Il Pezzente di Denari (1°cap.)

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Stefano Carlo Vecoli

Il Pezzente di Denari

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Romanzo "Il Pezzente di Denari" © Stefano Carlo Vecoli Prima edizione italiana giugno 2006 © copyright 2006 di Stefano C. Vecoli Prima edizione digitale ebook 2013 © copyright Stefano Carlo Vecoli - 2013 - Lulu.com Nota dell'autore: questo romanzo è frutto di fantasia. Ogni riferimento a fatti, personaggi, episodi e avvenimenti è puramente casuale.

Il Pezzente di Denari ha ricevuto i seguenti riconoscimenti:i: Secondo premio al concorso “Firenze, Capitale d’Europa,2006; finalista al Premio Letterario Internazionale «Trofeo Penna d'Autore» di Torino 2008, segnalazione di merito al Premio Letterario Città di Cattolica, 2009). Dello stesso autore : Il pranzo dei Burlanti , © Stefano Carlo Vecoli 2002, ha ricevuto il primo premio al concorso “Firenze, Capitale d’Europa, 2007. Prossimamente in uscita il terzo romanzo, ambientato in Italia tra gli ardori rivoluzionari degli anni settanta.

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Prefazione

Savinio, o della fatica di scegliere Ma ve li ricordate gli anni Ottanta e dintorni? Sì, proprio quelli contrassegnati dal “grande freddo” delle passioni civili, il decennio immorale del delirio narcisistico, del cinismo etico, dell’individualismo sfrenato… L’appena ieri sempre in agguato, il tempo della mutazione antropologica i cui frutti avvelenati intossicano ancora oggi la vita pubblica. I maledetti anni Ottanta e seguenti, quando il turbocapitalismo, insofferente di ogni regola, santificava il divario tra moralità e politica e chi contava irrideva a quanti si opponevano: il successo a tutti i costi diventava così l’unico criterio dei rapporti tra gli uomini, l’ideologia della concorrenza esasperata sovrintendeva all’intera vita di relazione tra le persone. Anni forsennati ancora nella memoria di molti: per il moltiplicarsi delle disuguaglianze, la privatizzazione dei bisogni e dei servizi, l’agonia della politica intesa come possibilità di trovare risposte collettive a esigenze comuni e diffuse. Sono lì le ragioni dell’attuale incarognimento dei costumi, dell’involgarimento dei comportamenti, dell’imbarbarimento dei rapporti tra cittadini e istituzioni, tra cittadini e cittadini. Cominciò tutto allora e mai come in quell’epoca il Bel paese conobbe un complessivo degrado civile rischiando di trasformarsi in una impresentabile e ingovernabile palude limacciosa… Dove sguazzava, come un pesce nell’acqua, il protagonista del secondo romanzo di Stefano Carlo Vecoli. Savinio il suo nome, come lo pseudonimo di un talentuoso ed eclettico artista del nostro primo Novecento, pittore, poeta, prosatore e musicista. E ad Alberto Savinio, fratello del più noto Giorgio De Chirico, famoso pittore metafisico, dobbiamo un libro poco noto Narrate, uomini la vostra storia una raccolta di autobiografie immaginarie: e il Savinio di Vecoli ci racconta la sua. Quella di un ragazzo povero che vuole “arrivare” a tutti i costi e che nella temperie malmostosa del suo tempo trova le ragioni e le motivazioni adatte a uno stranito progetto di vita che può brevemente riassumersi nell’arricchirsi per acquisire potere, acquistare potere per continuare ad arricchirsi. Senza guardare in faccia a nessuno, prescindendo dalle proprie origini di onesto figlio del popolo, tirato su grazie ai sacrifici di una madre che per mantenerlo agli studi “faceva le pulizie”, mettendo a tacere i propri sentimenti profondi di giovane uomo ancora sensibile ai valori dell’amicizia, degli affetti familiari, di un’esistenza semplice, onesta, “sensata”. Quella vissuta con pienezza solo ai tempi lontani dell’infantile, ingenua confraternita dei “Cavalieri 3


dell’Olmo”, un’esperienza formativa e fondativa, densa di ideali generosi continuamente rimpianti nel segreto della propria coscienza interiore. Ma il Savinio adulto che si aggira con consumata disinvoltura tra i bassi fondali dell’Italia com’era vent’anni fa ha compiuto altre scelte, altri sono gli “eroi” a cui si accompagna: non più i magnanimi “Cavalieri dell’Olmo” e le loro candide imprese, piuttosto i portaborse, i faccendieri, i collettori di tangenti, i satrapi piccoli e grandi della politica locale e nazionale… Insomma, tutto quel nuovo ceto politico/affaristico/malavitoso che emerse prepotentemente in quegli anni, annidato tra le infinite pieghe delle amministrazioni pubbliche, dei giornali, delle professioni, dei sindacati, proponendosi come la sostanza vera, sconsolatamente egoista e volgare, ieri come oggi, della società italiana. Pagina dopo pagina, alternando il racconto del presente al flash back, Savinio racconta le tappe della sua resistibile ascesa come manager d’assalto della finanza e del mattone versiliesi: cementificazioni, speculazioni sulle aree, piani regolatori “taroccati” e politicamente pilotati si intrecciano a un’altrettanto spregiudicata strategia matrimoniale finalizzata a sposare la bella Ludy, figlia di una delle famiglie più in vista di quell’area della Toscana. Ancora un paio di mosse azzeccate e Savinio, il “pezzente di denari”, entrerà finalmente a far parte dell’Oligarchia dei Potenti… A perderlo - e a salvarlo - sarà un unico, improvvido gesto di altruismo. E il conseguente effetto domino spazzerà via rovinosamente il castello di carte costruito con tanta fatica: perché nello spietato mondo del potere e della ricchezza del nostro tempo, di tutti i tempi, non c’è posto per un ambizioso parvenu che s’è intromesso arbitrariamente senza essere selezionato dalla storia o dal censo. E Savinio solo dopo aver perso tutto, ma proprio tutto, dopo una dolorosa discesa agli inferi (ospedale, caduta della sua immagine pubblica, disastro economico e fine della sua relazione con Ludy) potrà tornare alla luce di una nuova, riconquistata umanità.

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Il finale di questo romanzo di formazione, però, non inganni: non c’è molto di consolatorio o di rasserenante in questa seconda prova narrativa di Vecoli. Il protagonista, Savinio, non è per niente simpatico e il lettore fatica ad identificarsi nelle sua mentalità spavalda e amorale, che pure è stata il senso comune diffuso e ampiamente condiviso in un periodo recente della nostra storia nazionale: il buio che, forse, abbiamo appena attraversato e in cui rischiamo continuamente di ripiombare. Anche la scrittura, sempre misurata e controllata, favorisce la presa di distanze tra chi racconta - Savinio, in prima persona - e chi legge: ora secca, tagliente, essenziale come il linguaggio proprio di una riunione d’affari, ora più descrittiva, ricca di dettagli corposi, di particolari carnali. Per esempio, quando le parole sono utilizzate per rappresentare le donne belle e sensuali che popolano la vita di Savinio, o i vini e i cibi che ne scandiscono le giornate e gliele rendono talmente godibili da far risultare questo personaggio irritante e sgradevole. Ma si permetta al protagonista di tornare alle sue radici, al cospetto degli splendidi scenari mediterranei, tra le viuzze, la piazzetta e la fontana, del suo borgo d’origine immerso nel verde delle colline versiliesi. Fategli appena appena ritrovare un po’ dell’ antica familiarità con la sua gente e specialmente con i “Cavalieri dell’Olmo”, i compagni di un’infanzia libera, felice e soprattutto senza macchia e senza paura: allora il racconto si fa caldo, avvolgente, carico di colori, odori, sapori, sensazioni tattili in un’adesione piena e convinta alla materia narrata. Sono queste le pagine più belle del romanzo, intrise come sono di memoria e dense, ricche di una vita finalmente davvero degna di essere vissuta: quando finalmente Savinio ricompone in se stesso la propria origine, per scegliere di rinascervi ogni giorno, definitivamente.

Luciano Luciani

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a Maria Luisa, mia mamma.

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Sguardo al cielo e alle nuvole, occhi sognanti e capelli mossi dal vento, mia mamma passeggiava a piedi nudi sulla battima. Carezzava il pancione e fantasticava sulla vita che avrei vissuto e sugli orizzonti che l’uomo con il quale mi aveva concepito stava attraversando. Di quel marinaio, andato per il mondo in cerca di fortuna, si rammentarono via via solo alcune cartoline arrivate da sempre più lontano e, con il rarefarsi delle visite del postino, l’attesa di un suo ritorno si fece sempre più vana; così venni al mondo perché lei affrontò da sola quel che la sorte le aveva dato in dono. Da subito si trovò a decidere sia del presente che del futuro, prima cosa il battesimo lo volle originale e non avendo soldi per organizzarmi una festa volle stupir tutti con la scelta del nome. Mentre attendeva le doglie del parto vide, tra le pagine di una rivista lasciata in corsia all’ospedale, un servizio su di un pittore che dipingeva dei quadri a suo avviso incredibili, pieni di cose un po’ folli. Come e perché volle battezzarmi come l’autore di quelle tele rimase inspiegabile ai più. A lei che credo in vita sua non vide mai un museo o una mostra quelle raffigurazioni così fantasmagoriche apparivano ben in sintonia con il mistero della nascita di una nuova vita e tanto originali come si augurava sarebbe stata la mia. Novella e solitaria puerpera seguì il suo impulso senza essere sfiorata da dubbi e a quell’artista s’ispirò per battezzarmi. Così ebbi per nome Savinio. Quando fui più grande mi raccontò che gli appariva una derivazione della parola savio, e io figlio di padre, se non ignoto, perlomeno fuggente, da chi e come avrei dovuto prendere saggezza solo lei lo sapeva. Non di meno pensava che il mio nome contenesse per assonanza anche il termine salvo e come un perenne e inattaccabile talismano mi avrebbe aiutato a mettermi al sicuro dalle asprezze della vita. Son passati trentotto anni dal mio battesimo e dieci da quando lei si addormentò per non svegliarsi più. Era una donna di una dolce bellezza, capelli castani, volto ovale, sguardo amorevole e quando occorreva austero, occhi pronti all’allegria nonostante la dura vita sperimentata. Proprio la capacità di saperla affrontare con il sorriso, in ogni momento e in ogni modo si presenti, è ciò che mi ha lasciato in eredità e di cui mi sento ancora ricco. Di soldi o di case neppure l’ombra. È appena iniziato l’ultimo decennio del secondo millennio: molti già pensano a entrare trionfanti nel terzo. Questo pezzo di storia della mia vita inizia uno di quei giorni di fine febbraio che in Versilia segnano il passaggio un po’ anticipato tra l’inverno e la primavera, in cui finisce il carnevale e dopo una rapida quaresima si attende un veloce risveglio della natura, auspicio di una successiva radiosa estate. 8


Questa di oggi era stata una di quelle giornate molto impegnative e stressanti, di cui si cibava la mia smania di esistere e che una volta concluse appagavano pienamente il mio ego. Telefonate e incontri in cui alternavo decisioni rapide e studiati temporeggiamenti per mettere a punto gli ultimi dettagli di quello che sarebbe stato il progetto, se non più importante, sicuramente decisivo per la mia vita: “The Future’s Village”. La frenesia lavorativa mi dava un senso di benessere mentale che si ripercuoteva anche a livello fisico e verso l’ora del tramonto, quando le telefonate e gli incontri si diradano fino a terminare, mi ritrovavo a volte a ponderare il cammino percorso fino a oggi. Io, Savinio, nato per caso, voluto forse solo dal Signore e dalla caparbietà di mia mamma, un padre oramai naufragato tra i ricordi, ero divenuto in poco tempo, troppo poco e troppo in fretta a parere dell’invidia di molti, uno dei più importanti, rispettati e rampanti uomini d’affari di questo pezzo di Toscana. Sulla scia di un sempre più fulgido successo imprenditoriale e sociale, da alcuni mesi ho una relazione con una delle più belle ragazze dell’alta borghesia locale, il suo nome è Ludovica, Ludy per la sua mamma, le amiche e nella nostra intimità. Misi ordine sulla scrivania, chiusi l’agenda degli appuntamenti, inserii la segreteria telefonica e con calma mi alzai dalla poltrona e andai a godere del panorama dalla terrazza, l’aria era pungente ma non troppo fredda. Luci sui viali su su fino al porto, luci di vetrine e d’insegne: blu, verdi, gialle, scie bianche dei fari delle auto, luci rosse delle gru del porto e nel cielo le prime stelle. Mister Gold, fidato confidente di questi ultimi anni seguiva in silenzio ogni mio passo. Alcuni squilli del telefono mi riportarono dentro l’ufficio, non alzai la cornetta e stetti ad ascoltare la segreteria che registrava. Era la voce di Pietro, l’avvocato mio socio in affari, complice avrebbe detto qualcuno. Con tono compiaciuto annunciava il successo dei suoi ultimi incontri avuti nei salotti buoni, così come amava definirli con una certa reverenza, dove tutto si decideva davvero. Chi in zona contava sul serio aveva apprezzato il mio progetto: adesso si trattava di farlo approvare dalle varie Commissioni e Consigli Comunali, procedura un po’ lunga ma necessaria per far apparire democratiche e limpide decisioni prese altrove. Molti si chiedono dove sia questo luogo, se esista davvero un “Altrove”, empireo sconosciuto ai più, in cui le decisioni vengono prese. Nessun dubbio, esiste ed è semplice riconoscerlo, basta seguire le tracce dei soldi, lì dove questi vanno a finire, lì proprio lì c’è il mitico “Altrove”. Io avevo capito dov’era, avevo saputo arrivarci e proprio per questo in grande quantità si fermavano nelle mie tasche. Come un segugio anni prima avevo trovato una traccia, l’avevo seguita ed ero entrato nelle “Terre dell’Altrove”. Come da bambini si va con il batticuore a scoprire le segrete stanze di una casa abbandonata o si entra timorosi in una grotta per emozionarsi nello scoprirla, così da grandi ci si avventura alla ricerca del mitico luogo dove pochi 9


decidono per molti, abitato da uomini misteriosi e potenti: “I Satrapi dell’Ultimo Sì”, come avevo preso a chiamarli con una sorte di timore e di sberleffo. Che Pietro avesse concluso con successo il giro di colloqui nelle “Terre dell’Altrove”, non fu una sorpresa, la sua era la ricognizione finale di una lunga attività di promozione fatta da me, da lui stesso e da Paolo, l’ingegnere altro nostro socio. Pur non essendo inattesa era comunque una bella notizia che rinfrancò il mio umore in vista della serata che avrei trascorso con Ludovica. Fregandomi le mani mi diressi nella parte dell’attico adibita ad appartamento, accesi lo stereo, un po’ di musica soft colorò l’aria, mi distesi sul divano e ripassai mentalmente le prossime scadenze. Mister Gold accanto a me osservava in silenzio. In queste settimane si sarebbero susseguite una serie di riunioni operative per il completamento e la definizione in ogni particolare dell’intera operazione finanziarioimmobiliare “The Future’s Village”- “Il Villaggio del Futuro”; poi da qui all’inizio dell’estate, i Consigli Comunali della zona avrebbero dovuto approvare uno dietro l’altro i progetti, dopo di che saremmo potuti passare all’azione. Era un’operazione complessa, con grandi capitali in gioco, cui stavo lavorando da parecchio. Tutto era rodato da anni di lavoro e di rapporti sociali e politici, sarebbe stato il mio capolavoro. Nel corso di un quinquennio avremmo ristrutturato e trasformato numerosi alberghi, capannoni e vecchi palazzi, in ricchi e pregiati residence e appartamenti da vendere a peso d’oro. La mia vita scorreva veloce e fulgida su questi due binari: il lavoro e il matrimonio. Più o meno i tempi del progetto avevano coinciso con quelli della storia con Ludy, presto sarei divenuto ufficialmente il suo fidanzato e promesso sposo. Stavo preparando a tal fine, una festa di fidanzamento che volevo rimanesse memorabile, soprattutto per il regalo che avrei donato alla mia amabile e giovane futura consorte. L’unione con Ludovica sarebbe stato il suggello che mi avrebbe permesso di entrare definitivamente, a pieno titolo e dalla porta principale, nell’alta società della provincia. Dovevo stupire con un pegno amoroso che non fosse soltanto prezioso ma divenisse un simbolo anche per gli anni a venire. Quel regalo, inaspettato e unico, che stavo seguendo con meticoloso puntiglio, avrebbe sancito senza alcun dubbio per nessuno il completo raggiungimento del mio ruolo sociale ed economico di primo piano; la mia scalata era alla svolta risolutiva, costruita nell’ultimo decennio con determinazione, muovendomi e operando senza pormi troppe domande. Erano questi gli anni in cui, come dicevano in tanti: “La barca va…”. Sì, negli anni ottanta la barca andava e nessuno si curava quale fosse il combustibile che le facesse solcare il mare tumultuoso degli affari. Procedeva a gonfie vele e tanto bastava a quanti, me compreso, erano saliti a bordo. Adesso iniziati gli anni novanta correvamo veloci verso il terzo millennio. Chi poteva fermarci? Ludovica era, in tutto questo contesto, la bella e preziosa ciliegina sulla torta.

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L’infanzia e la giovinezza erano state piene di affetti e di sorrisi, ma eravamo sempre costretti a rincorrere conti e bollette da pagare. Ero riuscito a frequentare il liceo e l’università grazie ai grandi sacrifici di mia madre e tentare poi, con tenacia, di smarcarmi dalla modesta vita in cui, fino a nemmeno troppo tempo addietro, avevo vissuto insieme a lei. Mai ferie e neppure vacanze, sia pur brevi, sempre lavori estivi per poter avere un po’ di spiccioli da spendere. Dopo la mia nascita e dopo che di mio padre svanirono pure le rare cartoline, ci eravamo trasferiti ad abitare in una piccola casa, con l’intonaco giallo un po’ scrostato, sulle colline dietro Viareggio in un piccolo borgo da cui in compenso godevamo di un panorama stupendo. Nostro vicino di casa era il maestro del paese, da piccolino lo chiamavo affettuosamente nonno, lui non si offendeva, pareva anzi stargli bene giocare quel ruolo. Quando poi presi a frequentare la scuola mi rivolgevo a lui in modo molto compunto, dicendo sempre con reverenza Signor Maestro. Adesso è Famiano, l’unico vero amico che ho. La nostra casa non era niente di speciale: si entrava e subito c’erano cucina e tinello insieme, acquaio in granito, bianche pareti ingiallite dal tempo, mattonelle rosse sopra i fornelli a gas, ridipinte per coprire antiche sporcizie. In un angolo un piccolo caminetto, di lato un tavolo di fòrmica verde con striature bianche. Al piano di sopra un piccolo bagno e due camere, una, quella di mia madre, con un terrazzo che era la gloria della piccola casa, da cui si spaziava dal golfo di La Spezia al porto di Livorno. Ci passavamo bei momenti, quando in silenzio, quando a raccontarci i nostri pensieri. Famiano andò in pensione poco dopo che io ebbi terminato le elementari, passava le giornate leggendo, passeggiando per il paese e le colline o guardando il paesaggio e dipingendo, soprattutto continuava a insegnarci anche fuori dalla scuola. Era l’angelo custode di noi ragazzi di paese, spesso lasciati soli da genitori sempre troppo presi dal lavoro. Era un bel signore anziano, capelli tutti bianchi, abbronzatura da marinaio, abbastanza alto portava molto bene i suoi anni, che io da piccolino immaginavo fossero proprio tanti, magari anche un secolo. Uomo solitario, alle spalle tante vicissitudini e numerose leggende, che di parola in parola divennero misteriose avventure esotiche, lontane nello spazio e nel tempo. In paese si raccontava che avesse avuto una travolgente passione per la più bella contadina delle vallate lì intorno. Chi diceva di averli visti fare all’amore tra le piane degli uliveti, spensierati e incuranti delle dicerie e degli occhi indiscreti, chi li ricordava volare nelle danze alla festa del patrono, qualcuno rammentava di averla vista posare discinta per le sue tele. Poi, come nelle brutte favole scritte da poeti insensibili, un orco malvagio gliela strappò dai sogni. Lei si ammalò poco prima delle nozze, vollero ugualmente sposarsi, passarono pochi mesi e lui rimasto solo se andò. Ritornò che la guerra era finita da poco, in quegli anni in cui ognuno modellò le vicende della propria storia come meglio gli tornava. il padre era già morto, di lui restava attaccata alla parete una medaglia d’oro in ricordo della campagna di Russia. Raccontò di aver vissuto in Sud America, di aver lavorato alla costruzione di ponti e di strade, di essersi trovato in mezzo agli animali feroci, di aver navigato fiumi 11


popolati da alligatori e attraversato foreste impenetrabili, di aver visitato fattorie grandi come tutta la Toscana, e io bambino guardavo incredulo la cartina d’Italia e non riuscivo a capire come potessero esisterne di così grandi. Ascoltavo questi racconti e li sognavo come fiabe così magiche da doverle credere per forza reali. Altro che i libri di Salgari, con Famiano la realtà si fondeva con la fantasia. Diceva spesso a noi ragazzi intenti ad ascoltarlo appoggiati sui banchi di scuola: “La vita supera sempre ogni nostra previsione, come nel disegno di un pazzo il destino ce la cambia senza che noi si riesca a programmarla tutta. Se anche ci si riuscisse non credo ci divertiremmo poi tanto…” ci fissava negli occhi, alzava il braccio e la mano con l’indice puntato al cielo a mo’ di ammonimento e con voce grave continuava: “Voi progettatela come volete, la vita, tanto poi lei vi farà le sue sorprese. Quando belle, quando brutte, ma sempre cercate di uscirne migliori…” infine sospendeva un attimo la voce per avere il massimo dell’attenzione su di sé e con un ultimo volgere dello sguardo su ognuno di noi concludeva: ”…Se saprete lottare, anche se sarà un percorso duro certamente ne uscirete migliori!”. Calato il silenzio restava ancora qualche attimo in quella posa da sommo e divino giudice mentre noi ragazzi non azzardavamo neppure fiatare.

In questo pezzo d’Italia Famiano era uno dei pochi che all’epoca avesse studiato quando tutti i suoi coetanei erano già impegnati in lavori duri da un pezzo, così si ritrovò a fare il maestro e riprese a coltivare la sua antica passione per la pittura. Quando io da piccolo mi recavo da lui, spesso era intento a lasciarsi ammaliare dai tramonti e a ricrearne sulle tele le atmosfere e i bagliori pieni di colore. Adesso che aveva più di ottant’anni, ancora scrutava il cielo all’imbrunire con l’entusiasmo, i tremori e le pulsioni di un ragazzo che assapora la sua prima donna. Continuai ad andare da Famiano a studiare sia da ragazzo al liceo, sia più avanti all’università. Era la biblioteca del paese, aperta a chiunque volesse imparare, c’era un’atmosfera che invogliava al sapere, al conoscere e al curiosare sulla vita. Anche gli altri bambini la frequentavano. Lì tutti diventavamo amici e un poco più istruiti. Lungo le pareti aveva scaffali con libri e riviste, e negli spazi liberi molti quadri di volti e di corpi, in pose diverse ma sempre la medesima donna, sicuramente il suo amore mai dimenticato. Numerosi tramonti erano addossati a una parete e poggiati sul pavimento uno sull’altro. Quasi ogni sera sfogliava questa catasta di pitture, ne prendeva una, si metteva in terrazza, con i pennelli e i colori dispiegati sul tavolino lì accanto, si scambiava saluti con il sole e cominciava a meditare. Ereditai da lui questa abitudine, e ancora oggi quasi ogni giorno mi dedico qualche minuto a guardare il tramonto e a pensare a me. 12


Si metteva comodo e quando aveva trovato la giusta posizione si accendeva la pipa e rimaneva quasi immobile a gustarsi i fiammeggianti rossi, i caldi gialli e gli avvampati violetti che palpitavano incessanti sul mare, accendevano le nuvole ed eccitavano gli occhi. Assaporava per parecchi minuti insieme ai colori e alle luci, il suo tabacco dolce delle Antille; poi, con gesti precisi sempre uguali, prendeva uno o due tubetti di colore, ne spalmava una minuscola quantità su di un vetro rettangolare non tanto grande, che gli serviva da tavolozza, sceglieva un pennello, quando piccolo a lingua di gatto, quando leggermente più grande a setole piatte, lo intingeva nel pigmento cremoso, poi riguardava il mare e rapido segnava qua e là, con alcune macchie e tocchi, nuove tonalità. Era magico. Cercava, mescolava, poi si fermava, guardava e meditava. Prendeva un altro colore, poi un altro pennello e dava un altro tocco. Si fermava di nuovo, portava la pipa alla bocca, inspirava una gran boccata di fumo e appagato mirava il tramonto. Incantava. A me bambino pareva il mago dei colori. Questo suo ritoccare ogni giorno i quadri, più che un dipingere era un rito e lui, imperturbabile, ogni sera ripeteva quella che era oramai una sua cerimonia. A me il dipinto a dire il vero pareva già finito, ma lui aveva l’abitudine di mettersi davanti al cielo, al sole e al mare e lavorarci di continuo. “Ogni tramonto è diverso, nessuno uguale a se stesso. Come le donne, ognuna con una sua sfumatura sempre originale“ diceva ripetendosi senza annoiarmi “ e io voglio dipingere proprio quello, e poi quell’altro, fermando nella tela i più belli tra quelli che ho avuto il piacere di vedere”. Pareva un po’ strambo a volte, ma forse ero io a essere troppo preso dalle cose terrene per capire dove volasse il suo animo. Regalava volentieri le sue tele agli amici che passavano a trovarlo, così la catasta dei tramonti ogni tanto perdeva qualche pezzo. Questi contraccambiavano in vario modo: chi portava libri, chi olio e vino, chi ghiotte notizie del paese o dalla Versilia, con le quali si teneva aggiornato sulla vita quotidiana che scorreva sotto i suoi occhi dall’alto della collina. Famiano, il mio Signor Maestro, fu una presenza intensa ma non invasiva dell’infanzia, mi vide giocare le mie estati bambine tra i campi e gli ulivi delle colline e poi divenire grande in poco tempo.

In estate alla fine della giornata tutti noi ragazzini ci ritrovavamo nella piazza del paese accanto alla fontana, ci dissetavamo e sedevamo tutt’intorno a lui bevendo le sue storie su mondi lontani, chi comodo sulle panchine stinte, chi in bilico su di un sasso, tutti però attentissimi non perdevamo una parola. Le fantasticherie e la realtà si 13


fondevano, ogni storia, capii crescendo, serviva a darci un insegnamento e una morale, cosicché, arrivava sempre alla fine d'ogni racconto sottolineando con voce calma e austera: “Ricordatevi sempre che nella vita bisogna…..”, “Bisogna saper ascoltare e meditare…”, “ Bisogna saper aspettare la propria fortuna…”, “Bisogna sapersi accontentare di ciò che si ha…”, e ancora, e ancora, e ancora… “Bisogna…”, “Bisogna…”, “Bisogna...”. Spesso si ripeteva e nel suo ripetersi invece di annoiare dava sicurezza perché ribadendo con la sua autorevolezza quelle storie, le idee che ne erano l’anima prendevano corpo e credibilità, sedimentandosi dentro di noi piccoli adepti. Seduceva con questa sua interpretazione del vecchio saggio che insegna i segreti della vita ai fanciulli che stanno crescendo. Rivedo la scena lì nella piazza del paese: io piccolo piccolo, insieme a tutti gli altri bambini, calzoncini corti e maglietta di cotone profumata di sapone di Marsiglia, sandali di cuoio, seduto su di un sasso attento e affascinato dalle sue storie. Quando mi abbandono a questi ricordi Famiano diviene una figura indefinita e fantastica come quelle dei sogni infantili nei giorni di temporale, quando le saette, i lampi e i tuoni interrompono il tuo sonno, ti svegli tutto sudato e spaventato corri nel letto della mamma a cercare rifugio; poi nella calma ritrovata le figure che pensavi di aver visto lì fuori della finestra, in mezzo alla pioggia, si sfuocano e non sai più se fossero state vere o solo un volo sull’inconscio. Furono begli anni e belle estati… Come tutte le infanzie furono magiche, spensierate e troppo brevi.

Ripercorrevo come in un film le immagini della fanciullezza, si snodavano addolcite dal tempo proiettate sulle pareti della casa e le osservavo comodo dal divano. Era passata serena, direi anche felice pur avendo vissuto anni difficili a ricordarli ora, ma quando uno è piccolo non avverte troppo di essere anche povero. I vicini poi non è che fossero ricchi e così, circondati da altri poveri cristi come noi, non mi accorgevo delle nostre miserie e bisogni, anzi mi sembrava la condizione normale della vita. Soprattutto c’erano sempre intorno a me queste figure amorevoli che scandivano le ore della giornata: mia mamma, Famiano, i vicini pronti tutti a darti una mano se occorreva e a sgridarti se combinavi qualcosa, i compagni di giochi con cui potevi anche fare a pugni ma poi li cercavi per far pace. Eravamo la banda di ragazzini che ogni piccolo borgo e ogni generazione ha avuto, ci chiamammo un giorno “I Cavalieri dell’Olmo”. Tra noi c’era l’ardito Giovannino, rosso di capelli e coperto di lentiggini, il più grande e grosso del gruppo, sempre alla ricerca di nuove avventure tra i campi e le colline, gli ulivi e le scarpate. Mirko, magro magro capelli 14


sempre rasati che facevano risaltare il suo volto ossuto, sognava viaggi su una grande carta geografica, vecchia e sgualcita ma non priva di fascino, appesa in camera sua. La Rosina, sempre vispa, dal volto bianco e rosso e un po’ pienotto, che si faceva vanto di sapere come veramente nascevano i bambini, anzi lei giurava di averlo visto proprio fare e noi ingenui fanciulli di paese la ascoltavamo a bocca aperta tra l’incredulo e l'indispettito. Raccontava queste cose mescolando fantasie sue e qualche discorso allusivo captato al bar gestito dal padre, lo faceva soprattutto per farsi grande con Giovannino di cui senza volerlo ammettere era invaghita. C’era Marcellino, un dolce ragazzino dall’aria svampita, parlava alle lucertole, agli uccellini e agli animali tutti. Era proprio un bel bambino, dispensava gran sorrisi a ogni persona incontrasse, le donne del paese ci raccontavano che, nel portarlo, una cicogna smemorata si era dimenticata in mezzo alle nuvole un po’ del sale per la testa. Paffutello con un cesto di ricci mori, due occhi grigio azzurri che spesso noi vedevamo assenti e che invece erano certamente i momenti in cui lui riusciva ad ascoltare ciò che dicevano gli animali intorno a noi; per questo imparammo a non disturbarlo quando aveva quello sguardo. A scuola veniva soltanto per stare in compagnia e ripeteva sempre la prima elementare. Qualche ragazzo di altri borghi vicini lo prendeva in giro e gli giocava scherzi cattivi come solo i bambini sanno fare, così quando un giorno mi chiese d’essere lui il mio scudiero non ebbi dubbi e insieme agli altri Cavalieri dell’Olmo chiarimmo a tutti con qualche discussione, un po’ di lotta e varie sassaiole tra le piane di lasciarlo in pace. Lo aiutai pure a costruirsi la sua spada di legno con inciso il nome e ancora oggi quando al paese si presenta a uno sconosciuto afferma con orgoglio e mettendosi sull’attenti: “Sono Marcellino, Scudiero di Savinio, Primo Cavaliere dell’Olmo”. C’erano Beppino e Pasqualino e ancora altri bambini dalle facce vispe. Tutti ragazzi con cui sono cresciuto a pane bagnato e zucchero, o marmellata quando c’era, che non ho dimenticato negli anni, ma con cui non ho francamente più niente a che fare; di tanto in tanto, sempre più fuggevolmente seppur volentieri, li rivedo in paese quando torno a trovare Famiano. Ricordo bene, molto bene la dolce Mirella. I suoi occhi neri neri crescendo si fecero intensi e ammalianti. Aveva tre anni meno, appena conosciuta non la degnavo di uno sguardo perché la consideravo troppo piccola. Iniziò a uscire e a giocare qualche volta con noi, e io, che ne avevo nove ma andavo verso i dieci, mi sentivo un ometto accanto a lei. Diventammo presto ragazzini e i suoi occhi non tardarono a entrarmi nella mente e nel cuore, fu naturale scambiarci i primi baci, le prime ardite carezze e osare anche qualche peccato. Ancora adesso che sono solo emozioni lontane, come tutti i ricordi dell’infanzia, paiono incredibilmente le più belle, uniche e irripetibili. Tempi divenuti epoche quasi remote nelle recondite stanze della mente, molto più lontani dei giorni effettivamente trascorsi. Presto scesi in città per la scuola superiore e una volta tornato rimanevo in casa a studiare, solo il panorama dal terrazzo mi faceva ancora giocare con la mente e sognare. Gli altri bambini iniziarono a frequentare botteghe di artigiani e qualcuno scuole professionali, lo studio non era nelle tradizioni dei ragazzi del borgo. Mirella, sempre più vivace nella sua curiosità 15


della vita, fu mandata in un collegio di suore presso Firenze con la speranza che divenisse una buona ed educata ragazza da marito. I miei calzoni iniziarono ad allungarsi e le mie orecchie a dare meno attenzione ai tanti “bisogna…” di Famiano. Sentivo come tutti gli adolescenti di poter trovare la mia strada senza consigli, ma non di meno era bello starlo ancora ad ascoltare; poi dicevo tra me e me: “Si vedrà, si vedrà…”. E così la stagione dei Cavalieri dell’Olmo volse al termine e in ognuno di noi rimasero solo i ricordi. Nel volgere di pochi anni scesi dalle colline dietro la Versilia: liceo, università, infine lavoro a Milano. Avevo trovato, con l’aiuto di conoscenze di Famiano, un posto in una grande banca da dove entrai in contatto con uomini potenti e importanti, ben introdotti nella finanza italiana, svizzera ed internazionale. Io ero ancora un piccolo impiegato teso alla carriera e addetto a stilare, per conto d’altri, relazioni da leggere ai convegni. Sicuramente ero un bel ragazzo: alto, capelli scuri appena mossi portati corti, occhi scuri, fisico atletico senza dover ricorrere troppo alla palestra. Le nuotate in mare fino a raggiungere le boe al largo davanti alla spiaggia, salutari e soprattutto gratuite, le corse sui prati da bambino, le arrampicate sugli ulivi e sugli alberi a mangiarne i frutti, mi avevano modellato il fisico con naturalezza. Un povero ma bello, da neorealismo cinematografico insomma, e questo non dispiaceva ad alcune delle mogli lasciate troppo sole durante i convegni. Scoprii presto che pure in quel mondo l’aspetto aiutava, e non poco. Mia mamma ogni tanto, quando ero bambino mi diceva: “Chi è bello non è mai povero del tutto…”, e io che non percepivo nemmeno di essere povero figuriamoci se capivo di essere pure bello, per cui non avevo proprio la minima cognizione di cosa volesse dire cantilenandomi quel proverbio. Quando iniziai a scrivere per lavoro relazioni a questi uomini influenti e riveriti e quasi per dovere dilettavo alcune loro mogli, cominciai a comprenderlo. Mi stavo stancando, però, di essere dietro le quinte. Osservavo i movimenti strani o quantomeno inusuali di notevoli quantità di denaro su alcuni conti che viaggiavano tra Ginevra e Milano, iniziai a ragionarci e rimuginarci sopra, a riflettere come poterli avvicinare. Presi con decisione e coraggio un contatto diretto con questi uffici bancari d’oltralpe, avevo capito che dietro quei traffici di cifre e di numeri potevano esserci grandi finanziatori e che da lì potevo partire per una ben più interessante carriera. Mandai una lettera con il mio curriculum, gli studi fatti e il mio lavoro attuale, non dimenticai poi di farmi raccomandare da una mia carissima amica, al cui marito avevo scritto diverse relazioni e alleggerito non di poco i doveri coniugali e di cui lui, sia per l’una che per l’altra cosa, mi era certamente grato. Riuscii così a essere ricevuto da un alto dirigente di una di queste banche internazionali, dalle sigle accattivanti, dai nomi anglosassoni e da proprietari dalle facce sconosciute. Sentivo che stavo trovando la mia strada, potevo divenire ricco, ammirato e potente e per farlo dovevo io, in prima persona, gestire il denaro, indirizzarlo, farlo crescere. Sapevo di essere in grado di farlo. Dovevo dimostrarlo, per primo a me stesso. 16


Non volevo continuare a vivere circondato da gente ricca, magari solo per fortuna di nascita, come era stato finora e io lì in mezzo a raggranellare le briciole. Adesso cercavo anch’io la mia bella fetta di torta.

Ascoltavo ancora la musica e cullavo la mia mente con i ricordi, il divano era accogliente. Ludy tardava più del solito, continuai così, con compiaciuta memoria visiva, a ripercorrere le fasi d’inizio della carriera, un po’ per rivivere quelle sensazioni un po’ per gustare meglio il mio presente. Avevo appena vissuto gli anni della scoppiettante stagione della Milano da bere e ne ero stato elettricamente contagiato: sembrava che tutti stessero facendo soldi a palate, essere poveri era una vergogna, tutti in quell’Italia degli anni ottanta dovevano e potevano essere ricchi. Così almeno c’era scritto nell’aria, nessuno si chiedeva se fosse solo fumo. Senza esitazioni mi buttai nella corrente, nuotai veloce e con facilità tra i flutti impetuosi, ero un pesce guizzante e vorace in mezzo a quelle acque insidiose della finanza e dei soldi. La mia fulgida e folgorante carriera iniziò un giorno di un dicembre molto freddo. Fui contattato telefonicamente da una gentile signora, mi disse che i dirigenti degli uffici bancari svizzeri avevano mostrato interesse per la mia lettera con il curriculum e volevano conoscermi di persona per una chiacchierata. Stetti in agitazione finché non mi ritrovai due giorni dopo a Ginevra in una mattina battuta dal vento, imbacuccato dentro a un cappotto, poco prima delle feste di Natale. La città odorava di ricchezza, l’aria gelida dell’inverno non scalfiva minimamente quel profumo impalpabile e ammaliante del lusso. Già, il lusso. Ha odore? Ha profumo? No, non ha l’uno né l’altro. Allora che fragranza è? È un non odore. La sua peculiarità è l’assenza di qualsivoglia sensazione olfattiva. In una città ricca, fin troppo ricca, manca il sapore del sugo sui fornelli, manca la percezione del sudore, manca l’aroma del pianto dei bambini consolato presto da un cucchiaio di nutella. Tutto pulito, tutto ordinato, il lusso è un profumo del troppo e del niente, pungente e asettico, ti gela il naso, lo percepisci ma non lo decifri, lo senti e ti colpisce ma non sai cosa sia. Passeggiavo per le ricche strade percorse da lussuose automobili aspettando l’ora dell’appuntamento. Le mani dentro le tasche del cappotto, agitate e nervose, sudavano nonostante il clima rigido; non mi era mai capitato. Sentivo il peso dell’incontro con un importante dirigente di una banca internazionale che muoveva 17


soldi su soldi. Sapevo che questo colloquio poteva cambiare la mia vita, cercavo di concentrarmi, di tranquillizzarmi, non potevo fallire. Avevo avuto tanti insegnamenti su come trattare con le persone, su come presentarmi in pubblico, ma un conto era parlare dei soldi e dei destini degli altri, un conto per se stessi. Adesso in gioco c’ero io. Solo io. Ero consapevole della grande opportunità. Io figlio di una lavandaia e cameriera tuttofare per le famiglie ricche della costa versiliese, dovevo riuscire questa volta a spiccare il salto, per non rimanere un ordinario impiegato di banca, magari una targa in ricordo del lavoro svolto con dedizione una volta divenuto anziano e poi una dignitosa pensione. Quella giornata di metà dicembre doveva e poteva cambiare la mia vita. E la cambiò. Arrivai alla banca dopo aver percorso a piedi il lungo lago, traversai il Pont du Mont Blanc guardando ammaliato quei palazzi austeri, le imperiose banche e i grandi alberghi: mi parevano impenetrabili. Lo erano. Stamani avrei provato a cercare un varco per entrarci. Prima di andare all’ingresso guardai il lago, cercavo un elemento a me familiare: l’acqua. Ma anche questa come l’aria era piatta, fredda e distante indifferente ai destini degli uomini; non era il mare, profumato di inebriante salmastro, paterno e materno al tempo stesso, rincuorante nella sua immensità, questa era acqua di lago stagnante e inodore. Mi concentrai, respirai forte, arrivai davanti all’entrata. Gli uffici erano chiusi al pubblico a quell’ora; suonai, al citofono una voce in francese mi chiese chi fossi e cosa desiderassi. Il marmo nero, freddo e con un che di superbo, con cui era rivestita la superficie dei muri esterni m’intimidiva. Cercando il migliore accento possibile risposi in quella lingua che avevo un appuntamento per le due del pomeriggio con Mister John John. Il nome di questo alto funzionario pareva un po’ ridicolo, la porta però, quasi avesse udito quel nome, immediatamente si aprì. Entrai e un addetto mi venne incontro pregandomi di seguirlo. Salimmo al primo piano, arrivammo in una stanza luminosa con ampi divani, comode poltrone e moderni quadri alle pareti, difesi da teche di cristallo, dal che presunsi fossero pure degli originali. Fino a quel momento avevo visto quadri simili solo sui libri di scuola o nei musei. Mi sfilai il cappotto, immediatamente e con gentilezza quel signore lo prese e lo pose in un armadio a muro accanto alla porta, mi salutò e uscì dalla stanza. Mi accomodai su di una poltrona morbidamente accogliente con i suoi soffici cuscini Pochi secondi e da dietro un’altra porta apparve una ragazza sui trent’anni. Bella ma non vistosa, in giacca e pantaloni chiari azzurri, camicetta rosa, elegantemente imprenditoriale senza offuscare il suo lato femminile, buona scia di profumo intorno, occhiali da vista con montatura leggera, accativante sorriso d’ordinanza. Senza esitazione mi parlò in inglese e fece strada, alla porta dell’ufficio 18


di Mister John John bussò leggera, attese un attimo, entrò e mi annunciò. Entrai pure io e come se l’avvenuto contatto, con quello che io ritenevo il potere, fosse già indice di successo comincia a sentirmi più rilassato. Senza accorgermene un fluido di calda tranquillità entrava dentro le mie vene. Era come se già conoscessi l’ufficio e il mio interlocutore, che invece vedevo per la prima volta in vita mia. Stava di spalle, in piedi vicino alla sua scrivania e accanto alla finestra scostando un poco le tende sbirciava fuori. Si voltò, si rivolse a me sorridendomi e con un gesto della mano fece cenno di accomodarmi. Lo guardavo e lo sentivo sicuro e potente, ma non mi incuteva timore. Lo guardavo e volevo essere come lui, potente e sicuro, con in mano i destini dei soldi e degli uomini. Aveva intorno ai sessant’anni, ben portati, quasi nessuna ruga, capelli appena brizzolati, abito grigio, camicia bianca e cravatta a piccoli disegni beige su fondo blu. Impeccabile. Occhi azzurri, chiari, profondi, che ancor prima di parlarti ti scrutano dentro. Mani curate di chi mai ha avuto bisogno di usarle per fatiche quotidiane. Mi chiese del viaggio, del tempo che faceva a Milano, parlava un italiano perfetto venato appena da sfumature che rivelavano la sua origine elveticogermanica, e poi, prendendo in mano una lettera che riconobbi essere la mia rimase alcuni istanti in silenzio, infine con lo sguardo fisso nei miei occhi disse: <Così lei vorrebbe entrare nella nostra organizzazione, ambendo addirittura a un ruolo dirigenziale. Pensa di averne i numeri? E’ un lavoro difficile, stressante e molto impegnativo, a volte può anche essere pericoloso. Chi ci affida i propri soldi non lo fa per beneficenza, non ama essere preso in giro, con chiacchiere e discorsi, vuole guadagni sicuri e consistenti. Non importa come. Pecunia non olet, i soldi non odorano come ci hanno insegnato. Lei pensa di potercela fare? Si sente pronto per un impegno del genere?>. Si fermò, aspettava la mia risposta e non staccandomi mai gli occhi di dosso esaminava ogni mio piccolo cenno del volto e del corpo. <Sono consapevole di cosa sono venuto a cercare qua da lei stamattina, e sono certo di riuscire a dimostrare il mio valore> risposi senza esitare. Non ero ancora un uomo potente, ma sicuro di quello che volevo sì. Mi scrutava senza alcun pudore, ostentatamente, in quel momento io per lui ero una cavia da analizzare, un apprendista da valutare. Mosse poi lo sguardo, dondolandosi un poco sulla poltrona, e continuò: <Sa, lavorare per noi, non è come scrivere una relazione. Quando si passa all’azione, specie in campo finanziario, è necessario conoscere a fondo gli uomini, le loro numerose debolezze e i loro pochi pregi, se ce ne sono. Bisogna conoscere bene se stessi e i propri obiettivi, soprattutto bisogna volerli raggiungere senza tentennamenti> ammoniva ispirato, appagato dalle sue parole. Chiaro e conciso, un po’ declamatorio. Quanti come me gli erano passati davanti? Alcuni erano stati accettati, molti non avevano superato la prova. 19


Mentre parlava affrontavo il suo sguardo senza il minimo timore, condividevo quello che andava dicendo e sentivo che un giorno io sarei stato al suo posto, piglio autorevole e risoluto, a decidere delle sorti degli altri. Sì, io sarei stato accettato e avrei superato le prove, mi dicevo e ne ero convinto. Io ingenuo Cavaliere dell’Olmo stavo entrando in una corte, ben più grande e importante, che davvero incuteva timore. <Sicuramente > continuò < lei è stato bravo a intuire che dietro alcune sigle ci fosse sempre la stessa cerchia, ed è stato al tempo stesso saggio e astuto nel servirsi delle sue, diciamo così, conoscenze femminili per giungere a quest’appuntamento. Ma per poter entrare nella nostra organizzazione, e soprattutto per rimanerci, lei deve dimostrare capacità e determinazione nel fare soldi e nel gestire il potere che da questi deriva senza porsi troppe domande sulla loro provenienza>. Mi parlava e sentivo, ne ero persuaso, che fossi già stato accettato, che almeno una possibilità mi sarebbe stata offerta. Il tono della sua voce stava divenendo quello di chi parla a un collaboratore. Lo ascoltavo concentrato, ma non teso, attento a non manifestare con alcuno dei miei atteggiamenti la benché minima titubanza. Volevo dare di me un’immagine all’altezza del momento, stavo ben attento a che il corpo non facesse trasparire alcuna tensione. Sedevo tranquillo, mani una sopra l’altra appoggiate sulle gambe accavallate, sguardo fermo. Non ero più il bambino incantato che ascoltava Famiano in pantaloncini corti, ero un uomo che puntava a sfidare il mondo. <Cosa pensa di tutto quanto sto dicendole?> mi chiese in modo deciso ma pacato che tendeva all’amichevole. <Lei avrà letto le mie referenze e avrà sicuramente avuto relazioni su di me, non ho ancora molta esperienza, ma saprò farmela se ne avrò la possibilità. Non credo di aver molto da aggiungere a quello che le ho scritto nel mio curriculum o che lei potrà aver appreso tramite comuni conoscenze. L’unica cosa che manca è la verifica sul campo d’azione e io sono pronto ad assumermi questa responsabilità> gli dissi senza enfasi, ma con convinzione. Ero pronto alla prova. <Se lei oggi è qui è perché abbiamo già deciso di sperimentare le sue capacità, non avrei perso tempo per un colloquio interlocutorio. Abbiamo bisogno di giovani determinati e decisi che vogliano emergere. Lei potrà tornare a operare nella sua Versilia, terra ottima per investimenti di ogni tipo, soprattutto immobiliari. Le metteremo a disposizione una somma iniziale con cui lei potrà dare il via a varie operazioni: comprare immobili, ristrutturarli e venderli. Ci faccia avere entro un paio di mesi un piano d’investimenti per, diciamo, circa tre miliardi di lire e noi vedremo di procurarle i finanziamenti necessari; ovviamente lei guadagnerà in percentuale sui ricavi. Per la firma del contratto si vedrà con i nostri avvocati domani mattina. Ma questo è solo un atto formale, quello che più conta non sarà mai scritto. In ogni patto fra uomini d’onore è ciò che si dice, che si sottintende, stringendosi le mani quello che vale, non i contratti scritti pieni di cavilli e postille. Conterà soprattutto la nostra fiducia in lei. Si ricordi di non tradirla mai, per nessun motivo. Le auguro buon lavoro>. 20


La sua voce entrava nelle mie orecchie e s’imprimeva nella mente, aveva parlato secco, deciso e con un pizzico di velata simpatia. Si rivedeva in me giovane molti anni prima? O ero io che avevo bisogno di vedervi un lato più umano? Ero felice pur con un sottile velo d’inquietudine che nasceva dalla consapevolezza che stavo per entrare a far parte di un’organizzazione molto potente apparentemente pubblica, certamente assai riservata se non segreta, quasi oltre i confini del lecito. Sapevo del resto che a questi livelli c’erano delle forzature, se non proprio delle illegalità. Bando ai tentennamenti: o continuo a fare l’impiegato o mi butto deciso, senza pormi domande, è la mia grande occasione. Niente dubbi: chi non risica non rosica, mi ripetei più volte per sferzarmi. Un Cavaliere dell’Olmo non tentenna di fronte alle prove, le affronta a testa alta, ero però consapevole che non si trattava più della corte dei fanciulli di paese quella dove mi stavo per sedere. Erano passati anni dal patto di sangue declamato con l’enfasi degli antichi cavalieri, da Giovannino, Mirko e me. Noi arditi bambini, come antichi eroi delle storie di cappa e spada, sulle colline all’ombra dell’olmo, sotto le cui chiome ci ritrovavamo, bucammo il palmo delle nostre mani con un ago, ce le stringemmo intrise di alcune gocce di sangue e né un gemito, né una smorfia usci dalle nostre bocche. Divenimmo con quell’ingenuo gesto: “I Tre Cavalieri dell’Olmo”. Tutti gli altri li nominammo all’istante scudieri e damigelle. L’albero divenne il nostro nome ed emblema; come in ogni patto ci giurammo che non ci saremmo traditi mai. Questo con Mister John John era molto più impegnativo ed ero certo ne sarei stato all’altezza. Niente dubbi, niente dubbi, ripetevo. Chi non risica non rosica. Ci salutammo. Mi guardò credo con complicità, si alzò dalla poltrona e allungò la mano verso di me. Gliela strinsi con gagliardia, sorrisi e lo ringraziai. Allungò anche l’altra mano sopra la mia in una morsa di suggello, le incertezze iniziarono a svanire dai pensieri, sapevo che avrebbe potuto essere un patto duro, io lo avrei onorato senza alcuna titubanza o non avrei potuto superare gli esami a cui sarei stato sottoposto. Le mani si sciolsero, Mister John John si congratulò, augurò un “in bocca al lupo” e come in un copione ben studiato apparve di nuovo la signora, chiamata non so come, che mi accompagnò fino all’uscita della banca. Nel salutare mi ricordò l’appuntamento per l’indomani mattina; non ce n’era bisogno, ma gradii ugualmente la sua cortese premura. Uscii dall’edificio, mi sentivo già un altro, pieno di nuova vitalità. Andai verso il lago, passeggiai sulla promenade guardando l’acqua adesso lievemente increspata dal vento. Inspiravo l’inverno ginevrino: continuava a non odorare però pungeva sempre forte le narici, proprio come i soldi e i diamanti. Sentivo che questo contatto avrebbe cambiato decisamente in meglio la mia vita. Desideravo la ricchezza: macchine, ville, oggetti e quadri preziosi. La cercavo e la volevo. Solo chi è nato povero conosce questa voglia che ti spinge a cercare il denaro. Ero sicuro di aver trovato la strada per arrivarci. Cos’era che mi dava tutta questa fiducia dopo un breve incontro con un uomo mai visto prima? E in una banca poi che come tutte le banche ti accoglie gentilmente quasi esclusivamente se le puoi essere 21


utile? Forse era semplicemente la necessità e la voglia di essere ottimista, era la baldanza dei miei giovani anni a tingere tutto di rosa, con l’entusiasmo di chi ancora deve vivere molto e può ancora costruire sui sogni tutta la vita. Immerso nel mio futuro andai verso il centro della città. Passeggiai per rue du Rhone e per le vie attigue. Dalle facce e dai vestiti di quelli che incontravo sembrava che Ginevra fosse abitata solo da miliardari. Giravo e rigiravo tra questa scintillante e ostentata offerta di ricchezza. Negozi opulenti, negozi satolli, negozi accattivanti. Gente che andava e veniva indaffarata. Commesse sorridenti al di là delle vetrine. Era Natale! Vetrine, pacchi, luci… Sì, era Natale. Lo sarebbe stato tra pochi giorni. Opulento, ostentatamente opulento. Sì, era il Natale dei nostri tempi. Dovevo togliermi di dosso l’ultima inquietudine che prende prima dei grandi cambiamenti e che poteva ancora ingenerare titubanze su quanto stavo decidendo in quelle ore: non dovevo averne, dovevo dare una scossa alle mie ultime resistenze ed incertezze non ben definite, ma che sentivo agitarsi dentro di me. Vidi la vetrina di una notissima griffe, la conoscevo bene. Desideravo da sempre un orologio d’oro, erano anni che vedevo quella marca e quei modelli pubblicizzati sulle riviste patinate insieme a bei sederi incastonati, come gioielli, in mutandine ricamate. Era un orologio che avevo sempre ambito, adesso lo volevo. Non avevo ancora stipulato il contratto con la banca di Mister John John, ma mi sentivo già un uomo d’affari. Volevo esserlo. Quell’oggetto d’oro mi attirava come se fosse il simbolo tangibile del mio primo vero successo. Ero sempre stato finora un Cavaliere povero, adesso volevo iniziare ad accumulare il mio tesoro. Entrai e mescolando un po’ di lingue chiesi di vederne alcuni. La commessa rispose in un gradevole italiano cadenzato sul francese e distese davanti ai miei occhi una serie di modelli che erano uno più bello dell’altro. Li toccai emozionato come il pirata Barbanera di fronte allo scrigno pieno di gioielli nei romanzi di avventure. Ne provai uno, poi un altro e poi un altro ancora, ero eccitato per il contatto con la ricchezza e pareva giocassi un gioco erotico con quei quadranti e quelle lancette. Mettevo, toglievo, rimettevo. Guardavo estasiato il mio polso, come se a cingerlo fosse la corona di un re. Paziente e sorridente la commessa mi aiutava, uno dopo l’altro li provai tutti. Lei perfetta, comprensiva, quasi materna, indulgente di fronte alle mie esitazioni, ineccepibile e professionale alle mie domande sulle caratteristiche di ognuno. Conoscevo a memoria ogni modello, ma provavo piacere nel sentirle confermare. La commessa le elencava senza sbagliare mai un dettaglio, era molto preparata. Dopo parecchi minuti cominciai a passare dal polso alla mano quello che volevo fin dall’inizio. Era un bellissimo orologio d’oro, una linea classica al di là 22


delle mode e del tempo da lui stesso scandito. Preciso e assoluto. Possibilità d’errore? Un decimo di secondo ogni mille anni affermava pretenziosa una delle pubblicità. La commessa capiva che la mia decisione era vicina e con garbo accondiscendeva senza essere troppo insistente. Continuava a illustrare le ultime qualità tecniche ed estetiche, quasi le sussurrò, nella sua bocca divenivano descrizioni sensuali. Sapeva che il momento era delicato e che anche una sfumatura di troppo avrebbe potuto compromettere una vendita che valeva un cospicuo incasso. Giravo e rigiravo tra le dita questo mio desiderio d’oro, chiesi quanto costava, anche se all’incirca già sapevo il suo prezzo. La signorina gentile scandì la cifra in franchi svizzeri e poi me la tradusse con la calcolatrice in dollari americani e in lire italiane. Erano molti soldi, molti milioni. Erano quasi tutti i miei risparmi, avrei prosciugato il conto in banca che in questa città avrebbe fatto ridere. Sapevo che sarei divenuto ricco, ne ero certo. Decisi che lo ero già divenuto. D’impulso misi al polso l’orologio, all’istante era divenuto parte di me, cinsi il cinturino, stava per essere mio. Guardai con un sorriso la commessa, presi dalla tasca il portafoglio, era in pelle un po’ consumata, inadeguato al luogo, e tirai fuori la mia carta di credito: come dipendente addetto alle transazioni con l’estero potevo disporre di una cospicua somma da poter spendere. Pochi attimi, sfichhh…collegamento, una firma. Era mio. Mio. Appoggiai il vecchio orologio in acciaio, dono di Mirko e Giovannino in ricordo della laurea, nel contenitore elegante con la griffe del negozio. Era il primo acquisto da uomo ricco. Non lo ero, però mi ci sentivo. Uscii compiaciuto, sentivo al polso il simbolo di una nuova vita. Camminavo a testa alta, inebriato. Ogni tanto guardavo l’ora, volevo che i passanti notassero il mio acquisto, ero felice come un bambino a cui Babbo Natale ha portato un dono a lungo desiderato. Mister Gold, come affettuosamente lo soprannominai lì per lì, era al mio polso. Sì, mi sentii davvero ricco, non lo ero ancora ma quest’orologio d’oro era il mio primo emblema in questa nuova vita. Il tesoro del Cavaliere dell’Olmo aveva il suo primo gioiello. L’indomani mattina quando entrai in banca con Mister Gold, mio nuovo fido scudiero, salutavo con grandi sorrisi gli impiegati e i funzionari che incontravo, tra poco sarei stato uno di loro, anzi ero già uno di loro. Mi vidi con gli avvocati per il contratto, cordiali ed esaurienti. Firmai, presi la copia per me e me ne andai. La mia vita stava cambiando, certamente in meglio. Anzi, molto meglio. Nel pomeriggio mentre in macchina tornavo verso Milano pensavo a me stesso come a un manager oramai affermato. Immaginavo affari da concludere, trattative da avviare, pranzi di lavoro in ristoranti di lusso, cene riservate in case patrizie, fine settimana e vacanze in luoghi esclusivi. 23


Arrivai in città verso sera. La mia vecchia Fiat 127 stava dando segni di evidente stanchezza, entravano nell’abitacolo strani odori di olio bruciato che non facevano ben sperare sul suo futuro; la parcheggiai al riparo sotto una tettoia e la guardai quasi con affetto, ma senza rimpianti. Da Cavaliere dell’Olmo cavalcavo scope sognando destrieri, tra poco avrei potuto avere macchine sportive e lucenti. Aprii il portone del palazzo e nella cassetta delle lettere trovai depliants vari, di supermercati e di libri da comperare a rate, la bolletta del telefono da pagare, una cartolina da Londra con i saluti e gli abbracci di un collega. Tornai con i piedi per terra e giunto al mio piccolo appartamento mi preparai uno spaghetto aglio, olio e peperoncino. Mister Gold osservava in silenzio, rispettoso ma frastornato, non era abituato a bilocali impiegatizi. Mentre mangiavo cominciai ad architettare sui progetti immobiliari in Versilia cui avevo già pensato da tempo per far fruttare del denaro. Non partivo da zero: aspettando l’occasione giusta, nel tempo avevo intessuto una serie di conoscenze in tutta la provincia di Lucca con vari personaggi legati al mondo finanziario e immobiliare locale. Adesso potevo muovermi e ripresentarmi sapendo di avere i soldi che gli amici di Mister John John avrebbero messo a disposizione.

Nacque così in quei giorni di dicembre a Ginevra la mia carriera e con essa l’attuale potere e i non pochi soldi che andavo mettendo insieme. Furono anni intensi, senza molte domande filosofiche, ma con pochi, chiari e precisi obiettivi: soldi, soldi e ancora soldi. I sogni e gli ideali dei Cavalieri dell’Olmo erano sfumati lontano lontano, molto lontano. Dopo che iniziarono ad andare in porto le prime operazioni, Mister John John mi propose di incrementare i guadagni attraverso la semplice disponibilità ad aprire dei conti correnti a mio nome in Italia, collegati ad altri di Ginevra e in una piccola isola dei Caraibi, su cui la banca avrebbe potuto manovrare in tutta tranquillità e completa fiducia in me. Ci sarebbero girati molti soldi, come succedeva ai conti che avevo notato quando lavoravo a Milano. Non avrei dovuto fare niente né soprattutto chiedere alcunché, solo mettere qualche firma, e senza muovere un dito avrei guadagnato molto bene. Era un atto di fiducia reciproco, disse. Accettai. Ancora un patto di sangue per continuare a guadagnare, Ancora denaro da accumulare, in parte da spendere, da ostentare, da far viaggiare da una tasca all’altra, da un libretto all’altro. Il mondo girava con i soldi, solo con i soldi, e io ero divenuto uno che ne faceva girare, molti e bene. Ero finalmente arrivato dove volevo. Mi ero mosso in questo decennio, già di per sé gaudente e arrogante, con disinvoltura e spregiudicatezza, come d’altra parte era richiesto a chi voleva essere al centro degli affari. E in questo non solo ero stato molto bravo, mi ero pure divertito 24


moltissimo. Avevo conosciuto gli uomini e pure le donne. Davvero bene li avevo conosciuti nelle loro debolezze e nelle loro vanità. In questo mondo non potevi avere troppi scrupoli, pena essere buttato fuori dal giro, una volta salito sulla barca che andava non potevi fermarti più. Così per sentirmi in pace con la coscienza avevo preso con regolarità a far pervenire a Famiano un assegno senz’altra indicazione che quella di usarlo per chi ne avesse bisogno, e tra questi gli raccomandavo sempre il buon Marcellino. Era il mio modo, di cattolica tradizione, per salvarmi l’anima e non dimenticare del tutto il borgo della mia fanciullezza.

Si era fatto buio nella stanza, mi stiracchiai e mi alzai dal divano, mi avvicinai allo stereo, misi una musica jazz, echeggiò il suono del sassofono, ne ero sempre stato affascinato come fosse il suono dell’anima. Ciondolavo per la stanza e fermatomi davanti alla porta finestra a guardar fuori, il cielo e le nuvole, continuai a viaggiare tra i miei ricordi. Ogni tanto è gratificante riannodare la propria storia, solo Famiano la conosceva tutta fin dall’inizio, forse un giorno l’avrei raccontata a un mio nipotino o, chissà, ne avrei fatto un romanzo. Quando io e gli altri “cavalieri dell’Olmo” eravamo intorno alla fontana ci diceva sempre che il nostro tempo se non lo raccontiamo lo si perde per sempre, che i bambini servono anche a questo: a raccontare la propria vita a degli occhi incantati, come solo quelli dei fanciulli riescono a essere, per tramandarla e per poter credere che continuerà attraverso il loro ricordo. Pareva che Ludovica tardasse a bella posta per farmi rivedere tutto il mio passato. Il sole era tramontato da un pezzo, ritornai con la mente al presente, andai in cucina per preparare qualche stuzzichino da mangiare con l’aperitivo appena lei fosse arrivata. Accesi la T.V. Tattararaaaaaaaaa…tararaaaaaa…tararaaaaaa… Sigla…immagini…telegiornale… Mezzobusto… notizie…immagini… Esteri…politica…cronaca… “Arrestato a Milano mentre intasca tangente…”. Immagini…poliziotti…tribunale… 25


Commenti…immagini…ancora commenti. “Proprio un bel principiante quel tipo…”. Tattararaaaaaaaaa…tararaaaaaa…tararaaaaaa… Sigla…immagini…previsioni del tempo… “Pioggia su tutta la penisola…”. Tattararaaaaaaaaa…tararaaaaaa…tararaaaaaa… Sigla…telecomando…clic... “Farsi beccare con le mani nel sacco, che idiota…”.

Passarono ancora alcuni minuti e squillò il campanello, era senz’altro Ludy. Premetti il pulsante per aprirle da basso, socchiusi l’ingresso perché potesse entrare e tornai in cucina ad aprire una bottiglia di buon vino bianco. Sentii la porta aprirsi….shuicsicsicss, Chiudersi…clocloc…, alcuni passi…toc…tac. Ancora qualche toc.. tac… Ed eccola... Si affacciò sporgendo solo il volto da dietro lo stipite, era proprio una bella ragazza, capelli folti, castani chiari, occhi verdi, abbastanza alta e un corpo sensualmente appetitoso. Non aveva problemi a vestire elegante, vuoi per un suo buon gusto personale, vuoi per le disponibilità di sarte e negozi di prim’ordine. Si avvicinò e, proprio come in uno spot pubblicitario, mi baciò. Cominciammo appoggiati al frigo e finimmo in sala sul divano. Un atto avido bruciato veloce, come gli anni che stavamo vivendo. Ancora mezzo vestito, appoggiato alla spalliera, dilungavo lo sguardo sul suo bel corpo mentre stava rivestendosi. Finito di brindare con il vino bianco ancora leggermente fresco uscimmo da casa. Chiamammo l’ascensore, arrivò al piano, si schiuse ed entrammo. Sul portone incontrammo dei miei vicini, abitavano proprio al piano di sotto. Erano un generale in pensione di non so quale arma, e sua moglie. Una coppia molto anziana, lui aveva fama di voler tenere tutti sotto controllo senza però riuscirci. La 26


loro storia coniugale era, come raccontavano alcuni ben informati, fatta di gelosie e scenate da parte del marito verso una consorte, in gioventù molto piacente e corteggiata non sempre senza successo, e che pure adesso non disdegnava platoniche galanterie. Il generale era magro, alto, guance scavate, pochi capelli, occhiali spessi. Un asceta. Lei grassottella, capelli sempre in piega quando rossi, quando biondi, variava i colori della chioma come i vestiti. Occhi ancora vivaci, il suo mostrarsi seriosa si capiva essere una concessione per il bene del ménage familiare. Come avessero potuto acquistare un costoso appartamento sul lungomare, con il pur buono stipendio del marito e il più modesto da impiegata di lei, era tra i piccoli misteri di questi anni. Evidentemente anche loro erano, in qualche modo, saliti sopra la barca che andava. Arrivammo in strada, una leggera brezza portava l’odore del mare, ci prendemmo per mano e raggiungemmo un ristorante dove andavamo spesso. Mangiammo abbondante e di gusto, come è piacevole e naturale dopo aver fatto l’amore. Bevemmo del buon vino e poi andammo a smaltirlo facendo due passi sul molo e sui viali a mare. Mentre uscivamo salutati dall’ossequioso direttore del locale, sul marciapiede una zingarella di non più di dieci anni e dagli occhi neri e stanchi, sorrise a entrambi e porse a Ludy una rosa rossa, un po’ sfiorita a dir la verità. Lei sempre così dolce con tutti, si scansò irritata sibilando tra i denti: <Sempre questi sudici mocciosi tra i piedi!>. Rimasi colpito dalla sua stizza e lì per lì, preso alla sprovvista da un gesto che non mi aspettavo, mi scansai anch’io. Ci allontanammo da questo esserino ricoperto di stracci maleodoranti. Ludy si strinse stretta al mio braccio, quasi a portarmi via dalla zingarella e ci incamminammo. Mi voltai che eravamo già lontani, vidi quella bimba con il faccino assonnato e triste e le membra sudicie, ancora provava a vendere l’ultima rosa, incrociammo i nostri sguardi, pareva quasi mi sorridesse. Ero amareggiato, colpito dalla brusca e sgradevole reazione di Ludy, al contempo non capivo se questo intenerirmi era il segno del perdurare di una antica e non ancora cancellata sensibilità, o il sintomo di una mia debolezza in un mondo che, mai dimenticarlo, non ammetteva tentennamenti ma richiedeva solo certezze. Potevo parlare con Ludovica di queste mie ansie? Non credo proprio. A lei apparivo come un uomo di affari determinato e tutto dedito al mio lavoro, per questo mi aveva scelto. Scacciai così dalla mente questi pensieri, adesso eravamo di nuovo io e Ludy. Pur nati in ambienti lontanissimi e diversi, apparivamo congeniali l’uno all’altro. Io avevo in lei la carta per entrare con un matrimonio importante nel mondo delle famiglie esclusive, ricche da generazioni; lei, sposando chi si era fatto da solo e non uno della sua cerchia di amici cresciuti all’ombra di padri ingombranti e di madri stressanti, poteva essere originale e ugualmente accorta, quasi ribelle verso i destini che le aveva riservato la madre, al tempo stesso sensata nel puntare su un cavallo vincente, sicuramente avveduta andando a scegliere non un poeta squattrinato ma un 27


uomo ricco e che tutto lasciava intravedere lo sarebbe stato ancora di più. Un self made men, come avrebbero detto in America. Le nostre discussioni, pur non banali, spaziando dall’ultima mostra di Picasso vista a Milano o alla serata trascorsa a teatro, evitavano approfondimenti su quale fosse stata la mia vita prima di conoscerla, e soprattutto da dove venissero fuori i miei cospicui guadagni. L’importante era per lei che i soldi ci fossero e poter immaginare attraverso questi il futuro insieme a me. Amava fantasticare di ville, viaggi e gioielli. Mai si sarebbe accontentata dei bigliettini ingenui lasciati sotto un sasso ai piedi dell’olmo che dedicavo a Mirella, magari ingentiliti da fiori di campo. Io d’altro parte avevo fatto di tutto in questi anni per lasciarmi alle spalle i romanticismi da squattrinati per più lussuosi pragmatismi. Da quando stavamo insieme non avevamo avuto mai un litigio degno di questo nome. Una coppia perfetta? Pareva di sì. Circondata dall’ovatta che solo i soldi sanno dare. Mancava quella grinta che fa appassionare in discussioni, anche litigi a volte. Con Mirella, quando da adulti ci incontrammo di nuovo, discutere e poi fare all’amore, litigare e poi ancora fare all’amore era il modo costante del vivere il rapporto, pur saltuario, tra noi. Ma il tempo degli amori giovanili ed elettrici era lontano, adesso era il tempo dei matrimoni ben azzeccati. Avevo il mio al fianco, ci stavo passeggiando sottobraccio. Arrivammo a casa appena passata l’una, eravamo stanchi e ci mettemmo subito a letto. Un sorriso, un bacio per la buonanotte e si rannicchiò accanto al mio corpo. La sentii presto addormentata, mi staccai da lei, posai Mister Gold sul comodino, lo salutai carezzandolo con i polpastrelli, spensi la luce della lampada, braccia dietro la nuca fissavo il soffitto. Non riuscivo a prendere sonno. Ripensai alla zingarella, ai suoi occhi neri e inevitabilmente ricordai gli occhi di Mirella. Dopo che lei era andata in collegio non ci eravamo più rivisti per anni, ci ritrovammo un giorno d’estate di ormai diverso tempo fa già grandi e con un bel pezzo di vita da raccontare. Ero appena tornato da Milano, la mia folgorante carriera finanziaria in Versilia era all’inizio. Lei aveva girato per l’Europa e per il mondo. Tutta la nostra adolescenza più matura e il nostro primo crescere adulto, lo avevamo passati lontano l’uno dall’altro. Le notizie di noi erano solo quelle che circolavano nel paese, attraverso le chiacchiere degli altri. Quando per caso vicino casa di Famiano c’incontrammo dopo diversi anni, i nostri saluti si circondarono di un sottile pudore. Passeggiammo sotto gli occhi curiosi degli anziani intenti a giocare a carte al tavolo fuori dal bar e finimmo per ritrovarci sotto l’olmo, ci raccontammo le vicende degli altri ragazzi, sulle nostre ancora sorvolavamo. Pochi giorni dopo eravamo a cena insieme in un ristorante sul mare. Una candela sul tavolo, la luna nel cielo. Quasi chiamati arrivarono pure due gitani con la chitarra a portare un po’ di musica. Una cena intima, percorsa da sottili sensualità, piena di chiacchiere e risate, 28


di sguardi e di pensieri non svelati ma intuiti, di buon vino e di buona allegria. Due passi sulla spiaggia, mano nella mano, a piedi nudi fino al bagnasciuga. Il suo volto che si offre, si lascia sfiorare, gli angoli della bocca che si sentono, si percepiscono, un tuffo al cuore, Un bacio. Un abbraccio forte intenso a ripagare troppi anni passati senza vederci. Fu una calda estate di amorose notti insonni, di altri baci, intensi, pieni, bramosi. Altre serate e ancora serate… passeggiate sulla spiaggia, bagni notturni, attese dell’alba abbracciati seminudi su di una sdraia. Rientravamo spesso a casa che la città iniziava a lavorare. Un amore carnale, istintivo e dolce. L’estate finì, lei riprese il suo giro per il mondo. Non avrei potuto fermarla, niente e nessuno avrebbe potuto arrestare la sua voglia di conoscere e sperimentare la vita in mezzo agli altri. Mirella era così, crescendo era divenuta sempre più una puledra selvaggia che non si sarebbe lasciata domare da nessuno, neppure io ci sarei mai riuscito, mi concedeva di amarmi e di lasciarsi amare, questo doveva bastarmi.

Tossì leggera, Ludy. Atterrarono i voli della mente, ritornai nel mio attico. La guardai, era la mia fidanzata. L’amavo? Mi piaceva fisicamente e soprattutto era la strada da percorrere per il Savinio imprenditore. Era la strada che avevo scelto. Ludy si rigirò e si avvicinò a me. 29


Dormiva? Sognava? Gli occhi mi si chiusero in mezzo ai romantici e appassionati ricordi di Mirella e la pragmatica fisicità qui nel mio letto. Dormimmo uno accanto all’altro, ognuno nei propri sogni.

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