Il Maestro - Numero Decimo

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A Esalem, nell'autunno che seguì l'ultimazione di Mente e Natura, Gregory scrisse diverse poesie, e mi sembra che in una di queste egli abbia espresso ciò che riteneva di aver cercato di fare nel libro appena terminato, e forse anche ciò che si riprometteva per il futuro." (M. C. Bateson)

IL MANOSCRITTO Eccolo dunque in parole preciso e se leggi fra le righe non troverai nulla perché questa è la disciplina che chiedo né più né meno. Non il mondo com'è né come dovrebbe essere... Solo la precisione lo scheletro della verità non cerco l'emozione non insinuo implicazioni non evoco i fantasmi di vecchie credenze obliate. Queste son cose da predicatori da ipnotisti, terapeuti e missionari. Essi verranno dopo di me e useranno quel po' che ho detto per tendere altre trappole a quanti non sanno sopportare il solitario scheletro della verità. (G. Bateson)




L'ORIGINE

è

LA META

C’era una volta un uomo che disse che se fosse nato in un posto diverso, avrebbe fatto scelte diverse. Diceva quest’uomo che se non fosse nato in un luogo in cui fosse sempre possibile vedere di giorno l’azzurro del cielo, oltre le nubi che ne coprono sempre una e una sola parte, e di notte le stelle, non avrebbe mai sognato di diventare astronauta. Anche per un altro uomo la vista del cielo era la cosa più importante, ma lui era nato in terre di nubi e nebbie. Egli non voleva diventare astronauta, ma voleva conoscere l’animo umano attraverso l’anima del mondo. Lo strato di nebbia che sempre gli oscurava la vista della luna la rendeva più lontana e misteriosa, così avvolta dalla coltre densa e perlacea di vapore, e la metteva più a fuoco, creandole attorno un cerchio quasi colorato sicché pareva che un canale invisibile la collegasse direttamente al balcone da cui gli occhi guardavano avidamente in cielo. I due uomini, però, sapevano guardare insieme le stelle. E fu l’astronauta a svelare all’altro uomo che sulla luna un corpo non possiede una sola ombra, ma molteplici. Si potrebbe dire, prendendo a prestito la formula ebraica che equivale al nostro «c’era una volta» ma che è ben più significativa, «questo accadde una volta e soltanto una volta» («amol iz geven»). Tante altre storie accaddero una volta e soltanto una volta e ognuna ha così acquistato quel carattere particolare che senz’altro la rende universale. Tra le tante c’è anche quella dell’uomo, attore, Solomon Michoels. «Mi ricordo di una discussione con mio padre. Mio padre era un uomo molto intelligente, profondo conoscitore del Talmud. Un giorno discutendo con me disse: “Non capisco. La vita è come un alfabeto. Diciamo che io sono l’alfabeto fino alla lettera lamed [lettera intermedia dell’alfabeto], mentre tu cominci e continui da noun [segue lamed] e vai fino alla fine. Perché cerchi sempre di ricominciare da aleph?” Invece è così, ciascuno di noi deve sempre ricominciare da aleph». *

Così parlava l’attore. L’attore che per metà della sua vita ha taciuto la sua spinta interiore, forzandosi a ignorare la via maestra, il solco già tracciato nel suo terreno. Distraendosi con altre occupazioni che meglio erano viste dalla sua famiglia e dal suo ambiente sociale di ebrei praticanti il chassidismo nella Russia dei primi del secolo scorso, si sparse e si perse, dimentico del sentire d’infanzia. Incontrò il circo da bambino: ne fu ammaliato, sorpreso, colpito. Avrebbe voluto fare il clown. A nove anni, per la festa del Purim, mise in scena e recitò per la sua famiglia una pièce che aveva scritto. Allo cheder, la scuola d’infanzia tradizionale ebraica, durante i temporali guardava fuori, rivolto verso la finestra in attesa del fulmine, convinto che «fosse una fessura attraverso la quale potevo forse vederlo, Lui, Dio»*. Solo in seguito capirà perché la vista del fulmine fosse così importante: «l’immaginazione per me è come il fulmine che scopre per un momento l’universo interiore dell’uomo»*. L’immaginazione, il principale strumento dell’attore. Al liceo trovò in un professore un maestro, o meglio una figura suggeritrice: questi lo esortò a recitare in classe un frammento di un testo teatrale. Michoels scelse l’ultimo monologo di Re Lear. Il maestro, in lacrime, gli predisse un grande avvenire da attore, ma lui non era ancora pronto. Sentiva in sé la vocazione all’avvocatura, o meglio sentiva in sé la vocazione a non deludere la propria famiglia, a dare loro ciò che da lui si aspettavano, o meglio a dare loro ciò che egli pensava che da lui si aspettassero. Intraprese così gli studi giuridici per poi lasciarli, deluso. Si diede alle scienze matematiche, trasferendosi a Pietroburgo. Era la fine del 1918. Nello stesso periodo si trovava nella capitale un giovane ma già affermato regista, Aleksandr Granovskij, che stava cercando giovani attori non professionisti per dar vita ad un nuovo teatro ebraico in lingua yiddish. Michoels, già trentenne, si presentò con la sola curiosità di vedere di cosa si trattasse. Circa un anno dopo, quando il teatro si trasferì definitivamente a Mosca con il nome di Goset, egli ne divenne l’attore principale. Il suo talento attoriale era da tutti riconosciuto, in Unione Sovietica come in Europa. La vivacità delle sue mani e le vibratili dita (“parlanti”) incantavano le migliaia di spettatori che si recavano agli spettacoli del Goset pur non conoscendo una parola di yiddish. I suoi personaggi divennero figure dell’immaginario popolare, e vera Figura divenne il suo Menachem Mendel, il Luftmensch di Scholem Aleichem, l’uomo d’aria. Soprattutto vera Figura divenne egli per se stesso: aveva riconciliato le rimosse aspirazioni infantili al sé adulto, ormai scopertosi, accettatosi, forte nell’avvenuta consapevolezza del sé. Si era compiuta quella «coincidenza intima, segreta, tra punto di partenza e punto d’arrivo»**. Passando attraverso la molteplicità delle proprie ombre, perdendosi nel cercare di realizzare quelle che, a giudicare dall’esterno, gli parevano più giuste, sentì poi l’urgenza di tornare alla sola che, fino ad allora, non si era concesso di seguire. Era l’ombra più densa, già quasi sostanza: quella che più lo intimoriva perché vera. Quella che lo aveva (in)seguito fin dall’origine. A chiudere il cerchio Michoels, nonostante le svariate restrizioni imposte ai teatri durante gli anni del realismo sovietico, mise mirabilmente in scena quello stesso Re Lear scelto da ragazzo tra innumerevoli altri testi nella libreria paterna. L’uomo e la sua ombra lasciarono così la propria impronta nel mondo. * S. Michoels, Stat’i, besedy, reĉi, in corso di traduzione. ** A. Attisani, Solomon Michoels e Veniamin Zuskin. Vite parallele nell’arte e nella morte, vol. V in Tutto era musica. Figure e motivi del teatro e del cinema yiddish tra Europa e America, aAccademia università press, Torino, 2013.





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