L'Erede - Numero Undicesimo

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Sugli ALBERI

rivista di divulgazione artistico-culturale

undicesimo/APRILE 2014

EREDE

"Sono convinto di questo: la tradizione è l'elemento in cui il discente si trasforma continuamente nel docente [...] Chi non ha imparato non può educare, poiché non vede in quale punto è solo, e dunque comprendere a sua maniera la tradizione e insegnando la rende comunicabile. Il sapere diviene tramandabile solo in colui che lo ha concepito come tramandato- e che diventa libero in una maniera incredibile. A questo proposito penso all'origine metafisica della barzelletta del Talmud. La dottrina è un mare ondoso, ma per l'onda (se la prendiamo come immagine dell'uomo) tutto sta nell'abbandonarsi al suo movimento, così da salire e rovesciarsi spumeggiando." (W.Benjamin, lettera)

Le EREDItà di un rivoluzionario

che amava citare per combattere i totalitarismi

vanificando il potere rivoluzionario della traduzione. Il traduttore, secondo il Il Signor Walter Benjamin citava molto. Egli rispettava una sorta di etica della signor Walter, avrebbe dovuto piuttosto rispettare l’Originale, anche nella sintassi, citazione. Spesso i suoi saggi divenivano come dialoghi, aperti alle voci altrui, senza mai coprirlo, citandolo, parola per parola, come accade nelle traduzioni erano pieni di voci altrui. Il suo modo di citare era parte coerente del suo modo, interlineari del testo sacro. Un traduttore dunque, non dovrebbe intervenire impegnato, di tradurre e di fare storia. Ricevendo un dono, lo preservava in appropriandosi dell’originale col suo modo di intendere e poi restituirlo, ma quanto dono, ovvero non se ne appropriava. Restava riconoscente al donatore, essendo ad esso fedele, deve uscire dalla sua sintassi, dal suo modo di intendere citandolo con nome e cognome. L’eredità storica come era intesa dal signor verso il modo dell’originale. Così, in modo del tutto inusuale, Benjamin Walter è interessante e inusuale, non era intesa come il legame del presente con il considerava la libertà il criterio del tradurre: non la libertà che si oppone alla passato, ma del passato con il futuro. Nella seconda delle sue Tesi di filosofia della fedeltà, per libertà egli non intendeva il libero arbitrio del traduttore, bensì una storia troviamo scritto: “ Noi siamo stati attesi sulla terra. A noi, come ad ogni liberazione dalla lingua madre del traduttore e del lettore, attraverso la fedeltà alla generazione che ci ha preceduto, è stata data in dote una debole forza messianica, parola, con la traduzione interlineare. In questo movimento di tra-duzione però, si su cui il passato ha un diritto.”. Egli capovolgeva così il concetto di eredità mettono in dialogo entrambe le lingue -quella dell’originale e quella del traduttorestorica, e con esso quello di rivoluzione: noi siamo stati attesi sulla terra per si consente ad entrambe la possibilità di liberazione. Proprio in quel “Tra” le assolvere un compito: non per salvare generazioni future, bensì per compiere Fare l'erede per con-locarsi nella propria presenza. lingue escono dal loro isolamento monadico, si confrontano, mostrando i loro l’opera di liberazione in nome di generazioni di vinti. “C’è un’intesa segreta tra le Non nominare, arrogandosi un primato adamitico (vecchia limiti, quello che non dicono, che non hanno detto. Enunciava Benjamin nel generazioni passate e la nostra” - scriveva Benjamin - è la forza dirompente della aspirazione egoica). Giungiamo qui come portati, onde spinte memoria, che non coincide con l’immagazzinare dati, ma con il ri-cordare i vinti saggio Il compito del traduttore: “Redimere nella propria quella pura lingua che è dallo slancio del mare. che -non citati nella storia ufficiale scritta dai vincitori- continuano a subire torti. racchiusa in un’altra; o, prigioniera nell’opera, liberarla nella traduzione- è questo Non svanire in nomi routinari: non più nomi ormai, solo il compito del traduttore.”. Ogni lingua messa in dialogo con l’altra mostra Nella sesta tesi più esplicitamente scriveva: “Articolare storicamente il passato anonimato (oblio...). non significa conoscerlo come propriamente è stato. Significa impadronirsi di un d’essere una delle lingue dell’umanità, e non autoritariamente “Il linguaggio”. E se Allora soprannominare, per non perdere il senso dei nomi, una lingua è un modo di articolare il reale, allora la traduzione interlineare non è ricordo come esso balena nell’istante del pericolo … solo quello storico ha il non rischiare l'omonimia: dei nomi dati ascoltare così dono di accendere nel passato la favilla della speranza, che è penetrato dall’idea solo un passaggio orizzontale che permette la liberazione da una lingua, ma anche l'essenza non l'apparenza. il passaggio verticale di crescita e sviluppo del linguaggio attraverso la che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo Ereditare come ricordare, in breve. comprensione profonda di altri modi di intendere che fanno affiorare l’inteso. La nemico non ha smesso di vincere.”. Per Benjamin il materialista storico doveva Il nome, il più memore, difende un'esperienza nella sua seità: farsi redentore delle prede “passando a contrappelo la storia”, per la lotta contro il lingua pura di cui si parlava è pertanto quella dell’inteso. La critica di Benjamin offre un indice alla particolarità. allo storicismo è strettamente connessa alla riflessione sul compito del traduttore e fascismo; lo storico dello storicismo invece “si immedesimava” nel vincitore, Soprannominare, dunque: nominare ancora, ossia essere sul linguaggio in generale: se la storia va riscritta perché è stata scritta dai come emerge in questo passo della settima tesi: “ Ma i padroni di ogni volta sono capaci di nomi soprannumerari. vincitori, ciò può avvenire solo attraverso il linguaggio, che permette quella gli eredi di tutti quelli che hanno vinto. L’immedesimazione nel vincitore torna quindi ogni volta di vantaggio ai padroni del momento … Chiunque ha riportato sincronia di tempi che altrimenti sarebbe impossibile; tale narrazione deve partire dagli spazi bianchi delle traduzioni, dove giace l’inteso: nel dialogo tra i modi di fino ad oggi la vittoria, partecipa al corteo trionfale in cui i dominatori di oggi Il genio dell’Europa è quello che William Blake ha definito intendere, dando voce alle voci dei vinti. Così è stato annunciato come il Signor “la santità dei minimi particolari”. E’ il genio della diversità passano sopra quelli che oggi giacciono a terra. La preda, come si è sempre usato, Walter Benjamin, attraverso il genio della citazione, combatteva etnocentrismi è trascinata nel trionfo”. Al traduttore, negli scritti benjaminiani, spettava un linguistica, culturale e sociale: la mappa assurdamente compito simile, anch’esso capovolto rispetto alla tradizione e al senso comune. linguistici, dittature culturali, ingiustizie storiche: combatteva i totalitarismi. Così frammentata dello spirito europeo dimostra una fertilità si è voluto citarlo per continuare a combattere i medesimi, facendo tesoro delle inesauribile. Per l’Europa la minaccia più radicale è la marea Infatti, una traduzione che pretendesse di servire il lettore era considerata da eredità che ci ha lasciato: questi modi di ripensare le eredità universali, storiche e detergente, esponenziale, dell’anglo-americano, sono i valori Benjamin una cattiva traduzione: essa per facilitare il lettore si sarebbe linguistiche. allontanata dall’originale, allontanando il lettore stesso dall’originale e globalizzati e l’immagine del mondo che questo vorace Esperanto porta con sé. Il computer, la cultura del populismo e il mercato di massa parlano anglo-americano, dal night club portoghese al fast-food di Vladivostok. Non è la censura politica che uccide [la cultura]: sono il dispotismo del mercato di massa, le ricompense di una fama commercializzata. Non c’è dubbio: l’Europa perirà se dimentica che “Dio si trova nei dettagli”. (G. Steiner)

SOPRANNOMINARE


Forse siamo come sacerdoti, cui fu affidato in custodia qualcosa di sacro e importante. Come la vestale serba con devozione una certa fiamma celeste. Forse abbiamo un compito, assai originario e ineluttabile: essere testimoni. Essere eredi. Alla seconda potenza, rendere testimonianza dell'essere eredi. Le parole di Holderlin paiono un sussurro assorto e meravigliato, in cui l'esclamazione si riassorbe in un riserbo venerante.

IM Walde (Hoelderlin)

ESSERede

“Tu nobile belva. Ma l'uomo abita in capanna e si avvolge d'una veste vergognosa, perché è segreto, ma attento anche, e serbare lo spirito come la sacerdotessa la fiamma del cielo è appunto la sua intelligenza. Per questo ha libertà di volere e un più alto potere di mancare come di compiere e a questo uomo fatto a somiglianza degli Dei fu dato il più pericoloso dei beni, il linguaggio, perché creando distruggendo cadendo ritornando alla Maestra, alla Madre eternamente viva- testimoniasse il suo essere, l'essere erede, l'aver imparato da dei, divina tra tutte le cose, l'Amore che tutto regge.

Siamo qui come eredi, dunque. Proprio in quanto siamo, nel modo in cui siamo, riceviamo quel compito immemorabile d'eredità che l'esser(ci) implica. Per capire in quale modo noi siamo, quindi, potrebbe giovare la comprensione di cosa significhi la condizione di erede. L'erede è il destinatario per eccellenza, l'accogliente che riceve. E riceve senza intenzione o richiesta: semplicemente riceve, molto riceve. Ma non ciò che il suo desiderio presuppone o domanda. L'eredità ci giunge, infatti, dall'altro, capita da un esterno. E, perciò, si presenta come un oggetto ignoto (perché é segreto...) che tuttavia ci indica e ci implica (ma attento anche...). La ricchezza dell'erede è sconosciuta e involontaria, eppure inevitabile come un'elezione. L'eredità si manifesta come un dono imprevisto che chiede di essere appreso: cade come un quesito interpellante. Al suo cospetto si è sempre dilettanti chiamati ad un apprendistato.

Perché egli in nulla perdura. Dunque, pare comprensibile che tale situazione rechi grande difficoltà e Nessun segno l'incatena. Non sempre un ricettacolo per contenerlo. La mia opera procede da Dio.”

altrettanto dubbio. L'erede è il figlio della scomparsa, il discendente della morte e, pertanto, sopporta tutto il carico di sgomento e inadeguatezza che la potenza inafferrabile della fine sempre ci infligge. In fin dei conti, egli si deve lasciare sfiorare dall'impalpabile dell'assente, percependo lo sguardo dell'altro e l'urgenza dell'altrove. Quello che gli tocca è una presenza postuma che bussa chiedendo una paradossale custodia. Ciò è il più alto ed arduo dei compiti: riconoscere l'arrivo di ciò che non c'è e fargli spazio. All'erede appartiene una non-appartenza, un inappropriabile cui deve restare fedele.


E forse, perciò, nulla è più leggero dell'essere-erede. Nessuno passa con più grazia e leggiadria sulle cose del mondo, sul loro flusso inarrestabile. Lieve d'inappartenenza, l'erede può realmente appartenere al suo istante, perchè lo riceve come un dono e come un dono lo lascia. Tra questi due doni imbocca la porta del suo accadere, che si rinnova di secondo in secondo, spalancandosi come un'opportunità sulla pienezza. La sua immanenza è colma e leggerissima: non si ristagna mai nella disperazione o nell'indifferenza d'un presente ingordo laddove circola il fresco respiro del passaggio, che dal passato spira verso il futuro. Tale immanenza stempera la sua ferrea austerità nel riverbero d'una trascendenza che è altre immanenze assenti. La forza nervosa dello spazio, in tal modo, trova un'intima famigliarità con la morbidezza onirica del tempo. L'erede ha ascoltato il silenzio (di Tuttavia, quell'immenso (mancante) dispone l'attuale, ce lo accomoda ciò che non è più/l'ereditato) e il suo incantevole racconto per bene dispiegandoci una chance di esserci. Bisogna vederla quella s'estingue dolcemente in nuovo silenzio (di ciò che ancora non soglia sottile da cui sempre muoviamo verso il mondo, immaniamo. è/l'ereditario). Rimaniamo. Su di essa, per magia, noi veniamo in una grande comunità (etimologica) con l'av-venuto e l'av-venturo. Perciò, assumendo questa Allora può essere che siamo eredi quando non ci abbandoniamo condizione d'erede, si tratta di capire che/come la nostra verità stia in alla tradizione ponderosa (pondus...) della Storia. Se non lasciamo relazione inevitabilmente con la totalità. Il nostro gesto-istantaneo di che l'impeto della sua fiumana ci pigi in una certa, gravosa e fosca, danza coglie un'armonia in dissolvenza d'un movimento precedente, necessità. Mentre, invece, impariamo a scorrere nell'acqua limpida improvvisando una mossa che ne sostenga la beltà verso un ballerino del rio-Eredità. In questa incredibile trasparenza le cose ci ulteriore. appaiono, noi appaiamo in loro. Dell'erede, infatti, potrebbe essere

Forse può essere più elementare di quello che il discorso non dimostri. Come siamo rispetto ad un corso d'acqua, così ereditiamo. Sempre ci situiamo in un punto specifico di un fiume, del suo scorrere. Abbiamo un istante-immanenza da cui ci affacciamo verso la corrente, che è costantemente, di momento in momento, questa-corrente-specifica con cui entriamo in relazione. Tuttavia quest'acqua -insieme alla quale avveniamo- sempre viene e sempre va. C'è una fonte taciuta nel fiume in cui ci immergiamo. E poi un estuario lontano, inimmaginabile. Il nostro esserci si situa nell'abbraccio di un maggiore non-so-dove, dalla cui materia magica e inconoscibile prende forma. La montagna e la costa dell'evento-fiume, al cui cospetto siamo esposti, restano una potenza irraggiungibile e irrefutabile, una dimensione che non ci appartiene e da cui non prescindiamo mai: un'eredità.

ereditàRIO

IRIDErede

soprattutto lo sguardo: l'iride è vera erede. Per cui il suo compito L'erede è sempre povero in sé, sprovvisto. Perché la ricchezza gli giunge diverrebbe quello di conservare un certo stile nell'osservare. E ed è ricchezza d'altri. Sembra, dunque, che viva d'un elemosina di essere testimoniarlo. lanciata dalla mano anonima d'un passante. Ed risulta così una sfida complessa e beffarda: da indigente farsi oculato amministratore di beni, L'erede è mosso verso le cose (e la loro conseguente esperienza) da quel debito altrui. Stiamo al mondo, in quanto eredi, come in casa d'altri. Provando interpellante che gli impone il suo sentimento di eredità. In lui formicola il quella stessa gioiosa lusinga, ma anche sollecita in-si-curezza, di chi si desiderio di chi riceve un dono, misterioso, che infonde una gratuita e sente ospitato da qualcuno. Il nostro essere eredi, inoltre, si intreccia con ineludibile curiosità. Il suo lavoro di custodia, pertanto, si declina come un l'essere erede di un altro, divenendo noi stessi già sempre anche eredità. esercizio di esplorazione, che è uso e godimento in cui mai si produce un abuso Se ci guadagnamo un'abitazione o un'altra proprietà qualsiasi bisogna o un'usurpazione. Poiché di roba d'altri si tratta, da maneggiarsi con cura. sempre tenere in considerazione che essa è destinata ad altri. Sarà Poiché questa sua attività fervente si dispiega nella luce consapevole di una ereditata. Casa nostra è sempre casa d'altri. preliminarità. Ovvero dell'imminenza della consegna in eredità ad un altro testimone. In tal senso, egli è tra-mite, é tra-duttore di un moto di eredità inesauribile: lo è con estrema delizia, e grazia.


"tEmpli Egei con VenerAzione afFacciaTi suLLa nATura" Il fiume, come il tempo, s’incunea, passa, travolge. Il tempo è dritto, lineare. È tempo – fiume. Questa visione dell’esistenza appartiene al mondo occidentale, secondo cui il corso della vita è un accumulo di esperienze. Diverso è invece il modo orientale. “Tutta la musica occidentale è, in fin dei conti, puro empito drammatico: “Io voglio, pretendo, desidero, chiedo, soffro”. Quella orientale invece: “Io non voglio niente, io sono niente” – una dissoluzione completa in Dio, nella Natura. ” (Andrej Tarkovskij, Diari – Martirologio). L’oriente si stringe al tempo – stagno. Lo stagno che macera e s’imbeve di linfa e densa materia, che attende le proprie segrete evoluzioni. Il tempo dello stagno è biologico e non accumula, lascia scaturire intimamente ed empaticamente. Il tempo occidentale – fiume è tempo di progresso; il tempo orientale – stagno è tempo di processo. Il progresso storico permette di studiare calcolando, prevedendo, (dialetticamente) grazie al passato. Il processo storico permette di studiare sorgendo, insorgendo (segretamente/intimamente) nel presente. Non lontana da quella orientale-processuale è la filosofia olistica da cui: “Una goccia più una goccia, fanno una goccia più grande e non due”. Sono concezioni all’antitesi dell’esperito scientifico e post-illuministico, che sembrano inoltrarsi in terreni fangosi ed inclassificabili: proprio a causa di una predominanza e consuetudine al modo progressuale. Questo modo progressuale (cumulativo – scientifico) si trova, di nuovo, vacillare leggendo quest’altra affermazione: “La dialettica in tutte le sue modalità rimane dunque lo sfondo comune dell’Occidente. L’Oriente è veramente altro rispetto a tutto di questo. Innanzi tutto vi è un intreccio forte tra sapienza e saggezza, al punto di rendere i due momenti quasi indistinti. In secondo luogo la realtà è intesa come processo e non come contrapposizione tra momenti. Un processo che si svolge interamente sul piano dell’immanenza, tutto raccolto nelle sua dimensione temporale. L’Oriente, a partire da questi assunti, propone modi d’essere che ci appaiono secondo le nostre consolidate logiche come ossimori: pensiero senza idee, gusto dell’insapore, agire del non agire” (Intervento di François Jullien, Università di Parigi, Saggezza o filosofia, la via o la verità).

Nel suo studio sulla saggezza del pensiero cinese antico, François Jullien consegna un’analisi persuasiva del rapporto difficile, talvolta agonistico, tra la filosofia e la saggezza. Come ha spiegato, molto presto nella storia della filosofia essa ha emarginato “la saggezza, considerandola inconsistente e teoreticamente insufficiente […] la filosofia ha condannato la saggezza all’incurabile povertà propria di tutto ciò che non è sapere rivelato (o dimostrato). […] La saggezza sarebbe un sapere che non vuole arrischiarsi a cogliere l’assoluto, la verità. Di più, sarebbe un pensiero rinunciatario, molle, senza spina dorsale, un pensiero spuntato, tiepido, un pensiero piatto insomma, un triste avanzo del pensiero” (François Jullien, Sagesse ou philosophie).Divengono così sensibili le differenze nelle concezioni di esperiente/esperito.Occorre chiedersi come viene concepita, dunque, l’esperienza nel modo processuale – orientale. È necessario ascoltare altre voci, alcune delle quali russe, proprio nel mezzo di questo guado tra oriente e occidente.

Il regista russo Andrej Tarkovskij: " Un tema per me molto importante è quello dell’esperienza dell’uomo. Con questo film (“Andrej Rublev”) volevo dire che

non è possibile trasmettere la propria esperienza personale, imparare da qualcuno a vivere. Bisogna solo vivere e trarne qualche conclusione che non puoi lasciare agli altri in eredità. Spesso si sente dire: bisogna usare l’esperienza dei nostri padri. Ma sarebbe troppo semplice perché ognuno di noi deve farsi per conto proprio una sua esperienza e quando ci arriviamo è il momento di morire, purtroppo, e non abbiamo il tempo di usarla. E’ la legge della vita, il suo significato ".

Egli sembra voler distogliersi dall’idea di progresso storico, secondo cui un figlio deve acquisire l’esperienza di un padre. Nei suoi film narra chiaramente dell’erede che deve conquistarsi il significato da ereditare: l’erede eredita unicamente un segreto, un gomitolo da districare affettuosamente (si pensi al segreto della campana in Andrej Rublev); non vi è quindi una consegna di senso all’altro (all’erede), tutt’al più, di un intimo profumo esistenziale che generi fertile dubbio e volontà di ricerca. La poetessa russa Marina Cvetaeva presta altrettanta importanza alla comprensione di sé in quanto poetessa – erede e dunque alla necessità di essere spettatrice nel grande palcoscenico che è la terra: “Per avere un parere su una cosa bisogna viverci, in quella cosa, amarla. Chi non ha a che fare con la poesia, chi non vive d’essa, non può intromettersi. Quando recito una poesia sul mare e un marinaio che non capisce nulla di poesia mi corregge, io gli sono riconoscente. Lo stesso con il guardaboschi, il fabbro, il muratore. Ogni cosa che mi viene donata dal mondo esterno mi è preziosa. L’anima e il mare. Se il mio paragone marino è sbagliato, va all’aria tutta la poesia. Il più terribile, il più maligno (e il più onorevole!) nemico del poeta è il visibile. Un nemico che può vincere solo attraverso la conoscenza. […] Je suis de ceux pour qui le monde visible existe. Nei propri argomenti/paragoni il poeta deve restare cauto: paragonando l’anima al mare, egli deve conoscere ogni ora dell’oceano. Per imparare tutto – una vita non basta. Ed ecco venire in aiuto gli esperti del mestiere – i maestri.” Ecco quindi che il poeta eredita un segreto dopo l’altro, nelle sue mani, riconoscente dei propri maestri. Il marinaio, l’artigiano affidano con fraternità al poeta solo un residuo del proprio mestiere, il residuo della spuma sullo scoglio, il residuo del taglio sulle squame: non possono consegnarne il senso tutto. L’intervento che ci spetta, in quanto eredi di voci e di gesti, si concentra innanzitutto sul proprio territorio e sul proprio “paesaggio”. Nella poetica emiliana, da cui (emiliani) ereditiamo i residui, vi è la presenza del gelso. Si trova spesso una lunga fila di gelsi nei campi contadini, in modo anomalo e curioso. Ebbene, il gelso è un residuo fondamentale del paesaggio emiliano. L’erede emiliano deve conquistare il senso e renderlo proprio, non solo per tramandarne l’utilità, ma soprattutto per ereditarne la necessità segreta. Il gelso del paesaggio potrebbe essere il corrispettivo del dialetto della lingua. Entrambi divengono amuleti nel mondo della natura,


eppure altrettanto veri nella terra della storia, sprigionando un significato non utile, non razionale, ma piuttosto affettivo nei confronti del proprio essere eredi. Il dialetto, la parola rara, il motivo del gelso sono rituali quotidiani di processo storico. Essi sono i residui di uno stagno in ebollizione. Il “paesaggio” ha bisogno di vestirsi di residui rari, di motivi segreti, di significati essenziali, eco vissute. Nel guardare il proprio paesaggio ereditato si sorride segretamente al segreto. Eppure è necessario soffermarsi su quanto questa esperienza fondamentale, orale – di maestri ed eredi – sia stata, nella seconda metà del secolo scorso, tremendamente soffocata. Il filosofo Walter Benjamin scriverà ne Il narratore, nel 1936: “È come se fossimo stati privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze”. S’interseca qui la riflessione pasoliniana in merito alla scomparsa delle lucciole. Nel suo articolo, raccolto negli Scritti corsari, Pasolini, con pericoloso sentimento profetico, constata come “[…] i valori delle diverse culture particolaristiche sono stati distrutti dalla violenta omologazione dell’industrializzazione […]”. Le lucciole sono scomparse: la cultura popolare in grado di brillare intima, sacrale, grezza, vera e latente si sta estinguendo; l’aura è stata sottratta alla troppa luce artificiale dell’industria e del consumo. Giorgio Agamben torna quindi a parlare dell’esperienza nel/del quotidiano: “Noi sappiamo però oggi che, per la distruzione

necessaria e che la pacifica esistenza quotidiana in una grande città è, a questo fine, perfettamente sufficiente. Poiché la giornata dell’uomo contemporaneo non contiene quasi più nulla che sia ancora traducibile in esperienza: non la lettura del giornale, così ricca di notizie che lo riguardano da un’incolmabile lontananza, né i minuti trascorsi al volante di un’automobile in un ingorgo, non i viaggi agli inferi nelle vetture della metropolitana, né la manifestazione che blocca improvvisamente la strada, non la nebbia dei lacrimogeni che si disfa lenta fra i palazzi del centro e nemmeno i rapidi botti di pistola esplosi non si sa dove, non la coda davanti agli sportelli di un ufficio o la visita al paese di Cuccagna del supermercato, né i momenti eterni della promiscuità con degli sconosciuti in ascensore o nell’autobus. L’uomo moderno torna a casa alla sera sfinito da una farragine di eventi – divertenti, noiosi, insoliti o comuni, atroci o piacevoli – nessuno dei quali è però davvero diventato esperienza. È questa incapacità di tradursi in esperienza che rende oggi insopportabile – come mai in passato – l’esistenza quotidiana. La visita a un museo o a un luogo di pellegrinaggio turistico è, da questo punto di vista, particolarmente istruttiva. Messa di fronte alle più grandi meraviglie della terra, la schiacciante maggioranza dell’umanità si rifiuta oggi di farne esperienza: preferisce che, a farne esperienza, sia la macchina fotografica. Non si tratta qui, naturalmente, di deplorare questa realtà, ma di prenderne atto ”.

dell’esperienza, una catastrofe non è in alcun modo

Io abbandono Roma I contadini abbandonano i campi Le rondini abbandonano il mio paese I fedeli abbandonano le chiese I mugnai abbandonano i mulini I montanari abbandonano i monti La grazia abbandona gli uomini Qualcuno abbandona tutto

Con precisione Tonino Guerra comprende che ad abbandonare e dunque a perdere tutto sarà l’erede: erede di un mondo scomparso e abbandonato, lontano, remoto e dimenticato. Con questa convinzione, attraverso poesie, sceneggiature, racconti, interventi teatrali, il Guerra tenta di lanciare il filo dell’eredità e del residuo ancora più vicino all’erede. Nel momento in cui compare il timore dell’abbandono radicale del segreto residuo, allora numerosi artisti intervengono a bisbigliarlo, suggerirlo, urlarlo, tramandarlo. L’arte espressa si rende dunque più vicina al documentario, alla narrazione, al racconto.Il visivo visibile segreto nelle pellicole pare un poco ristabilire e riassestare il ponte sgretolato. Tuttavia è la cooperazione orale del saggio, del maestro, tra ereditanti, a cominciare il proprio disequilibrio.In questo senso è doveroso rendersi eredi di tale pericolo, ripercorrere, ovvero, alcuni degli sforzi compiuti per salvare i gelsi resistenti nel paesaggio. Tonino Guerra, negli ultimi anni della propria vita collabora con il Teatro delle Briciole di Parma, progettando e formando l’idea di un Teatro di Lettura: “… un luogo per degli incontri. Incontrare il vento, per esempio, o magari il mare o un piccolo bosco interno. Più che altro, un incontro con se stessi, qualcosa in un certo senso, che potesse far pensare a uno specchio per la memoria o, se volete, per l’anima…”Il residuo è, ancora una volta, l’alveare segreto che si trattiene nella storia, nella memoria, nel verbo: nella scrittura (arte), nel lavoro (rituale), nell’oralità (lingua). Il residuo è ciò che si trattiene nell’iride: Una volta passai per una città popolosa imprimendomi nel cervello per uso futuro vetrine, architetture, tradizioni e costumi. Eppure ora di tutta quella città ricordo solo una donna incontrata per caso che mi trattenne in quel luogo di amore. Giorno su giorno e notte dopo notte noi fummo insieme, il resto è stato tutto dimenticato: ricordo, ricordo solo quella donna che appassionatamente mi stringeva, e ancora noi camminiamo, amiamo, ancora ci dividiamo, e lei mi tiene ancora per mano, io non devo andare, la vedo accanto a me con le sue labbra tremule e mute. Foglie d’erba.

Walt Whitman,

Il residuo nell’iride è il depositato che non scompare, il sospiro umano di lunga durata. Il Teatro di Lettura può, forse, essere concepito e costruito come un luogo e un tempo in cui l’incontro dei residui è un incontro di un amore, un amore intimo, da conservare per l’esistenza, e da soffiare con grazia al proprio erede.


DOCUMENTARIO EREDITARIO Si vorrebbe argomentare che lo stile più adeguato alla dimensione dell'erede sia quello documentario. Innanzitutto, si chiarisca in cosa consiste tale “dimensione”: quella modalità ontologica ed estetica di eredi in cui ci costituiamo come soggetti. Siamo tali, soggetti (dunque suscettibili di verità e suoi operatori), nella misura in cui siamo capaci di esperienza. La capacità d'esperienza che ci soggettiva, in quanto esercizio di esperienza e custodia della sua potenza, ci garantisce l'evento. Nell'evento noi stessi accadiamo e ci facciamo veri. Esperire significa col-locarsi, ovvero attivamente farsi presenti insieme al presente. E questa esistenza è un fatto (estetico) di lingua-pensiero, in cui si istituisce la nostra realtà. Si istituisce su quel piano di mondo che continuamente fondiamo in un lavoro immediato e imminente di partecipazione creativa alle apparenze (l'essere speciale, da species: immagine). Dunque, pensiamo e parliamo come eredi. Non ci sono prove di questa esistenza, nostra. E, perciò, non si danno fondamenti inderogabili per la nostra parola, identità incorruttibili per il pensiero. Non siamo, dunque, eredi nel senso d'una reminescenza assoluta ed universale. Dall'ascolto e

dell'osservazione (dall'attenzione...) emergono sole tracce, i segni possibili-disponibili in cui si dà l'impermanente e inappropriabile apparire del mondo (in permanente predicato d'oblio). Da ciò deve svilupparsi il nostro discorso, come illatenza: l'opera puntuale e attuale. Il dire-pensare, infatti, si libbra da un riconoscimento di questi tratti come enigmi potenti e irresistibili. Da questi fantasmi, in cui il visibile si rivela di profondità invisibile. E, facendone memoria, li può tra-durre in evento. Non siamo veri soggetti che nell'insicurezza costante del lavoro memoriale: avveniamo su residui d'avvenuto. Operando in uno svanire irreparabile, la nostra soggettivazione è una archeologia creativa: parliamo e pensiamo in eredità. E perciò siamo fatalmente destinati al lavoro e all'esperienza, chiamati sempre ad avanzare perchè il dire non ammette soluzione. La natura delle ombre presso il nostro dire (come oggetti d'esperienza in quanto d'esposizione estetica) si configura come un imperativo d'avanti che prosegue oltre il detto. Così, attivi e potenti, siamo ereditari. E' ora opportuno riferirsi al secondo termine dell'argomentazione, ovvero La modalità del documentario. Come stile, si diceva (ovvero come regime discorsivo o procedura estetica). Come opera il documentario? Innanzitutto per sottrazione, per diminuzione. Potremmo quasi dire che opera inoperosamente (per vocazione paradossale: crea redentivamente). Per molti versi, infatti, è una forma negativa di lavoro che si contrappone alla prevalente positività totalizzante dell'attività. O, altrimenti, è un lavorare festivo ossia un lavorare puro e liberato. Fedele a quella sua natura imperativa non prescritta, esso si configura nel compito di aggiungere per ridurre (ovvero peggiorare). Il suo procedere diminutivo tenta di raggiungere il minimo, un minimo massimo. Mai il niente (impossibile), ma il suo quasi: un indiminuibile minimo. Questo minimo irrevocabile a cui aspira è il documento. Di fatto, il documento altro non sembra essere che quelle tracce, quei segni dall'eloquenza enigmatica e indecidibile di cui sopra si accennava. L'opera documentaria si fissa da un evento come un nome, secondo una funzione memoriale. In sé, in quanto memoria, è dis-evenemenziale, eppure trattiene indizi dell'evento che costituiscono una disponibilità. Essa, nella propria latenza, custodisce infatti una contro-capacità d'illatenza da indagare, da protrarre. Resta infatti come una figura attrattiva (potenza) che incita ad avanzare (attività). Risulta così pre-

evenemenziale: mai un detto puro e neppure un non-detto, un semidetto. L'esperito, nel documento, non si sottrae alla scadenza dell'oblio, di conseguenza all'ulteriorità d'un'operazione. Nella sua tendente vacanza, ci chiama ad una supplenza e dunque a nuova esperienza. Il documento, in effetti, conserva l'esposizione estetica delle ombre-apparenti nella tremula penombra del dire (un maldire...). Si custodisce, dunque, la specialità dell'essere ovvero il suo offrirsi, in subiecto, in una visibilità che è soglia di aperta intelligibilità. Il documento è, perciò, soprattutto immagine: nella sua genericità anonima si concede all'uso comune (e lo sollecita per desiderabilità) ma non cade mai in identità proprietaria. A tal punto, è forse possibile e opportuno avanzare qualche suggerimento di autori documentari. Si pensi, ad esempio, a Pier Paolo Pasolini e Gianni Celati come testimoni di una più vasta parte. Il percorso di entrambi s'impronta al tentativo di creare il documento. Tentativo possibile solo tramite uno sforzo di liberazione del lavoro da un gravoso apparato positivo (peggioramento): contro la


processo è squisitamente positivo e, pertanto, sfuggente ai tentativi di critica e sottrazione. In quanto esso funziona attraverso procedimenti costruttivi e attuativi promossi da volontà di potenza e volontà di sapere. In tal modo, la soggettività (le sue funzioni: pensiero-parolalavoro) sembra assolutamente data in una dimensione unica ed alienante, la cui sola alternativa pare essere l'auto-soppressione (il dualismo real-positivista di essere/nulla). Appare inoltre un'inconciliabile contraddizione (che poi è corrispondenza identitaria) tra la saturazione tautologica del sistema storico e il muto svuotamento della natura. L'ideologia superficiale di cui di volta in volta questo processo s'ammanta, il post-modernismo (la verità della non-verità) o il nuovo ipermodernismo (la verità positivistica dei fatti reali), tace la condizione d'illatenza del vero pensiero-vero soggetto. Perciò solo faticosamente si riconquista l'esercizio della parola e della soggettività nella loro dimensione (anche) negativa, locale e discontinua: dunque naturale, potente ed ascetica.

funzione autoriale, contro il sistema esteticotradizionale, contro la saturazione della significazione e dell'intenzionalismo. Tutto ciò significa, appunto, una volontaria inoperosità: scelta di abbassamento e diminuzione. In diverse forme d'opera essi sperimentano lo stile documentario, sospinti da una ricerca poetica. Considerando la poesia come veglia dell'enigma (dunque della potenza disponibile all'esperienza) e, in quanto tale, come procedura/possibilità di verità. Ricercano quell'esposizione puramente immaginale che resta apertamente irrisolta, vitalmente irrisolta: con terribile effetto d'impurezza, con la liberazione d'una gratuita inconcludenza . Il soggetto che opera non s'eclissa mai: anch'esso si mostra (in corpo e parola nel frangente) in una presenza manifesta e irresolubile. La mediazione desidera essere immediata per una comunicabilità inesausta. Questo stile si contrappone -politicamente- ad una tendenza più generale, perciò definibile per contrasto “anti-documentaria”. E' lo stile proprio dell'industria culturale in cui si costruiscono le soggettività contemporanee: tragicamente segnate da un'impossibilità di pensiero e di parola, ovvero povertà d'esperienza. Incapacità d'evento e partecipazione: non c'è presenza, non c'è presente... L'organizzazione estetica della modernità è dominata da fenomeni discorsivi come l'informazione, il dato statistico, l'analitica specialistica o l'intrattenimento. Tutte procedure soggettive fondate sull'astrazione, la mediazione e l'adeguamento in cui all'assoggettamento e isolamento dell'individuo corrisponde una squalificazione delle cose: s'espone così un nichilismo famelico. Il modo di questo

Svolgere questo ragionamento e questa pratica, in ambito artistico, ha forse significato sperimentare uno stile documentario. In quest'esperienza emancipativa, il discorso ed il lavoro sembrano ripristinarsi in una potenza di evento e di verità. L'esistenza promette nuove, numerose qualità. Un respiro liberatorio sembra sbloccare l'impasse di storia e lingua in cui si staglia la moderna incapacità di politica. Di nuovo si è responsabili, di nuovo si comunica: ancora è possibile ereditare il mondo.

Ricognizioni territoriali.

Una linea (peut-etre): Pasolini, Celati, Frammartino, Rosi... Ci sono tutta una serie di esperienze documentarie nel nostro presente che rompono il cerchio magico dell'arte contemporanea. Tutte ancora da valorizzare secondo merito, probabilmente. E nascono insieme da un solo gesto, da un movimento verso l'esterno. Per una ricognizione del circostante, dei paraggi (abitudine da cacciatore, da raccoglitore: gesto primordiale...). Si tratta, in effetti, di spezzare quell'incanto di infinità interiorità che la contemporaneità artistica ha imposto. In tale contesto l'opera vale come concetto, piuttosto che come esperienza. Ed il concetto vale in quanto vale la soggettività che lo sostiene. E l'individuo-che istituisce il concetto-vale in proporzione alla sua costruzione mediatica e accademica (sempre più corrispondenti, coincidenti in un solo processo di creazione di valore commerciale). In tale misura è semplice capire quanto questo sistema costituisca l'attività estetica (procedura del vero) sulla base della

pre-sup-posizione (unica-egotica) piuttosto che sulle posizioni (diverse e soggettive). Ovvero invece che sulla possibilità d'esperienza, che si offre avendo dileguato l'astrazione di anticipazione (pre-) e superficialità (-sup-). Oggi sembrerebbe che la fragilità dell'evento nell'operare estetico posi sulla mancanza di luogo che è propria di quanto si dà, o si dichiara, esclusivamente concettuale. E, parallelamente, si configura nella temporalità assoluta e chiusa d'una tradizione che diviene gioco citazionisticoparodistico di linguaggi impersonali. Allora l'atto liberatorio sembra essere quello di un'uscita: una ricognizione sul territorio. In ricerca, per un'esplorazione sul campo. Quest'arte (documentaria) si origina in un movimento verso/ne lo spazio reso possibile da una rinuncia principiante al sistema chiuso e codificato del linguaggio. Ovvero alla temporalità normata. Quest'ispezione, infatti, muove verso le forme (ignote) nel prescindere dalle regole (note). Nei luoghi sarà poi possibile ritrovare il tempo,

"L'indifferenziazione programmatica colpisce al cuore ciò che qui abbiamo chiamato 'campo affettivo'- il campo degli effetti che scioglie i blocchi del corpo e della mente. [... ] Essere al mondo vuol dire compiere proiezioni immaginative e creare campi affettivi in tutto ciò che ci circonda. Ma negli ulimi anni è subentrato una specie di oscurantismo, per cui tutto diventa culto dell'attualità..." (G.C.)

sintesi estrema e un po' ludica. Esso è un'ispezione territoriale che si formula discorsivamente, si mostra. Forse primo maestro di questa operazione è Pasolini stesso, con le sue inchieste poetiche sulla sessualità, l'urbanistica di Orte, le mura di Saana. Divorato da un'insaziabile curiosità (erotica...) per le forme, belle ed/perché eterogenee, del paesaggio, delle Si evade, perciò. Per non invadere. Ci si occupa (si fisionomie, delle lingue. Prim'ancora dei documentari, è già documentaristico nella sua lavora), per non occupare (parassitare improduttivamente). Per lo più l'operatore non si roma cinematografica, nei suoi (non)attori borgatari, nella Matera evangelica, nel sottrae mai alla visibilità, egli è in campo. In naturalismo dei Ragazzi di vita, nei dialetti... Su quanto non c'è evento operale che prescinda dal quella linea si potrebbero collocare esperienze soggetto e dalla sua pratica: esso significa infatti soggettivazione. Un'attività poetica-poietica. In tal come l'emilia fluviale percorsa della camera e dalle narrazioni di quella figura dinoccolata e un senso, non abbiamo un soggetto già autorevoleautorizzato che legittima il suo discorso (con la sua po' bislacca del Gianni Celati. Oppure il pronuncia concettuale), ma un soggetto disponibile Meridione profondo filmato, e aperto, che si guadagna verità nella processualità e antropologicamente, da Frammartino. E le nell'incontro- in cui ne va di se stesso e del proprio periferie romane disperse nel limbo trafficato del G.R.A. attraversate da Rosi di recente. Tutti discorso. insieme nel paesaggio, tra il suo popolo... Questo significa il processo documentario, in ricomporlo, attraverso i suoi sedimenti spaziali , le sue tracce (mai così preziose...). Il posto, in quanto participialmente passato (“messo in precedenza”) rivela sempre, imprevedibilmente, storia. Privi di sicuro evento, si sperimentano posizioni nello spazio per ascoltare-osservare il sorgere di nuovo avvenire.


EREDITARE al tempo della PERDITA strutturato che si inseriva nelle rete più grande del “Discorso inesauribile”; aveva i propri Partiamo da molto lontano, dalle leggi (in)certe della natura. Vi è una serie di assunti e regole modi, i propri umani e i loro messaggi. Si assumeva la responsabilità di “avere qualcosa da naturali che possono essere convogliate in un'unica schiacciante affermazione, nata dalle mani lasciare”. Lo scambio, magari a volte non troppo “democratico”, era la sua di Shakespeare e liberata dalla bocca di King Lear in una sua tragedia: “dal nulla nasce nulla”. “coevoluzione”. Un'eredità limpida, materialmente povera ma forte nelle braccia; una Come spesso accade, queste che Gregory Bateson chiama “profonde verità parziali”, relazione dura ma ben tracciata nei solchi. Troppo stretta la sua morsa, ha finito per incontrano curiosi paradossi nello stesso mondo che tentano di regolarizzare. Ciò accade apparire una privazione; troppo furbo l'avvenire, si offerto come una nuova ignoranza. quando zero, ovvero l'assenza completa di ogni evento indicativo, si dimostra essere un messaggio. Questa la storia che Bateson ci racconta: «La larva della zecca si arrampica su un Fregato e stremato, il discorso della comunità si è allentato, come un tessuto liso, prossimo alla rottura. Le istituzioni che avrebbero dovuto sostituire il vuoto lasciato, non sono mai albero e resta in attesa su uno dei rami esterni; se fiuta esalazioni di sudore, si lascia cadere e state in grado di farlo. I presupposti, le fondamenta su cui venivano costruite, erano ciechi. può darsi che vada a finire su un mammifero; ma se non fiuta il sudore di lì a qualche Strutture su strutture che incancrenite parevano gabbie. In mano a persone che sempre settimana, si lascia cadere e va ad arrampicarsi su un altro albero». Ecco che quindi, in un meno rischiavano di prendersi una responsabilità e che sempre meno erano in grado di determinato contesto, anche dal “nulla” può nascere qualcosa. Il punto estremamente farlo, il discorso ereditario continuava a indebolirsi. Da una parte il tempo blando e poco interessante è che il contesto lo crea (o forse lo riconosce) chi riceve, o non riceve, il messaggio. In questi termini, nel mondo della biologia, si parla di “coevoluzione”: «la genesi esigente, dall'altra il tessuto sfumato della comunità; una reazione a catena ciclica: l'umano dell'abilità di reagire al messaggio costituisce il rovescio, l'altra faccia del processo evolutivo», solo, dalle mani lisce, che non trovava più appigli solidi per se stesso, figuriamoci se fosse riuscito a essere lui stesso un appiglio per quelli che sarebbero arrivati a breve. spiega lo studioso. Qualcosa si spezza nel “passaparola” dell'eredità, come se d'un tratto tutti facessero Avvicinandoci, cominciamo col considerare l'eredità come un messaggio, un insieme di un'enorme fatica a regalare un messaggio ai prossimi, o, ancora peggio, come se nessuno informazioni che si spostano da un polo all'altro di una qualsiasi relazione. Tali informazioni avesse qualcosa da dare/dire. In balia del silenzio, quelle vite si guardano ancora attorno. possono consistere negli insegnamenti forti di un nonno “completo”, dalle mani ruvide di chi Paradossale il loro tormento: prima di loro le nuove generazioni avevano lottato per ha toccato un tempo che perlomeno insegnava, o forse esigeva, l'interezza; oppure essere “liberarsi” dall'eredità stretta. O meglio quella lotta era stata l'eredità che, forse semplicemente dei beni materiali che arrivano con la fine di una vita a noi vicina, doni amari inconsapevolmente, avevano deciso di ricevere. Volevano emanciparsi, crearsi i propri che porta la morte; o ancora l'insieme di centinaia e migliaia di anni di storie che ci mondi con i propri insegnamenti, in un movimento coraggioso e insieme ottuso; questi, attraversano più o meno consapevolmente. L'essere umano è, in questo senso, sempre erede di invece, angosciati da un vuoto di indicazioni, cercano qualcuno che sappia realmente dire qualcosa: immerso nella trama di un Discorso inesauribile che connette, con suoi (nostri) loro qualcosa di Vero. La dimostrazione che quando la libertà è data e il suo infiniti messaggi, tutte le esperienze dell'esistente.Di fronte a questa regola biologica e a questa raggiungimento (la sua costruzione) non richiede un lavoro completo e organico, un riflessione intellettuale ci sono poi delle vite vere, tantissime. Un sacco di vite che askēsis, tende facilmente al soffocamento.Lo stesso era successo qualche decennio prima, appartengono a generazioni poco lontane tra loro e che vivono il “dramma” del loro presente. quando i bei nonni dalle mani ruvide, truffati e incantati dalla modernità, decisero quasi Alcune di esse si guardano attorno con occhi attenti, cercano, troppo spesso invano, un all'unanimità di gettare via tutto quel che ricordasse loro la fatica e lo sfruttamento, senza messaggio da ricevere. Il tempo non le aiuta, non è esigente come quello dei loro nonni; è un accorgersi dell'immensa ricchezza che sarebbe potuta divenire eredità. Il bambino della tempo che lascia fare, comodo, passa oltre senza rimproverare gli assenti. Certo è un tempo in terra, del saper fare e dell'interezza, era stato gettato assieme a quell'acqua putrida di un certo modo libero, ma di una libertà narcisistica che riflette e non incita, frivola. I nonni, ingiustizia. Purtroppo la modernità ha le spine, e le mani che l'hanno impugnata eccitate, quelli dell'interezza, non ci sono quasi più; i pochi rimasti sono comprensibilmente stanchi e seppur ruvide e callose, ancor oggi sanguinano. Qualcosa tuttavia era passato della loro fanno fatica ad apparire ricchi di qualcosa. La comunità, al tempo dell'interezza, fungeva un po' esperienza; l'eredità è anche il messaggio che trasuda come un piccolo discorso dalla testimonianza, e la loro, seppur in qualche modo poi rinnegata, era stata palpabile. Sullo slancio della conquista di chi ha preceduto, si è rotta l'eredità per quelli che un giorno avrebbero seguito, i riceventi. Non c'è qualcosa di particolarmente nuovo in questo meccanismo ereditario: lo scontro e il rigetto, la conquista e l'ottusità, sembrano da sempre caratterizzare il modo di ereditare umano, o perlomeno occidentale. Qualcosa cambia oggi però, con una certa decisione, nei dettagli della “trasmissione”, rendendo l'“essere erede” più arduo. A differenza dei vecchi “riceventi” che hanno visto le loro storie caratterizzate da una conquista di qualcosa che mancava, quelli odierni annichiliscono di fronte all'evidenza del troppo pieno: cosa conquistare nel mondo scaltro in cui tutto è dato? Nel mondo che taglia le gambe all'esercizio costruttivo dell'esperienza? Allora, forse, quella della contemporaneità potrebbe essere intesa come la sfida della perdita e della sua accettazione, piuttosto che cercare invano una nuova conquista. Forse è arrivato il momento di imparare dalla zecca. Difficile pensare a qualcosa che oggi vada conquistato, se non un “meno”, una perdita appunto. L'Eredità non è scomparsa, la trama del Discorso è sempre lì con i suoi infiniti messaggi; essi sono solo radicalmente cambiati: oggi il messaggio potrebbe essere lo zero. «La lettera che non scriviamo, le scuse che non porgiamo, il cibo che non mettiamo fuori per il gatto possono essere tutti messaggi sufficienti ed efficaci, poiché zero può aver significato in un contesto», dice il biologo; e il contesto lo crea il ricevente. Arrivati al momento di una strana afasia, il mutismo di chi non è più capace di dire e mostrare l'esempio dell'eredità, chiede con urgenza ai riceventi di riconoscere quest'ultima a partire dall'esperienza della perdita. È necessario fare lo sforzo di non intendere la “perdita” e lo “zero” in termini negativi: la prima è infatti perdita di saturazione, di un troppo pieno che ingolfa, è un “meno” che reimmette nel circuito la differenza di potenziale necessaria al movimento; lo “zero” è quello della zecca di Bateson, è creativo e attivo, un passo verso la sincerità dell'essenziale. Quella “regola” biologica di apertura chiama allo stupore e alla meraviglia: anche l'eredità che non arriva può essere un'eredità se il ricevente è in grado creare il contesto adatto. L'Eredità è, in fondo, un messaggio, trama del Discorso in cui l'umano fa esperienza del suo esistere. Forse oggi allora, per non restare con gli occhi sgranati ad aspettare un messaggio che non può arrivare, affogando nel mare di un'esperienza data, si potrebbe riconoscere in quel silenzio un'indicazione forte: il contesto da creare è proprio quello della perdita.


TRE EREDI Dov'è il Testimone? Urge, forse oggi come non mai, la caldo di un falò tra i ghiacci. Testimonianza. Senza testimoni – guardo te, guardo la tua Anni dopo è l'oggi, il tempo della falsa orizzontalità. I genitori, dopo una metamorfosi dòte, che sembri fare la guardia a me, che cerco lei che della radicale, non portano alta una qualche Legge; anzi, prendono per i capelli quella ferita vita ama la làma, che cerco lui che il cuore ha respons-abile a morte nello scontro di pochi anni prima e l'avvicinano ai figli, la adattano al loro – l'erede è perso; “uno” nella necessità di essere “due”. capriccio bambino. Sembrerebbe un passo avanti, un qualche progresso nella Vi è un libro semplice, e forse importante proprio nella sua comprensione e nel rispetto dell'altro “più fragile”. Ma lo sguardo apre un dubbio che è semplicità, che racconta la storia di tre figli e delle loro una voragine. Se “gli Epidi” non accettano e distruggono (inconsapevolmente?) disavventure, del loro essere, ognuno a suo modo, eredi.Il l'impossibilità, questi nuovi figli, “i Narcisi”, non la conoscono affatto. Non vi è il più famoso di loro è probabilmente Edipo, protagonista vecchio ricco di fronte a loro che pretende di passare per primo. Il problema è che non della tragedia parricida e incestuosa nota ai più. Edipo può vi è proprio nessuno in quel vicolo, che la strada è libera e senza ostacoli di sorta, essere (non è) il figlio che, abbandonato e inconsapevole, vuota. Grande assente è il limite che struttura il desiderio. Questo è il figlio Narciso, dice adesso lo psicoanalista; un figlio al non accetta l'impossibilità. Il destino, o gli dèi che lo abitano, fanno sì che quale la Legge si adatta, liscia, senza attrito alcuno. Libertà assoluta. egli compia atti di distruzione del limite: uccidere il padre e accompagnarsi Tremenda fregatura. Ferita profonda a chi deve crescere e “costruirsi”. alla madre, il tutto senza sapere di essere loro figlio. La Legge dell'Altro, Quando viene a mancare la Legge dell'Altro, quando essa non riesce o che in qualche modo funge da contenitore della persona, che indica i ruoli e non vuole mostrare che la realtà è l'impossibile, poiché è le posizioni e che radica in essi, non viene riconosciuta da Edipo se non a l'impossibilità a tracciare quel limite, quella rete di confine contro cui tragedia compiuta. L'insostenibilità della rivelazione fattagli da Tiresia lo la vita scorre e grazie alla quale riesce a percepire se stessa e la porterà ad accecarsi, anche se, in qualche modo, egli, già prima di questa, propria corporeità, allora la vita non si sente, non sente la propria non era stato in grado di vedere. presenza. Vi è l'inerzia del puro respiro senza desiderio. Il capriccio si Vi è stato un tempo, dice lo psicoanalista, in cui la storia di Edipo poteva impone, così come la sua natura volubile e consumistica. Il divorare essere letta come paradigma delle relazioni tra genitori e figli. Era il tempo bulimico di un'infinità di oggetti ed esperienze nebbiose, privi di dello scontro tra generazioni, della contestazione giovanile contro la rigidità sostanza e di senso, senza i quali il vuoto si fa voragine minacciosa.Il degli adulti. Sulla stessa stretta strada si incontrano Laio, re di Tebe, ed desiderio profondo, quello in grado di farsi voto solido e radicato, ha Edipo, il figlio che egli aveva ordinato ad un servo disobbediente di bisogno della Legge per strutturarsi, per essere carico di erotismo, di uccidere. I due non si ri-conoscono; apparentemente sono un adulto ricco e un amore ardente. Narciso non conosce desiderio perché il mondo è importante ed un giovane deciso e spavaldo. Chi passa per primo? Il stato messo ai suoi piedi, gli aderisce completamente, giovane non accetta di farsi indietro, qualche divinità ctonia lo fa esplodere facendo sì che egli non vi possa vedere che il suo volto come un vulcano, e diviene così l'assassino di suo padre. Lo snodo importante, però, non è riflesso. Non c'è resistenza. Evapora in questa relazione il tanto il conflitto, potenzialmente necessario e sano, bensì il non accettare di essere in qualche testimone, il genitore, l'adulto, quella figura che non riesce modo in debito rispetto ad una testimonianza. «Edipo non sa di essere figlio» (non vuole a prendersi la responsabilità di mostrare l'ostacolo e la sua saperlo?), e in questo sta la sua cecità, nell'ottusità di non riconosce l'Altro come testimone di un'esperienza dalla quale si proviene, nel bene e nel male. È proprio la rigidità degli adulti e della loro Legge a permettere ai figli di riscoprirsi forti e creativi nella proposta di cambiamento, è quello il contesto che offre loro la potenzialità della conquista. Edipo percepisce il limite che la Legge impone solo come inganno e ostacolo, e quindi lo distrugge, spazzandolo via in una furia cieca. L'impossibilità, così come la testimonianza e la sua eredità, sono rifiutate. Come spesso accade, però, sullo slancio della conquista, sulla sua conseguente perdita di attrito con la realtà bassa e terrestre, il conquistatore non si accorge, o lo fa troppo tardi, che la distruzione cieca non assume le sembianze di un trionfo, ma diviene qualcos'altro. Una vittoria mutilata, si direbbe, che esaurisce la sua potenziale forza rigenerativa nel solo primo atto dello scontro, incapace di apprendere quel che il nemico può sempre insegnare. – IncanalaDeclinaRe lo Slancio – Un'energia collettiva rara e commovente si dissipa come il


spinta vitale. A Narciso gli si racconta la menzogna della libertà assoluta di scelta, ma una libertà senza eros è una libertà disperata, fittizia, velenosa. Nella contemporaneità del capitalismo e del consumismo sfrenati, all'organismo, con le sue ormai indispensabili protesi “post-umane”, è concesso solo il “godimento mortale” e anti-erotico; un godimento che non riconosce l'Altro (la meraviglia dell'Altro) se non come strumento, che lo violenta per il raggiungimento del proprio coito (che sia sessuale, legato al profitto o allo sfruttamento delle risorse naturali poco cambia; si tratta sempre di un misconoscimento e di una strumentalizzazione dell'alterità). Apatia senza calore, riflesso senza azione; non vi è attrito contro la realtà. Infine Telemaco, il figlio di Ulisse; guarda il mare e l'orizzonte. Aspetta, ma non è passivo. I “Telemachi” innanzitutto cercano la Legge. Suona strano che dei giovani cerchino ordine e senso, soprattutto a certi “Edipi” invecchiati, rimasti attaccati alla categoria di scontro-libertà, di trasgressione, senza comprendere la storia dei contesti. Telemaco è stufo dell'anarchia becera che vige a Itaca: «che possa esservi un senso umano e non animale della Legge, che possa esservi un Altrove, un'Altra Cosa rispetto al godimento incestuoso dei Proci e alla devastazione della sua casa». Ma, se mi fermo a guardarlo, che mondo è questo? Cosa significa oggi trasgredire? Telemaco assiste alla libertà che uccide il senso, e per questo aspetta fremente il ritorno della Legge del padre-re-testimone. Ma la sua azione non si limita all'attesa. Egli parte, naviga in cerca del padre, si riconosce in qualche modo sia orfano che debitore. Sarà solo dopo il questa ricerca che finalmente incontrerà il ritorno di Ulisse. Per questo, conclude lo psicoanalista, per essere eredi occorre prima essere orfani, perché l'ereditare è un movimento soggettivo di ripresa. In questo vi è una seconda nascita, e dunque una prima morte, una discontinuità radicale con ciò che è stato fino ad allora; riconoscimento del contesto, risposta e scelta vere, soggettivazione. Ma riconoscere il contesto e la storia che siamo significa riconoscere l'Altro; proveniamo dall'Altro, viviamo nell'Altro e con esso. Il confine è sottile e corre tra filiazione e separazione, tra fedeltà e tradimento, tra appartenenza ed erranza. L'equilibrio non può però prescindere da “rottura attiva” e “umiltà del debito”; per non cadere ciechi e distruttori tracotanti, o piatti privi di erotismo. L'erede orfano quindi, che fa di quella perdita, di quel meno, un atto duplice di soggettivazione e riconoscimento.

Hanno scritto e collaborato Ereditando,

Questo per quanto riguarda l'erede. E il testimone? È chiaro che si può apprendere l'importanza della testimonianza proprio di fronte alla sua assenza; questo forse è quello che qualcuno cerca di fare. Ma se ci fosse una spinta dell'altro verso l'essere testimone, verso il coraggio di una risposta e l'amore del desiderio, verso la voglia di trasmettere con l'esempio di un'esperienza radicale e radicata, forse si potrebbero azzardare sogni capaci di andare al di là della resistenza, sogni di trasformazioni, metamorfosi contagiose e larghe, metanoie. – Guarda noi, GuardIaNO, che cerchiamo tarantolati un modo e un posto, che intuiamo la disperAzione di questo gesto, che non diSperiamo e a gesticolare continuiamo, che in questo scavo profondo forse una radice troveRemo, ed un remo, un timone, un tesTimone, che speranza dia alla mossa. Fai la guardia a noi, guardiano. Guardianoi –

Iriditando: Jacopo Rasmi Luca Vettori Carlo Perazzo Ludovica Colantuono

Il Sito: http://suglialberi.weebly.com/ La Mail: sugli.alberi@gmail.com

Con questo numero di Sugli Alberi partecipiamo ad un festival chiamato Georgiche (http://www.georgica.it/) che si svolge lungo le rive del fiume Po, nella zona tra Parma e Reggio l'1, il 2, il 3 di maggio. Insieme ad altri amici importanti cogliamo l'occasione di farci eredi di festa creativa e di condivisione lungo l'ampio fiume.


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