RAIS - Simone Perotti

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Dello stesso autore nel catalogo Frassinelli (anche in ebook) Un uomo temporaneo

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Simone Perotti

RAIS

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Realizzazione editoriale a cura di Elàstico.

Copyright © 2016 Simone Perotti © 2016 Sperling & Kupfer Editori S.p.A. per Edizioni Frassinelli ISBN 978-88-9342008-2 I Edizione ottobre 2016 Anno 2016-2017-2018 - Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

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A Federica A Francesco e Francesca

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«Quel che mi sento di scrivere è proibito, non paga; e a scrivere nell’altro modo non riesco.» Herman Melville, lettera a Nathaniel Hawthorne

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«Faccio in questo modo, io, per cacciar la malinconia e regolare la circolazione. Ogniqualvolta mi accorgo di mettere il muso; ogniqualvolta giunge sull’anima mia un umido e piovoso novembre; ogniqualvolta mi sorprendo fermo, senza volerlo, dinanzi alle agenzie di pompe funebri o pronto a far da coda a ogni funerale che incontro; e specialmente ogniqualvolta l’umor nero mi invade a tal punto che soltanto un saldo principio morale può trattenermi dall’andare per le vie col deliberato e metodico proposito di togliere il cappello di testa alla gente – allora reputo sia giunto per me il momento di prendere al più presto il mare. Questo è il sostituto che io trovo a pistola e pallottola. Con un ghirigoro filosofico Catone si getta sulla spada; io, quietamente, mi imbarco. Non c’è niente di straordinario in questo. Basterebbe che lo conoscessero appena un poco, e quasi tutti gli uomini, una volta o l’altra, ciascuno a suo modo, si accorgerebbero di nutrire per il mare su per giù gli stessi sentimenti miei.» Herman Melville, Moby Dick «Il mare non è mai stato amico dell’uomo. Tuttalpiù è stato complice della sua inquietudine.» Joseph Conrad, Lo specchio del mare «Sul mare ci si sente orfani, il navigante si strugge per tutto ciò che ha lasciato e ricompone i conflitti che a terra dividevano il male dal bene. Si scende in una specie di grande valle, si entra in contatto con l’universo e i messaggi che arrivano da terra sembrano quelli di una cattedrale evanescente. Si getta sul mare uno sguardo che ha sempre qualcosa di perduto. L’uomo di terraferma crede che il marinaio sia felice di andare, non sa che è intessuto di angoscia e sogni e che gli sembra di percorrere una via che non conduce a nessun luogo. Per questo si affeziona agli strumenti che gli fanno tenere le rotte e lo porteranno da qualche parte. Il marinaio non arriva mai nel suo, non ha possessi, il suo sguardo anche più attento è sempre muto. Parla per farsi compagnia, oppure tace, e quando parla, spesso delira, non vuol convincere nessuno.» Francesco Biamonti, Attesa sul mare «Quel che c’è in me di misterioso, di sfuggente, di incomprensibile, d’inafferrabile – lasciatemelo.» Gabriele D’Annunzio, Di me a me stesso

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Dragut «Abbiamo fatto troppo la guerra. Non ne valeva la pena…» «Come, Rais?» «Non abbiamo vinto… Dunque non valeva la pena passare la vita intera a combattere.» «Ma neppure loro hanno vinto, Rais. Ed è stato grazie a noi!» «Questo vuole solo dire che hanno commesso il nostro stesso errore. Ma bada, non hanno perduto per causa nostra… Loro, come noi, avrebbero dovuto fare altro.» «E che altro c’era da fare? Cosa avresti fatto, se non la guerra?» «Questa è la cosa più triste, giovane Kadir. Non lo so… Non conosco niente della vita, solo navi, cortaldi, fuoco greco, serpentine, tecniche d’abbordaggio, rostri, zepate, lame, archibugi… Non so neanche quello che mi sono perduto. C’è qualcosa di più triste di questo? Ciò che non viviamo, non lo possiamo neppure rimpiangere…» «Ti hanno guardato come un faro, Rais, sei stato il condottiero di un popolo. Ti chiamano…» «E in quanti altri nomi mi avrebbero potuto chiamare, Kadir? Non lo saprò mai. Non conoscerò mai i miei soprannomi, i miei nomi storpiati, abbreviati, cambiati per ironia, per errore, per gioco. Non sarò mai grottesco, stupido, silenzioso, inerme, 1

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umile, anonimo. È passato troppo tempo da quando ero un uomo senza nome, da quando ero un ragazzo! Da allora ho fatto solo guerra. Ai cavalieri, ai genovesi, ai veneziani, agli spagnoli, al Papa, a chiunque. Gente che non sapeva chi fossi, gente che non conoscevo, che mi vedeva piovere sui loro legni come una cataratta di fuoco, non annunciata da alcuna scintilla. Fiamme e basta, che bruciano, distruggono ogni cosa, fino a trasformare me in un sacco di pelle ricolmo di cenere…» «Hai avuto una moglie, dei figli. Avresti dovuto stare di più con la tua famiglia. Questo ti avrebbe dato il calore che…» «La mia famiglia sono io. È l’unica cosa di cui sono fiero. Non c’è niente di peggio che una moglie quando vorresti un po’ di consolazione.» «Prima ancora avevi un harem favoloso, Rais. Te lo invidiavano tutti i pirati!» «Donne soggiogate, che mi considerano un padrone. Oppure rubate, che mi hanno sempre maledetto. E le più furbe, che hanno simulato di amarmi, non erano che serpi pericolose. Quelle donne erano stelle nella notte. Brillavano, certo, ma non sapevano vincere il buio. Le stelle non rendono mai chiara la notte, anzi, se le guardi il cielo ti appare ancora più nero. No, il mio harem non è stato niente, non ha nulla a che vedere con me. Solo una donna… incontrata troppo tardi… Ma tu non devi sapere…» «Non devo sapere nulla, Rais. Sono solo il tuo umile servitore.» «È la guerra ad aver preso ogni cosa. È inumano fare solo una cosa in una lunga vita. La guerra ha riempito i miei giorni, le mie ore, i pensieri di un minuto e quelli di sempre, lasciandomi così pochi momenti per… Ma non capisci, Kadir?! Ho cercato di morire, per poter vivere! E non ci sono neppure riuscito. Mi sono gettato nelle fiamme senza bruciare, tra le lame senza restare trafitto, sulle bocche dei cannoni senza esplodere. Quel che speravo non si è avverato, semplicemente perché non ho mai sperato. La guerra, solo la guerra. Assaltare, distruggere, battere l’avversario. 2

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«Sai qual è il momento più triste di un guerriero? La vittoria. Dovrebbe dare soddisfazione e non porta che sgomento. Meglio mille volte mancarla, o subire una sconfitta, che invece ha il sapore della rivincita, anima ogni muscolo nella carne, lo tende fino a farlo schioccare. E dopo tante battaglie, oggi, non riesco più a fare differenza tra prevalere e soccombere. «Una vita intera a fare la guerra. È così che un uomo smette di vivere. Molto prima di morire…»

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Bora Se l’ho conosciuto? Chi lo vuole sapere? Non alzi la voce con me. Abbia almeno rispetto per la mia età. Sono una schiava da troppo tempo, cosa vuole che me ne importi? Vivo reclusa fin da ragazza, e ora sono una vecchia in procinto di morire. Di cosa può minacciarmi, lei? Di uccidermi? Che ingenuo… Per uccidermi dovrei essere ancora viva, e non lo sono ormai più da chissà quanto… I privilegi che ho avuto, pensa che siano gran cosa quando si è schiavi? In una segreta umida e buia sarebbe stato peggio che nell’isolamento dorato in cui sono vissuta, certo. Lei è mai stato segregato? Sa cosa vuol dire un giorno solo di prigionia, non dico una settimana, non dico un anno, non dico tutta la vita, senza la libertà… E non è mai stato vecchio, non ancora. A ogni modo, mi faccia le sue domande, e se avrò voglia le risponderò. Vorrei solo capire a cosa le serve. Perché vuole sapere tutte queste cose sul Rais? È morto, ormai, e da molto tempo. Quelli come lei non si occupano solo dei vivi? I morti non li potete più punire secondo le vostre leggi… Dunque, cosa vuole da me?

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La spia È finita. Siamo stati abbandonati. Le forze cristiane non si sono unite per difendere Malta, l’ultimo baluardo. Lo fecero per riprendere Tunisi, Algeri, o per combattere a Prevesa e alle Gerbe, ma non per difendere noi, i cavalieri, i sudditi più devoti, la milizia santa di Dio. Solo la sorte ci è accanto, in questa calda estate del 1565. Una sorte breve, della lunghezza del nostro coraggio, della durata della nostra resistenza. Poi quest’isola sprofonderà sotto l’onda ottomana, e con essa scomparirà il maggiore degli ordini cavallereschi, custode della misericordia in Terra Santa, erede del patrimonio dei cavalieri templari, braccio armato dell’Occidente cristiano nelle imprese più spinose e impronunziabili della storia. Noi, i misericordiosi cavalieri gerosolimitani ospitalieri di San Giovanni, i cavalieri di Malta, moriremo perché abbandonati dall’Imperatore, dal Papa, dai traditori francesi, dai mercanti genovesi e veneziani. Moriremo insieme a queste poche migliaia di soldati senza neppure una corazza, tutti trapassati dalle palle degli archibugi dei giannizzeri, dilaniati dai leopardi degli azappi o più certamente sventrati dalle scimitarre dei fanatici matasiete di Dragut Rais, che a breve, come corre voce, darà fondo alle ancore nella baia di Marsamuscetto. Con l’arri5

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vo del più terribile degli ammiragli, tutto si concluderà, anche il cerchio del mio personale destino. Per decenni ho custodito segreti. Ho tradito, rinnegato, scalato ogni grado, fino a diventare la spia più segreta e influente tra gli agenti nerobianco crociati. Io so, ho visto, ho ordito, ho ucciso. Sono l’unico cavaliere che è stato educato dal nemico infedele, alla corte di Costantinopoli. L’unico a conoscere l’esatto contenuto di questa borsa di pelle e ferro. Se non per rispetto e riconoscenza verso l’Ordine, almeno per difendere il segreto capitale racchiuso in questo faldone, ero convinto che l’Imperatore e il Pontefice sarebbero accorsi. E invece no. Nel giorno estremo, una spia non può che uscire di scena accorgendosi di non sapere qualcosa, di aver perso il filo che aveva tramato e che pensava di tenere saldo tra le mani, constatando in ciò la propria condanna. Per questo ho deciso di scrivere un memoriale, disperato per la prima volta nella mia esistenza, e dunque libero di ogni parola. Ma avrò il tempo di consegnare questa storia alla storia? La notte, così quieta, invita a indugiare. Allestire un assedio è cosa lunga, e anche se tutto tace, se il tramestio che s’ode di giorno somiglia al gaio brulicare di una cittadina operosa, e se fino a ora neppure un colpo verso di noi è stato sparato, noi siamo già prigionieri, solo in attesa della fine. Non meritiamo questa sorte, il mondo cristiano unito dovrebbe intervenire in nostra difesa. Ma abbiamo ormai la certezza che non lo farà. Scrivo per vendetta, dunque, e perché sia resa giustizia. Che il mondo conosca il grande tradimento! Io e i tanti cavalieri morti per proteggere il più potente segreto di questa epoca abbiamo diritto alla verità della storia, quella che possono rendere solo i libri, armi più letali e a lunga gittata dei cannoni. Quando Dragut Rais sarà di fronte a me con il kilij sguainato, gli consegnerò il faldone e il memoriale, lo pregherò di portarli a Venezia, alle officine di stampa Aldine degli eredi di Manuzio, perché vengano pubblicati. A quel punto, ogni cosa sarà compiuta, e potrò sorridere alla sua lama. 6

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Parte Prima

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1. Dentro Correre è come bere, cioè correre giù dal crinale erboso, senza frenare, mentre il vento pettina l’erba medica rendendo la collina un verde mare ondulato, fa l’effetto del vino, non che l’abbia bevuto mai il piccolo Dragut, che avrà dieci o dodici anni, ma ha visto il padre quando si concede il bicchiere della sera, e i suoi occhi duri e bassi che, per qualche minuto, si riaccendono, perfino si alzano oltre il piatto, talvolta incrociano lo sguardo altrui, come fosse un lampo, una fuga, ne scaturisce addirittura qualche parola, raramente un sorriso, dunque deve esserci qualcosa di buono nel vino se fa parlare quell’uomo stanco e afflitto, anche se non si capisce mai se il vino è consentito berlo oppure no, sta di fatto che il padre eternamente silenzioso e addolorato per un momento almeno s’intenerisce, e deve sentire qualcosa in petto, come una gioia, la stessa che prova Dragut quando corre giù dalla proda, col cuore che balla, e sembra che si libri in volo da un attimo all’altro, arricchito dalla voglia di arrivare primo, e infatti Dragut si volta, rischiando di cadere, perché davanti non c’è nessuno, ma dietro li sente tutti, vicini o già lontani, che corrono come lui, silenziosi, trattengono il fiato, perché fino a che ci riesci la corsa è una cosa che si fa senza respirare, sguardo verso terra per non inciampare nel tronco nascosto, o sprofondare in una buca, e Dragut con la coda dell’occhio vede che ci sono, gli altri, 9

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ma sono indietro appunto, tutti a rincorrerlo, ma lui è il più veloce, anche se è il più piccolo, e non sa perché ma quella storia che quando c’è da correre lui arriva sempre primo gli piace, perché vede che lo considerano, anche se è più basso di alcuni, che hanno anche due anni di più, e neppure più robusto di altri, anche se è già forte, ed essere considerati, vedere che qualcuno ti guarda con un po’ d’ammirazione, anche se Dragut non sa ancora un bel niente della vita, è una cosa che fa piacere, che ti fa sentire bene, anche se poi c’è anche l’altra faccenda, che invece ti fa sentire un po’ male, che è quella del suo amico Keithab, che arriva sempre ultimo, eccolo laggiù, che arranca come se avesse le gambe più corte, e invece ce le ha normali, solo che le muove più lentamente, non si capisce bene quale sia il problema, forse che ha la madre ungherese e cristiana, chi lo sa, fatto sta che Keithab arriva sempre ultimo, e finisce che lo prendono in giro per quello, e Dragut allora non si sente mai felice del tutto, la gioia per essere arrivato primo scolorisce, non si capisce perché, è un mistero questo, e a volte vorrebbe rallentare, aspettarlo, per vedere se, quando non arriva primo, quella sensazione strana, quello sconcerto, scompaiono, ma poi pensa che non arrivare primo lui non fa arrivare meno ultimo Keithab, e quindi non serve, e allora riprende a guardare avanti, inquadra bene i sentieri invisibili dell’ampio pianoro che sfinisce verso il paese e corre, corre Dragut, sempre più veloce, inafferrabile come l’aria fresca della primavera che si affaccia alla collina e sfila giù fino all’orizzonte, al mare, che non ha ancora visto mai, se non in lontananza, ma il padre gli ha detto che un giorno ce lo porterà, e corre, corre Dragut, e non si accorge che in paese c’è movimento, fa questo errore, non si accorge che c’è molta gente, ci sono dei cavalli, da lontano non si vede neanche bene, ma si intuisce che c’è qualcosa di diverso dal solito, e si volta ancora Dragut, e adesso non vede proprio più nessuno, possibile che oggi sia andato così veloce da aver seminato tutti? nessuno si vede, proprio neanche l’ombra, ma come, erano una quindicina di ragazzetti tutti nello spazio di qualche decina di metri, 10

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accidenti come è andato veloce, e non si accorge Dragut che è l’unico della piana intera, l’unico fiato veloce e ansimante, e quando sta per imboccare il sentiero battuto fa un salto, perché si ricorda bene che lì c’è il fossato, ed è talmente lanciato che quando alza i piedi e unisce le ginocchia al petto sembra che voli, sembra un uccello che stia levandosi per il suo volo leggero senza dover tornare più a terra, e come una colomba Dragut vola, due, tre, cinque metri, fino a che atterra, perché volare davvero non può, non ha le ali, atterra sul sentiero battuto, dove si corre meglio, dove i suoi piedi scalzi rischiano meno, e allora se possibile accelera ancora, va ancora più veloce, fino a che non entra dritto in paese, per la via principale di Karatoprak, e vede un mucchio di gente che fa capannello intorno a uomini che non conosce, che vengono da fuori certamente, chissà chi sono, corre, corre Dragut, e ci sono anche dei cavalli sulla destra della piazza, cavalli belli, bianchi, con nastri alle criniere, tenuti insieme per le briglie da un militare alto, con la corazza, che è il primo a voltarsi verso di lui, ma poi si voltano tutti, uno dopo l’altro, e qualcuno si sbraccia, dice qualcosa, fa grandi gesti, lo indica, via, vai via, perché deve andare via? dove deve andare, sta arrivando di gran carriera, è primo, come al solito! qualcun altro lo guarda senza dire nulla, invece, sembra incuriosito, lo fissa, soprattutto quello seduto su una specie di trono, col turbante in testa, vestito bene, accidenti che begli abiti indossa, e quando Dragut è più vicino nota che quell’uomo sorride, un bel sorriso largo, come di chi ha trovato quello che cercava, e anche a Dragut verrebbe da sorridere, solo che è tutto intento a correre come un matto, come sempre, e poi si distrae, perché vede che c’è anche sua madre, che ci fa lì sua madre? ha lo sguardo cattivo, non proprio cattivo, insomma quello che quando c’è qualcosa che non va col padre vuole dire togliti di qui alla svelta prima che sia tardi, e dato che sua madre è una che le cose le sa, Dragut capisce finalmente che c’è un problema e deve mettersi in salvo, senza il tempo di capire, bisogna solo reagire, e allora fa una curva secca, a destra, e scivola, accidenti alla terra asciutta 11

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piena di polvere, scivola e cade, e dato che va veloce cade e rotola tre volte, quasi ai piedi del gruppo, e in quattro di quelli con la corazza gli si gettano addosso, sente le loro mani sulle caviglie, sui polsi, ma prima che possano serrare le prese, che poi con quelle manone non è più possibile sfuggire, Dragut inizia a dimenarsi, si torce come un’anguilla, e con un balzo si sviluppa da quella mischia e si rimette dritto, e allora la faccenda torna a suo favore, perché coi piedi a terra non lo frega nessuno, e infatti appena riprende a correre dietro di lui si fa il vuoto, per qualche metro resistono, poi via tutti, e quando si volta vede che la madre ora sorride, chiude gli occhi col viso al cielo e fa un sorriso leggero, tenue, di quelli che a Dragut piacciono tanto, e allora lui si getta in avanti e corre ancora più veloce, perché se la madre sorride vuole dire che ha fatto bene a scappare e deve fuggire via senza fermarsi, e a questo punto comincia a capire, capire tardi, come al solito, ma pur sempre meglio che mai, e si ricorda anche cosa aveva detto la madre, accidenti a me quando non sto attento a quello che mi dice mamma, che in quei giorni bisognava stare in guardia, che ci sono forestieri che arrivavano nel villaggio, corri, Dragut, corri, perché quelli erano i giorni della devşir, la raccolta, coi giannizzeri che portano via i bambini per poche monete, accidenti a me, per un pelo non mi prendono, e che adesso l’unica è andare lontano, veloce come il vento, sulle colline, nascondersi, senza fermarsi, senza neanche voltarsi più, e la domanda vera però è dove sono tutti gli altri, perché non l’hanno avvisato quando hanno capito, si saranno messi in salvo, e soprattutto dov’è finito Keithab, eccolo là che arranca, Keithab, fermati, Keithab, vienimi dietro, non da quella parte! non capisce, s’è fermato, accidenti a lui, Keithab, di qua subito! e Keithab guarda verso la piazza, poi verso Dragut e ricomincia a correre ma verso di lui, meno male, sia ringraziato il Profeta, solo che il gruppetto che aveva cercato di acchiapparlo si butta all’inseguimento di Keithab, e Dragut rallenta, si volta, guarda, vede che sono più veloci, anzi, che Keithab come al solito è più lento, e allora corre verso di lui, ma che stupidaggine fa Dragut? 12

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a cosa gli serve correre verso Keithab, questo non lo farà andare più svelto, è un po’ come non arrivare primo quando lui arriva ultimo, però è il suo piccolo amico Keithab e qualcosa deve pur fare per aiutarlo, ma dove sono finiti gli altri, accidenti a loro, Keithab, Keithab, di qua! solo che gli uomini corrono più rapidi, a grandi falcate, e lo acciuffano, lo immobilizzano, bastardi che non sono altro, lasciate andare Keithab, e Dragut non pensa che sta andando dritto in bocca a loro, che infatti si sono fermati e non credono a quello che vedono, il bambino che torna indietro correndo e urlando come un pazzo, e questo davvero li spiazza, anche perché il piccolo Dragut che fa? salta, come prima sul fosso, salta a gambe raccolte, ginocchia al petto, come se fosse una palla da cannone, e piomba addosso al capannello di guardie come neanche il più esperto lottatore, solo che è piccolo, e per quanto questa sua mossa folle disorienti, per quanto finisca dritto con le ginocchia sulla faccia di uno dei giannizzeri spaccandogli il naso, se anche perfino per un attimo Keithab nel trambusto si ritrova libero e Dragut gli dice corri via, Keithab, ci vediamo all’albero cavo in cima alla collina, dopo un attimo non c’è più niente da fare, e i due bambini sono fermi, immobili, legati come salami, e per loro la libertà, e ben altro, finisce qui.

2. Ero stata comprata Sì, fu ad Alessandria che lo vidi per la prima volta. Avrò avuto diciassette anni, credo lui ne avesse quindici, ma forse mi sbaglio, tanto sulla sua età quanto sulla mia. Ero già stata comprata, certo. A rapirmi, un anno prima, o un mese, non ricordo, erano stati gli uskoci, i pirati dell’Adriatico, che in Occidente chiamano uscocchi. Bella gente, sa?! Bei modi… a stento sapevano dire il loro nome! Lei è mai stato rapito dagli uscocchi? Lo so che è lei a fare le domande, era solo per capire che genere 13

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d’uomo è. Non è importante, certo… Per gli uomini non è mai importante quello che li riguarda. Gli uomini non devono mai dimostrare niente, le loro credenziali sono sempre a posto, vanno di pari passo col grado, col cappello, con l’uniforme, o con la spada e le amicizie. Bella vita, la vostra… Lo vidi ad Alessandria, sì. C’ero finita come… Ma non ricordo, sarà stato per una burrasca. Ero su una nave commerciale di Venezia, già schiava, guardi che io non me la ricordo neanche la vita prima di essere schiava, sono come le donne circasse. Appena comprata, sì, non divago. Al mercato degli schiavi di Bayrūt. Ero stata presa dal mio paese, nell’immediato entroterra albanese. Erano arrivati, c’era stata qualche scaramuccia, avevano parlamentato col capo del villaggio, poi avevano fatto un accordo. Nella vita è così, o si combatte o ci si accorda. Gli uscocchi non avevano pietà di nessuno, neanche dei cristiani. Rapivano, depredavano, meglio se ai veneziani, ma le bandiere non gli interessavano molto. Io e una ventina di ragazze eravamo state portate via, verso il mare. Lì ci avevano imbarcate e spostate di isola in isola. Eravamo merce pregiata, volevano venderci a peso d’oro. Eravamo bellocce, bionde, ben nutrite, e andavamo anche a scuola, sapevamo leggere e scrivere, avevamo un maestro colto e saggio, un ebreo rumeno di origine tracia, Markunescu mi pare si chiamasse. Ma questo non importava molto. Contava che fossimo femmine, giovani e ancora vive. Crede che fosse importante essere più o meno istruite, all’epoca? O anche oggi… Ha avuto un peso, nella mia vita, poter leggere, poter conoscere, ma molto tempo dopo. Carne viva, bianca e giovane, all’epoca ero solo questo. E a sud impazzivano per le balcaniche bionde, ma fino a Bayrūt nessuno aveva offerto abbastanza. Quante volte sono stata stuprata fino alla terra dei mamelucchi? Non so, faccia lei, si metta a contare e si fermi quando vuole. Ero terrorizzata… Ma non mi abbattevo. Ho preso poche botte, ho imparato subito come si fa con voi uomini. Come si deve fare per tenervi buoni, intendo… Quando il mio compratore veneziano mi vide, devo dargli atto, diede prova di grande fantasia. Come 14

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potesse immaginarmi bella in quello stato… I mamelucchi che mi avevano comprato volevano avere indietro molto più denaro della spesa, e allora le donne del mercato mi avevano lavata, mi avevano dato una sistemata. Ma avevo sofferto il mare, vomitato, mangiato poco, ero piena di lividi, con i capelli rasati a zero, una veste orrenda… Non vuole questi particolari? Vuole andare al punto… Non deve essere un grande amante delle storie, lei… Strano, per un inquisitore. Ero destinata a un mercante persiano, suppongo, ma la mia sorte si rivelò bizzarra, e comunque non era indirizzata a oriente. Venni comprata e imbarcata su una nave veneziana e mentre navigavamo verso Creta una burrasca ci spinse a sud. Ad Alessandria ci riparammo, e il Rais mi vide lì. Io non me ne ricordo, a essere sincera. A bordo della galera mi avevano messa a poppa, avevo potuto appena riposare, poi quel mare agitato… avevo avuto terribili dolori al ventre. Un’altra schiava si era presa cura di me, mi aveva eletta come sua signora, figuriamoci. Anche tra gli schiavi c’è sempre qualcuno più schiavo di altri. Si chiamava Pelágia, ed era buona. È rimasta con me per molto tempo, tutto il resto della sua vita. Mi accudì, mi diede da mangiare, mi mise addosso qualche indumento decente, tra le centinaia di tessuti che il mercante veneziano aveva acquistato. Vide il ciondolo che avevo al collo, l’unico ricordo della mia famiglia, e lo lucidò con una pezza di lana. Colorò perfino le mie guance con la terra rossa, perché avevo una pelle candida da rasentare il pallore dei morti, ma liscia e perfetta, questo me lo lasci dire. La mia pelle… Non le interessa. Non lo vidi. Cioè, lo vidi, mi pare anche di ricordare qualcosa, ma davvero non molto. Ci ho provato spesso in questi anni. Me l’ha chiesto anche lui, riuscii poi a ricostruire qualcosa, perfino di avergli parlato. Io però di quei giorni di scalo ad Alessandria ricordo solo un altro giovane. Non lo conosce? Ma lei, Signore, non sa proprio niente del Rais! Si interessa alla sua storia ma non sa nulla. Strano… Noi possiamo capire solo quello che sappiamo già. Quel giovane si chiamava… 15

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