Stefano Carlo Vecoli
Il pranzo dei Burlanti
Seconda edizione italiana Š Stefano Carlo Vecoli - 2013 - Lulu.com
Prima edizione italiana Š Stefano Carlo Vecoli - 2002 - Ed. Imieicolori - Pontassieve (Firenze)
Prefazione
Saverio, Burlante pentito
Saverio è un uomo di mezzo. Troppo giovane per essere già maturo, troppo adulto per essere ancora giovane, pendola tra la provincia toscana e la città europea per eccellenza, Parigi, incapace di scegliere tra le radici forti della sua storia e il fascino della dimensione metropolitana. Intermedia anche la sua affettività: mentre ama adagiarsi nella memoria di una relazione – piena, calda, appassionata ma irrimediabilmente consumata – non disdegna le lusinghe della sua privilegiata condizione di single, emotivamente libero e disponibile a nuove esperienze. Alle sue spalle una giovinezza che intuiamo essere stata mossa, intensa, fervida degli “eroici furori” delle passioni politiche: tutt’attorno la volgarità di un presente meno che mediocre, popolato di ex agitatori trasformatisi in affaristi, di arrampicatori – grimpeur in francese, la nuova lingua di Saverio - alla ricerca di nicchie protette e ben posizionate, di opportunisti senza misura né coerenza, privi di stile e di onore. Coriaceo, ma capace di commozione; indolente e ironico; ben inserito nel sistema anzi Sistema, quello che si voleva abbattere e non cambiare - a cui però sa riguardare con pungente spirito critico, proprio a lui, al nostro eroe senza particolari qualità che svogliatamente torna nella sua terra, tocca il compito di organizzare l’annuale Pranzo dei Burlanti: un’occasione conviviale, nata in tempi lontani come affermazione polemica di identità e gioventù e trasformatasi negli anni in passerella di ricchezze e potere ostentati, ennesimo momento di omologazione al conformismo dominante. Saverio adempirà coscienziosamente e addirittura con qualche residua stilla di entusiasmo ai suoi doveri di cerimoniere dell’annuale rito dei Burlanti, congrega informale di ex giovani, un tempo enrages. Ma solo per trovarsi ancora una volta, una volta di più, a riconoscere - con dolore – la caduta delle illusioni e della trama di relazioni che allora, quando eravamo migliori, le aveva sostenute; l’inarrestabile entropia dei sentimenti degli uomini; l’ennesima vittoria dell’arroganza, dell’intrigo,
della prepotenza. Tanto più devastanti perché esercitate gratuitamente e, come spesso accade, sulla pelle dei più deboli, dei più indifesi. A cui, a risarcimento dell’offesa, non toccheranno né sostegno né solidarietà, ma solo incomprensione, indifferenza, disinteresse. E a Saverio, testimone ed inconsapevole protagonista dell’ennesimo disincanto, non resterà che chiamarsi fuori: uscire dai Burlanti, luogo caldo e sicuro ma falso ed ormai snaturato, per tornare nel mondo grande e terribile e tentare nuove strade, nuovi amori. Quello per Gaia, per esempio, giovane “acqua e sapone”, incontaminata turista per caso, franca e diretta nei sentimenti e nei rapporti umani. Oppure tornare, ancora una volta, a lasciarsi abbracciare dal Vento un vecchio amico, un amico vero, di quelli che non deludono e non tradiscono mai: “A lui potevo raccontare con semplicità e sincerità tutto quanto mi accadeva nella vita senza nulla nascondere, senza nulla dimenticare, sicuro della sua capacità di tenere tutto per sé, sicuro di trovare in lui una parola che non era mai un consiglio pedante, ma piuttosto un modo per farmi riflettere ed arrivare da solo alla migliore soluzione. Il vento era una delle poche cose stabili della mia vita” (p. ). Metafora trasparente, singolarmente ben riuscita, del disamore connaturato ai tempi malmostosi ed incarogniti in cui ci è stato dato di vivere Il pranzo dei Burlanti si fa leggere con crescente attenzione e partecipazione: merito di una scrittura attenta e consapevole, meditata e capace anche di qualche interessante novità formale, e di un protagonista, Saverio, credibile, verosimile, umorale, umanissimo nelle sue passioni, antipatie, ingenuità. Grazie alla scelta di una narrazione in prima persona riusciamo a conoscerlo fin nel profondo, fin nelle pieghe più riposte della sua complicata natura: solo all’apparenza ruvida e scorbutica, invece generosa, incapace di malizia, sensibile ad ogni manifestazione della bellezza, dell’armonia. Sia essa una belle donna, un cibo ben cucinato, una piazza o un angolo di Toscana. Indimenticabili, poi, le figurine, tutt’altro che di contorno, che costellano e popolano le giornate di Saverio e le pagine romanzo: compaiono all’improvviso e riequilibrano le stanchezze e le frustrazioni del protagonista. Ora una famigliola indiana, tenera e fiera, incrociata all’aereoporto di Parigi; ora un vecchio ed austero signore che sul treno per Firenze, in una frase, sa cogliere tutto il fascino, la delicatezza e la fragilità della gioventù; ora un anziano acquerellista fiorentino tanto bravo nel suo mestiere quanto prodigo a ragion veduta dei propri lavori. Soprattutto a questi personaggi minori l’Autore assegna una sostanza umana complessa, profonda, ricca: appena intuita ed accennata solo con pochi tratti di penna, vivono nella memoria del lettore per una rara capacità di evocazione, per quello che ci viene taciuto piuttosto che narrato. Così come gli anziani genitori del protagonista, vigili e discreti, depositari di un’antica saggezza fatta di esperienza e dura pratica di vita che non disdegnano l’utopia ma hanno imparato a filtrarla attraverso un’assennata e popolaresca ironia. E’ a questa generazione che va la gratitudine dell’Autore.
Ai giovani come Gaia, fresca, lieve, disinvolta, sono affidate le speranze di giorni appena migliori degli attuali. “Pollice verso”, invece, per i Burlanti, gli uomini della politica, degli affari, delle professioni di oggi: egoisti, incoerenti, moralmente labili, incapaci di sacrificio e di memoria non meritano, a quanto scrive l’Autore, nemmeno la fatica della contrapposizione frontale, della polemica, del disprezzo… Vecoli propone una soluzione “escapista” - chiamarsi fuori – e un bagno lustrale, rigeneratore nelle acque del Tirreno versiliese…Chissà, in tempi di new age potrebbe anche funzionare. A parere di chi scrive, invece, l’orrore rappresentato dai Burlanti, tutti i Burlanti, dovunque annidati, comunque mascherati, comporta una nuova, originale assunzione di responsabilità fatta di maggiore impegno, lena, radicalità che per il passato. Nutrita di una più consapevole, matura, lucida cattiveria.
A mia madre e a mio padre
- 1-
Fin da bambino avevo vissuto in un mio mondo percettivo, che immaginavo frutto di sensazioni originali ed uniche sulla terra. Amavo pensare che ciò che io vedevo, odoravo, toccavo, udivo e gustavo fossero percezioni solo mie. Esclusive. Mi immaginavo come un grande faraone padrone degli elementi o come uno stregone pellerossa, unico conoscitore della grande medicina. Nel mio mondo magico di bambino dispensavo tutti della mia magnificenza e bontà. Offrivo doni ai compagni di giochi che erano gentili con me e castighi a quelli che mi facevano arrabbiare. Ero buono con i miei nonni, se mi compravano dolci e giocattoli. Coprivo la mia mamma di fiori per avere sempre la sua dolcezza in cambio; discutevo da pari a pari con mio padre sulle future guerre da affrontare e sulle nuove imprese da intraprendere. Guardavo gli altri fanciulli e li pensavo fin troppo puerili, solo intenti ai loro infantili giochi, mentre io navigavo per le Americhe e per gli oceani a scoprire il globo, viaggiavo per gli atlanti e facevo emergere dai mari nuove terre ancora inesplorate, entravo dentro ai vulcani e visitavo il mondo dei ciclopi. Ogni giorno, uscito da scuola, pranzavo felice con i miei genitori e poi andavo verso nuove conquiste e nuove esplorazioni. Ogni giorno portavo con me una bambina diversa, della quale nel frattempo, tra la lezione di grammatica e quella di matematica, mi ero innamorato. Montava dietro a me su un cavallo bianco, o sedeva al mio fianco su di una spider rossa; altre volte ancora viaggiavamo insieme su grandi battelli solcando impavidi le onde del mare. Sognavo come tutti i bambini. Sognavo di essere l'unico a farlo. E se anche mi venivano dei dubbi sulla unicità, mi dicevo: ma i miei sogni sono i più belli, i più originali i più fantastici, poi…e poi diverranno realtà. Già. La percezione della realtà. Era questo percepire, così intensamente reali i miei sogni e così piena di fantasticherie la mia realtà, ciò che più sentivo diverso in me dai piccoli coetanei. Ed in queste sensazioni, così vive, la mia realtà e miei sogni si mescolavano, si sovrapponevano e si esaltavano l'una con gli altri. Tutto il mio acerbo mondo si muoveva incantato godendo di questa atmosfera, in cui non esistevano i confini tra sogno e realtà. C'era la realtà fisica dei grandi: il mangiare, il bere, il tempo della scuola, dello studio, il tempo per obbedire, il tempo per divertirsi e, a fine giornata, il tempo per dormire.
C'erano gli altri bambini con i quali a volte giocavo. C'erano le nuvole che dall'alto ci osservavano, quando serene e quando arrabbiate. Vi leggevo sempre volti mutanti ed attenti a scrutare e seguire le nostre giocose avventure. C'erano gli uccellini spettatori cinguettanti e divertiti delle nostre grida e risate. C'erano le macchine che sentivo sempre un po’ brontolare. "Troppo lavoro, troppo lavoro" dicevano "sempre tutto a noi tocca fare". Sbuffavano e lavoravano. Lavoravano e sbuffavano. Qualche volta si rompevano. Allora si arrabbiavano e non volevano più ripartire. Avevo una simpatia, mentre divenivo ragazzo, per delle macchinette strane, un po’ eccentriche e folli, non tanto ben viste dalle loro sorelle. Erano macchinette che in cambio di poche lire ti facevano giocare con loro. Una pallina e dei pulsanti, luci, suoni, tilt, game over. Si chiamavano flipper, un simpatico nome. Ne conobbi alcune, poi ci perdemmo di vista ed ognuno percorse la sua strada. Ed ancora: c'erano gli alberi e i fiori lì ad osservarci, un po’ spaventati dalle nostre corse e dalle nostre sfide a guardie e ladri, temevano per le loro cortecce, i loro rami e le loro foglie. C'era il vento che si intrufolava in ogni pertugio, che ogni cosa conosceva e scopriva. Da bambino pensavo esistesse un solo tipo di vento. Imparai crescendo le personalità di tutti e con tutti pian piano divenni amico, imparai a conoscerne difetti e pregi, un po’ come con gli uomini, ma con i venti riuscii ad essere più bravo. Conobbi l'irruente libeccio, l'elegante maestrale, l'allegro scirocco; ognuno con il suo carattere, la sua impulsività e la sua rotondità. Parlavo e mi confidavo spesso con loro, mi piaceva il loro ascoltare paziente. I miei colloqui con il vento erano un armonioso vagare con la mente tra i sogni e la realtà, erano insieme sogno e realtà; ed ancora le nuvole, gli uccellini, le macchine, gli alberi, i fiori, erano le altre presenze con cui mi incontravo e che sentivo agitarmisi intorno su diversi piani. Io vedevo e percepivo tutto questo come un unico mondo: il mio. Io sentivo tutte queste altre realtà e sapevo che non tutti potevano farlo, certamente non eravamo in molti. Credo, anzi, in pochissimi. Che io conoscessi: nessuno. Poi l’infanzia finisce. Il corpo cresce, i sogni si ingrandiscono. Libertà! Libertà! Uguali! Eguali! Ce n’est qu’un debout! La mia mente continuava a volare verso magnifici orizzonti, sembravano a portata di mano. Adesso li vedevano in tanti, in molti, in troppi. C’era chiasso. Stordiva, inebriava, faceva crescere, faceva sognare. Libertà! Libertà! Uguali! Eguali! Tutto è possibile! Il corpo volava con la moltitudine, la mente annotava, osservava, continuava a sognare…..
Bippp….. bippp….. bippp….. Suonava la sveglia. <humummmmm….. huhuhummmmm…..>. Mi rigiravo nel letto. Bippp…..bippp…..bippp….. Allungai una mano. Bippp….. bip….. spensi la sveglia. Aprii un occhio, guardai: era ancora presto. Provai a rimettermi a dormire. Sognavo. Pensavo e sognavo nel dormiveglia. È sempre stato dolce per me vagare nei ricordi della mia infanzia e della prima giovinezza. Mattino, luce che entrava a stuzzicare gli occhi, non avevo voglia di alzarmi. Sentii un soffio: c’era il vento sopra il guanciale?! No, era solo uno spiffero. Mi tirai un po’ su nel letto, stiracchiai le braccia, sbadigliai. Ora ricordavo, la vecchia borsa di tanti viaggi era già preparata dalla sera prima. Mi alzai, andai in bagno, tolsi il pigiama, una doccia quasi fredda per svegliarmi un po’. Accappatoio, asciugamano, scalzo giravo per casa. Preparai il caffè, qualche biscotto insieme ad un succo di frutta. L'umore non era dei migliori. "Eppure torno a casa". "Come mai questa scontentezza?" pensavo, e sorseggiando il caffè mi avvicinai alla finestra che dava su Rue Saint-Dominique, nei pressi dell’Esplanade des Invalides. Era bollente, così come a me piaceva. Bollente per scaldarmi la bocca e lo stomaco. Scostai le bianche tendine e vidi fuori una giornata uggiosa, piovosa e grigia. "Ecco cos'è.….. è brutto tempo" mi risposi. Non ho mai sopportato le giornate di pioggia, mi mettono tristezza, mi succhiano l'energia e passo ore svogliate aspettando un raggio di sole. In quei giorni uggiosi mi auguro sempre che il destino, un nuovo amore o un lavoro diverso, mi portino a vivere all'Equatore, in Asia, in Africa o in America. Non importava il continente, importava il sole. Ma né l'amore né il lavoro, fino a quel momento, mi avevano ancora portato verso il sole. La sera stessa sarei stato di nuovo a casa, in Toscana, eppure non ero molto allegro. Non poteva essere soltanto il tempo. Tornavo sì con piacere a ritrovare i miei genitori, ma la notizia, comunicatami qualche giorno prima per telefono da Ortensia, di dover organizzare quest'anno il pranzo dei Burlanti insieme a lei e a Fulvio, mi aveva messo addosso un’anomala irrequietezza. Non essere riuscito a svincolarmi da questo impegno, certo non gravoso, ma a cui non tenevo proprio per niente, mi infastidiva. Ortensia, poi, era una donna che non avevo mai sopportato. Una di quelle donne, né belle né brutte, convinte però di essere un tipo, in realtà eroticamente insignificanti, ricca e nullafacente. Le sue giornate erano scandite dagli appuntamenti con l’estetista, il quale doveva lavorare non poco per renderla soddisfatta, ed il the
con le amiche di mamma. Era stata una di quelle ragazze della grassa borghesia che, negli anni settanta, amavano sfilare, foulard rosso al collo, per i cortei. Come molte amò frinire una sola estate. Da anni aveva riscoperto il gusto di essere ricca. La conferma del pranzo mi aveva riportato con la mente a tutta una cerchia di persone, di situazioni, di tempi andati, che certo appartenevano al mio passato, ma con cui oggi sempre più spesso mi domandavo cosa avessi a che fare. Non di meno mi infastidì il fatto che lei avesse avuto, in qualche modo, il mio numero di telefono di Parigi. Oramai da tre anni vivevo tra la Francia e la Toscana, passando però sempre più lunghi periodi di là dalle Alpi, quasi inconsciamente volessi allontanarmi da tutta la rete di relazioni e conoscenze che avevo costruito via via nel corso degli anni e da cui poi, pian piano, avevo sempre più cercato di staccarmi. Io mi defilavo, ma loro non se ne accorgevano; mi distaccavo emotivamente e li osservavo: non li giudicavo, annotavo solo i loro cambiamenti. Ma il passato non si cancella, lo butti fuori dalla finestra e lui poco dopo bussa alla porta. La telefonata di Ortensia era appunto il mio passato che stava di nuovo bussando. In fondo ero riuscito, a dire il vero, anche attraverso questa consistente rete di amicizie legate a quegli anni giovanili, ad inventarmi questo lavoro. Una sorta di professione che occupava il mio tempo e che mi permetteva di vivere bene ed in città e luoghi decisamente belli. Ero divenuto responsabile regionale per conto di organizzazioni professionali e di categorie economiche, a cui tra l’altro mai ero appartenuto, di un ente dal nome altisonante ed impegnativo: ”Ufficio Piani di Sviluppo per la Cooperazione Europea”. Questo U.P.S.C.E., era una di quelle tante organizzazioni che davano lavoro, soprattutto, a quelle poche persone che vi si trovavano dentro. Se poi queste sigle altisonanti abbiano sviluppato realmente qualcosa di tangibile per la collettività, non era dato saperlo. La mia attività lavorativa consisteva, alla fin fine, nell’organizzare o partecipare a viaggi di studio, convegni, conferenze di ogni tipo, dall’artigianato alla piccola industria, dalla salvaguardia delle tradizioni popolari alle nuove tendenze delle giovani generazioni. Dapprima lavoravo solo in Toscana, poi l’avanzamento dell’Unione Europea mi procurò l’opportunità di duplicare l’ufficio e di aprire così una sede anche Parigi. Nel corso del mio lavoro dispensavo inviti per i viaggi di studio e per i convegni in giro per l’Europa, cosicché tutti i vecchi amici e conoscenti quando mi incontravano salutavano con grandi sorrisi, certi di essersi guadagnati un soggiorno in una qualche capitale o in una città termale. Finii il caffè, mi scostai dalla finestra e dai miei pensieri, andai in camera e cominciai a guardarmi allo specchio mentre abbottonavo la camicia. Mi scrutavo. Ero cambiato molto? I miei mossi capelli c’erano ancora tutti, folti e mori. Qualche capello bianco a dire la verità si vedeva già, specie sulle tempie. Mi piacevano i miei capelli, così come i miei occhi melanconici, tagliati un po’ all’ingiù. Alle mie mani poi tenevo particolarmente: dita medio-lunghe, che crescendo si erano affusolate. Da bambino mi mangiavo le unghie, ma avevo ben presto imparato a curarmele, cosicché adesso le mie mani mi piacevano proprio. Avevo una corporatura media, non troppo alto, non troppo magro, nella normalità italiana. In fondo mi piacevo, senza però essere
troppo narciso. Non ce ne erano i presupposti fisici, avevo troppo cose medie considerai sorridendo, mentre mi guardavo nello specchio. Mi vestii lentamente e con cura. Pantaloni semplici, jeans un po’ slavati, scarpe italiane eleganti e comode, camicia azzurro molto chiaro, modello button down, giacca blu ed infine: la cravatta. La scelta della cravatta era un rito. Gialla, rossa, a righe, a piccoli disegni, fantasia, regimental. Vada per una regimental a righe, classica. Il nodo. Piccolo? Grande? Giusto. Con una piccola increspatura al centro. Ero sempre stato molto soddisfatto dei miei nodi alla cravatta, e la loro realizzazione davanti allo specchio, cercando la giusta grandezza e la giusta lunghezza, erano spesso stati un momento che andava al di là di una transitoria eleganza. Il nodo ben fatto alla cravatta diveniva, in quegli attimi, un momento di filosofia, la ricerca di un segno esteriore che ambiva a sottendere un presunto equilibrio interiore. Finito di vestirmi gironzolai per la casa. Era un piccolo appartamento, in un vecchio ed austero palazzo ancora ben tenuto ed accogliente, quasi protettivo. Quando me lo fecero vedere, mi piacque subito e lo comprai. Era qui che avevo domiciliato la mia tana, il rifugio lontano, quasi presago del distacco che andavo metabolizzando lentamente nei confronti del mio passato. Controllai che tutto fosse a posto, chiusi per bene le finestre, misi a posto alcuni libri, presi a tracolla la borsa da viaggio ed uscii. Pianerottolo. Chiavi, serratura, chiusura, doppia mandata, clok, clok. Pianerottolo, scalini, piano secondo. Pianerottolo, scalini, piano primo. Pianerottolo, scalini, piano terra. <Buongiorno monsieur Saverio, state partendo?> chiese gentile la portiera del palazzo. <Sì Madame Angelique, starò via per un po’. Potreste farmi trovare pulito l'appartamento per il mio ritorno?>. <Certamente, non si preoccupi> rispose premurosa e gentile, <e mi saluti la Toscana> aggiunse quando ero già sul portone. Mi voltai a salutarla di nuovo, con un cenno della mano. Guardai fuori dell’androne, pioveva. Rimasi dentro al riparo e aspettai il taxi. Graditamente arrivò
puntuale. Ne scese un uomo con i baffi, scuro di carnato, un magrebino presunsi. Mi aprì la portiera. Salii. <All'aeroporto. Grazie>. <Ok, signore> rispose senza voltarsi. Poche parole, essenziali. Non amavo chiacchierare con i tassisti e m’infastidivano, in Italia, quelli che vogliono per forza risultarti simpatici. Mi piaceva, invece, quando non guidavo, osservare il traffico e le facce alterate o rassegnate dei guidatori, godendomi la mia tranquillità in mezzo al trambusto urbano. Arrivai con molto anticipo sulla partenza del volo per Roma, sbrigai senza fretta le procedure per l'imbarco e sedetti nel bel mezzo del grande atrio a scrutare questo andirivieni di popoli. Girando intorno con lo sguardo, mi colpì, per la tenerezza, una donna poco distante da me. Sui trent'anni, il volto molto bello, dolce e fiero, era un’indiana, teneva gli occhi appena chiusi. Due bimbi, un maschietto ed una femminuccia, i figli certamente, dormivano accoccolati a lei, protetti dalle sue braccia e dalle sue mani belle ed affusolate. Era poco più di mezzogiorno, ma evidentemente venivano da chissà dove ed erano assonnati e frastornati dal fuso orario. Nonostante la grande stanchezza, tutti e tre riposavano con grande contegno, erano un'isola dolce e nobile in mezzo a quel via vai di persone esagitate e nervose. Pareva una principessa dei romanzi di Salgari e, difatti, di lì a poco arrivò il suo principe con il turbante. Parlarono un poco, poi lei con una dolcezza infinita svegliò i suoi cuccioli. Si allontanarono tutti e quattro insieme e sparirono nella folla. Li immaginai quella sera in riva al Gange. L'ora della partenza si avvicinava e mi diressi verso l'imbarco. Come al solito molta gente, gruppi, famiglie, chiasso, frastuono italiano, annuncio della partenza. Fila, controllo biglietti, corridoio, ancora corridoio, hostess, presi un giornale, corridoio dell'aereo, fila 9, poltrona E. Mi sedetti distendendo i piedi, giornale sulle gambe, volto reclinato versò l'oblò, guardai fuori. Ancora pioggia leggera, nuvole grigie, vento. Chiusi gli occhi, isolandomi dalla confusione che mi circondava, sentii sedersi accanto e vicino a me altre persone, udivo il ronzio delle loro voci. Mi estraniai in me stesso. <Ladies and gentlemen…..>. La voce gentile e meccanica della hostess, che salutando ci invitava ad allacciare le cinture, mi risvegliò dal dolce dormiveglia in cui stavo grogiolandomi. Respirai profondamente per riprendermi dal torpore in cui mi ero adagiato ed inalai graditamente un odore di femminilità che proveniva dal mio fianco. Aprii gli occhi un poco, mi eressi sulla poltrona facendo scivolare la schiena e agganciai le cinture. Fuori dell'oblò il cielo grigio, il vento e le nuvole, danzanti sopra Parigi, stavano salutandomi. Rullio, rumore, l’aereo si muoveva. Serravo i pugni.
Rullio, rumore, avanzava verso la pista. Guardavo fuori. Rullio, rumore, si piazzava davanti alla pista, aspettava il via come atleta in gara. Rullio, sempre più forte. Rumore, rumore, rumore, via, partito, corsa, velocità, la pista si allontanava, l’aereo si librava nell’aria. Stomaco in gola, mani strette ai braccioli, la terra era lontana, cuore e stomaco in gola….aaahmmmmmmm….Si vola. Il rumore si attenuò, divenne musicale ronzio, sottofondo rassicurante. Parigi là in basso era grigia, bagnata, sembrava ammalata. L'aereo saliva ancora. Nuvole. Nuvole dentro di noi, noi dentro le nuvole. Bianche, grigie, zucchero filato avvolgente. Salimmo sempre di più, grigio, bianco, splaschhhhhhhhhh. Come un tuffo all'incontrario uscimmo dalle nuvole. Grigio, bianco, splaschhhhhhhhhh. Luce, giallo, sole. Luce accecante, caldo giallo, sole inebriante, Cielo azzurro e meraviglioso, Noi dentro il cielo. Sotto, candide colline di nuvole. Sopra, pur immersi nel sordo rumore dell'aereo, la vastità del silenzio. Noi in mezzo, un punto al centro dell'infinito.
Respirai ancora, e più volte, profondamente, quasi a rincuorarmi, ché l'essere in cielo mi metteva sempre una leggera apprensione. Inalai ancora i profumi di donna che accanto a me questa sconosciuta offriva generosa, ricaricandomi di pungente energia. Insieme al sole e alla sua luce che entrava dall'oblò, questa furtiva inspirazione di fragrante femminilità riusciva, piano piano, a predispormi al buonumore. Ero qui in volo verso Roma, masticando pensieri diversi e sempre più stuzzicato da questa presenza al mio fianco. Impercettibilmente volsi lo sguardo alla mia sinistra. Dita lunghe reggevano una rivista, appoggiata su delle belle gambe accavallate. Avrà avuto venticinque anni o poco più. Niente calze, mocassini bassi ai piedi, vestito morbido, chiaro, a modellare il corpo, giacca fantasiosa e casual. Elegante. Molto elegante, gusto italiano. Apprezzai tra me e me. Capelli lunghi fin sotto le spalle, mossi, castano scuri cadevano in avanti, il profilo si intravedeva appena. Era intenta nella lettura. <Buongiorno!> le dissi.
<Oh, buongiorno> rispose <l'avevo vista così assorta nei sui pensieri che non volevo disturbarla…> <…..talmente assorto, che stavo addormentandomi> la interruppi sorridendole. Quando un uomo ha davanti a sé una bella donna, pensai, diviene istantaneamente più gentile e predisposto al dialogo. Io non facevo eccezione. <Va in Italia in vacanza? O torna in Italia dalle vacanze?> domandai. <Torno. Diciamo che torno, per poi andare di nuovo…..ero a Parigi un po’ in vacanza, un po’ per studio. Torno a Roma, dopo un po’ di mesi, ho proprio voglia di rivedere amici e parenti> si fermò un attimo e come parlando a se stessa concluse: <Ma poi, quando si va da un luogo ad un altro: si parte o si arriva? Dov’è l’inizio e la fine del viaggio? Mica è così sicuro e preciso stabilirlo>. Dovetti fare una faccia curiosa alle sue parole perché continuò dicendomi: <Dico cose strane, vero?> poi mi incantò con un sorriso e riprese a leggere. Mi misi anch'io a leggere il giornale, ogni tanto guardavo fuori, cercando di capire cosa ci fosse sotto il nostro aereo, ma le nuvole erano ancora troppo fitte. Guardavo le sue mani e le sue dita che, con eleganza tutta femminile, sfogliavano le pagine delle rivista. Foto di paesaggi e di paesi, di quadri e ceramiche. Si soffermò poi a lungo su di un articolo, sbirciai e nella foto di corredo riconobbi un affresco; era un opera di Piero della Francesca conservata a Monterchi: "La Madonna del parto". Un'opera delicata, conservata gelosamente in quel piccolo paese della Toscana che ne fa il suo tesoro. <Bella vero? E’ stato l'ultima opera che ho visitato alcuni mesi fa, prima di tornare a Parigi a lavorare e mi è rimasta nel cuore. Coglie insieme la sacralità ed il mistero di ogni maternità> le dissi, con la naturalezza che si prova quando si scopre una persona con i nostri stessi interessi. <Vorrei andare a vederla, c'è scritto che si trova a Monterchi. Dov'è esattamente?> mi chiese. <Tra Arezzo e San Sepolcro, in una bella zona della Toscana, là dove comincia l’Umbria> le spiegai. <E' vero, ha un senso di mistero universale> parve pensare convinta ad alta voce. <…e non solo per la religiosità intrinseca,…> ripresi a dirle: <…ma pure per la solennità geometrica della composizione e per gli sguardi austeri e senza tempo dei due angeli e della Madonna, che ti penetrano nella mente quando lì fissi>. <Ti interessi d'arte?> chiese, passando alla confidenzialità del tu, ché lo scoprire passioni artistiche comuni fa sempre sentire come vecchi amici. <Più che amarla, da toscano, l'ho sempre respirata. Sai che esiste una leggenda a proposito di questo affresco?> le risposi. <No, davvero?! Qua nell'articolo non ne parla.> <E' una storia che mi raccontò il custode del museo in cui è conservata l'opera. Mi vide assorto nella contemplazione della Madonna e mi disse: “Stia attento, perché se un uomo guarda la Madonna del parto pensando ad una donna, quella donna diverrà la madre dei suoi figli. Ma l'incantesimo avverrà soltanto se lei non dirà mai a nessuno chi aveva pensato e tantomeno alla donna che lei ora sta pensando. Pena,
altrimenti, la nullità dell'incantesimo”>. La fissavo nei suoi occhi attenti mentre narravo e continuai: <Mi piacque la dolcezza di quel racconto. Un po’ perché c'era un’atmosfera magica in quella stanza, in cui mi prendevo un po’ di pausa dalla calura agostana e mi lasciavo incantare dallo sguardo della Madonna. Un po’ perché il custode, che raccontava con voce cadenzata ed il fare complice di chi sta svelando un segreto importante, sembrava aver letto nei miei pensieri perché, in effetti, io stavo giusto pensando ad una donna>. <Che favola dolce!> rispose ammaliata. <Sì, molto dolce. Chissà se l'ha inventata quel custode o è una credenza diffusa. Comunque è sempre bello immergersi nelle favole e negli incantesimi. Se poi…> e conclusi: <…questi sono legati ad opere d'arte il fascino è ancora più grande>. Ci guardammo qualche attimo in silenzio poi lei in modo gioioso porgendomi la mano, con un fare tra l'austero e lo scherzoso, esclamò: <Piacere! Mi chiamo Gaia. Non ci eravamo nemmeno detti il nome>. <Saverio! Piacere mio> le risposi accentuando anch'io le parole per schernire la formalità della presentazione. Stretta di mano forte e sentita da parte di tutti e due, sorrisi. L'aereo da un po’ stava sorvolando l'Italia, si vedeva il mare, sembrava di sentirne l'odore. Magari filtrava da qualche spiffero dell'aereo. <Tra poco saremo arrivati> dissi guardando fuori dal finestrino. <Eh già! Aria di casa>. <Cosa farai nei prossimi giorni?> le chiesi in modo confidenziale, come se la conoscessi da tempo. Lei, per nulla infastidita da quella che poteva essere un’invadenza, rispose: <Starò un po’ a Roma, devo vedere mia madre. Poi non so, non amo programmare troppo. Ho dei giorni di libertà, vedrò dove mi porta il vento. E tu?>. <Vado anch'io un po’ a trovare i miei, a rivedere vecchi amici, un po’ a lavorare. Poi per domenica devo organizzare, insieme ad altri, un pranzo per amici e conoscenti. Beh! Senti se passi dalle mie parti chiamami> e nel dirle questo le scrissi il numero del cellulare sulla copertina della rivista. <Ok! Chissà, hai visto mai?> concluse in un divertente e divertito accento romanesco. “Già, chissà!” pensai. <Ladies and Gentlemen…..> La voce impostata della hostess annunciava il prossimo arrivo all'aeroporto di Fiumicino. Allacciai le cinture, strinsi i braccioli, sfiorai non volendo, ma con piacere, la mano di Gaia. Lei invece, mentre l'aereo scendeva sempre più veloce e le orecchie dolevano per la pressione, strinse con le dita la mia, si voltò verso di me e mi confidò sussurrandomi all'orecchio: <Ho una fifa matta in partenza ed all'atterraggio>. La terra si avvicinava, fischi nelle orecchie,
toccata. L'aereo scivolava veloce. Terra, eravamo a terra, rallentava, sollievo nei sospiri di molti. Bello è volare, ma come è bello rimettere i piedi al suolo. Slacciammo le cinture, ora tutti fremevano per scendere. L'aereo si fermò, si aprì il portellone, la gente iniziò ad uscire. Non avevo fretta, anche Gaia parve aspettare che tutti scendessero. Un po’ di secondi e ci alzammo anche noi, incamminandoci verso il portellone aperto. Un saluto alla hostess, Scalette, bus, calca, caldo. Ognuno, in solitudine, stava pensando al rientro, ai parenti che aspettavano, alle valige da recuperare. L'accompagnai a riprendere il bagaglio, ci salutammo. <Ciao Gaia. Grazie della compagnia> le presi la mano e gliela baciai. <Quale onore!> si schernì <baciarmi la mano come alle principesse>. <Sarebbe un piacere rivederti> non aggiunsi altro e la guardai nei suoi begli occhi scuri. <Ciaoo…Ciaoooooo…> mi rispose, cantilenando mentre si allontanava, accompagnando la voce con un gesto della mano. La guardai allontanarsi, ammirando la sua camminata fresca ed elegante, esaltata dal vestito che ballava sulle sue belle forme. Proprio una bella figliola! Gaia non poteva che essere nome più azzeccato per lei. La persi di vista in mezzo alla folla, mi voltai verso il cartellone delle partenze, volo per Pisa ingresso N°7. Passai dal bar. Cassa, fila, "un panino ed una coca", "settemila signore", scontrino, di nuovo fila, "dica", "panino al prosciutto ed una lattina di coca, grazie", masticazione, sorsi di coca, masticazione, sorsi di coca. Il pranzo per oggi era terminato. Andai verso l'imbarco, nuovo aereo, gente diversa ed uguale. Corridoio, poltrona, finestrino.
Un uomo accaldato accanto: “meno male dura poco questo volo” sospirai. Annuncio dall’altoparlante, ci muovemmo. Corsa, velocità, partenza, velocità, stomaco in gola, aaahmmmmmmm….si vola. Il tragitto fu noioso, con questo accanto che sbuffava per il caldo, guardavo fuori. Il panorama, meno male, dall'alto è sempre spettacolare, il cielo poi si era aperto e si poteva ammirare tutto là sotto. Fortunatamente il volo fu ancora più breve di quanto ricordavo e, di lì a poco, l'aereo iniziò a scendere. La terra si avvicinava, si scendeva veloci, la terra era lì a portata di mano, sempre più vicina, tuuumpppffff…..tuuumpppffff…..le ruote toccavano, l'aereo rimbalzava, toccava terra di nuovo, rallentava, freni, fhiuuuuuuuuuuu….., freni, fhiuuuuuuuuuuu….., fermo. “Anche stavolta è andata”, pensai sollevato. Aspettai che tutti fossero già in piedi, in fila e quasi fuori, mi alzai da ultimo. Con comodo raggiunsi l'uscita, salutai l'hostess ed il pilota, e raggiunsi il bus. Andai ad attendere il bagaglio, guardandomi intorno, iniziavo a riconoscere facce e parlate familiari, presi la mia borsa da viaggio, camminai spedito fuori, cominciavo a respirare aria di casa. Arrivai ad un taxi. <Buongiorno, dove andiamo di bello?>. <Buongiorno, mi porti in Piazza dei Miracoli>. <Fatto buon viaggio signore? Da dove viene signore?>. <Bene! Grazie!> risposi freddo, ché la confidenzialità con cui cercava di volermi intrattenere nel tragitto mi aveva immediatamente infastidito. Per un po’ stette zitto, poi riprese: <Non se ne può più di tutti questi divieti, il traffico è divenuto insopportabile….., e ora ci si mettono pure i vigili…….> il tassista continuava le sue lagnanze. Io leggevo il giornale facendo finta di non sentire. Arrivammo più in fretta dei suoi lamenti vicino alla Piazza. Pagai, salutai, lasciai il resto. Con la borsa a tracolla andai verso le mura, passai sotto la porta. Bianca e splendida, come una giovane sposa, mi sorrise la torre. Non mancavo mai, sia in partenza che al ritorno, di passare a salutarla.
Ero a casa, ché passeggiare su questi larghi marciapiedi ammaliato dai bianchi edifici in marmo, era come riprendere pian piano confidenza con antiche abitudini. Spesso nelle sere d'estate, in cerca di fresco, di pace e di bello, amavo venire a passeggiare qua. A volte solo, altre in compagnia di un’amata, lontano dai frastuoni della riviera. Avanzavo verso la Torre, divertendomi ad osservare i turisti che con il naso all'insù guardavano a destra e a sinistra, ora il duomo ora la torre, i più attenti sfogliando guide turistiche ed indicando agli altri con gesti compunti le cose da guardare. Ragazzi e ragazze, stremati da lunghe camminate e da zaini sulle spalle, camminavano, mano nella mano, verso la meta finalmente raggiunta. Mi muovevo cercando di schivarli, erano troppi ed a volte ci urtavamo: <Scusi!>. <Sorry!>. Sotto la Torre alzai gli occhi riempendoli dell'azzurro del cielo e del candore dei marmi, ed odorando il profumo dell’erba appena tagliata tornai sui miei passi. Arrivato di nuovo alla porta delle mura mi voltai, guardai ancora la Torre e le sorrisi di nuovo. Attraversato l’arco mi ritrovai quasi subito in mezzo al rumore del traffico, andai all'edicola, comprai il biglietto del pullman per Viareggio, ed andai alla fermata. C'ero io e c'erano un’anziana signora insieme a due ragazzi d'Africa, avevano ognuno un borsone con dentro il loro negozio. Arrivò il pullman, si fermò adagio. Fliuschuschschsch….., la porta si aprì, i due ragazzi, esperti, aprirono il portellone laterale ed infilarono dentro la loro mercanzia, l'anziana signora si tirò su per gli alti gradini, salì, salii anch’io, salirono i ragazzi. A sedere, altre anziane signore, altri ragazzi d'Africa, un trio di studentesse, musica di sottofondo, sedetti e guardai fuori paesaggi noti, per niente cambiati dall'ultima volta. Poco fuori città, ad un casello dell'autostrada scorsi da lontano degli studenti universitari con il berretto da goliardi, facevano la questua per una loro festa. Poco più avanti su di un'altra strada si intravedevano giovani ragazze, quasi bambine con le gambe vestite di freschezza, stessa età, destini vicini nello spazio, tremendamente distanti nel loro presente. Erano in attesa di clienti, magari i padri di quei goliardi. Contrasti stridenti in terre di così dolci paesaggi. Dentro e fuori il pullman un universo in ebollizione.
Dentro di me filosofeggiavo, Viareggio si avvicinava, guardavo le nubi in cielo tinte di arancione, sfumate di violetto, amalgamate dai rossi e dagli azzurri intensi. Sicuramente era terra di bei tramonti, questa. Compiaciuto, me lo gustai.
Pur avendo le chiavi di casa, mi piacque bussare, come facevo di solito, per farmi riconoscere da mia mamma. Tre colpi piano, una breve pausa, ancora due colpi piano e poi un colpo forte finale. Sentii passi veloci, poi il rumore di serratura e nella penombra si illuminò il sorriso di sempre. Braccia al collo, baci. Era una donna dal volto dolce e bello, come solo le mamme sanno averlo, ravvivato da due occhi verdi, capelli castani chiari un po’ mossi, fini e setosi. Riusciva a trovare serenità con poco e a trasmetterla agli altri con generosità. Rimanevo incantato quando a volte, entrando in casa, la trovavo che cantava mentre cucinava, stirava o stendeva i panni, dava proprio un senso di pace. Sì, era proprio una bella mamma italiana. Mi fece strada, con tenera premura, come se pensasse che io, in pochi mesi, avessi potuto dimenticare la posizione delle stanze o dei mobili. Mi avvicinai a mio padre che mi attendeva in piedi nella sala, una forte stretta di mano, baci. Serie di domande. <Come stai?…>. <Tutto bene?…>. <Il lavoro?…>. <Bene! Bene! Non si vede?>. Ci sediamo sul divano a parlare. <Papà…..e le elezioni? Che mi dici? Abbiamo vinto o perso?> <Vinto?! Perso!? E' tutto un gioco delle parti, certo che troppo spesso noi facciamo la parte di chi perde> mi rispose e rise sotto i baffi, come chi la sa lunga sugli uomini e sui politici, e certo non crede più nella bontà delle loro parole. Ancora si divertiva a parteggiare per la sinistra più idealista, si accalorava, sulle panchine in piazza, a parlare degli ultimi avvenimenti agitando giornali dai titoli rossi e rincorrendo sogni di giustizia. Ma sapeva bene, da anziano disincantato ed ironico qual era, che vivere era confrontarsi con ben altro che i sogni. Mio padre aveva gli occhi scuri e malinconici ed un po’ sognanti. Io li avevo ereditati. Portava i capelli pettinati all’indietro, magro e parco nel mangiare, divoratore di sigarette. Sapeva, così come anche mia madre, vestire elegante nei giorni di festa quando ci portava a pranzo al ristorante per occasioni importanti. Continuammo qualche minuto a guardarci e a domandarci di tutto un po’, poi mia mamma si ricordò di dirmi: <Ha telefonato Amerigo, diceva di chiamarlo appena arrivavi. Telefonagli>. <Ok, mamma, grazie. Ora voglio fare la doccia e riposarmi un po'> e aggiunsi: < Cosa si mangia stasera?>. <Ti ho preparato un sugo di arselle e un po’ di pesce fritto, va bene?>. <Benissimo, mamma. Al ristorante non si mangerebbe meglio>.
<No di certo!> mi rispose, brandendo la mestola e rivendicando le sue doti in cucina. Uscii dalla cucina, ché mia madre, ben sapevo, non voleva intrusioni e andai in camera, mi spogliai e poi entrai in bagno per fare la doccia.
Mi lasciavo accarezzare dagli spruzzi dell’acqua, sulla testa, sul volto, sulle spalle. Il loro massaggio e il profumo del bagno schiuma portarono la mia mente a rivivere le docce godute con Maria. Era stata l’ultimo mio reale sogno amoroso. Ci piaceva fare la doccia insieme. Lei allegra mi strofinava addosso la spugna insaponata, come se fossi un bambino. Io la lasciavo giocare con le mie spalle e con il mio petto. Sulla mensola della doccia aveva ogni tipo di saponi, per ogni ora della giornata e per ogni stagione, dai colori e profumi più stravaganti. <A seconda dell'umore occorre un sapone diverso> affermava con sicurezza. Ne aveva al mango, al cocco, all'ananas, al kiwi ed anche alla papaia, raccontava gli arrivassero dagli innumerevoli suoi amici sparsi per i Caraibi ed il Sud America, diceva che in Italia, così buoni ed odorosi, non si trovavano. Maria sosteneva che attraverso la pelle ed il naso, doccia dopo doccia, mi sarebbe entrata dentro l'anima dei tropici. Io non capivo, inebriato dai diversi odori, se assomigliavano davvero alla frutta che andava elencando. Mi divertiva molto questo suo gioco sotto gli schizzi dell'acqua, questo suo prendersi cura e gioco di me, riempirmi di schiuma e di baci. Mi divertiva e mi rinfrancava. Che avesse davvero ragione lei nel dire che mi sarebbe entrata dentro, poco a poco, l'anima dei tropici? Certo la doccia che stavo facendo adesso, con sapone e shampoo neutri, al confronto era decisamente insipida. Uscii dal bagno con il corpo ancora umido sotto l'accappatoio, volevo prolungare la sensazione di refrigerio, aprii un cassetto, presi un asciugamano, lo posai sul guanciale e mi sdraiai nel mio letto. "Il mio letto"….. la mia mente usò proprio quelle parole e le vennero naturali. In effetti, questo era ancora il mio letto, la mia cuccia sempre pronta, dove potermi rifugiare ogni volta che lo volevo. Alternavo, per il mio lavoro, periodi in Toscana e periodi a Parigi, ma mentre là avevo messo su casa, pur non sapendo se il lavoro sarebbe poi durato, nella mia terra ancora girovagavo tra appartamenti in affitto, a volte, come in questo periodo, condivisi con degli studenti universitari. Il loro trambusto giovanile, invece di darmi fastidio, mi dava una sensazione di leggiadra precarietà. Era la voglia di sentirmi sempre sul punto di andare via da tutto, mentre invece continuavo nel mio tran tran, fisso, ripetuto ed inamovibile. Un tran tran in fondo invidiabile per l’alternanza tra la Toscana e la Francia, con vari spostamenti per l’Europa. Pur vivendo fuori casa dei miei genitori oramai da tempo, il ritorno, ogni tanto nel mio letto, rinsaldava e rinfrancava le mie radici. Osservavo la mia stanza rimasta immutata da diversi anni e gelosamente conservata uguale nei suoi libri, nei sui disegni, nelle sue foto, nel suo ordinato disordine degli scaffali. Guardavo quei volumi, quelle riviste, quelle facce nelle foto,
quegli oggetti, ricordi di viaggi, intrufolati qua e là. Ripercorrevo, ogni volta che tornavo a casa, insieme alla mia stanza e agli scaffali della mia libreria il sentiero dei miei ricordi, rivedevo gli umori che le facce delle foto conservavano dietro i loro sbiaditi colori. Non facevo bilanci, rimettevo ordine ai miei ricordi, fiero della mia capacità di non dimenticare neppure i più piccoli dettagli di eventi anche molto lontani nel tempo. Mi accorgevo che i fatti, i personaggi, le facce e le emozioni da ricordare iniziavano ad essere tante. Spesso avevo avuto la spiacevole sensazione, parlando con vecchi amici o con antichi amori, che molti facilmente dimenticavano. Semplicemente, non avevano molta memoria? No, dimenticavano, ed era questo a rendere spiacevole la sensazione, perché ciò che avevamo vissuto insieme, evidentemente, non era stato per loro così importante come per me.
In questa, che era stata sempre la mia stanza, non esisteva niente che rimandasse a Maria. Il suo ricordo, in me ed intorno a me non aveva oggetti né foto, aveva forse dei luoghi e sicuramente aveva alcune sensazioni legate al tatto o all'olfatto: la sua pelle e il suo profumo. Sensazioni non prettamente sessuali, direi ancestrali, in parte quasi magiche, come appartenenti ad un'altra realtà sensitiva, di cui non riuscii mai a darmi una razionale spiegazione e che mi ha sempre lasciato un alone di mistero dentro la testa. Maria è stata un'esplosione di sensazioni che trapassarono interamente i miei sensi, la mia pelle, i miei nervi, e di cui ancora oggi mi cibo. Maria fu una passione intensa che il destino mi concesse di vivere, circa tre anni or sono, poco prima di iniziare la spola con Parigi. Come ogni cosa, anche questa storia finì. Non ho mai capito bene cosa sia la fine di un amore, cosa sia veramente a finire, né perché la sofferenza che ne segue, più o meno intensa che sia, dovesse esserne sempre uno strascico ineluttabile, se non addirittura necessario. Con Maria l’amore poi, in realtà, chissà se sia mai finito. Certo dall'ultimo litigio urlante, che ebbe quale teatro una piazza del centro di Pisa, e conclusosi con uno sbatter di portiera, non l'ho più rivista. Si allontanò furiosa, muovendosi sinuosa e provocante in un suo aderente vestito chiaro a fiori, io misi in moto la macchina imprecando e me ne andai. Da quella calda mattina d'agosto nessuno dei due ha mai più cercato l'altro. Eppure era un legame iniziato già prima di incontrarla. Perché era lei la bimba sbarazzina che sognavo ad occhi aperti da fanciullo. Era lei la bimba dagli occhi grandi, belli, neri, sorridenti e maliziosi con cui giocavo nei miei sogni. Era lei il mio amore, fantasioso e reale, di bambino sognatore. Lo capii un giorno nel quale, cercando certi documenti che le servivano per il passaporto, tirò fuori dall'armadio uno scatolone ricolmo di fogli e di foto. Io vicino a lei, sdraiato su di una poltrona, bevevo distratto un'aranciata. Ad un tratto le si illuminò il volto e sorridendomi disse: <Guarda, sono io il mio primo giorno di scuola>.
Mi tremarono le mani quando ebbi in mano la foto di lei piccolina. Una faccina da indios, due occhietti da piccola pantera, intensi, taglienti ed ironici. Mi tremarono le mani perché riconobbi immediatamente in lei la bambina dei miei sogni infantili, la fanciulla con cui nelle notti buie mi stringevo nel letto e a cui raccontavo con dolcezza e complicità quello che volevo fare da grande. Ed io ero certo che lei, da grande, sarebbe stata accanto a me. A mano a mano crescendo avevo dimenticato questa presenza immaginaria della fanciullezza, ma quella foto fu un lampo nella memoria, e capii il perché della inquietudine che, fin dal primo istante, Maria mi aveva intensamente provocato. Avevo incontrato il mio amore bambino ed ora l'avevo di fronte e la riconoscevo. Era lei: vera e donna. Ed entrambi lo sapevamo. Lo credevamo. Volevamo crederlo. Per un po’ di tempo ci riuscimmo. Volavo tra questi ricordi quando un brivido di freddo mi ricordò di asciugarmi per bene e di vestirmi. Mi alzai, andai all'armadio e scelsi i pantaloni e la camicia. Davanti allo specchio mi vestii ascoltando la musica del telegiornale che veniva dalla sala, anch'essa faceva parte della atmosfera di casa. <Prontooo…..> disse ad alta voce mia mamma. <Pronto anch'io!> gli risposi mentre entravo in sala. Diedi una occhiata alla T.V. e poi fui subito rapito dall'odore del sugo. Un sapore familiare e distintivo di casa. Presi io la zuppiera e feci sedere i miei genitori. Mi piacque servirli, prima mia madre e poi mio padre, e mi piacque pure perché in fondo alla zuppiera rimaneva sempre più sugo, che raccolsi prima per me e poi, con tardivo altruismo, anche per mio padre e mia madre. Apprezzarono sorridendomi. Tra una notizia del telegiornale e l'altra, e forchette indaffarate che giravano gli spaghetti, raccontavo degli ultimi mesi a Parigi. Arrivò la frittura di pesce, calda e croccante, di un profumo eccitante, proprio così, non c'era altra definizione per quella frittura di pesce: eccitante! Ed un semplice piatto mi fece capire più di cento saggi e di centomila parole, l'intima connessione tra sesso e cibo. Nel pomeriggio, in aereo, il profumo di Gaia, questa sera l'odore del pesce fritto, stimoli olfattivi che solleticavano entrambi la voglia di vivere. Potrebbe sembrare un paragone irriverente, eppure la mia mente si eccitava con ambedue, così mentre mangiavo di gusto il pesce pensavo al corpo di Gaia. L’avrei mai più rivista? Chissà. <Ottimo mamma, veramente ottimo. Parigi val bene una messa, ma non un piatto di pesce fritto fatto da te> sentenziai scherzando e ridendo. Risero anche loro: di gusto mio padre, compiaciuta mia madre. Era molto bello vederli tranquilli e felici della loro serenità, fatta di piccole cose e di tenere abitudini, di bonari brontolii e di candido affetto. <Quanto stai?> chiese mia mamma. <Ho una decina di giorni di ferie, poi per un mese rimango qua per lavoro, devo mettere a punto una serie di iniziative. Fine ottobre, inizio novembre, ritorno a Parigi> le risposi e aggiunsi: <Vedrò di andare un po’ in giro a vedere alcuni amici, e poi per qualche giorno sono a Firenze> pensando effettivamente alle cose che avevo voglia di fare in quei giorni.
Mi alzai dalla tavola, feci il giro della stanza, andai alla finestra ad osservare il profilo delle Apuane e mi congedai salutandoli. <Ok, vado a letto. Faccio un paio di telefonate e poi mi metto a dormire, sono stanchissimo. Buonanotte>. <Buonanotte Saverio. Buonanotte> mi risposero in coro.
Andai nella mia camera, mi spogliai e rimasi in maglietta e boxer, sedetti sulla poltrona e chiamai al telefono Amerigo. Tuuuuuu…..tuuuuuuuuu…..tuuuuuu ..… <Pronto!>. <Ciao Amerigo, sono Saverio…..tutto bene?>. <Ciaooooo…..chi non muore si risente!>. <Infatti…..>. <Vediamoci domani…..magari ceniamo insieme, va bene?>. <Certamente! Possiamo vederci verso le otto di sera e poi decidiamo dove andare, ok?>. <Alle otto domani sera, perfetto. Così stiamo tranquilli e ci raccontiamo gli ultimi mesi>. <Già! Sono dei mesi che non ci vediamo> sottolineò. <Allora a domani. Buonanotte Amerigo>. <Buonanotte Saverio>. Il buon Amerigo sempre pronto e presente come se ci vedessimo tutti i giorni, aveva la capacità di mantenere i rapporti con gli altri anche a distanza di tempo e di spazio, di ricordarsi addirittura dei compleanni. Era apprezzato da tutti per la sua amabilità ed una innata cortesia; non di meno, per la sua riservatezza, era ricercatissimo nel suo lavoro di commercialista. Lui sapeva veramente tutto di molti dei ricchi borghesi locali e soprattutto dei molti che, fin troppo velocemente, si erano arricchiti negli ultimi anni. Non molto alto, capelli imbiancati ricci, veniva pure apprezzato da diverse spilungone che, a volte, parevano coccolarselo. Occhi chiari, vispi, un sorriso caldo e sincero. Amerigo era una persona che mi mancava a Parigi, ogni tanto ci spedivamo una cartolina con qualche pensiero un po’ ironico, qualche battuta gettata là, e questo piccolo contatto ci permetteva di continuare a restare in qualche modo in sintonia nonostante la lontananza. Non era tanto quello che scrivevamo ciò che era importante, era sapere che ci eravamo pensati, che ognuno aveva dedicato un pezzetto del proprio tempo all'altro quello che a me piaceva e me lo faceva sentire amico e vicino. Immaginavo che per lui fosse lo stesso. Composi il numero di Ortensia. Tu…tu...tu...tu...tu...tu….. Occupato. Andai in cucina a bere un po’ d'acqua. Diedi un bacio a mia mamma che nel frattempo stava andando a letto e le dissi: <Domani mi chiami alle sette e trenta? Voglio fare un po’ di giri per alcuni uffici, senza trovare code>. <Ti preparo il caffè?>.
<Un caffè?! Si!..…grazie mamma, un caffè. Buonanotte, a domattina>. <Buonanotte, copriti e chiudi le finestre che la notte fa fresco>. Le premure di mia mamma, facevano parte della atmosfera familiare, il caffè o il the la mattina portato in camera era un gesto di augurio per il giorno che iniziava, un piccolo atto d'amore silenzioso ma consapevole a tutti e due, e a cui non avrei mai rinunciato. Le raccomandazioni, come il coprirsi o il chiudere le finestre in camera, le disattendevo sistematicamente, ma amavo mi venissero fatte ancora, nonostante la mia più che maggiore età. A volte sbuffavo spazientito, ma se non me le avesse fatte mi sarebbero sicuramente mancate. Tornai in camera addolcito dalla buonanotte e riprovai a chiamare Ortensia. Tu...tu...tu...tu...tu...tu...tu….. Occupato. Stava evidentemente massacrando le orecchie ad una amica con i suoi soliti drammi d'amore. Mi misi nel letto, sfogliai il giornale locale, che avevo comperato prima di entrare in casa, per curiosare un po’ sulle ultime amenità. Lessi un po’ di notizie cittadine. Titolo a tutta pagina: “La locale Associazione degli Albergatori protesta per i rumori notturni delle discoteche, e propone per il prossimo anno rimedi monacali per i villeggianti”. “I gestori delle discoteche rispondono, che i frequentatori delle discoteche sono gli stessi che dormono negli alberghi”. “L'assessore propone un convegno sul turismo del III millennio, per fare chiarezza e ricavarne indicazioni”. Titolo di spalla: “Furti nelle abitazioni, statistiche e percentuali, preoccupazione nei cittadini“. Pubblicità di un antifurto accanto. Trafiletto: “Il Presidente di una Circoscrizione, tal Malagurati, chiede con grande enfasi al Sindaco quali interventi siano previsti per la sistemazione delle aiuole davanti alla sede del circolo degli anziani”. Mi pareva di ricordare questo modesto personaggio locale, ma legato ad altre aree politiche. Pensai che forse era la stessa persona che per anni aveva girovagato di partito in partito, sempre sicuro delle sue idee e delle poltroncine su cui riusciva a sedere. D'altra parte con quel cognome non poteva aspirare a molto di più. Lettere: “Una signora protesta per l'inciviltà dei possessori di cani, non raccolgono…” ella afferma “…gli escrementi che i loro animali lasciano per strada. In Svizzera, donde la signora è originaria, questo non succede”. Cronache di ordinaria quotidianità. Sono le undici di sera, provo di nuovo a chiamare. Tuuuuuuuu…..tuuuuuuuuu…..libero. <Pronto?!?>. <Pronto? Ciao Ortensia sono Saverio, scusa per l'ora ma…>. <Niente, niente non ti preoccupare non vado mai a letto presto> rispose. <Volevo sapere come ci si organizza per il pranzo dei Burlanti, avete già in mente qualcosa tu e Fulvio?> le chiesi.
<Ho sentito Fulvio in questi giorni, ha contattato un ditta di catering, sai com'è efficientista lui..…non avremo problemi per l'organizzazione del pranzo. Ci potremmo vedere per fare il punto della situazione, definire le ultime cose. Che ne dici? Quando ci possiamo vedere?> come al solito Ortensia rovesciava addosso parole e parole. <Dopodomani potremmo vederci a Firenze tutti e tre, possiamo trovarci a bere qualcosa e ne parliamo? Ti va bene?> le riuscii a dire in un momento in cui lei prendeva fiato. <Va bene. Sento io Fulvio. Dopodomani sono libera, per l'orario ci risentiamo, ok?>. <Ok, a me andrebbe benissimo dopodomani a Firenze in tarda mattinata, verso mezzogiorno. A risentirci. Un bacio. Buonanotte>. <Buonanotte, ciao>. Chiacchiere rapide e un po’ nevrotiche. Ci conoscevamo da anni, ma non eravamo mai stati né amici né tantomeno amanti. Ci legavano solo i pettegolezzi che ognuno di noi sapeva dell'altro. Legami tipici di una piccola città. Continuai a leggere fino a che chinai le mani in avanti, il giornale si adagiò su di me, chiusi gli occhi e mi ripassò davanti tutta la giornata. Parigi, aereo, incontri, Roma, Pisa, Viareggio, casa. Ero stanco, mi trovai addormentato senza accorgermene.