

internazionali

come

la

Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e la Convenzione sui Diritti del Fanciullo ma esprime i valori sociali e culturali dell’Africa, inclusi quelli legati alla famiglia, alla comunità e alla società. Su alcuni aspetti rafforza la protezione prevista nella Convenzione dell’89. Recita, infatti, che tutte le persone con un età inferiore ai diciotto anni sono da considerarsi minori, senza nessuna eccezione, e che tutti i bambini che vivono nel loro paese hanno gli stessi diritti dei bambini rifugiati. In più, cerca di eliminare pratiche sociali e culturali dannose, in particolare quelle che sono discriminatorie o che creano rischi per la salute dei bambini. G. M. Palmieri, op. cit., pp. 84-87 Archivio “Pace diritti umani”, Carta africana sui diritti e il benessere del minore, http://unipdcentrodirittiumani.it/it/strumenti_internazionali/Carta-africana-sui-diritti-e-il-benessere-del-minore-1990/204, consultato il 20/ 05/2010. 177 Ibidem 175 176

80


La Carta si occupa del problema del coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati all’art.22178, dove è previsto il rispetto da parte degli Stati contraenti per le leggi del diritto internazionale umanitario applicabile ai conflitti armati in cui sono coinvolti i fanciulli. E’ inoltre previsto che gli Stati prendano tutte le misure necessarie per assicurare che nessun bambino prenda parte diretta alle ostilità. Tutte queste norme si riferiscono anche ai bambini che sono coinvolti in conflitti armati internazionali. La Carta Africana sui diritti e il benessere del minore riprende quindi a livello regionale ciò che era stato affermato nelle varie Convenzioni a carattere universale. Purtroppo però questa Carta è stata ratificata solo da 44 stati facenti parte dell’Unione Africana179. Stati come l’Angola, il Congo-Brazaville, l’Etiopia si sono astenuti dal firmare o ratificare questa Carta che avrebbe garantito una maggiore garanzia per i bambini coinvolti nei conflitti armati. D’altra parte la legislazione di questi Stati, se correttamente applicata, sarebbe sufficiente ad evitare il coinvolgimento dei bambini in guerra. Infatti, ad eccezione dell’Angola che con una legge varata nel 1998 ha abbassato l’età minima della leva dai 18 ai 17 anni, tutti gli altri paesi su citati prevedono che i giovani arruolati non abbiano meno di 18 anni. Possiamo comunque constatare che molto è stato fatto in Africa per la tutela dei fanciulli, ma molto resta ancora da fare. I bambini continuano ad essere vittime di violenze ed abusi inauditi. La normativa nazionale e internazionale in materia è molto vasta ed esaustiva ma si nota, soprattutto per ciò che riguarda le norme di carattere internazionale, una tendenza da parte degli Stati a disattendere tali norme. Sarebbe quindi auspicabile la creazione di Art.22: “1. Gli Stati parti alla presente Carta si impegnano a rispettare e a far rispettare le regole del diritto internazionale umanitario applicabile ai conflitti armati e che riguardano in particolare i minori. 2. Gli Stati parti alla presente Carta prendono tutte le misure necessarie per assicurare che nessun minore prenda direttamente parte alle ostilità e in particolare che nessun minore sia arruolato nelle proprie forze armate. 3. Gli Stati parte alla presente Carta devono, in conformità con gli obblighi che spettano loro in virtù del diritto internazionale umanitario, proteggere la popolazione civile in caso di conflitto armato e prendere tutte le misure possibili per assicurare la protezione e la cura dei minori colpiti da tale conflitto. Queste disposizioni si applicano anche ai minori nelle situazioni di conflitto armato interno, di tensione o di disordini civili”. 179 M. Agrimi, La tutela internazionale dei diritti del fanciullo, ONU ITALIA, consultato il 20/05/2010, http://www.onuitalia.it/diritti/infanzia/tutela.html 178

81


un organo di controllo per l’attuazione della normativa internazionale in materia di bambini anche con funzioni sanzionatorie. Gli Stati dovrebbero inoltre assumere un senso di responsabilità più ampio nei confronti di coloro che rappresentano il nostro futuro180. E’ qui che entra in gioco la cooperazione internazionale, che con i suoi progetti e programmi di sviluppo in vari settori cerca di promuovere il rispetto dei diritti dei minori e il pieno soddisfacimento delle

loro

necessità

contro

ogni

forma

di

discriminazione

e

sfruttamento attraverso varie strategie d’intervento che vedremo nel prossimo capitolo.

CAPITOLO 4 La cooperazione All’indomani della Seconda guerra mondiale, nel contesto dominato dal clima e dagli interessi della Guerra Fredda, un problema

centrale

nella

politica

internazionale

riguardava

le

prospettive di sviluppo economico e sociale delle regioni del sud del mondo. Occorreva uno sforzo comune di tutti i paesi per raggiungere 180

Ibidem

82


l’obiettivo dello sviluppo in quelle regioni, in cui la situazione delle condizioni di vita delle persone (igiene, salute, istruzione), le infrastrutture economiche e il quadro istituzionale erano inadeguate a garantire un processo virtuoso di sviluppo. Soprattutto i paesi che avevano una responsabilità storica, legata alla fase coloniale, come Francia e Gran Bretagna, e i paesi che uscivano vincitori dal conflitto e volevano proporsi come modello guida per gli altri, come USA e URSS, furono investiti da questo compito di cooperare allo sviluppo dei paesi del cosiddetto Terzo Mondo.181 I paesi sviluppati, quindi, attraverso la politica di cooperazione allo sviluppo (PCS) erano chiamati a aiutare i Paesi in via di sviluppo182 a superare i vincoli, interni alle economie e società di quei paesi, che ne impedivano il decollo economico. Sono considerati aiuti internazionali, o aiuto pubblico allo sviluppo (APS), i flussi finanziari che i governi statali e locali dei paesi industrializzati del Nord del mondo destinano ai PVS e alle istituzioni multilaterali con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo economico e il benessere sociale di questi paesi. Deve trattarsi di flussi finanziari che transitano a condizioni di particolare favore, non devono cioè essere crediti concessi al paese ricevente a condizioni di mercato, che obbligherebbero i PVS a ripagare tassi d’interesse elevati, trattandosi in tal caso di una comune transazione commerciale fatta a scopo di profitto. Deve invece prevalere la cosiddetta componente del “dono”, cioè un trasferimento corrispondente a un atto di liberalità del paese donatore, in cui l’obiettivo sia appunto lo sviluppo del PVS e non il proprio arricchimento183. Si tratta, quindi, di ogni forma d’intervento volto a incidere non solo nei rapporti a livello internazionale tra Nord

Terzo Mondo in quanto sistema di paesi non riconducibili al blocco dei paesi industrializzati dell’Occidente, né a quello contrapposto dei paesi comunisti. La definizione di Terzo Mondo, coniata nel 1952 dall’economista francese Albert Sauvy in un articolo dell’Observateur, fu successivamente affiancata da quella di Quarto Mondo, quando fu evidente che paesi in via di rapida industrializzazione, come quelli del sud-est asiatico, o esportatori di petrolio si trovavano in situazioni ben diverse da quelle drammatiche dei paesi dell’Africa sub-sahariana, il Quarto Mondo appunto. Su questo, cfr. M. Gay, G. Caputo, Manuale. Strumenti per la cooperazione, Roma, 2009, p. 7 182 Termine nato dalla concezione secondo cui l’Occidente, forte della sua esperienza, assistenza e supporto tecnologico, poteva indicare la rotta a tutti gli altri paesi considerati arretrati. Ibidem, p. 7 183 Ibidem, p. 7 181

83


e Sud, ma anche nelle strutture economiche e sociali delle stesse aree arretrate184. Secondo la definizione del Development Assistance Committee (DAC185) dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico186, il foro di discussione che coordina i principali paesi donatori, l’APS è costituito da risorse finanziarie pubbliche, sotto forma di doni o di prestiti a tasso agevolato, erogate con la finalità di supportare lo sviluppo economico del recettore, e da assistenza tecnica; non sono considerati tali i prestiti o l’assistenza a carattere militare. L’attuazione delle politiche di cooperazione allo sviluppo può essere

realizzata

da

organizzazioni

governative,

nazionali

o

internazionali, o da organizzazioni non governative (ONG). La PCS, però, non è il solo strumento attraverso cui i paesi industrializzati incidono sulle possibilità di sviluppo degli altri paesi. In tal senso, basti citare le politiche commerciali e migratorie. Inoltre l’APS non è la sola fonte di risorse finanziarie per lo sviluppo. Ad essa si accompagnano i mezzi propri dei paesi partner, in forma di risparmio nazionale o di reddito da esportazioni, le rimesse degli emigrati e i flussi d’investimenti dall’estero. L’origine della PCS viene fatta coincidere con i piani di ricostruzione postbellica e la creazione del sistema delle Nazioni Unite. Gran parte delle istituzioni e degli strumenti che caratterizzano il panorama odierno della cooperazione allo sviluppo sono stati creati negli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale.

A. Raimondi, G. Antonelli, Manuale di cooperazione allo sviluppo, Sei Editrice, Torino, 2001, pp. 1-2 Nato nel 1961, è un organismo dell’OCSE che raggruppa i 23 maggiori paesi donatori (Australia, Austria, Belgio, Canada, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Giappone, Lussemburgo, Olanda, Nuova Zelanda, Norvegia, Portogallo, Spagna, Svezia, Svizzera, Gran Bretagna, USA, Comunità Europea). Il Comitato ha una duplice finalità: indagare in che modo la cooperazione internazionale contribuisce alla capacità dei paesi beneficiari di partecipare e competere nell’economia globale e comprendere la reale capacità delle persone di combattere la povertà all’interno della società civile del proprio paese. Su questo,cfr. F. Bonaglia, V. de Luca, La cooperazione internazionale allo sviluppo, Bologna, Il Mulino, 2006, p. 10. 186 L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) costituisce l’evoluzione su scala mondiale dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE). L’OECE, istituita con il Trattato di Parigi del 16 aprile 1948, rispose all’esigenza di creare un meccanismo intergovernativo di gestione dell’assistenza finanziaria prestata dagli Stati Uniti e dal Canada in attuazione dell’European Recovery Program, più comunemente noto come Piano Marshall. Sulla storia, l’organizzazione e gli organi dell’OCSE vedi, E. Sciso, Appunti di diritto internazionale dell’economia, G. Giappichelli Editore, Torino, 2007, pp. 115-129 184 185

84


In particolare la Banca per la ricostruzione e lo sviluppo (BIRS) 187, parte del gruppo della Banca mondiale, (BM), il Fondo monetario internazionale

(FMI)188

e

l’Organizzazione

per

la

cooperazione

economica europea, trasformata nel 1961 nell’OCSE, cui fa capo il DAC. La PCS si prefigge una gamma di obiettivi ben più vasta che la ricostruzione fisica delle economie europee e l’industrializzazione delle ex colonie. Ad esempio, il testo base della Commissione europea sulla politica di cooperazione statuisce che il suo obiettivo è di favorire lo sviluppo economico e sradicare la povertà nei PVS, nonché di aiutare questi stessi paesi ad integrarsi nell’economia globale. In aggiunta a questi obiettivi economici e sociali, la politica comunitaria di sviluppo opera per il rafforzamento della democrazia e lo stato di diritto, promuovendo al contempo il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Gli obiettivi della PCS non sono, quindi, unicamente umanitari. La cooperazione allo sviluppo è parte integrante della politica estera di un paese, come dimostra il fatto che spesso (è il caso dell’Italia), essa fa capo al ministero degli Affari esteri (MAE) 189. Gli obiettivi della PCS sono sempre stati influenzati dalla situazione

politica

internazionale

e

dal

pensiero

economico

dominante in un certo periodo ed è per questo che la sua evoluzione storica si divide in fasi o decadi di sviluppo.

La Banca per la ricostruzione e lo sviluppo, il cui acronimo è BIRS, ma che solitamente è chiamata Banca Mondiale, nasce in esito alla Conferenza di Bretton Woods del luglio 1944, con lo scopo di diventare uno dei tre pilastri (insieme al Fondo Monetario Internazionale e al WTO) della nuova struttura preposta a regolare le relazioni economiche a livello globale. Gli obiettivi della BM erano la ricostruzione dei paesi devastati dalla guerra e, successivamente, lo sviluppo economico degli stati meno avanzati attraverso l’intermediazione di flussi di capitale privato, che agevolassero il finanziamento di specifici progetti d’investimento. Nell’ottica dei fondatori, pertanto, la BM doveva operare nel mediolungo periodo. In realtà, è stata la seconda delle due finalità suindicate quella che ha contraddistinto il funzionamento della Banca fin dall’inizio della sua attività; i suoi interventi, volti in modo specifico alla ricostruzione delle economie dei paesi usciti dal secondo conflitto mondiale furono, infatti, piuttosto limitati; E. Sciso, op. cit., p. 75 188 Il Fondo monetario internazionale nasce, unitamente alla Banca Mondiale, a conclusione della Conferenza di Bretton Woods nel 1944. L’accordo istitutivo è entrato in vigore il 27 gennaio 1945. Con la creazione del FMI i delegati dei 45 paesi presenti a Bretton Woods avevano in mente di trovare una soluzione che scongiurasse crisi finanziarie quali quelle che si erano verificate negli anni ’30, all’indomani della grande depressione. Le priorità che intendevano perseguire attraverso la nuova istituzione erano dunque quelle di evitare l’eccessiva fluttuazione dei valori delle monete e di garantire la convertibilità delle stesse. Sulla storia, la struttura, le risorse finanziarie, le funzioni e il ruolo del FMI si rimanda a E. Sciso, op. cit., pp.53-73 189 Ibidem, pp.10-11 187

85


La prima decade di sviluppo (dal 1960 al 1969) si era prefissata lo scopo di strappare i paesi poveri alla loro arretratezza seguendo le teorie della modernizzazione che si erano sviluppate in quegli anni. Secondo questo approccio la modernizzazione dei paesi arretrati equivale alla riproduzione, il più possibile fedele all’originale, del modello di sviluppo occidentale. Le teorie della modernizzazione proponevano ai paesi considerati arretrati l’obiettivo di avviare un percorso di sviluppo socio-politico e di crescita economica analogo a quello già compiuto dai paesi sviluppati. Lo sviluppo poteva essere ricondotto ad un processo di modernizzazione e industrializzazione volto a rimuovere gli ostacoli interni ai PVS per accelerarne il corso190. L’ONU ha dichiarato gli anni Sessanta “la decade dello sviluppo” e ha fatto

appello

ai

paesi

industrializzati

affinché

aumentassero

considerevolmente le risorse destinate all’APS191. La fine degli anni Sessanta coincise, però, con la conclusione del ciclo apertosi nei primi anni del dopoguerra e caratterizzato da una crescita costante del PIL mondiale a bassi tassi d’inflazione, ciclo che offriva ai PVS opportunità di sviluppo senza precedenti. Vi fu il generale rallentamento della crescita mondiale, l’entrata in crisi del sistema monetario internazionale che culminò nel 1971 con la fine della convertibilità del dollaro e del sistema di Bretton Woods, per la decisione degli Stati Uniti di modificare il sistema di garanzia, rinunciando alla troppo onerosa parità di rapporto con l’oro e di lasciar fluttuare la loro moneta. L’aumento

dei

prezzi

dei

prodotti

combustibili,

la

differenziazione in termini di strategie di sviluppo e dei risultati dei PVS, resero evidente che la semplice riproposizione di un unico modello di sviluppo basato sulla modernizzazione, valido per tutti i paesi, non era in grado di offrire la soluzione per la crescita sociale e economica dei paesi meno avanzati. Infatti i tassi più elevati di sviluppo durante il periodo 1960-1979 furono registrati dai PVS che

190

191

Cfr, W.W. Rostow, The stages of economic growth, Cambridge, Cambridge University Press, 1960 A.Bianco, Introduzione alla sociologia dello sviluppo, Milano, Franco Angeli, 2004, pp. 44-125

86


erano partiti con reddito pro-capite maggiore e con certe potenzialità industriali. Durante questo periodo emersero anche nuove tendenze nel commercio internazionale: la crescita del volume delle esportazioni di prodotti industriali dai PVS verso i paesi industrializzati a seguito della crescita di competitività di alcuni PVS in via di rapida industrializzazione (NIC)192 e la riduzione della quota del commercio mondiale dovuta ai prodotti primari non combustibili in conseguenza della diminuita domanda di questi ultimi da parte dei paesi avanzati. I NICs e i paesi esportatori di petrolio contribuirono largamente allo sviluppo del commercio interregionale tra i PVS, allentando in modo significativo

la

polarizzazione

del

rapporto

tra

PVS

e

paesi

industrializzati. D’altro canto gli altri PVS, specialmente quelli dell’Africa sub-sahariana e quelli latinoamericani, a seguito del deterioramento delle ragioni di scambio e della debolezza della domanda da parte dei paesi industrializzati causata soprattutto dagli schoks petroliferi degli anni Settanta, andarono incontro a crescenti deficit delle proprie bilance dei pagamenti193. Tale situazione si complicò per la notevole massa di liquidità a livello internazionale in conseguenza dei surplus dei paesi produttori di petrolio e fu all’origine dell’innescarsi della spirale del debito che culminò, a seguito del rialzo dei tassi d’interesse e dell’apprezzamento del dollaro, con la crisi debitoria degli anni Ottanta. Infatti, moltissimi paesi in via di sviluppo, approfittando di tali disponibilità di denaro, i cosiddetti petrodollari, in cerca di collocazione e anche di utili, ricorsero al credito in modo sconsiderato e senza troppo pensare alle future restituzioni. La differenziazione tra i PVS in termini di strategie e risultati con la netta contrapposizione tra paesi aventi economie definite “outward oriented”194 e paesi con economie “inward oriented”195

Newly Industrialized Countries A. Frau, Il diritto della cooperazione internazionale allo sviluppo, Padova, Cedam, 2005, pp. 47-49 194 Si tratta delle economie basate sullo sviluppo delle esportazioni 195 Si tratta delle economie basate sulla politica di sostituzione delle importazioni con le produzioni nazionali 192 193

87


portarono a un ripensamento delle teorie dello sviluppo degli anni Sessanta basate sulla modernizzazione196. La seconda decade di sviluppo (dal 1970 al 1979) si proponeva, quindi, di valutare con maggiore attenzione le politiche di sviluppo fino ad allora condotte. Da una parte il successo delle strategie adottate dai NICs portarono nuovamente in auge le teorie neoclassiche197 del commercio internazionale e della liberalizzazione commerciale198 come elementi fondamentali di una strategia di sviluppo vincente. Dall’altra gli insoddisfacenti risultati in termini di crescita di molti PVS africani e latino-americani, accompagnati in molti casi da un peggioramento della situazione sociale contrassegnata da disoccupazione massiccia e povertà diffusa, portarono all’elaborazione di teorie dello sviluppo basate sull’auto-sviluppo (self-reliance), come sostenuto dalle teorie neo-marxiste, dalla teorie della dipendenza e dalla teoria dei bisogni fondamentali. Le teorie neo-marxiste utilizzano gli schemi marxisti di plusvalore, di produzione e di appropriazione dello stesso, applicate alla realtà del sottosviluppo. Tuttavia, a differenza dei marxisti ortodossi per i quali il modo di produzione capitalistico si sarebbe diffuso nei PVS eliminando progressivamente i modelli di produzione tradizionali e feudali, i neo-marxisti individuano il sottosviluppo del Terzo Mondo come prodotto delle relazioni con il nord. In tal modo nei PVS non ci sarebbe una contrapposizione tra settori avanzati e settori arretrati,

destinati

dell’economia

di

a

scomparire

mercato,

ma

a

seguito

esisterebbe

della

un’unica

diffusione economia

mondiale basata su relazioni commerciali tra un Centro e varie A. Frau, op. cit., p.49 L’approccio neoclassico allo studio dello sviluppo e, in generale, al funzionamento dell’economia si basa su alcuni assunti quali, mercati perfettamente concorrenziali, piena disponibilità delle informazioni, comportamento razionale dei soggetti economici, mobilità dei fattori di produzione, con una fiducia completa nella capacità del mercato di assicurare le condizioni necessarie per lo sviluppo economico. Queste teorie fanno riferimento alle analisi classiche dell’economia di Smith e Ricardo. Su questo, cfr, A. Smith, Teoria dei sistemi morali, Rizzoli, Milano, 1995 (ed. or. 1759); A. Smith, La ricchezza delle nazioni, Newton Compton, Milano, 1995 (ed. or. 1776) 198 Le teorie del commercio internazionale di derivazione classica e neo-classica sono basate sull’assunto della libera circolazione dei fattori di produzione e sulla concorrenza perfetta dei mercati dei beni e dei fattori di produzione. Sulla base di tali assunti il commercio internazionale si sviluppa tra paesi, ognuno dei quali tende a specializzarsi nelle produzioni di cui ha un vantaggio comparato maggiore in funzione di dotazione di fattori di produzione e di materie prime. A. Frau, op. cit., p. 50 196 197

88


Periferie dipendenti da esso. In definitiva, il capitalismo viene visto come un insieme di relazioni di scambio commerciale e il commercio internazionale come un serio ostacolo sulla strada dello sviluppo199. Inoltre, nelle tesi neo-marxiste, non viene posta alcune speranza nel riformismo e nella politica di aiuti allo sviluppo200. Le caratteristiche della Teoria della Dependencia sono, invece, date dal fatto che gli autori sono prevalentemente economisti e sociologi dell’America Latina dediti allo studio della realtà di quell’area del mondo e soprattutto dal loro metodo di affrontare i problemi dello sviluppo dal punto di vista dei paesi arretrati e non secondo una prospettiva universalistica che tenga conto delle economie dei paesi avanzati. I teorici di quest’orientamento parlavano di sottosviluppo del Terzo Mondo e non di mancato sviluppo. Ritenevano, infatti, che le cause del sottosviluppo non fossero endogene, ossia non risiedessero nell’arretratezza delle strutture sociali e istituzionali o nei valori tradizionali di questi paesi, bensì esogene e dovute al fatto che i paesi più poveri sono parte integrante dell’ordine economico internazionale201. Si riconosce che la crescita del reddito non fosse sufficiente a ridurre la povertà. Gli aiuti dovevano allora focalizzarsi su azioni e risultati concreti di cui beneficiavano direttamente i poveri, quali vaccinazioni, accesso all’acqua,

costruzione

di

scuole,

case

e

infrastrutture

rurali.

Nonostante questo, il decennio 1970-80 è stato caratterizzato da un sostanziale deterioramento delle condizioni economiche di molti PVS202. La teoria dei bisogni fondamentali ha rappresentato un ulteriore contributo nel considerare lo sviluppo in maniera più ampia e non solamente come un mero processo di crescita del reddito prodotto come avveniva nelle prime elaborazioni teoriche sullo Su questo cfr, A. G. Frank, Capitalismo e sottosviluppo in America latina, Einaudi, Torino, 1968 A. Frau, op. cit., pp. 50-51 201 A.Bianco, op. cit., pp. 44-125 8 F. Bonaglia, V. de Luca, op. cit., pp. 17-19 199 200

202

89


sviluppo sulla base delle teorie della modernizzazione e dello strutturalismo. Il perdurare di condizioni di vita al di sotto della sussistenza, pur in presenza di elevati tassi di sviluppo del PIL, ha spinto a porre come obiettivo primario di ogni strategia di sviluppo e di aiuto internazionale il raggiungimento di standard di vita accettabili per le fasce più povere della popolazione. Ciò significa la soddisfazione

dei

bisogni

fondamentali

come

l’alimentazione,

l’istruzione di base, la sanità, la casa, i servizi pubblici. Pur con evidenti limiti e contraddizioni, le elaborazioni teoriche e le strategie di aiuto allo sviluppo di questo periodo hanno avuto il merito di evidenziare alcuni aspetti particolari della struttura economica dei paesi arretrati che l’approccio basato sui processi di modernizzazione aveva trascurato203. La terza decade (dal 1980 al 1989) è stata poi ribattezzata come “il decennio perduto”, poiché i deboli segnali di miglioramento che in alcuni campi si erano conseguiti a seguito degli interventi promossi negli anni precedenti, vennero spenti dal generalizzato peggioramento della situazione del Sud del Mondo. In questo periodo si assistette alla crescita del numero dei paesi più poveri, alcuni dei quali subirono un peggioramento delle loro condizioni di vita. Secondo lo Human Development Report del 1990, nei PVS il numero dei poveri e di quanti soffrono la fame aumentò nel corso degli anni Ottanta e la mortalità infantile riprese a crescere soprattutto in Africa. In numerose realtà, inoltre, l’accesso all’acqua potabile continuò ad essere negato con il conseguente propagarsi di infezioni e malattie e la mancanza di servizi sanitari di base. Per quanto riguarda il tasso di alfabetizzazione si è rilevato che in quegli anni era molto alto il numero dei bambini e dei ragazzi che frequentavano sporadicamente la scuola o non la frequentavano affatto. Tra la popolazione adulta le più svantaggiate erano e continuano ad essere le donne, i cui tassi di alfabetizzazione raggiungono, in alcune regioni, appena la metà di quello degli uomini. Un altro elemento che ha drammaticamente caratterizzato gli anni Ottanta è stato il fenomeno delle migrazioni, 203

A. Frau, op. cit., pp. 53-54

90


dovute a povertà, fame o disastri ambientali, ma anche a guerre, come nel caso dell’Uganda, e persecuzioni. Particolarmente grave è stato il fenomeno dei profughi, cui le organizzazioni di assistenza internazionale

hanno

dovuto

provvedere

in

condizioni

di

emergenza204. Tutto questo è stato la conseguenza di molti fattori tra cui il concomitante scoppio della crisi del debito in molti PVS, il persistente divario di sviluppo tra Nord e Sud del mondo, la crescente disillusione circa l’efficacia degli aiuti, le responsabilità delle leadership africane, l’arrivo al governo dei principali paesi occidentali di amministrazioni conservatrici e l’avvicendamento al vertice della Banca Mondiale e del FMI di una nuova generazione di economisti liberisti che hanno aperto la strada all’era dell’aggiustamento strutturale205. Con questo termine s’intende un programma di politica economica che prevede una serie di misure volte alla stabilizzazione dell’economia, privatizzazione dei servizi e adozione del libero scambio per quanto riguarda il commercio con l’estero. Lo scopo di queste misure è di ripristinare e migliorare la concorrenzialità dei paesi interessati, di ristabilire la loro credibilità soprattutto in campo finanziario, di rimettere in ordine il bilancio statale, combattendo l’inflazione e agendo sui tassi d’interesse, in modo da creare un clima propizio agli investimenti soprattutto stranieri. Ma l’insieme di queste operazioni avviate sotto la regia di organismi internazionali quali la Banca Mondiale e il FMI, di concerto con le banche creditrici e i governi dei paesi interessati, dimostra che tali misure sconvolgono la vita delle popolazioni locali, in primo luogo quella degli strati sociali più deboli, poiché il risparmio sulla spesa pubblica comporta una riduzione dei contributi da destinare ai servizi sociali, anche di primaria

importanza

come

quelli

sanitari

e

della

formazione

scolastica206. Riconoscendo queste necessità, la parola chiave della PCS della quarta decade di sviluppo (dal 1990-al 1999) diventa ownership, a A. Bianco, op. cit., pp. 126-127 F. Bonaglia, V. de Luca, op. cit., pp. 19-21 206 G. Scidà, Avventure e disavventure della sociologia dello sviluppo, Franco Angeli, Milano, 2004, pp. 184-220 204 205

91


indicare l’appropriazione del processo decisionale da parte degli attori locali, da realizzarsi attraverso il coinvolgimento di tutti coloro che hanno un interesse nel processo di sviluppo, i c.d. stakeholders. Di conseguenza, i programmi di aggiustamento strutturale vennero affiancati da documenti strategici per la riduzione della povertà. Molte agenzie di cooperazione e istituzioni internazionali abbracciarono il cosiddetto “approccio partecipativo” allo sviluppo e affidarono in misura crescente la realizzazione dei propri programmi di cooperazione direttamente a ONG, che sono diventati così attori fondamentali nel panorama della cooperazione allo sviluppo207. Per le politiche di cooperazione e sviluppo degli anni Novanta, quindi, individuare strategie, metodologie e procedure atte a rendere operativa la nuova visione di sviluppo umano sostenibile ha rappresentato un passaggio obbligato. Il rapporto di partenariato tra comunità locali organizzate si propone come la risposta a tale imperativo, più innovativa e più ricca di potenzialità. In questi anni la necessità

di

confrontarsi

con

processi

di

crescita

economica

accompagnati da un aumento delle disuguaglianze sociali e dalla presenza di una disoccupazione preoccupante e persistente, porta le politiche di sviluppo a dirigere la propria attenzione verso la dimensione locale e a valorizzare, in particolare, il potenziale occupazionale che può essere mobilitato da iniziative di sviluppo collocate a tale livello208. Da questa visione nasce la cooperazione decentrata che si affianca ai due tipi già esistenti: quella bilaterale, con la quale s’intendono gli aiuti concessi direttamente da paese a paese tramite accordo diretto tra nazione donatrice e beneficiaria e comprendono sia

i

programmi

governativi

che

non

governativi,

e

quella

multilaterale che è costituita, invece, da finanziamenti dei vari paesi a organismi internazionali delle Nazioni Unite che li utilizzano per realizzare progetti di sviluppo nel Sud del mondo. La cooperazione Italiana ha realizzato in questi ultimi anni molti interventi a favore 207

208

F. Bonaglia, V. de Luca, op. cit., pp. 24-25 V. Ianni, La cooperazione decentrata allo sviluppo, Rosenberg&Sellier, Torino, 1999, pp. 62-65

92


della

promozione

e

della

tutela

dei

diritti

dell’infanzia

e

dell’adolescenza attraverso il canale multilaterale209. 4.1 La cooperazione decentrata allo sviluppo La

cooperazione

decentrata

si

propone

di:

stabilire

un

collegamento tra politiche di sviluppo locali e nazionali; favorire il rafforzamento della società civile, con la creazione di meccanismi di dialogo e negoziato tra gli attori sociali e le istituzioni pubbliche presenti nel territorio e con il loro inserimento in reti nazionali e internazionali; promuovere il superamento del gap tradizionalmente esistente tra interventi macro e micro per mezzo del coordinamento territoriale, che opera come spinta alla coerenza anche per i diversi donatori internazionali; assicurare la sostenibilità dei processi di sviluppo avviati attraverso l’appoggio dato alla crescita di autonomia e

responsabilità

dei

soggetti

del

sud;

sostenere

processi

di

pacificazione e di democratizzazione, o modalità di cooperazione che prevedano il sostegno alle forme di concertazione e alla nuova istituzionalità che emerge dagli accordi di pace210. Di qui la possibile complementarità nella cooperazione tra comunità organizzate e i programmi delle Nazioni Unite e di altri organismi internazionali, che hanno l’obiettivo di sviluppare politiche e strumenti di decentramento e si propongono come riferimento per i progetti definiti e gestiti in un territorio determinato. La Direzione generale per la cooperazione e lo sviluppo (DGCS)211 del Ministero degli Affari Esteri italiano riconosce a questa forma innovativa di aiuto allo sviluppo un rilevante valore aggiunto A. Raimondi, G. Antonelli, op. cit., pp. 3-10 V. Ianni, op. cit., pp.66-70 211 La Direzione generale per la cooperazione e lo sviluppo (DGCS) è l’organo preposto ad attuare le varie politiche di cooperazione, elaborare, programmare ed applicare gli indirizzi della politica di cooperazione e le politiche di settore tra cui sanità, ambiente e sviluppo imprenditoriale locale. Attua iniziative e progetti nei PVS, effettua interventi di emergenza e fornisce aiuti alimentari, gestisce inoltre la cooperazione finanziaria e il sostegno all’imprenditoria privata e alla bilancia dei pagamenti dei PVS. La Direzione Generale è anche competente per quanto riguarda i rapporti con le Organizzazioni Internazionali che operano nel settore, e con l’UE, con le quali collabora finanziariamente ed operativamente per la realizzazione di specifici programmi. Cura, infine, i rapporti con le ONG e il volontariato e promuove la cooperazione universitaria anche attraverso la formazione e la concessione di borse di studio in favore di cittadini provenienti dai PVS; Cooperazione italiana allo sviluppo, Direzione generale cooperazione e sviluppo, Ministero degli affari esteri, consultato il 5/08/2010, http://www.cooperazioneallosviluppo.esteri.it/pdgcs/italiano/DGCS/intro.html 209 210

93


rispetto sia alla cooperazione governativa che non governativa, soprattutto nei settori della lotta alla povertà e all’esclusione sociale e della promozione della democrazia. Le regioni italiane, dal canto loro, investono una quota crescente delle loro risorse di bilancio in attività di

cooperazione

allo

sviluppo.

Secondo

una

recente

stima

l’ammontare degli stanziamenti regionali ha raggiunto un totale di circa 36 milioni di euro nel 2003, a cui vanno aggiunti gli apporti di Enti locali, associazioni e altri soggetti pubblici e privati212. L’efficacia della cooperazione decentrata dipende strettamente dalla capacità della DGCS di mettere a disposizione degli enti locali risorse e programmi idonei a orientare, coordinare e cofinanziare i singoli interventi evitando dispersioni, duplicazioni e frammentazioni. Da tempo la DGCS ha assunto la cooperazione decentrata come una componente importante dell’aiuto pubblico allo sviluppo italiano. La sua azione tende essenzialmente a fornire alle autonomie locali dei quadri di riferimento entro cui inserire le proprie iniziative al fine di renderle coerenti con la nostra politica di cooperazione e possibilmente complementari con i nostri interventi213.

4.2 Le organizzazioni non governative Gli attori principali delle politiche di cooperazione decentrata sono le ONG. La categoria delle Organizzazioni non governative (ONG) abbraccia una vasta gamma di associazioni senza scopo di lucro214, attive nella realizzazione di progetti di sviluppo nei PVS e nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica sull’importanza dell’aiuto allo sviluppo. Le ONG svolgono un ruolo decisivo nell’ambito del partenariato globale per la lotta alla povertà e sono allo stesso tempo soggetti attivi ed essenziali dei processi di rafforzamento delle istituzioni della società civile nei paesi beneficiari. I progetti delle ONG hanno come base di partenza il rispetto dei criteri di giustizia e 212

Relazioni annuali sull’attuazione della politica di cooperazione allo sviluppo, anni 2000-2004, Ministero degli affari esteri, Cooperazione italiana allo sviluppo 213 A. Frau, op. cit., pp. 222-240 214 M. Musella, S. D’Acuto, Economia politica del non profit, G. Giappichelli Editore, Torino, 2004, pp. 2-4

94


equità; i loro campi d’intervento sono molto vasti e riguardano, a vari livelli, la politica estera, l’economia, la difesa dei diritti umani, la globalizzazione, la questione del debito estero, le relazioni tra Nord e Sud del mondo e la pace. Le prime ONG sono nate all’inizio degli anni ’60 come movimento associativo spontaneo in risposta ad un bisogno sempre più impellente di entrare in contatto diretto con i bisogni delle popolazioni del Sud del mondo e di rispondervi con la partecipazione e la solidarietà, con l’obiettivo di giungere ad una visione politica comune delle loro problematiche215. A partire dagli anni ’70, un gran numero di ONG italiane ha deciso di aderire a tre grandi federazioni che le raggruppano e svolgono un ruolo di coordinamento: -

la

FOCSIV

(Federazione

Organismi

Cristiani

Servizio

Internazionale Volontariato) conta 56 membri che condividono l’ispirazione cattolica; - il COCIS (Coordinamento delle Organizzazioni non governative per la Cooperazione Internazionale allo Sviluppo) raggruppa 28 ONG; - il CIPSI (Coordinamento d’iniziative Popolari di Solidarietà Internazionale) raggruppa 25 ONG. Pur

essendo

essenzialmente

associazioni

che

impiegano

volontari costituiscono una realtà molto diversa dal volontariato comunemente

inteso

professionalmente

perché

finalizzata

la allo

loro

struttura

svolgimento

delle

operativa

è

attività

di

cooperazione e composta da cooperanti integrati professionalmente nell’organizzazione di cui fanno parte. Sono proprio loro il vero patrimonio delle ONG, le risorse umane. Gli operatori impegnati nei PVS sono protagonisti e testimoni del dialogo tra Nord e Sud del mondo e incarnano, nel loro quotidiano, la funzione più specifica e cruciale di ogni ONG, che non si limita ad alleviare le situazioni di povertà, disagio e sofferenza, ma

215

A. Raimondi, G. Antonelli, op. cit., pp. 35-45

95


tende ad inserirsi e ad incidere concretamente nei processi sociali e politici delle comunità in cui opera216. I vantaggi delle ONG risiedono nella loro conoscenza del territorio, flessibilità, neutralità e indipendenza e possono anche essere uno strumento importante per favorire il rafforzamento della società civile e della democrazia nei PVS. Le ONG diventano, a partire dagli anni Novanta, lo strumento per la realizzazione dei progetti di cooperazione finanziati dal donatore, garantendo il coinvolgimento della società civile e degli attori locali217. 4.3 Le attività di cooperazione italiana in Uganda I rapporti tra Italia e Uganda si sono instaurati alla fine del 1800 con la presenza di una consistente comunità di missionari cattolici italiani arrivati dal Sudan, e sono continuati a crescere soprattutto nel campo dell’istruzione e degli interventi sanitari. Dopo il raggiungimento dell’indipendenza dell’Uganda, nel 1974, le relazioni tra il governo italiano e quello di Kampala sono state formalizzate con un accordo di cooperazione bilaterale ed il coordinamento di tutte le attività tramite l’Ambasciata d’Italia a Kampala. Questo tipo di cooperazione si è però interrotta dal 1979 al 1981 a causa dei conflitti interni ugandesi, mentre alcune ONG italiane hanno continuato ad assistere la popolazione. Nel 1993 è stato firmato un accordo successivo che ha portato alla costituzione di un’Unità Tecnica Locale (UTL)218 a Kampala. 216

F. Bonaglia, V. de Luca, op. cit., pp. 38-40 Ibidem, pp. 62-63 218 Le Unità tecniche locali sono istituite nei Paesi in via di sviluppo con accreditamento diretto presso i Governi interessati nel quadro degli accordi di cooperazione. Sono costituite da esperti dell’Unità tecnica centrale e da esperti tecnico-amministrativi assegnati dalla Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo nonché da personale esecutivo e ausiliario assumibile in loco con contratti a tempo determinato. I compiti delle unità tecniche consistono: nella predisposizione e nell'invio alla Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo di relazioni, di dati e di ogni elemento di informazione utile all'individuazione, all’istruttoria e alla valutazione delle iniziative di cooperazione suscettibili di finanziamento; nella predisposizione e nell'invio alla Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo di relazioni, di dati e di elementi di informazione sui piani e programmi di sviluppo del Paese di accreditamento e sulla cooperazione allo sviluppo ivi promossa e attuata anche da altri Paesi e da organismi internazionali; nella supervisione e nel controllo tecnico delle iniziative di cooperazione in atto; nello sdoganamento, controllo, custodia e consegna delle attrezzature e dei beni inviati dalla Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo; nell’espletamento di ogni altro compito atto a garantire il buon andamento delle iniziative di cooperazione nel Paese. Ciascuna Unità tecnica é diretta da un Esperto dell’Unità tecnica centrale, che risponde, anche per quanto 217

96


Nel 2002 l’impegno italiano ha portato alla finalizzazione di un accordo attraverso il quale il nostro governo si è impegnato a fornire un sostegno all’eliminazione della povertà (Poverty Eradication Action Plan, PEAP) attraverso diverse iniziative nei settori sanitari e agricoli, per rafforzare le politiche di lotta contro l’HIV/AIDS e valorizzare meglio i servizi d’istruzione pubblica. Nel frattempo, l’Italia ha concesso all’Uganda la cancellazione di 130 milioni di euro in debito bilaterale per le iniziative del Poverty Action Fund (PAF) nell’ambito del programma per i paesi fortemente indebitati219. A partire dal 1987, il problema del debito dei PVS e l’individuazione di possibili soluzioni ha costituito un tema ricorrente all’interno delle Dichiarazioni finali del G-7220. Nei Vertici di Lione, nel 1996

e

di

Denver,

nel

1997,

si

è

cominciato

a

discutere

approfonditamente dell’argomento e, da quel momento, la questione è stata regolarmente inserita nell’agenda dei successivi incontri. In occasione del Vertice di Colombia del 1999, è stato varato il c.d. Programma Enhanced HIPC Initiative221, diretto a ridurre l’esposizione debitoria dei più poveri dei paesi meno avanzati, che ha trovato attuazione attraverso specifiche azioni promosse dal FMI, dalla BM e dal Club di Parigi222. All’iniziativa possono accedere quei Paesi che, oltre

ad

essere

eleggibili

ai

prestiti

altamente

concessionali

riguarda l'amministrazione dei fondi, al capo della rappresentanza diplomatica competente per territorio. Le Unità tecniche sono dotate dalla Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo dei fondi e delle attrezzature necessarie per l'espletamento dei compiti ad esse affidati; Cooperazione italiana allo sviluppo, Unità tecniche locali, Ministero degli affari esteri, consultato il 9/07/2010, http://www.cooperazioneallosviluppo.esteri.it/pdgcs/italiano/DGCS/utl/intro.html Sul problema del debito estero dei PVS vedi, Sampson, The Money Lenders, London, 1981; Andres-Schipani (a cura di), Debito internazionale. Principi generali del diritto. Corte internazionale di giustizia, Roma, 1993 220 Durante gli anni ’70 e ’80, i c.d. Vertici G-7 avevano affrontato piuttosto questioni inerenti alle politiche macroeconomiche dei Paesi, alla stabilità del sistema dei tassi di cambio e al commercio internazionale. Progressivamente, l’oggetto delle discussioni e del coordinamento tra gli Stati partecipanti al Vertice si è esteso ad altre questioni d’interesse comune, tra cui la prevenzione dei conflitti internazionali, la lotta alla proliferazione delle armi di distruzione di massa, all’AIDS, al terrorismo e alla corruzione, ai rapporti Est- Ovest e alla protezione dell’ambiente. Cfr, Malaguti, Crisi dei mercati finanziari e diritto internazionale, Milano, 2003; Rosano, La cooperazione al Vertice, in Tosano (a cura di), Contributi allo studio del diritto internazionale dell’economia, Rimini, 1993, pp. 76 ss. 221 Nell’ambito dell’iniziativa HIPC con l’espressione “cancellazione del debito” si deve intendere sempre una riconversione del debito stesso. Viene, cioè, graziata allo Stato debitore la somma che avrebbe dovuto ripagare a titolo di debito, con la condizione che tale somma venga però impiegata, dallo Stato medesimo, e su indicazione dello Stato creditore, nella realizzazione di altre opere, quali, ad esempio, la costruzione di scuole o d’impianti idrici. Attualmente i Paesi eleggibili all’iniziativa HIPC rafforzata sono 37, di cui 32 dell’Africa sub-sahariana, 4 dell’America Latina e 1 dell’Asia. 222 Cfr, E. Sciso, op. cit., pp. 41-44 219

97


dell’International Development Association, (IDA)223, abbiano un debito valutato come insostenibile sulla base di analisi finanziarie effettuate dagli esperti delle istituzioni finanziarie internazionali. Attualmente la cooperazione italiana in Uganda è coinvolta nell’attuazione di diversi progetti in materia di salute, sicurezza, infrastrutture e educazione, anche se gioca un ruolo primario soprattutto sotto il profilo delle politiche di sviluppo del settore sanitario, dove si concentra oltre il 50% del sostegno italiano. Particolarmente attivo è stato, inoltre, il Programma di Emergenza a favore delle popolazioni vittime della guerriglia dell’LRA nel nord del paese. Le principali iniziative finanziate negli ultimi anni dal Ministero degli Affari Esteri a sostegno dell’istruzione e dei minori sono: 

Emergenza in favore delle popolazioni del Nord Uganda

vittime della guerriglia dell’LRA. Il programma finanzia iniziative di emergenza volte ad alleviare le sofferenze di centinaia di sfollati nel nord Uganda vittime della guerriglia dell’LRA. In particolare le attività previste sono rivolte alla tutela dei minori ad alto rischio sociale residenti nei campi di sfollati attraverso: il reinserimento in scuole/convitto di adeguato livello educativo, il sostegno del ruolo educativo e di

protezione delle scuole rurali

e dei

genitori,

investimenti finalizzati a creare attività generatrici di reddito, l’inserimento nel mercato del lavoro delle ragazze in situazione precaria, il recupero della cultura Acholi ed infine iniziative sanitarie che assicurino il parto gratuito e assistito per le minorenni vittime di abuso sessuale. Importo complessivo: 1.000.000 euro Forma: Dono – Ordinaria Canale: Bilaterale Gestione: Diretta Ente esecutore: DGCS – Direzione Generale Cooperazione Sviluppo Seconda organizzazione del gruppo Banca Mondiale insieme alla BIRS, è nata nel 1960 e opera come sportello della BIRS, erogando prestiti, come quest’ultima, sebbene esclusivamente in favore degli Stati membri, con la particolarità che i beneficiari dei prestiti dell’IDA sono gli Stati più poveri del pianeta. Cfr, ibidem, pp. 81-82 223

98


Iniziativa

di

emergenza

in

favore

delle

popolazioni

vulnerabili del Nord Uganda avviato il 18 agosto 2008 avente durata 12 mesi. L’iniziativa mira a contribuire alla protezione sociale dei gruppi a rischio, in particolare adolescenti, già pesantemente provati dalla lunga permanenza forzata nei campi degli sfollati, garantendone inoltre la sicurezza alimentare, attraverso il sostegno per la coltivazione dei terreni e il ripristino del patrimonio zootecnico. A questi interventi saranno affiancate al contempo iniziative per il ripristino dei servizi di base ed educativi nelle aree di rientro. Importo complessivo: 2.000.000 euro Forma: Dono – Emergenza Canale: Bilaterale Gestione: Diretta Ente esecutore: DGCS – Direzione Generale Cooperazione Sviluppo Controparte: Governo e enti locali 

Programma di cooperazione con l’Università di Makerere,

Facoltà di Tecnologia avviato il primo novembre 2006 avente durata tre anni. L’iniziativa ha l’obiettivo di ampliare e migliorare l’offerta dei servizi erogati agli studenti universitari della Facoltà di Tecnologia dell’Università di Makerere. Tale supporto viene fornito sia sotto il profilo logistico che finanziario. Esso si fonda sulla realizzazione di Master di specializzazione, sull’assegnazione di borse di studio per corsi di approfondimento rivolti a studenti ugandesi e sulla realizzazione di quattro progetti di ricerca applicata nei settori di sviluppo rurale, meccanizzazione agricola, controllo ambientale e sviluppo della piccola e media impresa. Importo complessivo: 1.815.000 euro Forma: Dono – Ordinaria Canale: Bilaterale Gestione: Diretta Ente esecutore: DGCS – Direzione Generale Cooperazione Sviluppo 99


Oltre a questi interventi, la cooperazione italiana finanzia ogni anno diverse ONG che sviluppano progetti in settori strategici quali la sanità, lo sviluppo agricolo e rurale, la gestione delle risorse idriche e l’istruzione. Molti sono anche stati i programmi concepiti nell’ottica dell’impegno multilaterale224. Per quanto riguarda le maggiori organizzazioni non governative, operanti in Nord Uganda e riconosciute dal Ministero degli Affari Esteri, merita menzionare AMREF, CESVI, COOPI, Fondazione AVSI, Fondazione Onlus Piero e Lucille Corti e l’Associazione Good Samaritan Onlus. AMREF (African Medical and Research Foundation) è stata creata in Africa nel 1957 come organizzazione sanitaria, con l’obiettivo di favorire lo sviluppo sanitario, sociale e culturale delle popolazioni più povere attraverso il loro attivo coinvolgimento. La sede

italiana

è

stata

costituita

nel

1988

e

ha

ottenuto

il

riconoscimento del Ministero degli Esteri italiano come ONG di cooperazione internazionale nel 2002. Realizza progetti di sviluppo sanitario e sociale e corsi di formazione per personale locale in numerosi paesi africani: Sudan, Etiopia, Somalia, Uganda, Kenya, Rwanda, Tanzania, Mozambico e Sud Africa. AMREF ITALIA è attiva in Nord Uganda dal 1989 con progetti di sviluppo nel settore sanitario, idrico, educativo e di protezione dell’infanzia. AMREF Uganda è la principale controparte locale, insieme ad altre organizzazioni locali. AMREF collabora con le autorità locali e ne rafforza le competenze. Tra i principali progetti realizzati o in corso di realizzazione figurano: Programma completo di vaccinazione per l’infanzia nei distretti

di

Gulu,

Kitgum,

Pader

e

Amuru;

programma

di

miglioramento dell’approvvigionamento idrico e delle condizioni sanitarie; promozione dell’educazione secondaria femminile per il miglioramento delle condizioni sanitarie; protezione dell’infanzia ed educazione sessuale e riproduttiva; miglioramento dei servizi di Ministero degli esteri, consultato il 23/5/2010, http://www.cooperazioneallosviluppo.esteri.it/pdgcs/italiano/iniziative/Paese.asp?id=96 224

10


assistenza pediatrica nel distretto di Gulu; miglioramento della salute materno-infantile225. CESVI è un'organizzazione umanitaria laica e indipendente, fondata in Italia nel 1985. Con oltre 30 sedi estere, opera in tutti i continenti per affrontare ogni tipo di emergenza e ricostruire la società civile dopo guerre e calamità. Le aree d’intervento primarie dell’organizzazione sono: salute con progetti a favore della salute materno infantile e di lotta contro malattie endemiche (come malaria e AIDS); infanzia e giovani con la realizzazione delle Case del Sorriso; acqua e igiene ambientale; ambiente e sviluppo sostenibile; social business (imprese sociali e microcredito). In Italia e in Europa, svolge attività d'educazione per diffondere tra i giovani e l’opinione pubblica la cultura della solidarietà mondiale e dello sviluppo sostenibile. I finanziamenti provengono da istituzioni pubbliche ma anche da donatori privati e aziende. Cesvi è attivo in Uganda dal 2000 con interventi nel settore idrico e sanitario e attività di sostegno all’imprenditoria femminile e giovanile; è impegnato in Nord Uganda nei distretti di Apac e Pader, nei pressi della capitale Kampala nel distretto di Kayunga e nel nuovo distretto di Bukedea, sia nei campi sfollati sia nei nuovi insediamenti, attraverso

l’implementazione

di

molteplici

progetti

nei

settori

sanitario, educativo, agricolo, nella fornitura di accesso all’acqua potabile e ai servizi igienici, sicurezza alimentare e scuola, lotta all’HIV/AIDS, sostegno degli anziani con orfani a carico226. COOPI, Cooperazione Internazionale, è una ONG laica e indipendente nata a Milano nel 1965 che vuole contribuire, attraverso

l’impegno,

la

motivazione,

la

determinazione

e

la

professionalità delle sue persone, allo sviluppo armonico e integrato delle comunità con cui coopera nei Paesi del Sud del mondo, nella consapevolezza che attraverso l’incontro e la collaborazione tra i popoli si possano concretamente perseguire gli ideali di uguaglianza, AMREF, Uganda, consultato il 7/06/2010, http://www.amref.it/locator.cfm? SectionID=744&CFID=15119835&CFTOKEN=54200011 226 CESVI, progetti Africa, Uganda, consultato il 12/06/2010, http://www.cesvi.org/? pagina=pagina_generica.php&id=118 225

10


di giustizia e di coesione sociale. COOPI porta avanti progetti nei settori dell’agricoltura, formazione, salute, acqua e igiene, servizi socio-economici, assistenza umanitaria, diritti umani e società civile, migrazione, e realizza attività di promozione di questi temi in Italia. COOPI è presente in Uganda dal 2000 e ha realizzato programmi plurisettoriali di emergenza, acqua e sicurezza alimentare, progetti in favore di gruppi vulnerabili (profughi, ex bambini soldato, mamme minorenni) e di supporto e prevenzione alle donne vittime di violenza sessuale. I progetti hanno interessato principalmente il Nord Uganda nei distretti di Lira, Pader, Kitgum, Oyam, Apac, Amolatar, Dokolo e la capitale Kampala. Le attività di COOPI in Uganda sono ideate e implementate in stretto contatto con i partner locali che sono rappresentanti

dal

governo

ugandese,

dalle

organizzazioni

internazionali quali Nazioni Unite, UNICEF, FAO, dalle ONG locali ed internazionali e dai missionari: CUAMM, ISP, CCF Pader, CPAR, KCCC - Kamwokya Christian Caring Community, Family of Africa, Missionaries of the Poor, Caritas Nebbi227. La Fondazione AVSI (Associazione Volontari per il Servizio Internazionale) è stata costituita nel 1972. È presente in Africa, America Latina, Est Europa, Medio Oriente e Asia e opera in vari settori, quali sanità, educazione e formazione professionale, cura dell'infanzia in condizioni di disagio, microimprenditorialità ed emergenza umanitaria. La missione di AVSI è sostenere lo sviluppo umano nei paesi più poveri del mondo, con particolare attenzione all'educazione e alla promozione della dignità della persona umana in tutte le sue espressioni. Nel 1973 ha ottenuto il riconoscimento del Ministero

degli

Esteri

italiano

come

ONG

di

cooperazione

internazionale. La presenza di AVSI in Uganda nasce con la realizzazione di un progetto sanitario nel distretto di Kitgum nel 1984. Oggi AVSI è presente in Uganda in 19 distretti con 34 progetti nei seguenti settori di intervento: sanità, educazione, sicurezza alimentare, educazione COOPI, Elenco paesi, Uganda, consultato il 13/06/2010, http://www.coopi.org/it/cosafacciamo/nelsuddelmondo/dove-interveniamo/paesi/27/uganda/ 227

10


della popolazione circa i rischi delle mine antiuomo, aumento della disponibilità di acqua e miglioramento delle condizioni igieniche nei campi sfollati, protezione dei gruppi più vulnerabili della società quali donne, bambini e adolescenti e sostegno alla reintegrazione in famiglia e in comunità di ex-bambini soldato. I progetti sono realizzati con il contributo di numerosi donatori privati e internazionali tra i quali la Cooperazione Italiana, l’Unione Europea, la Cooperazione di Stati Uniti, Olanda, Canada, UNICEF, WFP, FAO e UNHCR che per un ammontare di finanziamenti nel 2007 pari a 8.400.000 euro. Dal 1984 ad oggi la profonda conoscenza del contesto ha permesso un approccio all’emergenza del Nord che non perde di vista la prospettiva dello sviluppo228. La Fondazione Piero e Lucille Corti Onlus è stata costituita nel 1993 con lo scopo di fornire sostegno economico, assistenza tecnica e logistica al St. Mary’s Hospital Lacor di Gulu (Uganda), di cui è ora il principale sostenitore. Il Lacor Hospital, è un’organizzazione non governativa (ONG) ugandese che ha la missione di garantire servizi sanitari in particolare alle persone più bisognose. Fondato nel 1959, è stato diretto e sviluppato dal 1961 dai coniugi medici Piero e Lucille Corti fino alla loro morte. E’ un ospedale di 483 letti con tre centri sanitari periferici che offre una vasta gamma di servizi diagnostici, terapeutici e di prevenzione. Nel biennio 2006/2007 sono stati curati oltre 300.000 pazienti, la metà dei quali sono bambini minori di sei anni. I pazienti provengono da tutta la nazione e dai paesi limitrofi. Gli oltre 570 dipendenti sono tutti ugandesi, come i 250 studenti residenti che seguono i corsi di formazione sanitaria. L’ospedale è anche

polo

universitario

per

la

nuova

Facoltà

di

Medicina

Governativa di Gulu229. L’associazione Good Samaritan ONLUS – Organizzazione di volontariato (L. 266/91) è una Onlus ai sensi dell’art. 10 c. 8 D.Lgs. 460/97.

Nata

nel

1999,

realizza

progetti

di

cooperazione

internazionale a favore dell’etnia Acholi che abita nel Nord Uganda, AVSI, Prevenzione e tutela della salute, consultato il 19/07/2010, http://www.avsi.org/ Fondazione Onlus Piero e Lucille Corti, Un viaggio al cuore dell’Africa, consultato il 24/05/2010, http://www.fondazionecorti.it/italia/viaggi/ 228 229

10


gestiti in loco dalla ONG ugandese “Comboni Samaritans of Gulu” in collaborazione con le suore Missionarie Comboniane a Gulu. L’Associazione, costituita con la volontà di dare risposte concrete alle complesse problematiche legate alla diffusione dell’AIDS, ha scelto di privilegiare il supporto ai bambini orfani o figli di malati di AIDS, affinché essi possano vedere riconosciuto il loro diritto fondamentale all’istruzione. A questo progetto si sono poi affiancati, negli anni, interventi in campo sanitario, grazie alla collaborazione con il St. Mary’s Hospital Lacor di Gulu (globale intervento di supporto alle persone sieropositive – home base care, accesso alle cure e al trattamento antiretrovirale, supporto psico-sociale e avvio di attività economiche), nel settore educativo (tra cui il progetto “Bambini capi-famiglia” e il lavoro di prevenzione e sensibilizzazione per combattere la diffusione dell’AIDS tra i giovani) e infine nel settore economico (nascita e supporto alla Cooperativa “Wawoto Kacel” - Camminiamo Insieme, che da lavoro a 160 soggetti vulnerabili, malati e disabili)230. Oltre a queste organizzazioni, riconosciute dal Ministero degli Affari Esteri e che ormai da molto tempo operano sul territorio ugandese, ve ne sono altre che intervengono su aree più ristrette del Paese, attraverso progetti di portata minore e che con il tempo si stanno facendo strada e accumulando esperienza nel campo della cooperazione internazionale, come l’ONG Centro internazionale per la pace dei popoli di Assisi, con la quale ho avuto modo di svolgere uno stage curriculare sul quale mi soffermerò nel prossimo capitolo descrivendo, inoltre, le finalità e i progetti che l’organizzazione svolge in Uganda e le associazioni con le quali collabora per portare avanti il proprio impegno sul territorio.

Associazione per la cooperazione internazionale e sostegno a distanza Good Samaritan, Nord Uganda, consultato il 19/06/2010, http://www.good-samaritan.it/public/index.php?mod=03_Dove_operiamo/02_Nord_Uganda 230

10


CAPITOLO 5 Il fieldwork 5.1 Centro Internazionale per la Pace tra i popoli di Assisi La storia del Centro Pace iniziò nel 1978 quando il Papa Giovanni Paolo II, appena eletto, compì il suo primo viaggio ad Assisi. Dalla visione di speranza data da questa visita si fece concreta l’idea di pace di dieci volenterose persone che, guidate da Gianfranco Costa, l’attuale presidente, fondarono il CENTRO INTERNAZIONALE PER LA PACE FRA I POPOLI DI ASSISI. 10


Da quel lontano 1978 si sono susseguite oltre mille iniziative, circa ventimila bambini sono stati adottati a distanza nel tempo e molti impegni e progetti sono stati avviati e sostenuti. Di seguito verranno esaminati i più significativi progetti svolti. Nel 1984, il Centro aveva ormai radicato le proprie fondamenta e iniziato a portare avanti le proprie iniziative; una sua delegazione venne ricevuta dal Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan e dal Vice Presidente dell'allora URSS Alexei Kustnezov. Si concretizzò la volontà di pace del Centro con l'appello ad ambedue le grandi potenze a riprendere il dialogo per il bene dell'Umanità231. Per quanto riguarda le iniziative di advocacy, l'anno dopo, una delegazione del Centro Pace si recò a New York all'ONU per chiedere il riconoscimento di "Peace Messenger ONU", riconoscimento poi assegnato nel 1988. Nell’ agosto 1989, a Berlino, una delegazione del Centro Pace invocò l'abbattimento del muro e la creazione della Piazza della Pace davanti alla porta di Brandeburgo. Nel 1990 il Centro immaginò un'altra utopia: la proclamazione del Millennio per la Pace da parte dell'ONU. Una delegazione si recò a New York e presentò l'idea al Segretario Generale Xavier Perez de Cuellar. Assunta l'iniziativa il Centro Pace l’ha sostenuta tenacemente promuovendo ogni anno missioni a New York fino alla proclamazione avvenuta nel 2000 dei Millennium Goals. Rappresentanti del Centro, dal 2001, si recano ogni anno in missione a Gerusalemme a testimoniare la forte volontà di dare un contributo alla pace in quella martoriata regione altamente simbolica per la volontà di trovare armonia fra le religioni monoteiste. Già nel 1980 con il progetto “Assisi: una città al servizio della Pace” il Centro aveva lavorato per portare l’adesione delle grandi organizzazioni internazionali (UNICEF, UNESCO, Unione Europea) a far dichiarare la città di Assisi capitale delle ricerche sulla pace e sulla collaborazione. Centro internazionale per la pace tra i popoli di Assisi, La storia, consultato il 15/07/2010, http://www.centropace.org/contents/it-IT/Storia/index.html 231

10


E ancora nel 1988 è arrivato il riconoscimento di Peace Messenger da parte delle Nazioni Unite e con esso l’avvio di uno straordinario percorso che dura ormai da 20 anni con il conferimento da parte del Centro del Pellegrino di Pace a grandi personaggi del nostro tempo232. Da 12 anni il Centro Pace è infatti promotore del riconoscimento internazionale Pellegrino di Pace, assegnato ogni anno a personalità che hanno contribuito a veicolare i valori della pace. Dal 1989 si è impegnato, inoltre, nel campo delle adozioni a distanza. Nel corso degli anni il Centro Pace in aggiunta a iniziative di alta idealità come risulta dalla sua storia, ed a migliaia di adozioni a distanza, si è impegnato anche sul versante dei progetti, a sollievo del grande disagio vissuto da alcune popolazioni come quelle del Mato Grosso in Brasile, dove ha realizzato pozzi dai quali attingere l’acqua. Di

recente,

tenuto

anche

conto

del

riconoscimento

di

Organizzazione Non Governativa, arrivato nel 2007, da parte del Ministero degli Affari Esteri, ha accentuato il proprio impegno in tal senso.

Questo

riconoscimento

ha

portato

alla

stabilizzazione

dell’assetto organizzativo e all’assunzione di personale cooperante, ma ha dato anche la possibilità al Centro Pace di ottenere maggiori finanziamenti per l’attuazione delle proprie iniziative. I progetti in corso di esecuzione sono i seguenti: SCUOLA MATERNA DI OLUKO - DISTRETTO DI ARUA – UGANDA: il 2 febbraio 2008 la scuola è diventata una realtà. I lavori di costruzione dell’edificio erano iniziati un anno prima, attraverso il lavoro dei volontari del Centro che periodicamente si recavano sul posto per monitorare l’avanzamento dell’attività.

232

1988 Michail Gorbaciov, 1989 Perez De Cuellar, 1990 S.S. Giovanni Paolo II, 1991 Luciano Pavarotti, 1992 Mons. Faustin Ngabu, 1993 Helmut Kohl, 1994 Madre Teresa di Calcutta, 1995 Ernesto Olivero, 1996 S.E. Francesco Paolo Fulci, 1997 John O'Connor, 1998 Sri Chinmoy, 1999 Petru Lucinschi, 2000 Patch Adams, 2001 Kofi Annan, 2002 Bill Gates, 2003 Rolando Mosca Moschini, 2004 Fatos Nano, 2005 S.E.nza Renato Raffaele Martino, 2006 Maria Pia Fanfani; Ibidem

10


Inaugurata con una solenne cerimonia alla presenza del vescovo di Arua e molta gente del villaggio che con canti e balli ha festeggiato l’avvenuta realizzazione. Oltre 200 bambini hanno ora uno spazio vivibile per crescere insieme. La scuola è, quindi, operativa e è stato un grande sforzo finanziario del Centro Pace di Assisi per la difficoltà di reperimento dei fondi, da proseguire ora per il completamento della recinzione ed il miglioramento di attrezzature ed arredi233.

Foto n.1: scuola materna di Oluko

MATERNITÀ A SAYKRO – COSTA D'AVORIO: l’intervento concreto consiste, a partire da una struttura muraria già in parte realizzata, in opere di miglioramento così da realizzare e consegnare una struttura sanitaria funzionale costituita da tre ambulatori di 20/24 mq, una sala parto, una sala degenza e relativi servizi igienici per un totale di 225 mq circa. La struttura sarà fornita di dieci lettini di degenza, due lettini di visita ginecologica, un letto da parto, due fasciatoi, una bilancia per adulti, due bilance per neonati, oltre agli arredi per l’ufficio. La

costruzione

del

reparto

di

maternità

a

Saikro

ha

contribuito ad attenuare una situazione di drammatico disagio nel villaggio suddetto e nei villaggi circostanti per quanto riguarda in

Centro Internazionale per la Pace tra i popoli di Assisi, I progetti, consultato il 14/07/2010, http://www.centropace.org/contents/it-IT/Progetti/progetti_01/index.html 233

10


particolare le drammatiche condizioni igienico-sanitarie in cui le donne si trovano a partorire. REPARTO MATERNITÀ AD OLUKO-UGANDA: questo è il progetto che ho avuto modo di seguire durante lo stage curriculare che ho svolto nel villaggio di Oluko e si basa sulla tutela della maternità nel Distretto di Arua (Nord Uganda). Il progetto si propone di realizzare una struttura sanitaria nel villaggio di Oluko in Uganda, idonea all’utilizzo come reparto di maternità e medicina perinatale, con l’obiettivo di un significativo abbattimento della mortalità materna e neonatale per effetto della creazione di condizioni igienicosanitarie accettabili. Al progetto il Centro Pace di Assisi concorre come componente del Gruppo di Solidarietà Internazionale (GSI)234. Del reparto, attiguo al poliambulatorio di Oluko, beneficerà la popolazione del Distretto di Arua di circa 70.000 abitanti. Una popolazione che vive in un contesto di povertà e abbandono, in cui i parti avvengono nelle capanne con tutti i correlati rischi igienico- sanitari per madre e bambino. La mortalità materna per parto è, infatti, altissima: circa 6.000 donne ogni anno, quasi 16 al giorno; molto alta anche la mortalità neonatale che registra il decesso di 32 bambini per ogni 1.000235. CENTRO ACCOGLIENZA PER BAMBINI ABBANDONATI A MOPTI – MALI: il progetto consiste nella realizzazione di un centro di accoglienza per bambini abbandonati a Mopti, città nel Nord del Mali dove il fenomeno dei bambini di strada è particolarmente grave. L’obiettivo generale è quello di contribuire alla protezione dell’infanzia 234

L’Associazione GSI Italia è una Organizzazione non Governativa di cooperazione internazionale e di solidarietà territoriale. Opera in Italia con progetti di formazione e di sensibilizzazione sui temi dello sviluppo e del sottosviluppo e promuove campagne contro il razzismo e la xenofobia. Attiva progetti finalizzati alla promozione dei diritti umani e lavora vicino alla popolazione immigrata con misure di accoglienza, di tutela e di sostegno: offre servizi di consulenza legale e gestisce programmi di prestito d’onore e fideiussione abitativa, promuove corsi di formazione e offre servizi di mediazione linguistico culturale all’interno delle scuole. Da anni GSI è impegnata sui temi della cittadinanza attiva come mezzo di costruzione di una società più democratica, dove i cittadini sono i protagonisti del loro futuro, di quello del loro territorio e dell’Europa. L’associazione, inoltre, promuove il Turismo Responsabile e il Commercio Equo e Solidale. Coordina l’attività della Federazione di Comuni ed Enti Locali umbri “Città Solidale”. 235 Centro internazionale per la pace dei popoli, I Progetti, consultato il 7/6/2010, http://www.centropace.org/contents/it-IT/Storia/index.html

10


abbandonata nella città di Mobti, e, più specificatamente di sottrarre all’abbandono i minori accogliendoli in una struttura adeguata capace

di

garantire

la

loro

sicurezza

alimentare,

l’accesso

all’istruzione e alle cure mediche e di favorire percorsi di crescita personale in funzione del reinserimento dei minori nella comunità. Beneficiari diretti del progetto sono almeno sessanta bambini di cui 14 in età prescolare e 46 dai 6 ai 13 anni. Le principali attività previste dal progetto sono riferibili: alla costruzione di un fabbricato su due piani per complessivi circa 800 mq; alla dotazione della struttura realizzata di tutti gli arredi e le attrezzature necessarie al suo funzionamento; alla gestione del centro basata sull’accoglienza dei bambini, la loro alimentazione e la loro istruzione con l’obiettivo di

un

sano

sviluppo

psicofisico

funzionale

al

loro

miglior

reinserimento sociale. Sotto quest’ultimo profilo il centro si avvarrà di personale

locale

professionalmente

preparato.

L’esecuzione

del

progetto ed i conseguenti risultati mirano anche a far aumentare il livello di sensibilità nei confronti di un’infanzia diseredata a partire dal quale possano maggiormente svilupparsi altre iniziative in favore dell’infanzia sul territorio. Il progetto è cofinanziato Ministero degli Affari Esteri. AIUTIAMO I BAMBINI DI KIEV AMMALATI DI LEUCEMIA: il progetto è incentrato sulla possibilità di trasferire professionalità di eccellenza, in questo campo esistente nell’Ospedale S. Maria della Misericordia di Perugia, alla struttura sanitaria ucraina. Nel concreto, ospitando due medici da Kiev presso la struttura sanitaria perugina per un periodo sufficiente ad una loro proficua specializzazione, da utilizzare poi a favore dei bambini ucraini affetti da leucemia. 5.2 AS.SO.S. Terni Per quanto riguarda i suoi progetti in Africa, e quindi anche per quelli in Uganda, il Centro Pace collabora con una ONLUS che svolge attività di assistenza ed interventi allo sviluppo, sia in campo sociosanitario, che in ambito scolastico, l’Assos. 110


Assos è una ONLUS ad utilità sociale, che nasce a Terni nel marzo del 1999 dall’esperienza di alcuni medici, soci fondatori. Sin dal 1996 nel gruppo di volontari è nata la passione per l’Africa, condividendo esperienze e ponendosi prima di tutto l’obiettivo di comprendere la natura dei problemi esistenti; nel contempo si agisce direttamente

con

aiuti

ed

interventi

concreti.

Molteplici le esperienze svolte in ospedali camilliani del Kenya SudOccidentale. Con il passare degli anni il gruppo di volontari è andato crescendo; oggi l’organo dirigenziale è composto da otto persone, ma il numero dei soci è di circa 50 persone. Il lavoro più grande ed importante è divenuto quello di conoscere e capire i meccanismi sociali, politici ed economici alla base delle diverse realtà, e dei complessi sistemi ed equilibri esistenti, per costruire dei legami importanti con le popolazioni, e cercare una collaborazione efficiente con le autorità locali. Assos opera in maniera laica ed apolitica, per promuovere azioni e progetti nel nome di una cultura della solidarietà, in sostegno dei popoli e dei paesi dell'Africa equatoriale, svolge attività in ambito socio- sanitario ed opera in supporto al sistema delle istituzioni scolastiche sia governative che private. L’intento primario è sempre quello di pianificare interventi in sintonia con le autorità locali ma anche

con

le

popolazioni

dei

villaggi.

Le azioni e le iniziative intraprese, presenti e future, sono conformi ai principi del diritto internazionale ed in sintonia con le maggiori organizzazioni per la cooperazione internazionale. L’Assos è attiva dal 1999 nell’Africa equatoriale, attualmente opera nella regione Mara, nel nord della Tanzania, al confine con il Kenya e nel distretto di Arua, nel nord ovest dell'Uganda. Durante i primi anni di attività, l'associazione, grazie all'aiuto di numerosi volontari e sostenitori, ha provveduto a raccogliere e donare i mezzi necessari alla sussistenza delle popolazioni che abitano le sponde del lago Vittoria fra Kenya e Tanzania. Soprattutto sono state raccolte apparecchiature medico-sanitarie, medicinali, 111


vestiario

e

materiale

didattico

per

le

scuole.

Negli anni, poi, gli sforzi si sono concentrati nella zona della regione Mara in Tanzania e nel distretto di Arua in Uganda. I primi gruppi di volontari che raggiunsero il villaggio di Oluko nel 2006 poterono constatare la necessità di realizzare alcuni progetti su indicazione del Vescovo della Diocesi di Arua, del Parroco di Oluko, Padre George Otuma, e dei capi famiglia del villaggio. Fondamentalmente, fu richiesto di realizzare innanzitutto un asilo nido per i bambini dai 3 ai 6 anni. L’asilo nido ha raccolto tutti i bimbi in età prescolare, togliendoli dalla strada ed impartendo loro le prime nozioni di lingua inglese, associando i suoni delle parole con l’immagine delle stesse. In secondo luogo si verificò la necessità di provvedere alla distribuzione di acqua potabile per tutto il villaggio. Esisteva un vecchio pozzo al quale donne e bambini attingevano acqua con un sistema di pompa a mano, estremamente faticoso, oltreché oramai obsoleto e mal funzionante. Per ultimo, fu illustrata la necessità di realizzare un piccolo reparto di maternità, assolutamente necessario in un ambito in cui la mortalità materna e neonatale era estremamente elevata e scarsa o nulla era l’igiene connessa alla gravidanza, all’espletamento del parto ed alla cura del neonato. Dando seguito alle richieste, in collaborazione con il Centro Internazionale per la Pace fra i Popoli di Assisi, è iniziata, nel 2007, la realizzazione

dell’asilo

nido

di

Oluko.

Nel corso dell’anno i lavori sono progrediti costantemente, mentre i vari gruppi di volontari che si sono succeduti hanno anche curato la donazione agli orfanotrofi della zona di quanto raccolto con le adozioni a distanza, che hanno consentito a diversi bambini e ragazzi di poter proseguire gli studi, oltreché naturalmente di garantire loro il cibo e vestiario necessario. Nel frattempo è stato anche possibile iniziare i lavori per ristrutturare la casa dei volontari, assolutamente necessaria per

112


garantire un soggiorno per quanto possibile dignitoso al numeroso gruppo di volontari che ogni anno l’Assos invia in Uganda. L’invio costante di volontari e la buona riuscita della raccolta di fondi mirati ai progetti in essere ha consentito di terminare i lavori per la realizzazione dell’asilo nido di Oluko. Nel febbraio 2008 la costruzione è stata completata e è stata inaugurata con una semplice e toccante cerimonia che culminò con la benedizione dell’opera da parte del vescovo di Arua, Monsignor Frederick Drandua. Finalmente i tanti bambini in età prescolare del villaggio di Oluko e delle aree circostanti avevano un luogo protetto, recintato e nuovo dove poter iniziare a studiare, giocare ed essere al riparo dai pericoli della strada. Le insegnanti ugandesi scelte si sono dimostrate entusiaste del loro

lavoro

e

certamente

molto

motivate.

Sempre nel corso dello stage di volontari del febbraio – marzo 2008, grazie alla sottoscrizione aperta dall’Assos ed alla collaborazione con la Tecnonatural di Avigliano Umbro236, è stato possibile acquistare un kit completo per pompare e stoccare acqua potabile gratuita a disposizione di tutto il villaggio. Con l’utilizzo di 2 pannelli solari da 80 Watt e di una pompa ad immersione, è stato possibile raccogliere l’acqua del pozzo ad una profondità di 36 metri e convogliarla in un grande serbatoio da 11.000 litri, sufficiente a soddisfare le esigenze di acqua per gli usi domestici di tutte le famiglie del villaggio. Il villaggio di Oluko è posto pochi gradi sopra l’Equatore e quindi gode di luce solare per 12 ore ogni giorno, per tutto l’anno. L’Assos

ha,

quindi,

sostituito

la

vecchia

pompa

a

mano,

estremamente faticosa e oramai obsoleta, con la più moderna tecnologia di risparmio energetico basata sulla luce del sole, garantendo una fornitura di acqua pulita, continua e gratuita. Nel frattempo sono proseguiti i lavori di ristrutturazione della casa dei volontari. Le adozioni a distanza inizialmente riguardanti circa 40 bambini, si sono incrementate, grazie anche alla collaborazione del 236

E’ un’azienda umbra che produce tecnologie per il risparmio energetico

113


Centro Internazionale per la Pace fra i Popoli di Assisi, a tal punto che un terzo orfanotrofio è stato incluso nel progetto delle adozioni, portando la cifra dei bambini adottati a distanza a circa 100. Durante lo stage dei volontari dell’agosto 2008 è stata poi iniziata la realizzazione del reparto di maternità. Il progetto è stato cofinanziato dalla Regione Umbria nell’ambito della L.R. 26/1999 sulla Cooperazione Internazionale. Si è provveduto a localizzare l’area di

intervento

individuandola

a

fianco

del

dispensario

precedentemente realizzato da un’altra ONLUS italiana e si è dato avvio ai lavori con la realizzazione del basamento di 250 m².237 5.3 L’esperienza di ricerca sul campo Il mio stage curriculare in Africa, fatto grazie alla convenzione di tirocinio che l’Università di Siena ha stipulato con l’ONG Centro Pace di Assisi in collaborazione con la ONLUS Assos di Terni, mi ha portato ad Oluko, piccolo villaggio di capanne nei pressi della città di Arua, a nord-ovest dell’Uganda, a pochi km dal confine con il Congo e il Sudan. Lo stage si è svolto dal 28 luglio al 23 agosto 2009.

Foto n. 2: villaggio di Oluko

237

AS.SO.S Terni, consultato il 9/6/2010, http://www.assosterni.it/chisiamo.php

114


Sono partita con altre tre persone, una delle quali era il tutor inviato dall’associazione per seguire le varie attività e coordinare il lavoro di noi volontari. I nostri referenti locali erano i sacerdoti della Congregazione cattolica chiamata “Apostles of Jesus” e il nostro operato, oltre a rendere conto in Italia all’associazione per la quale operavamo, era direttamente sottoposto all’attenzione del Mons. Frederick Drandua, vescovo della Diocesi di Arua, con cui l’Assos collabora per la creazione di progetti di sviluppo sul territorio. Il progetto in corso in quel momento riguardava, come detto in precedenza, la costruzione di un reparto di maternità, necessario al fine di far diminuire la mortalità materna e infantile, molto alta nella zona. Il nostro compito riguardo a tale progetto è stato per lo più un lavoro di tipo operativo e logistico, in quanto consisteva nel cercare i muratori, farci fare preventivi, procurarci il materiale e infine supervisionare lo svolgersi della costruzione del basamento della futura maternità. Stesse mansioni abbiamo svolto per i lavori di ristrutturazione della guest house, l’edificio costruito per ospitare i volontari dell’associazione che si recano sul posto, per la quale è stato necessario predisporre una cisterna per la raccolta dell’acqua, in modo che potesse essere collegata con le tubature dei bagni, e far ripulire e sistemare il tetto che aveva subito dei danni durante l’assenza dei volontari. Inoltre, ho avuto modo di visitare diverse scuole sia pubbliche che private tra le quali la scuola materna di Oluko, realizzata dal Centro Pace, i cui bambini venivano ogni giorno a giocare con noi e a darci il benvenuto ogni volta che la nostra auto tornava nel villaggio.

115


Foto n. 3: lavori di costruzione del reparto di maternitĂ

Foto n. 4: predisposizione della torre per la cisterna di raccolta dell’acqua Foto n. 5: scala artigianale per i lavori di ristrutturazione del tetto

116


Foto n. 6: scuola materna privata ad Oluko

Foto n. 7: sala insegnanti della scuola secondaria privata di Oluko

117


Foto n. 8: campanella della scuola secondaria privata di Oluko

La parte più consistente del mio lavoro, però, ha riguardato gli orfanotrofi e quindi la gestione delle adozioni a distanza. Il Centro pace e l’Assos collaborano con tre strutture nelle quali sono presenti i bambini adottati dalle famiglie italiane, una delle quali è una casa famiglia, mentre le altre due sono strutture private, una di proprietà del vescovo della Diocesi e l’altra gestita da una coppia di coniugi ugandesi.

118


Foto n. 9: alcuni ragazzi della casa famiglia mentre fanno colazione

I progetti di adozione a distanza sono nati alla fine della seconda guerra mondiale, quando si pensò di dover dare una mano concreta alle decine di migliaia di orfani e di bambini abbandonati e l'adozione a distanza fu una delle varie risposte umanitarie al loro dramma. Con

l’adozione

a

distanza

un

soggetto

versa,

per

un

determinato periodo di tempo, una somma determinata di denaro, per lui modica, con lo scopo di contribuire al mantenimento (e più miratamente, di solito, alla sola educazione) di un altro soggetto, maggiorenne o minorenne, che a causa delle difficoltà economiche sue o della sua famiglia non potrebbe altrimenti farcela da solo. Poiché l’adozione a distanza riguarda normalmente ragazzi poveri dei PVS che vengono aiutati nel loro paese d’origine (di qui il termine “a distanza”), si consegna normalmente il denaro a un terzo soggetto (persona fisica o giuridica) che, avendo possibilità di operare in loco, provvederà poi a gestire questo denaro nell’interesse del destinatario. Dunque l’adozione a distanza ha valenza meramente patrimoniale, e consiste in un dare che non si esaurisce in un solo istante, ma continua per un certo periodo di tempo; questo aiuto economico, piccolo per l’adottante, presenta grande utilità per l’adottato proprio per questo suo durare. E’ chiamata adozione a distanza anche perché si è constatato come psicologicamente l’adottante si sentisse obbligato a compiere non solo una donazione una tantum ma obbligato a continuare a dare per un certo periodo. Inoltre sentendosi direttamente coinvolto nel benessere di quel determinato bambino che, seppur lontano è ormai una figura ben individuata, l’adottante è psicologicamente meglio disposto a dare di più di quanto darebbe se gli venisse chiesto un generico contributo per aiutare i bambini poveri del mondo238. In questo contesto nacquero le più grandi e importanti agenzie internazionali di adozione a distanza, come World Vision e Plan Della vasta letteratura in merito si rinvia a: D. Culot, Le c.d. adozioni a distanza, in P. Cendon (a cura di), Il diritto delle relazioni affettive. Nuove responsabilità e nuovi danni, Cedam, Padova, 2005, pp. 802-803 238

119


International. Nel corso dei decenni questo gesto solidaristico è andato ampliandosi, coinvolgendo bambini che vivono con le proprie famiglie in comunità povere nei Paesi in via di sviluppo, oppure in istituti, in attesa di poter rientrare in famiglia. Il grande favore incontrato nei Paesi industrializzati, dove il numero di adesioni è sempre stato elevato, ha favorito la nascita di decine di enti che hanno avviato progetti di questo genere. In Italia, questa forma di solidarietà è stata lanciata alla fine degli anni '60 dal Pime, il Pontificio istituto delle Missioni estere, seguito da molte altre associazioni laiche e cattoliche e dalla apertura di filiali di agenzie internazionali239. Ci sono vari tipi d’interventi sul campo dell’adozione a distanza che

rientrano

in

tre

categorie:

1) progetti che destinano i fondi ai singoli bambini adottati a distanza; 2) programmi di sviluppo a favore di tutti i bambini che vivono nella stessa comunità a cui appartengono quelli adottati a distanza, in modo

da

evitare

discriminazioni;

3) progetti di cooperazione allo sviluppo a favore di tutta la comunità nel senso più ampio del termine, fino a toccare un'intera regione ed i suoi abitanti: in questo caso i bambini adottati a distanza non sono i beneficiari diretti dei contributi240. A partire dagli anni '90 l'adozione a distanza è al centro di polemiche e di critiche da parte di molti che non “vedono di buon occhio” alcuni suoi aspetti. Nel marzo del 1998, per esempio, un vero e proprio terremoto scosse a livello internazionale il "business" delle adozioni a distanza. Un giornale statunitense, il Chicago Tribune, pubblicò

un'inchiesta

condotta

su

quattro

grandi

agenzie

internazionali, rivelando come il loro messaggio pubblicitario non coincidesse affatto con il lavoro svolto sul campo. Pubblicità ingannevole? Pare proprio di sì. Mentre gli annunci suggerivano la possibilità di avere un legame diretto tra un bambino e un donatore, T. Fattori, Adozioni a distanza: fatti e misfatti. Una guida per capire, Sicilia Magazine network, consultato il 7/09/2010, http://www.siciliamagazine.com/05/01/2010/adozioni-a-distanza-fatti-e-misfatti-una-guida-per-capirle/ 240 Cfr, G. Capozzi, Successioni e donazioni, Giuffrè, Milano, 2002 239

12


attraverso l'adozione a distanza, in realtà l'inchiesta fece emergere come i bambini ricevessero ben pochi benefici dai contributi. Anzi, alcuni erano addirittura deceduti da tempo e il donatore ignaro continuava

a

versare

il

suo

contributo241.

Le critiche che vengono mosse al sostegno a distanza sono prima di tutto

legate

al

fatto

che

costa

molto

la

sua

complessa

amministrazione, la raccolta delle foto e dei messaggi, la posta ai donatori. Queste attività sono addebitate ai progetti, che si vedono così sottrarre risorse che potrebbero essere impiegate nel lavoro sul campo; sono costi peraltro che non appaiono mai in dettaglio nei resoconti forniti. Per limitare le spese talune agenzie utilizzano come operatori i membri stessi della comunità che vengono pagati una piccola somma di denaro per ogni messaggio raccolto con la conseguenza che a volte sono loro stessi a scriverlo, o a fare il disegno, se il bambino non è raggiungibile, per non perdere il magro guadagno. Ciò accade soprattutto quando i bambini sono dispersi in una vasta area e il progetto interessa un'intera regione. I messaggi devono essere raccolti casa per casa, camminando ore a piedi. In più, talvolta i messaggi dei bambini vengono censurati durante la traduzione per eliminare riferimenti che possono creare problemi, per esempio critiche all'associazione stessa, commenti politici o richieste esplicite di soldi. Più in generale i critici contestano quella che appare loro come una forma di aiuto assistenziale quando, affermano, bisognerebbe puntare a forme di cooperazione che favoriscano l'auto sviluppo. Chi è a favore spiega invece che l'adozione a distanza è un legame che permette di avviare e gestire dei progetti a lungo termine, anche decennali, e che i bambini ne beneficeranno in modo diretto, ad esempio attraverso la frequenza scolastica e l'assistenza sanitaria di base. E in più sostengono che questa formula favorisca nel donatore la conoscenza approfondita delle tematiche relative allo sviluppo, proprio grazie alla relazione che si instaura tra il bambino T. Fattori, Adozioni a distanza: fatti e misfatti. Una guida per capire, Sicilia Magazine network, consultato il 7/09/2010, http://www.siciliamagazine.com/05/01/2010/adozioni-a-distanza-fatti-e-misfatti-una-guida-per-capirle/ 241

12


ed il suo sostenitore: quest'ultimo viene a contatto con una realtà ben diversa da quella proposta dai media. È’ altrettanto vero che molti sostenitori non avrebbero accettato di finanziare un progetto senza questo potente coinvolgimento emotivo: è dunque una formula capace di catturare l'attenzione e la disponibilità di quanti, altrimenti, non aderirebbero a nessun progetto di solidarietà242. E proprio questo, in base anche a quello che ho potuto riscontrare durante la mia esperienza, è, secondo me, l’aspetto più deleterio di questo tipo di aiuto, il fatto di strumentalizzare i bambini attraverso l’impatto emotivo che creano nelle famiglie che mandano i soldi, le quali spesso non hanno nemmeno bene idea di come venga effettivamente usato il loro denaro e di come sia difficile, anche per l’associazione stessa, far diventare concreto questo tipo di aiuto in contesti come quello in cui mi sono trovata a operare. Dico questo perché ho potuto verificare personalmente situazioni che sfuggivano al nostro controllo o quanto meno difficili da gestire. Il nostro lavoro consisteva nel far visita ai tre orfanotrofi che collaborano con il Centro Pace e l’Assos, consegnare i soldi donati dalle

famiglie

italiane

per

l’adozione,

compilare

delle

schede

informative relative ai bambini adottati o da adottare, fare loro una foto da portare in Italia per i “genitori adottivi” e raccogliere le lettere scritte dai bambini per la famiglia. Questo lavoro si è rivelato molto difficile a causa della scarsità di informazioni presenti nelle strutture e sconosciute ai responsabili di esse, riguardanti in particolare l’età, la provenienza e la situazione familiare dei ragazzi adottati. In molti casi, inoltre, non è stato proprio possibile rintracciare questi ultimi perché non vivevano negli orfanotrofi, ma nelle scuole da loro frequentate o erano addirittura tornati nei loro villaggi. Le risorse monetarie che arrivano dall’associazione per le adozioni dovrebbero, infatti, essere consegnate a scadenze regolari in modo da garantire ai bambini la possibilità di frequentare regolarmente la scuola per l’intera durata dell’anno scolastico. Il problema è, però, che le somme vengono consegnate nei periodi in cui i volontari si recano sul posto, 242

D. Culot, op. cit., pp. 801-818

12


che sono variabili, non riuscendo quindi a garantire continuità; per questo alcuni sono costretti a tornare all’orfanotrofio o dalle famiglie senza aver completato l’anno scolastico, per poi eventualmente riprendere a frequentare la scuola in un secondo momento, quando un nuovo gruppo di volontari torna sul posto a consegnare la nuova tranche di aiuto finanziario. Ho

potuto

riscontrare

un

particolare

problema

quando,

recandomi in uno dei tre orfanotrofi, mi è stato detto che la responsabile di tale struttura era fuggita con i soldi consegnati la volta precedente e che da quel momento in poi nessuno dei bambini ha più frequentato la scuola e, anzi, alcuni non vivevano neanche più lì. Da quel momento è stato immediatamente interrotto il rapporto da parte dell’associazione con tale struttura, in quanto la situazione non era assolutamente chiara e anche il nuovo responsabile non sembrava del tutto affidabile. Questo è solo uno degli esempi paradigmatici di quello che può succedere in contesti di povertà estrema e segnati da decenni di conflittualità, consegnando delle somme di denaro in mano a persone che non sanno gestirlo o che non ne hanno mai visto tanto tutto insieme, senza un’effettiva preparazione o competenza. I problemi riguardanti le adozioni a distanza sono quindi da imputare sia alla cattiva organizzazione di alcune associazioni che operano sul territorio, anche se dotate delle migliori intenzioni, sia a cause legate all’incapacità degli abitanti del luogo di gestire una situazione con metodi che per gli operatori occidentali sembrano scontati, ma che per loro non lo sono affatto, come ad esempio il fatto di farsi fare una ricevuta per dimostrare l’avvenuto pagamento delle tasse scolastiche. E’ per questi motivi che ho maturato la convinzione che lo strumento delle adozioni a distanza non sia efficace o comunque non riesca a garantire continuità e certezza in contesti, come quelli africani, nei quali i bambini non sono registrati perché non esistono servizi di anagrafe e dove, nella maggior parte dei casi, non si sa neanche quanti anni hanno. 12


Come riflessione conclusiva, però, posso sicuramente affermare che sono proprio queste diversità che rendono ricca un’esperienza come questa. Quelle persone hanno sicuramente molto da insegnare a chi, come me, proviene da una civiltà nelle quale non esiste la mancanza d’acqua o di elettricità. Il popolo che mi ha accolto non mi ha mai fatto mancare un sorriso, né tanto meno cibo e acqua. Ho avuto la possibilità di assistere in prima persona ad alcune delle loro feste e dei loro riti. I bambini del villaggio venivano spesso a giocare con i “musungo”, che nel dialetto locale, il Lugbara, significa uomo bianco.

Foto n. 10: banda riunita per la cerimonia d’investitura di un sacerdote

12


Foto n. 11: ballo tipico svolto da donne ugandesi durante la cerimonia d’investitura

Foto n. 12: bambini che giocano

La vita per loro, nel villaggio di Oluko, non è semplice; non avendo l’acqua corrente si recano più volte al giorno alla fontana della diocesi con delle taniche per trasportarla, le bambine più grandi 12


hanno spesso con sé i fratelli e sorelle più piccoli dei quali sono loro che si devono occupare, la loro salute è spesso messa a dura prova dalla malaria e i giochi che usano sono alcuni palloni realizzati artigianalmente con buste e corde e tanta fantasia.

Foto n. 13: bambini che prendono l’acqua alla fontanella dopo aver giocato con noi

Foto n. 14: gioco artigianale

Foto n. 15: bambino che gioca con il suo giocattolo

12


Foto n. 16: bambine che vanno a casa con i fratellini sulla schiena

Foto n. 17: bambino con in mano una palla fatta di buste e filo

Foto n. 18: bambina con il fratellino sulla schiena

12


Foto n. 19: io con una bambina del villaggio

Questa esperienza mi ha, quindi, dato modo di capire le problematiche affrontate ogni giorno dai bambini in questo territorio, una zona che ha dovuto scontrarsi con realtà difficili provocate dalla guerra, dalle malattie e dalla povertà , ma che reagisce ogni giorno e va avanti, anche con l’aiuto di associazioni come quella con la quale ho svolto lo stage, che tramite progetti di cooperazione, riesce a migliorare le condizioni di vita di mamme e bambini.

12


CONCLUSIONI Come ripetuto più volte, questo elaborato di tesi nasce dal fieldwork che ho avuto la possibilità di compiere in Uganda, in seguito allo stage curriculare che ho svolto nel villaggio di Oluko (distretto di Arua-Uganda), tramite l’organizzazione non governativa Centro Internazionale per la pace dei popoli di Assisi. Lì ho avuto modo di confrontarmi con la realtà del luogo e con le condizioni in cui vivono i bambini nel paese. Rendendosi conto della gravità dei problemi incontrati dal popolo

ugandese,

le

Organizzazioni

Internazionali

e

alcune

organizzazioni non governative hanno elaborato progetti di sviluppo e d’emergenza

in

vari

settori

d’intervento.

Tra

questi

sono

da

evidenziare il settore sanitario, nel quale la cooperazione italiana è molto attiva, il sostegno dei diritti umani e soprattutto dei diritti dei minori, in modo particolare nel nord del paese, segnato da anni di guerra contro i ribelli, e quello dell’istruzione, punto di partenza per il reintegro nella società dei bambini-soldato e per lo sviluppo di una

12


società migliore, che punta in modo particolare sull’istruzione delle bambine. Nonostante l’Uganda sia stata oggetto di costante assistenza da parte della comunità internazionale, che contribuisce a quasi il 50% del budget nazionale e che gli aiuti allo sviluppo, insieme alle riforme dello Stato, abbiano rafforzato il PNL e ridotto la percentuale di popolazione che vive in condizioni di povertà, tuttavia la struttura economica del paese rimane molto fragile, poiché dipende in gran parte dalle monocolture agricole e lo sviluppo del settore industriale procede lentamente. Da oltre un decennio il Governo dell’Uganda è impegnato in un programma di trasformazione dell’economia mirato all’incremento delle esportazioni. Il debito estero arriva al 70% del PIL. Il principale documento per le politiche di sviluppo del Governo ugandese per la riduzione della povertà è il Poverty Eradication Action Plan (PEAP), che, nella sua più recente versione (2004) ha raggiunto un ulteriore pilastro riguardante “sicurezza e risoluzione dei conflitti”. Un importante strumento finanziario è il Poverty Action Fund (PAF): un

fondo

protetto,

all’interno

del

bilancio

statale,

destinato

unicamente alla riduzione della povertà. Le spese incluse nel PAF finanziano parte dei settori della sanità di base, educazione, agricoltura, settore idrico e viabilità rurale243. Sradicare

la

povertà

e

incrementare

la

scolarizzazione,

attraverso questi o altri tipi d’interventi, è il primo passo verso una società nella quale le credenze di personaggi come Joseph Kony non abbiano la possibilità di attecchire nel pensiero della gente comune, che stremata dalla fame e da decenni di conflitto può non aver la forza e la possibilità di reagire. E’

per

questo

che

lo

strumento

della

cooperazione

internazionale, se ben utilizzato, è importante, non solo per alleviare le sofferenze della popolazione attraverso progetti di sviluppo sul territorio, ma anche per far pressione sul Governo del paese, in modo che intervenga con più decisione nelle situazioni di conflitto che 243

Relazioni annuali sull’attuazione della politica di cooperazione allo sviluppo, anni 2000-2004, Ministero degli affari esteri, Cooperazione italiana allo sviluppo

13


ormai da troppi anni vengono vissute dagli ugandesi, in modo particolare nelle regioni del nord.

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