Verso levante. Un secolo di poesia pugliese (1913-2013)

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A mio padre



Verso levante Un secolo di poesia pugliese (1913-2013) a cura di Salvatore Francesco Lattarulo

Stilo Editrice


Ciliegie collana di antologie poetiche diretta da Daniele Maria Pegorari 3

978-88-6479-103-6 Š Stilo Editrice 2014 www.stiloeditrice.it isbn

Stampato nel mese di gennaio 2014 presso Global Print, Gorgonzola (MI). In copertina: Terra e aria di Giuseppe Magnifico.

L’Editrice è a disposizione di tutti i proprietari dei diritti, nel caso non si fosse riusciti a reperirli per chiedere debita autorizzazione.


Indice Introduzione di Salvatore Francesco Lattarulo La parola modulata

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Padri (1890-1922)

45 Capitanata

Umberto Fraccacreta Dolce, la sera O tu che vegli La casa invasa dal dolore Marino Piazzolla Testamento [Non ha che pietre] Prima della soglia oscura 1976-83 Cristanziano Serricchio [L’aratro ha dissepolto dalla rena] [Nuovi incontri] [Solo questo angolo di quiete]

47 48 49

50 52 54

56 58 60 Terra di Bari

Luigi Fallacara Ma la minima foglia Infanzia in Puglia Sera in via Por Santa Maria

61 63 64 Salento

Girolamo Comi Immagine del silenzio 66 Spirito d’armonia 68 [Di te – chiunque tu sia – purché sia quella] 70


Raffaele Carrieri Fine di giornata Mie vite Il muro

72 73 74

Vittorio Bodini La luna dei borboni Finibusterrae Conosco appena le mani

75 77 79

Vittorio Pagano Barche Lettera per un epitaffio Autobiografia

82 84 87

Figli (1923-1956)

89 Capitanata

Grazia Stella Elia Ad una donna un po’ snob [Aspetto il pane quotidiano] Ho chiamato il vento

91 93 95

Emilio Coco Questo mondo non mi appartiene Le sole e vere [Dimmi che ci vedremo molto presto]

96 98 99

Giovanni Dotoli Lezione [È rossa la vigna alla montagna] Al paese del vento

100 102 103

Sergio D’amaro [Caro Friedrich, grandi mani spingono il vento] Pickup 12/Tune [Bianco Sud che ti fai colore]

105 107 109


Enrico Fraccacreta Dietro la vetrata [Ora che muove fresco il ciclamino] [Girasti la svolta di Saint Germain]

110 111 112 Terra di Bari

Matteo Bonsante Il tuo paese [Impresa impari] [Al risveglio la mattina, gli uomini]

113 115 116

Lino Angiuli Senza titolo [Da un lato la persiana] [Niente è più sacro del respiro nostro]

118 120 121

Daniele Giancane Il sole tramontava dietro il mare. Con commento Noi poeti Mi osservo

122 123 124

Vittorino Curci [Di questo passo, esplorando] [Al bivacco degli stranieri] Con una noce in tasca

125 126 127

Francesco Giannoccaro [Più in là di certo] [Lino io vorrei] [Era la corsa]

128 129 130

Giuseppe Goffredo Cosa può cambiare? Il fieno (I) [Grido a voi passeri]

132 134 135


Salento Antonio Leonardo Verri [Come un dissennato] [La disperazione] [Una vita in miniatura lenta]

136 138 140

Carlo Alberto Augieri Sogno in po(l)vere 142 [dell’eternità fugace dell’azzurro] 145 Man mano, nel dopo 146

Nadia Cavalera [di baciar quei begl’occhi m’ha pur concess’amore] Ah, se questa palpebra [Guardo il Novecento]

147 150 152

Salvatore Toma [Il suicidio è in noi] [Il maiale] [Mi vien da ridere]

154 156 158

Nipoti (1957-1989)

159 Capitanata

Salvatore Ritrovato L’amante [Amore fa la spola fra l’invariata] [Che odori esala questa terra bagnata]

161 162 163

Raffaele Niro Sogni rotti Mappa dinamica delle migrazioni S’era mattino

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Terra di Bari Giacomo Leronni [Azzardo l’inventario del mattino] [Questo non è] [Andiamo verso l’eterno]

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Enzo Mansueto Corpo estraneo Tele comando Rigetto, espulsione

173 174 175

Anita Piscazzi Nata d’inverno [Passerai distratto] [Il primo scuro porta sul tetto]

176 177 179 Salento

Claudia Ruggeri Ballata Tragedie, sogni e misteri II Congedo Stefano Donno …Pulp! L’ossario dei sogni [A trotto percorro ogni centimetro di pelle]

180 182 184 185 186 187

Note Biografiche

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Bibliografia

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Fonti

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Introduzione La parola modulata «Davanti non abbiamo altro / che la nostra terra, / la stessa terra vergine / su cui Bodini / intendeva operare / (ed è nostro grande padre, / se vogliamo cercarci dei padri) / creando dal niente, / incidendo appunto / questa sua verginità». Questa manciata di versi di Antonio Leonardo Verri1 è di per sé sufficiente a giustificare il ‘filo a piombo’ della presente antologia, che attraversa nell’arco di cento anni tre assi macro-generazionali(1890-1922/1923-1956/1957-1989), rubricati per comodità definitoria con un lessico parentale (padri, figli, nipoti), quasi che la conterraneità anagrafica sia l’altra faccia di una consanguineità ideale2. 1. A.L. vErri, Vorremmo essere noi stessi, in id., Il pane sotto la neve (per otranto, per occasioni)… più altro pane, a cura di M. Nocera, Kurumuny, Calimera 2003, p. 100, vv. 4-13. La lirica era già stata pubblicata nel numero dell’aprile 1979 di «Caffè greco», p. 3. 2. A riguardo si potrebbe anche prendere in prestito da m.i. santis la nozione di «linea pugliese», a patto, però, di usare la sua stessa prudenza storiografica: «Linea pugliese […] non è un’indicazione di scuola né di movimento poetico, ma è una denominazione di comodo che segue un criterio di mera designazione geografica, senza distinzioni generazionali, e sottolinea, pur nella diversità delle esperienze individuali, dei princìpi direttivi analoghi e un coagulo di tendenze similari sull’orizzonte più ampio di quella propaggine sudeuropea che è la Puglia» (Percorsi della poesia italiana nella Puglia degli anni ’80, Levante, Bari 1990, p. 34). Senz’altro da rigettare,

dE

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Lo scrittore di Caprarica di Lecce (1949-1993), di cui è appena trascorso il ventennale della morte3, metteva qui a dimora l’intima inclinazione a riconoscersi entro un perimetro geo-poetico tracciato dal compasso di una storia culturale avvertita come esperienza comune e identificante (non diciamo identitaria), dava cioè corpo al bisogno bruciante di codificare una tradizione letteraria endogena. Da una parte, questo spazio memoriale larico appariva a Verri come un orizzonte-limite, un confine castrante e asfittico, dall’altra, il radicamento in un alveo periferico originario non andava percepito come esilio in una terra di nessuno sotto un cielo straniero, destinato dunque a farsi premessa per costruire un’ipotetica via di fuga; semmai doveva essere irrorato dalla linfa di una per le sue polemiche implicazioni revanscistiche, invece, è la definizione di linea ‘borbonica’ o ‘neoborbonica’, che negli ultimi tempi ha cominciato a circolare nel dibattito mediatico più che critico, magari in opposizione a una linea ‘padana’. Si veda in proposito F. Santi, La linea borbonica: il caso Claudia Ruggeri, in P. vadalÀ (a cura di), La sposa barocca. Sette saggi su Claudia Ruggeri, prefazione di M. Zizzi, LietoColle, Faloppio 2010, pp. 81-90. Come ben si sa, la distinzione per linee regionali è stata introdotta proprio in area settentrionale da L. AncEschi con l’antologia di culto Linea Lombarda. Sei poeti, Magenta, Varese 1952. Il criterio generazionale risale, invece, al magliese-fiorentino Oreste Macrì. 3. In occasione del tragico anniversario è apparsa la prima organica biografia a firma di R. AstrEmo: Con gli occhi al cielo aspetto la neve. Antonio Verri. La vita e le opere, Manni, San Cesario di Lecce 2013. E si è dovuto attendere questa scadenza per avere il primo tentativo di uno studio complessivo, benché solo panoramico, dell’opera dello scrittore di Caprarica: S. Giorgino, Antonio L. Verri. Il mondo dentro un libro, Lupo, Copertino 2013.

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consapevole assunzione di responsabilità verso una luminosa e laboriosa stagione culturale non troppo lontana, da riconvocare in un presente di febbre e rabbia creativa. Certo, l’appello dell’autore del Pane sotto la neve a fare i conti con un’autoctona koinè letteraria, certificandone l’esistenza nel fondo delle coscienze, andava letta come una pacifica chiamata alle armi dei suoi conterranei sul fronte di un’attiva e resistente militanza culturale in nome e per conto di una visuale autarchica salentinocentrica, afferente a quel lembo meridionale di Puglia storicamente defilato e isolato dal contesto di appartenenza4, una sorta di regione nella regione, a tal punto self-made land da essere di recente ostaggio di forti spinte autonomistiche, indipendentistiche, ove non separatistiche, sul piano politico-amministrativo5.

4. Già vErri utilizzava la categoria di «salentinità» con qualche imbarazzo: si veda in proposito l’editoriale Un Punto fermo apparso nella prima pagina del «Caffè greco» del maggio 1977 (ripubblicato in Il pane cit., p. 99). Sul rapporto tra poesia ed «emarginazione geografica del Salento» cfr. in particolare E. BonEa, Subregione culturale. Il Salento, Milella, Lecce 19781996, 3 voll.: vol. III, Le tessere del mosaico, tomo I, 1996, p. XXV. Un’attenta analisi degli aspetti relativi alla questione della riconoscibilità di un «linea salentina» dentro la letteratura nazionale in versi tra Otto e Novecento è in M. Proto, La linea salentina nella poesia italiana moderna e contemporanea, Mariano, Galatina 1963, pp. 3-12. 5. «Il Salento è, e si sente, regione», scriveva M. marti; ma «in questa piena consapevolezza di individualità e di identità la dimensione storica dovrebbe riscattare la dislocazione geografica, contro ogni sofferenza d’emarginazione» (Un’immagine del Salento, in id., Storie e memorie del mio Salento, Congedo, Galatina 1999, p. 116).

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È appena il caso di sottolineare che per Verri essa era solo una regione dell’anima, eppure tante volte tradita nel segreto giaciglio del cuore. Dentro di sé egli sentiva di essere una specie di figliol prodigo della sua terra. L’immagine ricorrente del treno visto sfilare davanti ai propri occhi senza avere la forza e il coraggio di saltarci sopra è la trasfigurazione poetica di un appuntamento sempre differito e rimosso con la partenza e l’evasione verso nuovi e fascinosi approdi, alla volta di «paesi di neve»6, così diversi dalle sue assolate e afose contrade. Disertore mancato, Verri confessava di essersi speso nella fondazione di un ‘corriere internazionale’ intitolato «Pensionante de’ Saraceni» per confezionare un antibiotico contro il virus della morte civile e spirituale in casa sua: «ne avevo bisogno per vivere in questo posto»7. Per certi versi, la sua storia risultava essere l’opposto di quella del quasi conterraneo Raffaele Carrieri (Taranto 1905-Casoli di Camaiore [LU] 1984), che tradusse la sua propensione erratica e girovaga in un effettivo peregrinare nel mondo, fatti salvi alcuni sporadici ritorni nella città natale. A proiettarlo verso mete lontane era, in fondo, una certa tempra bizzosa ed eslege8, non dissimile 6. «Pensionante de’ Saraceni», dicembre 1986, p. 3 (ora in vErri, Il pane cit., p. 118). 7. Ibid. 8. A proposito delle stravaganze di Carrieri è utile leggere qualche succoso aneddoto riportato da A. Lippo, Passato, presente e futuro: scritture alle rive dei Due Mari, in E. catalano (a cura di), La saggezza della letteratura. Atti del Forum letterario “Puglia letteraria, Mediterraneo, Europa”. Mediterre-Fiera dei parchi del Mediterraneo (marzo 2005, Brindisi), Giuseppe Laterza, Bari 2005, pp. 230-232.

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dalla natura anarcoide e volatile di Verri. Ma per parte sua Carrieri seppe vestire i panni dell’intellettuale cosmopolita e transfrontaliero, di un «gabelliere», per usare il titolo della sua silloge chiave9, appostato sul confine precario e mosso della vita e della scrittura, costretto, allo stesso tempo, a scontrarsi con il dramma della solitudine del transfuga, antiporta di quel senso incombente della morte che si annida con cadenza costante nei suoi versi. Nel suo breve accenno all’urgenza inderogabile, connotata da una sfumatura più operativo-militante che sentimental-ideale, di fissare una genealogia della lirica novecentesca subregionale, Verri individuava inoltre come capostipite, proto-poeta d’area, non già il più anziano Girolamo Comi (Casamassella [LE] 1890-Lucugnano [lE] 1968), quanto il più vicino negli anni Vittorio Bodini (Bari 1914-Roma 1970)10. Le ragioni di questo spostamento in avanti 9. R. carriEri, Lamento del gabelliere, prefazione di C. Bo, Toninelli, Milano 1945. 10. Va da sé che l’autore della Luna dei Borboni è sentito come Ur-poeta, caposcuola o, se si vuole, ‘capofamiglia’, anche da altre voci maturate nel secondo Novecento pugliese. Si vedano questi emblematici versi del valenzanese L. Angiuli: «Ciao Bodini / t’ho sentito stanotte che rincasavi stanco / dalla tua grande morte barocca / consumata tra melloni d’acqua distillata / pomodori e peperoni di polistirolo» (S’è fatto ½giorno, in Campi d’alopecia, Lacaita, Manduria 1979, p. 83, vv. 21-25). Li ricorda opportunamente il saggio-battistrada G. DE Santi, Sul margine della scrittura: mappe, interferenze poetiche, genealogie, in D.M. PEgorari (a cura di), Dal basso verso l’alto. Studi sull’opera di Lino Angiuli, Manni, San Cesario di Lecce 2006, p. 27. Cfr. anche l’intervento dello stesso L. Angiuli, Bodini ci fu padre, «in/oltre», 5, 1990, pp. 113-117. Intorno all’eredità ideale dell’opera dello scrittore barese-salentino si veda la

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dell’anagrafe letteraria territoriale risiedevano nel gusto e nella sensibilità personale. Lontano dallo spiritualismo ascetico dell’autore di Spirito d’armonia, Verri era in rapporto di più stretta confidenza con lo sperimentalismo baroccheggiante del firmatario della Luna. Con la morte di Bodini, il poeta di Caprarica, che allora era poco più che ventenne, ebbe chiara la sensazione che un’epoca era finita, che si era chiusa un’esperienza poetica. Si apriva a quel punto un vuoto, che bisognava colmare in risposta a una necessità vitale. Ma i chiamati a una sfida così cruciale erano gli esponenti di una generazione che si affacciava e contrario sul proscenio delle lettere «con molta poca esperienza»11. Bisognava ripartire, riprendere un capo del filo fin lì tessuto per evitare che la condanna di un nuovo immobilismo lo spezzasse una volta per tutte. Ecco allora farsi largo nella mente e vedere la luce della stampa nel febbraio del 1977 il periodico «Caffè greco». Questo «quadernetto di letteratura» era l’agognato «punto d’incontro / da usare come banco di prova / per nuovi progetti letterari»12, il coagulo delle forze fresche e migliori della società pensante salentina. Prendeva così corpo una scomriflessione di F. TatEo in occasione dei dieci anni della scomparsa: «il travaglio umano ed artistico di Bodini appartiene ad un’epoca ancora a noi vicina e la crisi degli ultimi suoi anni può ancora iscriversi alla nostra crisi» (Presenza di Bodini, in O. macrÌ et al. (a cura di), Le terre di Carlo V. Studi su Vittorio Bodini, Atti dei Convegni di Roma (1-2-3 dic. 1980), Bari (9 dic. 1980), Lecce (10-11-12 dic. 1980), Congedo, Galatina 1984, p. 810. Vale la pena ricordare che quest’anno cade il centenario della sua nascita. 11. vErri, Vorremmo essere cit., p. 100, v. 3. 12. Ivi, vv. 18 e 30-32.

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messa per l’avvenire, si faceva nel concreto carta e inchiostro l’ottativo di «essere sé stessi», nella rigenerante prospettiva di tornare o continuare a essere quello che si era stati. Si trattava di arare ancora un terreno in cui il seme fecondo gettato dai padri non andasse disperso nel vento dell’oblio e dell’indifferenza levatosi nel rigido e grigio inverno del riflusso dei Settanta-Ottanta. Proprio a metà di questo secondo decennio, Verri pubblicava il Pane – come con formula ellittica egli stesso lo definì in una lettera13 a Maurizio Nocera del novembre 1987 – libro magnifico e terribile, fondativo e cruciale, dove si rimpastava con lievito originale quel grumo sfarinato e spurio di odio e amore verso il luogo natale, che aveva avuto in Bodini l’artefice più autentico e dolente. L’opera è un diario che registra «in ogni verso lo strazio del figlio che gira per altri inferni»14. Un figlio del destino che alla stregua di un novello Telemaco si era messo in cerca di un padre leggendario ancorché vivo nel ricordo, quel «padre che non lascia mai il campo»15. Tanto da Bodini, titolare di un pensiero euro-meridionale capace di flettere insieme hispanidad e leccesità in «metarealismo»16, cioè nel realismo magico e visionario di un’unica morfologia poetica, quanto 13. Pubblicata in vErri, Il pane cit, p. 11. 14. Ibid. 15. L’espressione è nella lirica (Per Roberta a Bologna) in vErIl pane cit., p. 28, v. 39. Verri gioca assai spesso nelle sue opere con l’avatar di Stefan, preso in prestito dall’omonimo Dedalus, figlio di Leopold Bloom, controfigura dell’eroe omerico nell’Ulysses di James Joyce. ri,

16. M. LunEtta, La metafora incrociata: surrealismo barocco nella poesia metarealistica di Bodini, «in/oltre», 5, 1990, p. 84.

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da Comi, che fece fruttare gli investimenti culturali nei soggiorni a Losanna, Parigi e Roma dando vita tra le mura antiche del suo palazzo di Lucugnano a quell’impresa di cuori e cervelli dal profondo respiro nazionale denominata «Accademia salentina», Verri apprese la lezione di una letteratura aspirante a un ruolo nient’affatto burgense, contradaiolo, provincialesco17. Senonché, diversamente dai suoi ‘maestri’, si addestrò al rigore etico di un ecumenismo delle idee e di un cosmopolitismo della scrittura senza mai portare le suole fuori dal paesino dove era nato. Nella malferma e un po’ astratta convinzione che il modo migliore per sdoganare la periferia non era l’andare lontano, incontro all’altro da sé, ma piuttosto l’accoglierlo entro la propria realtà di sempre. «Un pranzo con Fortini o le frise e le frattaglie mangiate con Luperini – scriveva con gustosa ironia ammiccando alla sua passione per la buona tavola – sprovincializzano più dei tuoi mille e mille rapporti con Firenze o la Francia»18. In questo caso l’interlocutore virtuale del suo scanzonato ragionare era l’altro grande Vittorio del parnaso salentino, quel Pagano (Lecce 19191979) cui Verri dedicò un numero speciale del «Pensionante de’ Saraceni», e che nell’editoriale da lui si17. Proprio l’esperienza europea consentì a Comi di entrare in contatto con i fermenti innovatori del ‘misticismo irrazionale’ che lo tennero ben lontano da quel carduccianesimo laterale e conformista imperante nella magna pars della produzione dei suoi contemporanei salentini (cfr. D. Valli, Anarchia e misticismo nella poesia italiana del primo Novecento, Milella, Lecce 1973, p. 339). 18. A.L.vErri et al., Per Vittorio Pagano, «Pensionante de’ Saraceni», numero speciale, n.s., II, 1, novembre 1985-giugno 1986, p. 6. La citazione successiva è tratta dal medesimo luogo.

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glato definiva un «Abelardo infuocato e appassionato», quasi un eccentrico accostamento che intendeva strizzare l’occhio tanto alla ben nota fiamma amorosa che divampò nel monaco medievale per l’allieva Eloisa quanto alla vocazione francesistica del salentino che gli rendeva in qualche modo familiare la figura del teologo di Nantes. Proprio la piretica inquietudine creativa, la tracimante tensione lavica della scrittura di Pagano, elevate dal più giovane conterraneo a stigma cruciale della sua poetica, trovavano tuttavia il loro argine nell’applicazione disciplinata e castigata di un canone, di un equilibrio, di una misura. Di questa pur tormentata coincidentia oppositorum costituisce un’agile summa l’inizio della prima terzina di un sonetto dedicato all’amico Giorgio Caproni: «Scavare, gioia di condanna, è questo /che impone la parola modulata»19 (corsivo mio). Di qui un’idea di poesia in termini di capacità di ‘modulare’, appunto, e cioè di regolare, scandire, accordare stati d’animo, bisogni, istanze, irrequietezze, utopie. Il maledettismo di fondo di Pagano, dunque, era in superficie corretto se non camuffato da un senso letteratissimo del verso, al punto che Donato Valli rubrica come «la sua più tragica finzione» la volontà di «fare letteratura colla

19. La poesia, intitolata A Giorgio Caproni, fa parte della raccolta Calligrafia astronautica (Pajano, Galatina 1958). Sui rapporti tra Pagano e il poeta ligure-toscano cfr. G. PisanÒ, Il sodalizio Betocchi-Comi e altro Novecento. Caproni, Macrì, Pagano, Coppola, Congedo, Galatina 1996, pp. 104-117. Per una calibrata e incisiva diagnosi di questo luogo clou della produzione dell’autore salentino rinvio a N. Carducci, Vittorio Pagano. L’intellettuale e il poeta (Con quattro poemetti inediti), Pensa MultiMedia, Lecce 2004, pp. 22-24.

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letteratura»20. Si può dire che in Terra d’Otranto esista un ‘caso Pagano’, nel senso che il profilo singolare e appartato di questo autore, per altro ancora orfano di una sistematica interpretazione della sua opera21, lo renda impermeabile a un posizionamento entro un filone ben riconoscibile. Se Comi è l’esponente di punta dell’orfismo e Bodini si inscrive nel solco della lirica sperimentale, Pagano si rivela da una parte «fedele fino alla fine alla corrente ermetica», dall’altra pare portare avanti in alcune raccolte uscite postume «un’evoluzione nella sua poesia»22. È pur vero che il côté, per così dire, dannato di Pagano è confluito, a voler individuare traiettorie comuni intergenerazionali, nell’opera di alcune ulti20. Mistero per una morte, in vErri et al., Per Vittorio Pagano cit., p. 10. 21. Cfr. in merito A.L. GiannonE, Vittorio Pagano prosatore, in id., Scrittori del reame. Ricognizioni meridionali tra Otto e Novecento, Pensa MultiMedia, Lecce 1999, p. 81 e M. Marti, Ipotesi per Vittorio Pagano, in id., Storie e memorie del mio Salento cit., p. 209. 22. A.L. GiannonE, Vittorio Pagano: l’intellettuale e il poeta, in id., Modernità del Salento. Scrittori, critici, artisti del Novecento e oltre, Congedo, Galatina 2009, p. 66. Per questa via Giannone nega un fondamento critico alla vulgata storiografica della «cosiddetta “triade” salentina» Comi-Bodini-Pagano: «Questi infatti sono tre poeti diversissimi tra di loro, appartenenti a generazioni diverse e accomunati, in fondo, solo dall’origine» (ibid.). Il canone delle ‘tre corone’ subregionali è individuato come il catalizzatore di un’intensa e fervida stagione letteraria da D. valli in uno smilzo libriccino il cui dispositivo interno è tuttavia sorretto, più che dal rigore della ricerca scientifica, dalla calda mozione degli affetti privati diluiti nel corso di una lunga frequentazione umana e spirituale (Poeti salentini. Comi, Bodini, Pagano, Schena, Fasano 2000).

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me leve della civiltà poetica sviluppatasi nell’area del Capo. Mi riferisco all’onirismo ingenuo e sauvage di Salvatore Toma (Maglie 1951-1987) e alla visionarietà dotta e iperletterata di Claudia Ruggeri (Napoli 1967-Lecce 1996). Due storie e due personalità distinte ma riunite dall’identica sorte di una prematura morte volontaria e dalla comune aspirazione a farsi conoscere fuori dalle basse latitudini native. Laddove il processo di sprovincializzazione di Toma si è compiuto grazie al pur tardivo intervento di Maria Corti23, per Ruggeri la riscoperta in chiave nazionale è ancora molto di là da venire, nonostante la stima accordatagli in vita da Franco Fortini, al netto di alcune riserve e cautele, da Dario Bellezza e, più di recente, da Guido Oldani, a fronte invece di una sempre più crescente fortuna regionale24. 23. Penso, naturalmente, all’antologia Canzoniere della morte, pubblicata postuma, a cura e con introduzione della stessa Corti, nella mitica ‘bianca’ di Einaudi (1999). Sull’interesse della grande filologa lombarda ma salentina nell’anima per lo scrittore magliese si veda il capitoletto Salvatore Toma: il poeta maledetto, in A. Longoni, Maria Corti. Da Milano al Salento, Schena, Fasano 2004, pp. 37-42. Nota D. Valli che in Toma la sindrome del provinciale, contratta dal rapporto con una realtà sociale «turpe e ingrata», comune a tanti scrittori meridionali, non innesca un effettivo moto di rivolta e una pulsione a evadere perché assume come terapia etica «la virulenza del sogno» (Sogno e morte in Salvatore Toma, in id., Aria di casa. Il Salento dal mito all’arte, Congedo, Galatina 1994, p. 119). 24. Mentre questa antologia era in fase avanzata di lavorazione è apparsa una raccolta di inediti della Ruggeri recuperati da appunti sparsi e taccuini volanti: C. RuggEri, Canto senza voce, a cura di E. Basile, A. Schiavone, Terra d’ulivi, Lecce 2013 (in allegato il documentario Claudia Ruggeri di E. Scarciglia). L’eclettico randagismo spirituale tanto di Ruggeri

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