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La concelebrazione: espressione della comunione ecclesiale

La concelebrazione: espressione della comunione ecclesiale

Tommi Fedeli*

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Quando ci addentriamo in una questione liturgica, inevitabilmente dobbiamo confrontarci con le sue radici storiche. Va fatta un’opera di archeologia liturgica cercando, a ritroso, tutti i testi che ci possano dare una testimonianza sull’argomento, fino alle fonti più antiche. Vorremmo avere delle risposte chiare e precise, ma ci si accorge, invece, che non è così. Molte forme celebrative sono la risultanza di una somma operata lentamente nel tempo, di tradizioni diverse e di luoghi diversi. Anche l’argomento che andiamo a trattare non è esente da questo processo. Durante il Concilio Vaticano II i padri sapevano che nella storia della liturgia esistevano forme concelebrate della Messa. I modi di concelebrare, però, sono differenti nella storia e nelle liturgie dell’Oriente e dell’Occidente. Il problema con cui si sono confrontati i padri conciliari consisteva nel fatto che nella Chiesa occidentale la concelebrazione dell’eucaristia dopo più di mille anni era quasi sparita e mantenuta solo in occasione dell’ordinazione sacerdotale e della consacrazione episcopale; inoltre si aveva una forma di concelebrazione nella Messa della benedizione dell’abate, differente, però, dalle altre due occasioni in cui si concelebrava1 .

Sotto il profilo terminologico, in riferimento all’Eucaristia, la concelebrazione da diversi secoli ha un significato ben preciso per quanto concerne la liturgia romana: nel rito in cui vari sacerdoti celebrano la medesima Messa, ossia «in virtù del medesimo sacerdozio e in persona del Sommo Sacerdote, agiscono contemporaneamente con una

* Docente di Liturgia presso lo Studio Teologico Interdiocesano “Mons. E. Bartoletti” di Pisa, affiliato alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale. 1] M. tymister, La concelebrazione eucaristica. Storia. Questioni teologiche. Rito, BEL, CLV Subsidia 182 II ed. (2018), 29.

sola volontà e una sola voce, e nello stesso tempo compiono e offrono l’unico Sacrificio con un unico atto sacramentale, e insieme vi partecipano»2 .

1. CELEBRARE E CONCELEBRARE: UN CHIARIMENTO TERMINOLOGICO

Il termine celebrare viene riferito all’Eucaristia fin dal sec. III e fino al sec. IX ha come soggetto tutti i fedeli3. Lo possiamo vedere in Tertulliano († 220), che riferisce tale termine sia alla preghiera della Chiesa che alla rappresentazione della Chiesa in concilio4. Il soggetto del celebrare è la Chiesa stessa. Anche S. Cipriano († 258), che è il primo a utilizzare celebrare in riferimento all’Eucaristia, sembra della stessa idea. Infatti nella Epistola 63,16 insiste ribadendo che la verità del segno necessita la presenza di tutti i fratelli e quindi l’Eucaristia deve essere celebrata in un’ora in cui tutti possono partecipare. Per S. Leone Magno († 461) quelli che si sono separati dalla fede in Cristo5 non sono capaci di celebrare. Il soggetto risulta essere sempre la Chiesa, corpo di Cristo, concretizzata realmente nell’assemblea che celebra i misteri. Potremmo citare altri autori del primo millennio che testimoniano questa visione ecclesiologica, ma ci fermiamo qui.

Solo nella teologia medievale e nella Controriforma si comincia a riservare il termine celebrare all’azione del sacerdote distinta da quella del popolo, ma non mancano testimonianze anche nel Medioevo in cui si ribadisce che il sacerdote non debba mai celebrare da solo (Innocenzo III e Guglielmo Durando). È stato Pio XII († 1958) che ha allargato nuovamente l’utilizzo del termine all’azione di tutti i fedeli, sottolineando nell’Enciclica Mediator Dei del 1947 che la Chiesa deve chiamare i fedeli a celebrare rettamente il sacrificio eucaristico6 .

2] Cf. sacra conGreGatio rituum, Decretum generale Ecclesiæ semper quo Ritus concelebrationis et communioni sub utraque specie promulgantur, 7 marzo 1965, AAS 57 (1965), 410-412; Enchiridion Vaticanum n. 2, 386. 3] J.M. hanssens, La concelebrazione sacrificale della Messa, Div 2 (1958) 242-243 nota 2. 4] tertuLLiano, De orat. 24,4, ed. G.F Diercks, Turnhout, 1954 [= CCSL 1], 272. 5] Leone I, Tractatus 72, 7, ed. A. Chavasse, Turnhout, 1973 [= CCSL 138 A], 448. 6] Pio XII, Lettera enciclica Mediator Dei, 20 novembre 1947, AAS 39 (1947), 530.

Il termine concelebrare (… socia exsultatione concelebrant) lo troviamo invece riportato, a conclusione dei prefazi della liturgia romana, nei Sacramentari a partire dal sec.VI in poi fino ai nostri tempi7 . Ovviamente il termine qui non è usato in riferimento alla concelebrazione come la intendiamo noi oggi. Esprime qui la stessa azione di molti e l’unione dell’azione. Nello specifico, guardando al linguaggio liturgico romano, si intende l’azione della Chiesa terrestre e celeste insieme a Cristo. Solo nei secoli XII e XIII si inizia ad attribuirlo all’azione comune di più sacerdoti nella celebrazione della Messa. Nello stesso periodo, in seguito alla riflessione scolastica e al pensiero di S. Tommaso, si va ad identificare l’azione sacerdotale con la consacrazione, dunque il termine concelebrare acquista il significato di “consacrare insieme”, “consacrare simultaneamente”. Si passa pian piano da un’azione orante di tutta la Chiesa all’azione del sacerdote.

2. UNO SGUARDO ALLA STORIA 2.1. Le fonti storiche: dal sec. I al sec. VI

Se prendiamo le testimonianze di S. Paolo che descrive le celebrazioni eucaristiche, soprattutto nella prima lettera ai Corinzi, si vede che ancora non si può parlare di una distinzione tra celebranti e laici (1 Cor 10; 11; 14). Tutti i partecipanti sono i celebranti dell’unica Eucaristia ed esercitano compiti diversi che stanno a servizio dell’unità della comunità. Paolo ribadisce fortemente che la celebrazione deve essere espressione di questa unità. Se non c’è l’unità strutturata della comunità non può esserci Eucaristia.

I Padri apostolici rivelano avere la stessa preoccupazione. Clemente Romano († 97 o 101) nella lettera ai Corinzi, parlando dell’unità della Chiesa e della liturgia, distingue tra gerarchia e laicato8. Menziona il pontefice che ha compiti di culto, poi i diaconi con compiti ministeriali. I sacerdoti sono menzionati soltanto in quanto hanno un posto definito in cui sedere nella liturgia e non un compito specifico.

7] P. de Puniet, «Concélébration liturgique», in Dictionnaire d’archéologie Chrétienne et de liturgie 3/2, Paris 1914, 2470. 8] cLemente romano, Lettera ai Corinzi, in Didachè. Prima lettera di Clemente ai Corinzi. A Diogneto, A. Quaquarelli, Roma 2009, (= Minima di Città Nuova), 59-60.

La partecipazione liturgica quindi non è una questione di onore, ma di essere Chiesa unita. I diversi compiti sono ministeriali e servono l’unità dell’assemblea. Le regole per clero e laici non vedono nessuna subordinazione dei laici, ma sono unicamente in virtù dell’unità della celebrazione. L’idea che ognuno debba fare qualcosa si insinua solo più tardi. S. Ignazio di Antiochia († 110 ca.), nella lettera alla chiesa di Filadelfia, parlando dell’unità nella celebrazione ci fornisce elementi di una struttura ministeriale già più articolata. È il vescovo che guida la celebrazione, circondato dal presbiterio e assistito dai diaconi (chiamati “conservi”)9. L’unità della Chiesa, per Ignazio, esiste soprattutto quando tutta la Chiesa locale celebra attorno all’unico altare, sotto la presidenza del vescovo circondato dal suo presbiterio. Questa celebrazione è il centro di tutta la vita della comunità. La Traditio apostolica, testo che riporta fonti del sec. III-IV, ci offre la testimonianza di un’Eucaristia concelebrata sotto la presidenza di un nuovo vescovo appena consacrato. Prima i vescovi “della regione” partecipano alla consacrazione episcopale con il gesto dell’imposizione delle mani, poi i presbiteri partecipano alla preghiera eucaristica. Qui sembra che solo il vescovo reciti il dialogo con l’assemblea e l’anafora di cui si indica il testo completo nello stesso cap. 4. I presbiteri partecipano alla celebrazione e anche alla preghiera eucaristica stando al loro posto e compiendo un gesto, cioè l’imposizione delle mani sopra le offerte senza dire nulla. Questa concelebrazione vuole esprimere l’unità del vescovo con il suo presbiterio come l’atto stesso della consacrazione esprimeva l’unità dei vescovi10. Secondo Botte11 sarebbe un unico atto collettivo che consiste in un gesto al quale dà senso la preghiera del presidente. Secondo lui i presbiteri facevano tale gesto durante tutta la durata della preghiera del vescovo e l’anafora dava il senso al gesto che è di tipo epicletico-consacratorio. Possiamo riscontrare tracce di questa prassi in tutta la tradizione romana fino alla nostra prassi attuale: in occasione della benedizione del crisma e dell’ordinazione presbiterale, i presbiteri presenti partecipano tramite il gesto comune

9] iGnazio antiocheno, in Lettere di Ignazio di Antiochia, Lettere e martirio di Policarpo, A. Quacquarelli, Roma, 2009 (= Minima di Città Nuova), 44-45. 10] M. tymister, La concelebrazione eucaristica…, 51. 11] B. Botte, Note historique sur la concélébration dans l’ église ancienne, LMD 35, 1953, 9-23.

dell’imposizione delle mani in silenzio, che acquista il suo significato per mezzo delle parole del vescovo. Secondo molti autori come Meyer, Taft, Dell’Oro e lo stesso Botte, la preghiera eucaristica sarebbe recitata da uno solo in quanto non ancora codificata e quindi fissa e uguale per tutti, ma variabile. L’aspetto da sottolineare, comunque, è la visione ecclesiologica profonda, i vescovi e i presbiteri prendono parte agli stessi atti liturgici in virtù di una comunione ecclesiale: da una parte i vescovi della regione, dall’altra i presbiteri facenti parte di un collegio presbiterale che si stringe attorno al proprio vescovo.

Altre fonti ci presentano invece la concelebrazione come una forma di accoglienza per ricevere cristiani viandanti. Ce ne parlano ad esempio la Didascalia apostolorum, Eusebio di Cesarea 12, Cirillo di Gerusalemme13, il canone 19 del Concilio di Arles, e vari altri autori fino a Gregorio Magno14. Ai laici viene assegnato un posto secondo il loro stato, stessa cosa avviene con presbiteri e vescovi. È convinzione di tutti che sia segno di gentilezza e di ospitalità invitare l’ospite a pronunciare l’anafora, che si può benissimo dividere anche tra i due vescovi presenti. Il vescovo può anche cedere di pronunciare la preghiera di benedizione ad un presbitero, in segno di comunione e di accoglienza. Si riscontra qua e là l’introduzione di un gesto: la lavanda delle mani. In alcune regioni viene fatto a tutti i concelebranti, in altre si riserva al vescovo e al diacono dopo aver ricevuto le offerte per il sacrificio eucaristico. Si riscontra pure in alcuni luoghi come si continui a compiere l’imposizione delle mani in silenzio, in altri, man mano che si fissano le preghiere eucaristiche, si recita invece l’anafora insieme al vescovo. Le usanze sono ancora differenti e rimarranno in uso contemporaneamente. La celebrazione eucaristica rimane per tutti questi secoli espressione dell’unità gerarchica della Chiesa, dell’unità tra il vescovo e il suo presbiterio e della comunione tra vescovi o presbiteri provenienti da altre chiese locali.

12] euseBio di cesarea, Storia ecclesiastica 5, 24,17, tr. F. Migliore, Roma 2000 (= Collana dei testi patristici 158), 303. 13] ciriLLo e Giovanni di GerusaLemme, Catechesi prebattesimali e mistagogiche, Milano 1994 (= Letture cristiane del primo millennio 18), 610. 14] GreGorio maGno, Epistola XXXIV, ed. Migne, col. 892 D.

2.2. Testimonianze dal sec. VII in Occidente

All’inizio del sec. VII, con S. Gregorio Magno († 604), il canone romano aveva trovato la sua forma definitiva. Questa è la base sulla quale si può sviluppare nella chiesa romana una nuova forma di concelebrazione in cui più vescovi o presbiteri recitano insieme l’anafora. L’Ordo Romanus I (sec. VII) testimonia la concelebrazione della Messa stazionale del Papa a Roma, con presenza di vescovi, diaconi, suddiaconi e presbiteri, dove solo il pontifex recita il canone, mentre gli altri stanno inchinati. Oltre un secolo più tardi, sul finire del sec. VIII, l’ Ordo Romanus III riporta una forma nuova. È prevista la concelebrazione solo in quattro feste all’anno (Pasqua, Pentecoste, Natale e S. Pietro), con la sola presenza dei presbiteri cardinali che recitano il canone insieme al Papa. Non possiamo sapere se le due forme di concelebrazione hanno convissuto o se l’una ha soppiantato l’altra, fatto sta che con l’Ordo III ha preso vita una nuova forma di concelebrazione che occuperà la teologia del secondo millennio e contribuirà alla quasi completa scomparsa della concelebrazione. Non è più il collegio presbiterale che concelebra riunito attorno al suo vescovo, ma ci sono determinate dignità cardinalizie. Probabilmente è il tentativo di sottolineare e recuperare la comunione nell’azione sacerdotale già esistente15. D’altra parte le occasioni di concelebrare erano sempre meno. M. Augé ipotizza che si sia fatto sentire anche il crescente uso delle Messe private con l’aumentare delle chiese rurali con un solo sacerdote, come anche le maggiori richieste di Messe per i defunti, votive e penitenziali e anche in parte per il fenomeno del monachesimo16. Quando si parla di concelebrazione riguarda sempre il caso in cui a presiedere sia il Papa o un vescovo. Solo in un caso si parla di concelebrazioni tra presbiteri: quella della Messa festiva nei monasteri e ne parla l’Ordo Romanus XVII ai numeri 19 e 21. È in sostanza un adattamento del rito della concelebrazione. Lentamente le occasioni di concelebrare diminuiscono sempre di più fino a diventare normale la Messa celebrata solo da un presbitero. Con la riflessione scolastica e tomista, poi, il potere consacratorio del sacerdote sarà sempre più messo al centro delle riflessioni a scapito di una considerazione

15] B. Botte, Note historique…, LMD 35, 1953, 11. 16] M. auGe, «Concelebrazione eucaristica», in d. sartore - a.m. triacca - c. ciBien (edd.), Liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2001, 431.

dell’essenza stessa della celebrazione. Ci si focalizza su un unico momento della Messa: la consacrazione. Un fatto che metterà in crisi definitivamente la concelebrazione.

2.3. Dal sec. XI al Concilio Vaticano II

L’abbandono progressivo della concelebrazione e l’aumento delle celebrazioni separate era dovuto principalmente a ragioni pastorali: bisognava soddisfare i bisogni del popolo. Il riversamento dei cristiani al di fuori delle città richiedeva la disposizione di nuove parrocchie con conseguenti celebrazioni separate da quelle del vescovo. Questo fenomeno inizia già nel sec. V e diventa più consistente nel tardo Medioevo. Cambia totalmente la concezione del presbitero: non si vede più in primo luogo come uno che appartiene a un collegio intorno al vescovo, ma si sperimenta sacerdote isolato cui si chiede di esercitare il suo sacerdozio celebrando Messa. Non dimentichiamoci che in questo contesto nascono e si sviluppano i “preti da messa”, ovvero coloro che potevano solo “dire messa”. Mancando una formazione teologica e spirituale era per loro vietato predicare e confessare, ma, avendo imparato a leggere il latino, potevano solo assicurare la Messa. Era anche il modo di sostenersi attraverso le intenzioni dei defunti. Nascono allora gli “ordini predicatori”, con facoltà di predicare e confessare ubique, come i francescani e i domenicani per sopperire a questa mancanza pastorale, quella cioè di istruire e nutrire il popolo di Dio.

Fino al sec. XII sopravvivono ancora le concelebrazioni papali in occasione di alcune feste. Innocenzo III († 1216) le conosce e le difende. Nei pontificali di questo periodo ricompare un’indicazione che qua e là era comparsa nei secoli precedenti: la concelebrazione della Messa del Giovedì Santo per la benedizione dell’olio degli infermi. Poi però scompaiono tutte le concelebrazioni e sopravvivono soltanto nelle Messe pontificali in alcune città francesi. Intanto nascono due nuove concelebrazioni (le uniche due che resteranno fino al Vaticano II): quella in occasione della consacrazione episcopale e quella in occasione dell’ordinazione sacerdotale.

Nel Pontificale della Curia Romana del XIII secolo, nella Ordinatio presbyteri (cap. X, nn. 12-39), dopo l’offertorio vi è la rubrica: «Qua oblatione facta, presbyteri vadant ad altare, ad standum a dextera et leva altaris cum missalibus suis et dicunt totum submissa voce, sicut

si celebrarent»17. Il vescovo dà loro la Comunione del pane consacrato e ricevono il sanguis dal diacono. Nel capitolo successivo, che riguarda la consacrazione del vescovo, prevede anche la concelebrazione del nuovo vescovo con il vescovo consacrante e riceve la Comunione in modo simile ai presbiteri nella loro ordinazione. Per quanto concerne l’eventuale concelebrazione dei presbiteri col Pontefice nella Messa del Giovedì Santo non è menzionata nel Pontificale e nell’Ordo Romanæ Ecclesiæ Curiæ, compilato durante il pontificato di Innocenzo III, negli anni 1213-1216. In questo Ordo si segnalano le particolarità dell’ufficio e delle Messe durante l’anno e non vi si dice nulla su una eventuale concelebrazione nelle solennità di Natale, Pasqua, Pentecoste e SS. Pietro e Paolo. Ormai la concelebrazione è limitata alle Messe di ordinazione dei presbiteri e del vescovo. Tuttavia la concelebrazione di presbiteri nella Messa del Giovedì Santo si è mantenuta a Lione in Francia sino al Vaticano II: in concreto sei presbiteri che a partire dall’offertorio dicono a voce bassa tutte le preghiere assieme al vescovo, senza realizzare i suoi gesti. A metà del XIII secolo san Tommaso d’Aquino, nel suo Scriptum super Sententiis Magistri Petri Lombardi, si pone la questione teologica se sia possibile la pluralità di ministri per la consacrazione eucaristica18. Per la risposta positiva ricorre alla prassi in diverse Chiese della concelebrazione dei nuovi sacerdoti col vescovo ordinante. Nel corpo della soluzione, oltre a ripetere il ricorso alla prassi di alcune Chiese, aggiunge che così si rappresenta che, quando il Signore istituì questo sacramento e diede ai discepoli la potestà di realizzare la consacrazione, Egli cenò insieme con loro (concœnavit). Nelle risposte ai due argomenti per la non possibilità pone come fondamento della concelebrazione l’unità d’intenzione consacratoria dei nuovi presbiteri col vescovo. Diciasette anni dopo, nella Summa Theologiæ, S. Tommaso si pone la medesima questione19 e nel corpo dell’articolo ripropone a favore della possibilità della concelebrazione gli argomenti della consuetudine di alcune Chiese e dell’unità d’intenzione consacratoria dei concelebranti. Inoltre aggiunge un altro argomento: i sacerdoti concelebranti non agiscono in virtute propria, ma in persona Christi ed, essendo molti, sono unum in Christo. Nel Pontificale di

17] PR XIII, cap. X, n. 34, p. 349. 18] In Sent. IV, d. 13, q. 1, a. 2, s. 2: M.F. moos (ed.), Lethielleux, Paris 1947, 551. 19] Cf. S. Th. III, q. 82, a. 2.

Guglielmo Durando, pubblicato tra 1293 e 1295, per quanto concerne la recita del canone dei nuovi presbiteri col vescovo ordinante, rimane tutto come nel Pontificale della curia Romana tranne che si comunicano soltanto col Corpus, che ricevono dal vescovo. Nella consacrazione di un vescovo, esso concelebra verbalmente con l’ordinante e si comunica col Corpus e col Sanguis. Coincide anche nel non menzionare una concelebrazione verbale dei presbiteri col vescovo nella Messa del Giovedì Santo. Il Liber Pontificalis del 1485, curato da Giovanni Burcardo per incarico di Innocenzo VIII, prevede anche la concelebrazione dei nuovi presbiteri col vescovo ordinante, che ricevono la Comunione dalle mani del vescovo, ma soltanto il Corpus; il Sanguis è bevuto interamente dal vescovo. Nella consacrazione del vescovo, questi concelebra allo stesso modo del consacrante. Nella Messa di benedizione dei santi olei il Giovedì Santo non menziona una concelebrazione dei presbiteri presenti col vescovo. Nel Pontificale Romanum postridentino, per quanto riguarda la concelebrazione dei presbiteri nella Messa della loro ordinazione, rimane tutto uguale, con la differenza della loro Comunione, perché si comunicano anche col Sanguis. Nella consacrazione del vescovo, per ciò che riguarda la concelebrazione, la recitazione del Canone e la Comunione si fanno allo stesso modo del Pontificale precedente. Parimenti non si menziona una eventuale concelebrazione verbale dei presbiteri col vescovo nella Messa di benedizione dei santi olei il Giovedì Santo. Su questi punti vi è stata continuità fino al Pontificale Romanum, nella edizione tipica del 1961-1962. In questo periodo di dodici secoli in Occidente non vi sono indizi di concelebrazione verbale di Messe presiedute da un presbitero20 .

2.4. Una “questione medievale”

C’è una questione, riconducibile al pensiero teologico tipico del tardo medioevo, che va presa in considerazione perché, a mio avviso, ha segnato la prassi della concelebrazione fino al CVII, evidenziando gli aspetti problematici legati alla consacrazione e all’offerta ricevuta per la Messa. Anche se, sulla carta, vengono risolti, non deve essere stato così nel sentire comune. La prima riflessione è riportata da Lotario dei Segni, il futuro Papa Innocenzo III, che compone attorno al 1196 un

20] A. miraLLes, Teologia liturgica dei sacramenti. Eucaristia: questioni particolari, Elettronica, Roma 2016.

trattato sulla celebrazione eucaristica dal titolo De sacro altaris mysterio. Siccome i teologi del tempo avevano localizzato il momento esatto in cui credevano si attualizzasse la trasformazione del pane e del vino nel corpo e sangue di Cristo, cioè durante la pronuncia delle parole del Signore, egli si domanda che cosa avviene se più sacerdoti concelebrano insieme. Chi compie la consacrazione? Poiché è impossibile che tutti pronuncino le stesse parole perfettamente in contemporanea. Consacra chi le dice per primo? E gli altri? Non possono consacrare ciò che è già consacrato. Evidentemente era una discussione all’epoca molto accesa. Lotario propone una via d’uscita dal dilemma, che consiste nel ricorso all’intenzione dei concelebranti che deve essere in accordo con le parole del vescovo: così tutti consacrano e concludono insieme sul fondamento dell’intenzione comune. Tramite la comune intenzione si ottiene ciò che si intende, cioè il Corpo e Sangue di Cristo21. Anche S. Tommaso accetta le conclusioni di Lotario, ma la discussione non si fermerà qui e durerà per secoli. A questo si aggiunge un altro aspetto problematico: l’offerta per la Messa. Se dunque uno solo compie la consacrazione, gli altri eventuali concelebranti possono applicare l’intenzione secondo l’offerta che gli è stata data? Lo possono fare validamente? Perché se di fatto non consacrano possono applicare validamente o è un inganno? Anche qui si ricorre all’intenzione per superare il corto circuito. Si dice che è valido se il sacerdote concelebrante ha intenzione di consacrare e ha intenzione di applicare la Messa secondo la richiesta effettuata dietro debita offerta. Ma anche questa discussione si protrarrà per secoli. Tali argomentazioni hanno di sicuro fortemente scoraggiato, nel tempo, a praticare la concelebrazione, se mai i dubbi fossero pochi.

2.5. Verso il Concilio Vaticano II

Negli anni 1927-1932 e 1958, il gesuita J.M. Hanssens, professore presso la Pontificia Università Gregoriana a Roma, pubblica una serie di articoli in cui studia il fenomeno della concelebrazione, soprattutto sulla base dei riti orientali. Motivo per questo studio erano, tra l’altro, delle concelebrazioni eucaristiche a Roma in forma solenne presiedute da vescovi e concelebrate da vescovi e presbiteri di chiese orientali uniate, negli anni 1922-1925 in occasione del congresso eucaristico

21] M. tymister, La concelebrazione eucaristica…, 95.

internazionale (1922), dei trecento anni dalla morte di S. Giosafat e nel giubileo del Concilio di Nicea (1925); tali eventi liturgici hanno fatto sì che anche la scienza teologica cominciava ad occuparsi della concelebrazione. Molti cristiani di rito romano erano rimasti profondamente impressionati da queste celebrazioni. Dopo queste riflessioni il Movimento Liturgico dalla prima metà del sec. XX aveva portato a riflettere ed elaborare studi sulla concelebrazione, che poi influirono sulle decisioni del Concilio Vaticano II al riguardo. Alcuni però proponevano delle idee sulla concelebrazione che diedero luogo a un intervento magisteriale di Pio XII nel 1956, che completava un altro del 1954:

In realtà l’azione del sacerdote consacrante è quella stessa di Cristo, che agisce mediante il suo ministro. Nel caso di una concelebrazione nel senso proprio della parola, Cristo, invece di agire per il tramite di un solo ministro, agisce per mezzo di più. [...] Quale intenzione e quale azione esterna sono richieste, perché si abbiano veramente concelebrazione e consacrazione simultanea? Ricordiamo in proposto ciò che dicevamo nella Nostra costituzione apostolica Episcopalis Consecrationis del 30 novembre 1944. In essa Noi stabilivamo che nella consacrazione episcopale i due vescovi, che accompagnano il consacrante, devono avere l’intenzione di consacrare l’eletto, e che perciò devono porre le azioni esterne e pronunziare le parole, con le quali la potestà e la grazia da trasmettere sono significate e trasmesse. Non basta quindi che essi uniscano la loro volontà a quella del consacrante principale e dichiarino che fanno proprie le sue parole e le sue azioni. Devono essi stessi porre tali azioni e pronunziare le parole essenziali. Altrettanto si dica della concelebrazione in senso proprio. Non basta l’avere e il manifestare la volontà di far proprie le parole e le azioni del celebrante. I concelebranti devono essi stessi dire sul pane e sul vino: “Questo è il mio Corpo”, “Questo è il mio Sangue”; altrimenti, la loro concelebrazione si riduce a pura cerimonia. [...] nella celebrazione e nella concelebrazione occorre vedere se, con l’intenzione interna necessaria, il celebrante compie l’azione esterna e soprattutto se pronunzia le parole, che costituiscono l’actio Christi se ipsum sacrificantis et offerentis. Ora ciò non si verifica, quando il sacerdote non pronunzia sul pane e sul vino le parole del Signore: “Questo è il mio Corpo”, “Questo è il mio Sangue”22 .

22] Pio XII, Discorso ai partecipanti al Iº Congresso internazionale di liturgia pastorale, 22 settembre 1956, nn. 17-20, La Civiltà Cattolica 4/107 (1956), 210-211.

2.6. Le decisioni del Concilio Vaticano II

Nella fase antepreparatoria del Concilio una quarantina di vescovi, tre abati benedettini e tre Facoltà teologiche proposero di ampliare la possibilità di concelebrare nel rito latino in alcuni casi: nella feria V in Cœna Domini e per la difficoltà delle celebrazioni singolari quando coincidono diversi sacerdoti, perché abitano insieme, ad esempio nelle case religiose, o per riunioni del clero o pellegrinaggi. Alcuni arguivano che la maggior frequenza delle concelebrazioni era abituale nei riti orientali. I voti del Pontificio Ateneo Salesiano e della Facoltà teologica di Treveri aggiungevano una ragione teologica: nella concelebrazione si esalta e risplende meglio il mistero di unità e di carità dell’Eucaristia23 . Rispetto a questo progetto, nel testo finale della Sacrosanctum Concilium approvato dal Concilio si aggiunse all’inizio la ragione dottrinale per l’estensione della concelebrazione, inoltre si aggiunsero alcuni casi in più e si specificò meglio il compito del vescovo e dell’Ordinario. Riguardo al rito furono omesse le indicazioni concrete, sostituendole col principio generale di redigere un nuovo rito della concelebrazione.

57. § 1. La concelebrazione, con la quale si manifesta bene l’unità del sacerdozio, è rimasta in uso fino ad oggi nella Chiesa, tanto in oriente che in occidente. Perciò al Concilio è piaciuto estendere la facoltà della concelebrazione ai casi seguenti: a) al giovedì santo, sia nella Messa crismale che nella Messa vespertina; b) alla Messe nei concili, nelle riunioni di vescovi e nei sinodi; c) alla Messa della benedizione dell’abate. Inoltre, con il permesso dell’ordinario, a cui spetta giudicare sulla opportunità della concelebrazione: a) alla Messa conventuale e alla Messa principale nelle chiese, quando l’utilità dei fedeli non richieda che tutti i sacerdoti presenti celebrino singolarmente; b) alle Messe nelle riunioni di qualsiasi genere di sacerdoti tanto secolari che religiosi. § 2. Ma spetta al vescovo regolare la disciplina delle concelebrazioni nella diocesi. Resti sempre tuttavia ad ogni sacerdote la facoltà di celebrare la Messa individualmente, non però simultaneamente nella medesima chiesa, e neppure il giovedì santo. 58. Venga redatto un nuovo rito della

23] Cf. Acta et documenta Concilio Œcumenico Vaticano II apparando, Series I (Antepræparatoria), vol. II, appendix II, 53-55; vol. IV, pars I.2, p. 165; pars II, 761-762.793.

concelebrazione, da inserirsi nel Pontificale e nel Messale romano (SC 57-58).

Per quanto concerne il rito romano forse la maggior novità, senza precedenti certi nella storia, è la concelebrazione di soli presbiteri presieduta da uno di loro.

3. GIUSTIFICAZIONE DOTTRINALE DELLA MESSA CONCELEBRATA

L’Ordinamento Generale del Messale Romano al n. 199 così dice: «La concelebrazione, nella quale si manifesta assai bene l’unità del sacerdozio, del sacrificio e di tutto il popolo di Dio...» . All’unità del sacerdozio, affermata dal Concilio, sono state aggiunte quelle del sacrificio e di tutto il popolo di Dio. Nella triplice unità manifestata nella concelebrazione, quella del sacrificio è il fondamento delle altre due. «Ogni volta che il sacrificio della croce viene celebrato sull’altare, si effettua l’opera della nostra redenzione» (LG 3). Le Messe in qualunque luogo e tempo non moltiplicano il sacrificio, ma la sua presenza. «Il sacrificio redentore di Cristo è unico, compiuto una volta per tutte. Tuttavia è reso presente nel Sacrificio eucaristico della Chiesa. Lo stesso vale per l’unico sacerdozio di Cristo» (CCC 1545). Ciò che crediamo con vera fede, che ogni Messa celebrata rende presente il sacrificio della croce, si manifesta esternamente, come corrispondente al sacramento, in modo molto espressivo, opportuno, in ogni concelebrazione. Così si manifesta che nella Messa ogni sacerdote agisce in persona Christi, specialmente nella consacrazione, e che la Messa è la stessa, sia celebrata da un solo sacerdote che da più di uno. Nella concelebrazione si manifesta opportunamente anche l’unità organica di tutto il popolo di Dio, ovvero che la Messa è opera della Chiesa nella sua struttura organica, specialmente quando, celebrata assieme a dei presbiteri, è presieduta dal vescovo con la partecipazione di fedeli non ordinati24 .

24] Cf. A. García iBáñez, L’Eucaristia, dono e mistero: Trattato storico dogmatico sul mistero eucaristico, Università della Santa Croce, Roma 2006, 480-481.

4. QUANDO SI DEVE E SI PUÒ CONCELEBRARE

«La concelebrazione [...] è prescritta dal rito stesso: nell’ordinazione del Vescovo e dei presbiteri, nella benedizione dell’abate e nella Messa crismale» (OGMR 199). Nelle ordinazioni la concelebrazione della Messa era già prescritta, e ciò è stato esteso ad altri due casi nella terza edizione tipica del MR (2002). Nelle due precedenti edizioni tipiche questi due casi si trovavano fra quelli permessi. Nel Codice di Diritto Canonico attuale, promulgato nel 1983, il permesso della concelebrazione eucaristica è diventato generale, condizionato però all’utilità dei fedeli (can. 902). Si spiega questa estensione generale del permesso di concelebrare, perché la riflessione sulla giustificazione dottrinale della concelebrazione si era arricchita delle tre ragioni di unità che si manifestano nella concelebrazione, già presenti nella Istruzione Eucaristicum mysterium di Paolo VI del 1967. Comunque in due numeri dell’OGMR si raccomanda la concelebrazione in alcune occasioni concrete; questo è il primo:

È invece raccomandata, se l’utilità dei fedeli non richiede o suggerisce altro: a) nella Messa vespertina “Nella Cena del Signore”; b) nella Messa celebrata in occasione di Concili, di raduni di Vescovi e di Sinodi; c) nella Messa conventuale e nella Messa principale nelle chiese e negli oratori; d) nelle Messe in occasione di incontri di sacerdoti, secolari o religiosi, qualunque sia il carattere di tali incontri (OGMR 199).

Nel secondo numero si mette in rilievo il particolare pregio delle concelebrazioni in cui i presbiteri di una diocesi concelebrano con il proprio vescovo, e pertanto che siano raccomandate:

Particolare importanza si deve dare a (in singulari honore habenda est) quella concelebrazione, in cui i presbiteri di una diocesi concelebrano con il proprio Vescovo, nella Messa stazionale soprattutto nei giorni più solenni dell’anno liturgico, nella Messa dell’ordinazione del nuovo Vescovo diocesano o del suo Coadiutore o Ausiliare, nella Messa crismale, nella Messa vespertina “Nella Cena del Signore”, nelle celebrazioni del Santo Fondatore della Chiesa locale o del Patrono della diocesi, negli anniversari del Vescovo e infine in occasione del Sinodo o della visita pastorale. Per lo stesso motivo si raccomanda la concelebrazione tutte le volte che i sacerdoti si ra-

dunano insieme con il proprio Vescovo, sia in occasione di esercizi spirituali, sia per qualche altro convegno. In tali circostanze viene manifestato in modo più evidente quel segno dell’unità del sacerdozio, come pure della Chiesa stessa, che è proprio di ogni concelebrazione (OGMR 203).

La raccomandazione delle Messe concelebrate non toglie libertà al singolo sacerdote di celebrare la Messa in modo individuale:

Al singolo sacerdote sia tuttavia permesso celebrare l’Eucaristia in modo individuale, non però nel tempo in cui nella stessa chiesa o oratorio si tiene la concelebrazione. Ma il Giovedì della Settimana santa nella Messa vespertina “Nella Cena del Signore” e nella Messa della Veglia Pasquale non è permesso celebrare in modo individuale (OGMR 199).

In alcuni casi determinati chi concelebra può anche celebrare o concelebrare un’altra Messa nello stesso giorno:

Per motivi particolari, suggeriti dal significato del rito o della festa, è concesso celebrare o concelebrare più volte nello stesso giorno nei seguenti casi: a) chi ha celebrato o concelebrato al Giovedì della Settimana santa la Messa crismale, può celebrare o concelebrare anche la Messa vespertina “Nella Cena del Signore”; b) chi ha celebrato o concelebrato la Messa della Veglia Pasquale può celebrare o concelebrare la Messa del giorno di Pasqua; c) nel Natale del Signore tutti i sacerdoti possono celebrare o concelebrare le tre Messe, purché lo facciano nelle ore corrispondenti; d) nel giorno della Commemorazione di tutti i fedeli defunti, tutti i sacerdoti possono celebrare o concelebrare tre Messe, purché le celebrazioni avvengano in tempi diversi e osservando ciò che è stato stabilito per l’applicazione della seconda e terza Messa; e) chi in occasione del Sinodo, della visita pastorale o di incontri sacerdotali concelebra col Vescovo o con un suo delegato, può di nuovo celebrare, per l’utilità dei fedeli. La stessa possibilità è data, con gli opportuni adattamenti, anche per le riunioni dei religiosi (OGMR 204).

5. ELEMENTI PROPRI DELLA MESSA CONCELEBRATA SECONDO L’OGMR25

Dall’inizio della Messa i concelebranti devono indossare le vesti sacre che si utilizzano nella celebrazione individuale:

I concelebranti, in sagrestia o in altro luogo adatto, indossano le vesti sacre che abitualmente si utilizzano nella celebrazione individuale. Tuttavia per un ragionevole motivo, come ad esempio un numero notevole di concelebranti e la mancanza di paramenti, i concelebranti, fatta sempre eccezione per il celebrante principale, possono fare a meno della casula o pianeta e usare soltanto la stola sopra il camice (OGMR 209).

Le vesti sacre nelle celebrazioni liturgiche hanno una valenza chiaramente significativa con una forte componente simbolica. Nel caso della casula o pianeta, essa fa conoscere chi guida e realizza le azioni più essenziali del rito, e ciò potrebbe percepirlo anche un non cristiano che fosse presente; ma al contempo i fedeli che partecipano alla Messa riconoscono che quello o quelli che indossano la casula o pianeta sono immagine di Cristo, agiscono in sua persona, e così tutti i fedeli, con i sacerdoti e i ministri, si riconoscono nella fede comune. La circostanza di un numero insufficiente di casule per i concelebranti costituisce una notevole limitazione della valenza simbolica delle vesti sacre dei concelebranti. Alla vista dei fedeli diventa oscurata l’uguaglianza sacerdotale di tutti i concelebranti e ciò non corrisponde bene al criterio enunciato dal Concilio: «I riti [...] siano adatti alla capacità di comprensione dei fedeli» (SC 34); di conseguenza è oscurata l’unità del sacerdozio, che costituisce una delle ragioni che fondano l’opportunità della concelebrazione. «Preparata ogni cosa in modo ordinato, si fa, come di consueto, la processione attraverso la chiesa fino all’altare. I sacerdoti concelebranti precedono il celebrante principale» (OGMR 210). L’insieme dei sacerdoti – celebrante principale e concelebranti – manifesta l’unità del sacerdozio. Così lo vedono i fedeli presenti e tale unità sempre va rispettata. Ciò appare chiaro nel

25] Per questa parte facciamo riferimento ad A. miraLLes, Teologia liturgica dei sacramenti, 34 e ss.

Cæremoniale Episcoporum, quando descrive l’ordine dei partecipanti alla processione nella Messa stazionale: i presbiteri concelebranti procedono immediatamente prima del Vescovo e i diaconi non si interpongono, alcuni incedono prima di loro e altri dopo il Vescovo26 .

Giunti all’altare, i sacerdoti concelebranti e il sacerdote celebrante principale, fatto un profondo inchino, venerano l’altare con il bacio, quindi si recano al posto loro assegnato. Il sacerdote celebrante principale, secondo l’opportunità, incensa la croce e l’altare; si reca poi alla sede (OGMR 211).

Il posto dei concelebranti a cui si recano dopo la venerazione dell’altare è indicato che sia nel presbiterio. La venerazione dell’altare col bacio, che fanno tutti i concelebranti e la collocazione nel presbiterio mostra la loro unità nel sacerdozio e nel sacrificio della redenzione in rapporto a Cristo, che per mezzo della loro azione sacramentale sarà reso presente, attuandosi così la redenzione umana. È importante che i fedeli li vedano strettamente uniti nel sacerdozio, come corrisponde al principio enunciato dalla stessa OGMR: «La natura del sacerdozio ministeriale, che è proprio del vescovo e del presbitero, in quanto offrono il sacrificio nella persona di Cristo e presiedono l’assemblea del popolo santo, è posta in luce, nella forma stessa del rito, dal posto eminente del sacerdote e dalla sua funzione. I compiti di questa funzione sono indicati e ribaditi con molta chiarezza nel prefazio della Messa crismale del Giovedì santo, giorno in cui si commemora l’istituzione del sacerdozio. Il testo sottolinea la potestà sacerdotale conferita per mezzo dell’imposizione delle mani e descrive questa medesima potestà enumerandone tutti gli uffici: è la continuazione della potestà sacerdotale di Cristo, Sommo Sacerdote della Nuova Alleanza» (OGMR 4). Al centro del ministero sacerdotale è indicato il Sacrificio eucaristico che comporta la Comunione.

Per quanto attiene alla Liturgia della Parola, le peculiarità della concelebrazione sono poche. C’è una novità della terza edizione tipica. «Ini-

26] Cf. Cæremoniale Episcoporum ex decreto Sacrosancti Œcumenici Concilii Vaticani II instauratum auctoritate Ioannis Pauli Pp. II promulgatum, Editio typica, Typis Polyglottis Vaticanis 1984, n. 128. Nella IGMR risulta meno chiaro perché nella descrizione dell’ordine della processione non si considera la concelebrazione.

ziato il canto dell’Alleluia, tutti si alzano, tranne il Vescovo, che impone l’incenso senza nulla dire e benedice il diacono o, se questo è assente, il concelebrante che proclamerà il Vangelo» (OGMR 212). Nella circostanza di assenza del diacono, il Vescovo benedice il concelebrante che proclamerà il Vangelo; lo fa nella sua qualità di Vescovo, non in quanto ministro dell’Eucaristia, che ha in comune con i concelebranti, perciò il celebrante principale, se è un presbitero, non benedice l’altro concelebrante. Questi proclama il Vangelo allo stesso modo che nella Messa con il popolo senza diacono. «L’omelia è tenuta normalmente dal sacerdote celebrante principale o da uno dei concelebranti» (OGMR 213).

«La preparazione dei doni [...] viene compiuta dal celebrante principale; gli altri concelebranti restano al loro posto» (OGMR 214).

Nella preghiera eucaristica tutti i sacerdoti, celebrante principale e concelebranti, si mostrano attivi sotto il profilo simbolico. La loro parità sacerdotale si manifesta, tra l’altro, nel fatto che alcune parti sono recitate da tutti e che il celebrante principale non è obbligato a recitare interamente la preghiera eucaristica, ma è conveniente che alcune parti determinate dal Missale siano affidate all’uno o all’altro dei concelebranti. In concreto: «Il prefazio viene cantato o detto dal solo sacerdote celebrante principale» (OGMR 216), anche il Post Sanctus. Invece le intercessioni per i vivi e per i defunti «conviene siano affidate all’uno o all’altro dei sacerdoti concelebranti, che dice queste parti da solo, con le braccia allargate e ad alta voce. Soltanto il celebrante principale compie i gesti, salvo indicazioni contrarie» (OGMR 217). Infatti vi sono alcune rubriche che danno indicazioni su gesti comuni a tutti – celebrante principale e concelebranti – o su gesti riservati a uno o a tutti i concelebranti.

Le parti che sono pronunciate da tutti i concelebranti, in modo particolare le parole della consacrazione, che tutti sono tenuti ad esprimere, si devono recitare sottovoce, in modo che venga udita chiaramente la voce del celebrante principale. In tal modo le parole sono più facilmente intese dal popolo» (OGMR 218). «Le parti che devono essere dette insieme da tutti i concelebranti, se sul Messale sono musicate, è bene che vengano cantate (OGMR 218).

Questa indicazione è una novità della terza edizione tipica, nella quale vi è una sezione col Cantus ad precem Eucharisticam (pp. 621662), in cui sono musicate le quattro preghiere eucaristiche principali. Col canto si favorisce la recita simultanea, particolarmente ne-

cessaria per le parole della consacrazione. L’OGMR indica i gesti che accompagnano le parti che si recitano delle quattro preghiere eucaristiche principali, mentre per le altre preghiere eucaristiche rimanda alle rubriche del Messale, le quali seguono lo stesso criterio che per le quattro principali. Tutti i sacerdoti, celebrante principale e concelebranti, recitano insieme l’epiclesi sulle offerte, l’anamnesi dell’istituzione dell’Eucaristia, l’anamnesi pasquale e l’offerta del sacrificio, nonché l’epiclesi di comunione. Sono le parti più rilevanti per ciò che concerne il sacrificio eucaristico.

Durante l’epiclesi sulle offerte i concelebranti tengono le mani stese verso di esse, mentre il celebrante principale prima tiene le mani stese su di esse e poi le congiunge e traccia un unico segno di croce sul pane e sul calice. Il gesto epicletico dei concelebranti e la preghiera che lo accompagna manifestano l’esercizio effettivo del loro sacerdozio ministeriale tutti uniti. Lo stesso sacrificio eucaristico, che in tanti altri giorni ognuno celebra come unico sacerdote ordinato, adesso lo realizzano tutti insieme e manifestano così l’unità del sacrificio e del sacerdozio. L’anamnesi dell’istituzione dell’Eucaristia include la consacrazione dell’Eucaristia. I concelebranti recitano «le parole del Signore, con la mano destra stesa verso il pane e il calice» (OGMR 230).

Se questo sia un gesto epicletico o dimostrativo è una discussione che va avanti da cinquant’anni. Se fosse epicletico il palmo della mano andrebbe tenuto rivolto verso il basso, se fosse dimostrativo andrebbe tenuta orizzontale. Per chi fosse interessato rimando ad un articolo di Cipriano Vagaggini sull’argomento27. Nel Cæremoniale Episcoporum del 1984 si ripete l’indicazione della OGMR nella seconda edizione tipica del 1975, che coincide con la terza del 2002. Nella nota in calce aggiunge: «Ad consecrationem vero palma manus dexteræ versa sit ad latus» (cf. Notitiæ, I, 1965, p. 143). Il rimando al primo volume di «Notitiæ» si riferisce ad una serie di soluzioni a diversi dubbi sui documenti di attuazione della riforma liturgica avviata dal Concilio Vaticano II. Vi si premette che la soluzione ad ogni singolo dubbio non ha un valore ufficiale, ma soltanto orientativo. Interessante il fatto che non sia stata recepita dalla OGMR della terza edizione tipica del Missale Romanum attuale.

27] Cf. C. vaGaGGini, «Ancora sulla estensione della mano dei concelebranti al momento della consacrazione: gesto indicativo o epicletico?», Ephemerides Liturgicae 97 (1983), 232.

Dopo aver detto le parole del Signore, con la mano destra verso il pane e il calice, «alla loro presentazione, i concelebranti sollevano lo sguardo verso l’ostia consacrata e il calice, poi si inchinano profondamente». Il profondo inchino corrisponde alla genuflexione del celebrante principale, il quale genuflexus adorat (MR p. 575). Insieme hanno detto le parole del Signore, accompagnate dai gesti epicletici, e insieme adorano il suo corpo e il suo sangue. L’unità del sacrificio e l’unità del sacerdozio sono magnificamente espresse, anche di tutto il popolo di Dio se i fedeli mettono in atto la loro parte, sia riguardo all’adorazione, sia riguardo alla risposta all’acclamazione Mysterium fidei, che canta o dice il celebrante principale: «La dossologia finale della Preghiera eucaristica viene recitata solamente dal sacerdote celebrante principale e, se sembra opportuno, insieme agli altri concelebranti, non invece dai fedeli» (OGMR 236).

Per quanto riguarda i riti di comunione i concelebranti dicono a voce alta le stesse preghiere e acclamazioni che dice il popolo: Pater noster, Quia tuum est regnum, Agnus Dei, Domine, non sum dignus, Amen, Deo gratias. Per quanto attiene alla Comunione dei concelebranti l’OGMR presenta diversi modi, che coincidono sul fatto che ognuno di loro non la riceve, ma egli stesso prende il Corpo e assume il Sangue dal calice o per intinzione. Così si manifesta l’unità del sacerdozio del celebrante principale e dei concelebranti. Invece «il diacono riceve la Comunione sotto le due specie dallo stesso sacerdote» (OGMR 182). Durante i riti di conclusione i concelebranti rimangono al loro posto, poi venerano l’altare: «I concelebranti, prima di allontanarsi dall’altare, fanno un profondo inchino. Il celebrante principale, invece, con il diacono venera l’altare con il bacio» (OGMR 251). Anche per la Messa concelebrata il Missale non concede un particolare rilievo alla processione finale, perché ormai l’assemblea liturgica è sciolta.

CONCLUSIONI

Queste pagine denotano tutti i limiti possibili della sintesi di un argomento vasto e complesso. Non è stato possibile in queste pagine entrare in maggiori dettagli, né prendere in esame altri aspetti che avrebbero richiesto un’indagine ancora più grossa. L’excursus storico che abbiamo percorso ci mostra, però, come la concelebrazione

sia la forma abituale della celebrazione della Chiesa primitiva, che poi si è persa solo per motivi pratici. La teologia ha poi cercato di dare fondamenti alla consuetudine della Messa privata concedendo la concelebrazione solo in alcune occasioni (come visto). La riflessione teologico-liturgica scaturita nel sec. XX e raccolta di buon grado dal Concilio Vaticano II ha recuperato la radice profonda della prassi concelebrativa della Chiesa, ovvero essere segno di comunione visibile della Chiesa, unico corpo di Cristo.

100 | Simone Giusti

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