Il Gesto - Numero Dodicesimo

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Fu un istante in cui posasti sopra il mio braccio, con un tuo gesto più di stanchezza che d'intenzione, la tua mano e la ritirasti. Ma la sentii? Non so. Però ricordo e ancora serbo una memoria ferma e corporea dove posasti quella tua mano con un suo senso incomprensibile da quanto lieve... In fondo è niente, ma in una strada come la vita davvero c'è molto di incomprensibile. Chi sa se quando la mano tua

C'è un gesto che, come uno sfondo comune e archetipico, unisce in modo indissolubile tutto il mondo indoeuropeo: il gesto di una cessione, della libagione. Indagando le origini più profonde di questi termini si sceglie di addentrarsi in un orizzonte di significati sorprendentemente intrecciati: “gesto” deriva dal latino fero (a sua volta legato alla radice indoeuropea bher-), che significa “portare”, nel senso di “gestazione”, da cui forda, “femmina gravida”; “libagione”, nell'accezione più comune del termine, significa “offerta liquida”, e a seconda delle culture di riferimento chiama in causa un'altra schiera di termini. Portare un'offerta, quindi; cedere quel che si portato con o in noi. In quel tempo antecedente alla caduta del rito, il gesto era solito correre in aiuto del pensiero e della parola. Quand'esse, indagando le questioni più cruciali e pericolose dell'esistenza, finivano per scontrarsi violentemente contro il muro dell'aporia, allora come uno strumento di salvataggio arrivava il gesto: studiato, elegante, simbolico, e il corpo alleggeriva la mente. Così lavora sano l'organismo unico (dal gr. órganon, “strumento”, della famiglia indoeuropea di érgon, “lavoro”, appunto). Il gesto della libagione si pensa sia uno dei più antichi movimenti cultuali dell'umanità: l'offerta essenziale, modello di tutti rituali sacrificali che seguiranno. Nella cultura greca e in quella latina hanno predominato due coppie di termini per definire questo tipo di offerta. Da una parte ci sono il greco spénd ō e il derivato latino spondeō. Il primo vuole significare “offerta di sicurezza”, mentre nel compagno latino sembra prevalere l'accezione di “accordo, patto”; da essi provengono i vocaboli “responsabilità, sposo/a, sponsor”. Dall'altro lato invece vi sono il greco leíbō e il latino lībō, con rispettivi significati di “trasudare, sgocciolare” e “toccare appena, gustare”. Qualche tempo prima la cultura vedica chiamava il gesto della libagione agnihotra, parola composta da agni , “fuoco”, e hotra, “oblazione liquida”, che condivide la provenienza dalla radice indoeuropea g'heu- con il greco khé ō, “versare”. «Ciò che la punta è per la freccia, quello è l' agnihotra rispetto agli altri sacrifici. Perché là dove vola la punta, vola tutta la freccia», dice il Śatapatha Brāhmaṇa. Un'offerta, dunque, versata o fatta gocciolare su qualcosa, meglio se una fiamma. A questo punto la storia di questo gesto incontra un bivio che ne cambierà radicalmente la natura: la domanda sorge in noi, figli e figlie del mercato e della produttività, in modo assolutamente spontaneo: offrire, certo, ma per cosa? Cosa in cambio? (Quasi) impensabile un gesto che non abbia un tornaconto. I sacrificanti vedici sembrano i più abili nel superamento di questi interrogativi. Il loro rito è contorto e misterioso: sembra che offrano per ricevere in cambio un'infinità di cose, ma in realtà, chi offre davvero, non vuole proprio nulla; il suo è il gesto della rinuncia. I greci sono confusi: da una parte spénd ō, la sicurezza, la protezione; dall'altra però il loro grande Ulisse e i suoi compagni, che spesso si occupano di gestiColare libagioni con totale

GestiColandOfferte sentii posarsi sopra il mio braccio e forse un poco sopra il mio cuore, ci fu nel cosmo un ritmo nuovo?

naturalezza, senza chiedere nulla in cambio. I latini, infine, sembrano essere i più pragmatici: spondeō è un verbo «specializzato in un uso giuridico, con il senso di “portarsi garante in giustizia”»; l'accordo, niente in cambio di niente (ma più probabilmente anche in questo caso si tratta della spigolosa e beffarda questione di “cultura esoterica” e “cultura essoterica”, con la seconda a dominare la scena insabbiando la prima; un movimento che d'altronde si ripete lungo lo scorrere della storia in continuazione, e che dovrebbe suggerire di diffidare delle risposte che stanno al centro dello scaffale illuminato e cercare piuttosto i volumi nascosti e impolverati, senza sentirsi per questo “complottisti”).

Fu come se senza volerlo tu mi toccassi per avvertirmi di un inatteso mistero etereo di cui ignoravi però l'essenza.

C'è ambiguità sin dall'origine, quindi, ma un'ambiguità che non giustifica il netto fraintendimento dello sguardo contemporaneo. È una parola violenta quella che vede il gesto dell'offerta ad un invisibile come chiara richiesta di qualche favore: “la danza della pioggia per far piovere”, ad esempio. È una parola grezza e dimentica che gli occhi osservanti hanno iridi imbevute di quella logica economica-funzionalista, dove non è facile comprendere e persino tollerare un certo modo di improduttività. D'altronde anche gli dèi offrono libagioni, e non lo fanno certo per ingraziarsi qualcuno. (Che effetto fa la sacra inutilità?)

Così la brezza senza saperlo sui rami dice un'imprecisa cosa felice. 9.3.1934 Fernando Pessoa

Verso qualcosa nella fiamma, cedo il passo. Non a qualcuno che spero o credo mi stia osservando; nemmeno per qualcosa che, spero, questo gesto mi farà avere. Se per l'inevitabile retaggio culturale del pensiero teleologico dovessi individuare un qualche fine in questa libagione totale, allora questo sarebbe indissolubilmente legato al presente: non per quello che avrò o per quello che già ho avuto, ma per quello che sto avendo; per questo esserci, così, costantemente, di fronte a quella “meravigliosa ferita che è la vita”. Niente in cambio se non la straordinaria conCessione di cedere il mio passo, la mia offerta. Ecco il gesto, il “portare” qualcosa in quello spazio, interno ed esterno, che ricorda all'umano la dimensione più importante per la sua stessa sopravvivenza: l'umiltà, che in fondo cos'è se non un cedere senza intenzione di scambio? In questo il gesto supera, forse, ogni altro agire “classico”, transitivo o dialettico: il gesto non cerca una sintesi delle parti, né si impone nei confronti di un “altro” passivo; piuttosto schiude uno spazio dialogico, in cui la relazione tra portato è portatore è misteriosa e bisbigliata, è corporea e gestiColante; una relazione costantemente aperta, mai definitiva, che qualcuno chiamerebbe “triadica”, dove il terzo potrebbe essere proprio quell'invisibile e quell'indicibile con il quale mi relaziono nel mio “portare l'offerta”, senza chiedere nulla, ma muovendomi laddove il pensiero scricchiola e l'offerta non ha domanda.


CONFESSIONI di Abbandono “In quest’ultimo periodo ho cominciato a percepire in me un accumularsi multiforme assolutamente inesprimibile attraverso un genere artistico oggettivo qual è il romanzo; ma ormai non potrei più divenire un ventenne poeta lirico; e in ogni caso non lo sono mai stato. Ho così ideato un genere adatto ad esprimermi, una forma intermedia tra la confessione e la critica; ho scoperto, per così dire, un dominio sottilmente ambiguo, che potrei definire ‘critica occulta’. È il dominio del crepuscolo, ai confini tra la notte della confessione e il giorno della critica: è, proprio come indica l’etimologia, il dominio del ‘chi è colui?’ [Gioco di parole tra ta so kare (chi è colui) e tasokare (crepuscolo)].” Yukio Mishima, Sole e acciaio. Vedo perciò conosco. cultura, una scia di luce e dimensione (fotoVedo non ciò che è mio ma ciò che è tutto/di tutto. graficamente), invece nell’invisibile il gesto è una Vedo, mi vedo, quindi sto e sono. proprietà, un credo incarnato, un suono ed una Mi chiedo invece, non senza attesa o curiosità, cosa distensione. Il gesto è parte integrata del corpo sia il “proprio”. Divento curioso perché di proprio stesso, del mondo e del modo interiore. si parla in abbondanza e quindi è necessario essere Una narrazione “privata” del mondo. abili nel chiarificarne la sfumatura. Vedere equivale a sperimentare il continuo. Proseguo ancora in questo esempio di “vedente”. Non vedere introduce all’emersione dal continuo, e Vedere è cogliere immediatamente la distanza. conduce alla comprensione del “proprio”. La Senza una vista, senza una distanza, v’è il vasto, il presenza è l’intimità della distanza e nello stesso nero buio. tempo la dispersione del Fuori, o più esattamente è Eppure il proprio si mantiene. Il proprio “essere e l’intimità come fuori: la vertigine della spaziatura. stare” prosegue senza indugio. Specificare la propria attenzione sul gesto attivo Cerco, attraverso il profilo del non vedente, rende, per una volta, la vista ed il visibile superflui. attraverso i suoi occhi, i residui del “proprio” nel Poiché solo nel proprio, grazie alla precisione buio reale, nel tutto/di tutti. Essere e stare dell’atto, si circoscrive il gesto acuto ed attivo; un significano mantenere una presenza attiva, fremito dell’universo; un prurito dell’accadere. esercitare gesti. Padri del gestuale compiamo un movimento di Il gesto è imprescindibilmente un moto. Il moto del lenta presenza, di pre-essenza del corpo. gesto sopravvive, sia con luce, sia con buio. Il gesto Una vera e propria vertigine distribuita nella del non vedente è “proprio”, parimenti alla propria dimensione reale, reale invisibile, ma dentro ad un parola. Invisibili. tempo ed uno spazio d’intimità propria. Se nel visibile il gesto è un’unione, una congiunzione, un atto intermittente di posizione e

Il gesto è dunque un moto proprio: eppure avviene nel visibile, esteso al tutto. Leggo: “I principianti devono imparare a sfiorare

soltanto la superficie della materia se vogliono che essa resti all’esatto livello del momento”. Perciò mi sorprendo al pensiero del gesto proprio mentre avviene innanzi ad una superficie di materia. Ossia il gesto percepito e condiviso con il reale (spazio – tempo – incontro). Affinché il momento non sfumi, si è letto, il gesto deve compiersi cautamente e con sapienza. Poiché il reale, sotto il peso del troppo, può risultare lacerato e leso. Cose trasparenti, attraverso le quali balena il passato. Proseguo con la mia lettura. Noi siamo nell’affanno: ma il passo del tempo, consideralo un’inezia in ciò che sempre resta. Tutto ciò che incalza sarà presto trascorso; soltanto quel che indugia è ciò che ci consacra.

L’indugio è ciò che ci consacra. Il gesto che indugia è la salvezza del reale (spazio – tempo - incontro). Ricordo d’improvviso una cena di qualche tempo fa trascorsa con amici, colma di stoviglie, bottiglie, colori, candele. A metà della cena, i banchettanti raccolgono da questa tavolona disordinata un piccolo gomitolo da cucito; ed incominciano, passandosi il filo azzurro tra un boccone e l’altro, ad unire ed annodare tutto l’apparecchiato: posate, bicchieri, candele, bottiglie, mani. Come d’incanto la cena ha cominciato a trasformarsi in esperienza gestuale, poiché ogni mossa, ogni minimo spostamento per mangiare comportava una dinamica di ripercussioni a tutta l’intera tavolata. Credo che il gesto proprio ma cruciale si avvicini pienamente a questa immagine: indugiare non per dubbio ma per importanza e con-sonanza. Perciò il gesto proprio e cruciale avviene attraverso un moto in un panorama esteso. All’interno di questo panorama il gesto è un “connettore”; ossia connette e genera incontri. L’incontro a cui mi riferisco è quello in cui il gesto (proprio e cruciale) diviene motore di contatto tra tempi: in modo preciso quando l’ereditante si interpella su come reimmettere e reintrodurre ciò che ha ereditato. L’eredità, si è detto, è ciò che va custodito, portato intimamente con sé. L’eredità della tradizione, della Storia, dell’accaduto, l’eredità del tempo occorre vada accompagnata verso un qualche dove. Ebbene, come, attraverso quale gesto, la tradizione può tra-mutarsi, tra-mandarsi? Esiste questa possibilità? Mi servo nuovamente di alcuni esempi, non per rispondere ma piuttosto per scomporre il quesito.


“Nel dicembre del 1932, il filologo friulano Ugo Pellis inizia un lungo viaggio di ricerca attraverso la Sardegna, che lo porta, nel volgere quasi ininterrotto di tre anni, a indagare sistematicamente la struttura e le peculiarità della lingua sarda, per la stesura del celebre Atlante Linguistico Italiano. Nel corso del suo lavoro «nobilissimo ma gravissimo», in parte insieme alla moglie Nelda, Pellis visita 124 località diverse dell'Isola, percorrendo a piedi, sul dorso di muli e sulle traballanti ruote d'una Balilla donata dal Duce, migliaia e migliaia di chilometri, col suo carico di album d'illustrazioni, di questionari filologici, di taccuini da campo e di carte geografiche, che lo fanno spesso apparire agli occhi della gente un personaggio misterioso e buffo. Nel suo bagaglio anche un corredo di lastre fotografiche (poi di pellicole) utilizzate per ritrarre la realtà che circonda il suo universo di parole: uomini e cose che, nell'immaginario dello studioso educato a Vienna e a Innsbruck si configurano, sin dall'inizio, come una sorta d'inesauribile campionario di archetipi della «mediterraneità» ”.

“OR@le vuole essere il primo social network delle culture popolari.

È online nella sua versione base a partire dal 13 dicembre 2013 con l’obiettivo di creare un nuovo calendario rituale nazionale. Si tratta di un luogo digitale in cui caricare materiali, testi, video e audio che raccontino feste, riti, tradizioni, giochi e modi di lavorare, cibo e artigianato, ma anche analizzare le nuove ritualità urbane. La piattaforma nasce dalla donazione che il Professore Tullio De Mauro, illustre linguista già Ministro dell’Istruzione, ha fatto alla Rete Italiana di Cultura Popolare: il suo fondo personale di linguistica, dialettologia e culture locali. Da una parte l’obiettivo è quello di costruire una mappatura delle culture locali con il coinvolgimento delle comunità, degli enti e del terzo settore impegnato a valorizzare le proprie risorse culturali. Dall’altra l’archivio permette di far nascere relazioni e percorsi di condivisione fra i molteplici saperi locali in un’ottica di sistema: questo attiverà collaborazioni reali, facendo diventare l’archivio un luogo concreto dove poter progettare azioni comuni. È previsto l’ampliamento della mappa geolocalizzata e lo sviluppo di un’app dedicata”.

Cosa significa custodire la tradizione e reimmetterla nella modernità? Una sera d’estate tra i colli umbri, s’assistette ad uno spettacolo/concerto nel quale il compositore napoletano Fausto Mesolella condivise alcune importanti parole nel merito della “sesta napoletana”. Si tratta di un semplice accordo per chitarra. Compare nella celebre canzone “O sole mio”, ma, sempre più spesso, l’accordo viene obliato e trascurato, sostituito da un imperdonabile ‘errore’ d’omissione. E, con grande amarezza, Mesolella rivendicava il valore culturale, la grandezza infinitesimale di questo accordo quasi estinto, intendeva trasudarne lo spirito attraverso la musica per renderla eterna e viva. Ne era geloso e con veemenza e commozione egli suonava questo “suo”, profondamente suo, accordo. In qualche modo sento che potrebbe essere altrettanto significativo comprendere, prima, il significato di abbandono, per proseguire di ricerca in ricerca verso un’azione o un atteggiamento che si attui tramite un gesto proprio, cruciale e connettore, che sia in grado di connettere tradizione e modernità. Quando, magicamente, trovo qualcosa di meraviglioso, ispirato ad un film meraviglioso. “Stalker/Osservatorio Nomade è un collettivo di artisti ed architetti fondato a Roma nel 1995, composto da Francesco Careri, Aldo Innocenzi, Romolo Ottaviani, Giovanna Ripepi, Lorenzo e Valerio Romito. Il collettivo si definisce Laboratorio di Arte Urbana, che compie ricerche e azioni sul territorio con particolare attenzione alle aree di margine e ai vuoti urbani in via di trasformazione, coniugando in un’unica modalità di azione ed intervento la pratica artistica e l’osservazione dello spazio urbano”. Eccone il manifesto:

STALKER ATTRAVERSO I TERRITORI ATTUALI " E' un soggetto collettivo che compie ricerche e azioni sul territorio, con particolare attenzione alle aree di margine e ai

vuoti urbani, spazi abbandonati o in via di trasformazione. Tali indagini si sviluppano su diversi piani, attorno alla praticabilità, alla rappresentazione e al progetto di questi spazi da noi chiamati Territori Attuali. STALKER è assieme custode, guida e artista dei territori attuali, in queste sue molteplici vesti si dispone ad affrontare le apparenti insolubili contraddizioni attorno alla possibilità di salvaguardia tramite l'abbandono, di rappresentazione attraverso la percezione sensoriale, di progetto dell'instabilità e della mutevolezza di quei luoghi. Costituiscono il negativo della città costruita, aree interstiziali e di margine, spazi abbandonati o in via di trasformazione. Sono i luoghi delle memorie rimosse e del divenire inconscio dei sistemi urbani, il lato oscuro delle città, gli spazi del confronto e della contaminazione tra organico e inorganico, tra natura e artificio. Qui la metabolizzazione degli scarti dell'uomo, da parte della natura produce un nuovo orizzonte di territori inesplorati, mutanti e di fatto vergini, che Stalker ha chiamato Territori Attuali, indicando con il termine attuale il "divenir altro" di questi spazi. L'attuale non è ciò che noi siamo, ma piuttosto ciò che diveniamo, ciò che stiamo diventando, ossia l'Altro, il nostro divenir-altro. (Foucault) Tali territori risultano difficilmente intellegibili, e quindi progettabili, perché privi di una collocazione nel



Il Gesto dell'Incontro

Hanno scritto di g esto: J a c o p o

sugli.alberi@gmail.com http://suglialberi.weebly.com/

R a s m i

L V u e c t a t o r i

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