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MA GA ZINE

Trimestr ale di dicultura, cultu ra,tempo te mpo libero, spore varia t e v aria a ttualità - didi stribuzione gratuita 3 € Trimestrale libero, sport attualità - prezzo vendita al pubblico

N. 20152014 - A NNO IV V IV N.12 11--Aprile dicembre - ANNO

Io non mi sento italiano ma per fortuna o purtroppo lo sono

OBS ACT

Giorgio Gaber ( anche le Marche sono in Italia: non ce lo scordiamo )

foto tratta dal web

Indice LA GUERRA DEL ‘40 ... Che ne infonda al patire virtù - Lino Palanca Da grande voglio fare il polacco - Giancarlo Liuti Un “paisà” per l’onore dell’Italia - Malizia Janula Pioggia di lutti, nuvole di sangue- Luciana Interlenghi Otto anni: un bimbo che può dire “Io c’ero”- Mario Mancinelli Medaglia d’oro alla mamma dei soldati - Paolo Onofri Tu la chiami guerra e non sai cos’è - Luchetti Franco LA GRANDE GUERRA Repubblicano e la patria nel cuore - Massimo Morroni Cimitero di noi soldà - Cingolani Nikla Le ignorate,amorevoli,militari cure del tempo di pace - Nazzareno Pistelli

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L’A-VENA UMORISTICA L’arma del sorriso-Ennio Monachesi

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STORIE ADRIATICHE Alla corte di Mattia il Giusto - Marco Moroni

pag. 23

TOPONOMASTICA ANTICA La città vecchia piena di coronari - Aldo Angelico

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ARTE Sono ciò che dipingo - Eleonora Tiseni

pag. 27

IL GIOVANE FAVOLOSO So soltanto di non sapere - Loretta Marcon

pag. 29

LA NOSTRA TERRA Custodi del tempio - Antonio Bartolo Il Museo dell’emigrazione marchigiana di Recanati - Marco Moroni

SCUOLA IN RETE Gli uomini non sono uguali, diritti e opportunità sì Paola Acciarresi e Eleonora Stortoni RECENSIONI Dalla guerra nucleare sì, ma dai ladri no - Lino Palanca E t’amo e t’amo ed è continuo strazio - Luciana Interlenghi Con Paolo Beni il cielo era rossoblu - Antonella Roncarolo All’università del vicolo - Angelica Bufalari

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Trimestrale di cultura, tempo libero, sport e varia attualità.

Proprietà: Associazione Lo Specchio, C.so Matteotti, 34 - 62017- Porto Recanati (MC) Direttore responsabile: Lino Palanca - cell. 347.1931215; e-mail: lino.palanca@gmail.com Direttore editoriale: Vanni Semplici - cell. 331.5786518; e-mail: info@associazionelospecchio.it Collaboratori: Giorgio Corvatta - cell. 338.7648664; e-mail: giorgiocor@alice.it

Aurora Foglia - e-mail: aurorafoglia@hotmail.it

Cristina Castellani - castellanicristina@hotmail.it

Eleonora Tiseni - eleonoratiseni@hotmail.it;

Paola Acciarresi, Marta Affricani, Eleonora Stortoni, Eleonora Rossi.

Pubblicità: Vanni Semplici - cell. 331.5786518; e-mail: info@associazionelospecchio.iT Prezzo di vendita al pubblico: 3 Euro Registrazione Tribunale di Macerata Registro 599 del 5 aprile 2011 Hanno collaborato a questo numero: Lino Palanca, Vanni Semplici, Giancarlo Liuti, Janula Malizia, Luciana Interlenghi, Mario Mancinelli, Paolo Onofri, Franco Luchetti, Massimo Morroni, Nikla Cingolani, Nazzareno Pistelli, Ennio Monachesi, Marco Moroni, Aldo Angelico, Eleonora Tiseni, Loretta Marcon, Antonio Bartolo, Paola Acciarresi, Eleonora Stortoni, Antonella Roncarolo, Angelica Bufalari.

Vignetta di Giorgio Corvatta Progetto grafico a cura di Andrea Gatti .

Chiuso in redazione il 22 Aprile 2015.

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LA GUERRA DEL ‘40

di Lino Palanca

… Che ne infonda al patire virtù

Le vicende degli ebrei in fuga dall’orrore nazista hanno avuto a testimoni anche i nostri padri e nonni. Alcuni di loro li hanno aiutati a rischio della vita. Giusti tra le nazioni.

P

are che i primi ebrei in fuga dai nazisti siano giunti a Recanati da Ancona, nell’ottobre ’43; i Fiorentino, poi gli Ascoli e i Del Vecchio. Degli Ascoli, la prof. Donatella Donati ricorda un’anziana signora che teneva con sé una nipote, Silvana, iscritta al secondo Liceo di Recanati. Probabilmente si tratta di Lucia Arosio citata in un articolo su padre Clemente Benedettucci a firma di Anna Perfetti, apparso in Potentia-Archivi di Porto Recanati e dintorni, n. 27 nel 2008. È segnalata anche una Renata, Ascoli per parte di madre, ospite di cugini cattolici: aveva messo i figli in un orfanotrofio iscrivendoli con false generalità. Carlo Del Vecchio era un negoziante anconetano di tessili, sorpreso con la famiglia l’8 settembre a Recanati dove restò fino al termine della guerra. Lo ha ricordato la figlia Luciana in una intervista concessa al giornale on line della comunità ebraica di Milano nel marzo ’14 (sito mosaico-cem.it), non risparmiando lodi all’ospitalità dei recanatesi. I Del Vecchio erano padre, madre e tre figli; nei primi tempi alloggiarono in un albergo e quando arrivarono gli alleati si trasferirono a palazzo Passari. In alcuni locali della Cassa di Risparmio visse invece la famiglia De Rosa.

Tra le sue compagne, Donati ha anche memoria di una ragazza ebrea, cognome Gallupi, ospitata dalle suore dell’istituto Santo Stefano.

Da Milano, nel ’44, scesero i Servi per sfuggire ai rastrellamenti nazisti.

Sei persone: padre, madre, tre figli (Seprio, Italo; sfugge alla memoria della fonte il nome del terzo) e una figlia (Aprilia). Erano benestanti: i ragazzi parlavano bene l’inglese e tentavano di insegnarlo ai coetanei recanatesi che frequentavano. Abitavano in un alloggio, una stanza e cucina, del tutto insufficiente rispetto alla dimensione numerica della famiglia, nei pressi delle carceri, dove ora è la caserma dei Carabinieri. Li aveva chiamati quaggiù il recanatese Ermanno Osimani, che con i Servi aveva rapporti di affari. La famiglia doveva comunque essere originaria

Luciana Del Vecchio - foto mosaico-cem.it

di Pitigliano (Grosseto) dove la colonia ebrea era assai fiorente; forse parte di essa si era trasferita a Milano. In definitiva, gli ospiti ebrei si salvarono tutti e il fatto è di non piccolo merito per Recanati.

Al Porto si rifugiò per qualche tempo la famiglia dell’Ammiraglio di Divisione Aldo Ascoli, anconetano (1881-1959), allontanato dalla Marina Militare nel 1938 per via delle leggi razziali, che fu poi Comandante generale facente funzioni Documento a firma Aldo Ascoli, C.te superiore delle Capitanerie di di Marina in A.O. - foto mymilitaria.it Porto dell’Italia liberata, dal 1944 al 1945. Questi Ascoli passarono 15 giorni nascosti in una stanza dell’Albergo Arena di Porto Recanati, gestito dai De Bellis; poi, accompagnati da alcuni portolotti coraggiosi, riuscirono ad imbarcarsi su un motopeschereccio, che li portò nel sud, nell’Italia già occupata dagli Alleati. L’apposita commissione israeliana istituita sotto la direzione della Suprema Corte di quel Paese, nel 2006 ha inserito Orlando e Maria De Bellis nell’elenco dei “Giusti tra le Nazioni”. Nel novembre 2007 la signora Paola Ascoli, figlia dell’Ammiraglio, è tornata a Porto Recanati per la consegna dell’alto riconoscimento ai De Bellis.

Loreto non fu da meno di Recanati e Porto Recanati. Che la città fosse invasa dagli sfollati ci viene raccontato, oltre che dalla memoria di chi ricorda ancora quel periodo, dal diario di una famiglia di ebrei in fuga dal Friuli presidiato dai tedeschi dopo l’8 settembre. Sono i Morpurgo, Attilio, il figlio Gaddo e la moglie Maria Treves. Con loro la governante Gina Viterbo mentre l’altro figlio, Giulio, è fuggito da tempo e si trova a Roma.

Da dx a sx, Gianni De Bellis, sua moglie Angela Mantovani, Paola Ascoli - foto di Gianfranco Marcatelli

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LA GUERRA DEL ‘40

La prima fila al Kursaal, con i coniugi De Bellis, gli Ascoli, il sindaco Fabbracci, l’Ammiraglio Marcantonio Trevisani e altri - foto di Gianfranco

Gianni De Bellis riceve il riconoscimento dai familiari dell’Ammiraglio Ascoli - foto di Gianfranco Marcatelli

Marcatelli

Il racconto è stato pubblicato nel 2005 nel periodico milanese Diario del mese, anno V, n. 1, edito dalla Feltrinelli. Attilio Morpurgo è un facoltoso commerciante di Gorizia, che cerca di spingersi con i suoi il più possibile a sud, nell’Italia badogliana. Ma lo fermano a Ostra Vetere, vicino Senigallia: Gaddo è arrestato e dopo aver visitato le prigioni di Pesaro, Urbino e Forlì morirà fucilato nella città romagnola.

Ignari di ciò, e lo resteranno fino a diversi mesi dopo la fine della guerra in Italia, i Morpurgo sono internati nel campo di concentramento di Senigallia dal quale sono trasferiti a Osimo dopo essere stati raggiunti dai loro cugini Foà. Siamo a metà giugno, si vivono i giorni duri della battaglia per la liberazione di Ancona. Il 16 luglio, i soggiornanti feriti sono trasferiti negli ospedali di Loreto e Recanati per essere curati.

Anche Attilio Morpurgo è tra costoro, le sue ferite sono lievi. Il 17 luglio si parte per Loreto, a piedi: “Nonostante la ferita alla gamba mi accingo con tutta la forza di volontà a fare a piedi 7 chilometri per arrivare sino al Musone, nella speranza di trovare poi un mezzo per arrivare a Loreto … causa il ponte rotto dobbiamo passare il fiume a guado. Io non posso farlo con la mia ferita e per fortuna si trova un giovanotto che si presta a portare la gente sulle spalle e in braccio per attraversare il fiume”.

Il 19 luglio, dopo aver cercato un carro con un cavallo per poter raggiungere Loreto, ci arrivano finalmente, verso mezzogiorno: “Loreto è piena di sfollati, non c’è posto da dormire. Dopo aver girato molto in cerca di stanze e dopo aver fatto tre ore di anticamera dal Sindaco otteniamo una raccomandazione per andare a dormire nella S. Casa dove sono alloggiati gli sfollati, e ci danno due stanze senza finestre.

Io sono contento anche se devo continuare a dormire senza lenzuoli...

Le camere sono ben 35 gradini sotto terra. Dalle finestre però si vede il mare. Per mangiare andiamo alla mensa degli sfollati, io per pranzo prendo un po’ di pomodoro crudo e la sera latte”.

La sosta a Loreto è parecchio lunga. Il 10 agosto i Morpurgo sono ancora lì e Gina incontra in piazza della Madonna l’ingegnere triestino Clemente Kerbes, capo della comunità ebraica di Trieste, che Attilio conosce bene. È lui che aiuta la famiglia goriziana; ci fornisce, scrive Attilio, … giornalmente un litro di latte mentre e un altro litro si prende presso un negozio pagando £ 8 invece di £ 5 che è il calmiere. In uno dei loro incontri con l’ingegnere, Kerbes rivela che i suoi parenti … si trovano a Porto Recanati, hanno parlato con un ufficiale il quale promise di venirli a prendere e portarli, prima a Ancona e poi a Bari.

Il 22 agosto, complice certamente il caldo, le lamentazioni di Morpurgo sono davvero forti: “Delizie della vita in comune benché camere separate (per modo di dire). Si è tormentati dalle pulci in modo tale che mi si 6

formano delle placche su tutto il corpo. Comincio ad essere preoccupato e di più sono arci che stufo di vedere solamente frati preti monache e cristi enormi e dico ‘qui non si può nemmeno morire, qui si crepa’ e poi l’umiliazione di andare a prendere la sbobba, come diceva la cara Gina per mia moglie. Quando si potrà riunirci in città nostra”.

Un passetto, l’impaziente Attilio lo farà pochi giorni dopo, il 12 settembre, quando finalmente si imbarcherà su un pullman che lo porterà a Senigallia.

LA GUERRA DEL ‘40

Da grande voglio fare il polacco di Giancarlo Liuti

“I bambini giocano alla guerra. / È raro che giochino alla pace / perché gli adulti / da sempre fanno la guerra.”

(Berthold Brecht, Poesie)

F

orse dovrei stupirmene o forse no, perché immagino che tanti bambini, come allora ero io, avevano i miei stessi sentimenti – ma per me gli ultimi anni della guerra mondiale, i più crudeli, furono anni felici. Avevo appena ultimato le scuole elementari e coi miei genitori lasciammo Macerata – di notte, su un traballante furgone carico di noi e di valigie – e da sfollati ci recammo a Montecarotto, un paese della Vallesina. Era l’inizio del 1943 e lì restammo fino al 1946. In precedenza ero sempre vissuto in città, prima Jesi e Macerata, poi La Spezia e Livorno, dove mio padre, militare di marina, faceva l’istruttore all’Accademia Navale. La guerra? Oltre al fatto che in famiglia s’era per tanto tempo creduto nell’immancabilità della vittoria finale. Non era questa la martellante retorica del regime? – a me la guerra sembrava un gioco come quello che facevo coi soldatini di piombo. Sul lungomare di Livorno erano allineati cannoni finti, fatti di legno e mimetizzati. “Servono per ingannare i nemici”, mi diceva papà.

Ma per me erano la conferma del gioco.

Molto cambiò con lo sfollamento, specie per i miei genitori che cominciarono a sentire l’agguato di una guerra sempre più vicina, Ancona bombardata, Macerata bombardata, Senigallia bombardata, il rombo, nel cielo, delle “fortezze volanti”, una mitragliatrice tedesca piazzata sul tetto di casa, mancanza di denaro, mancanza di cibo. Li vedevo disperarsi, i miei genitori, ascoltavo, la sera, le loro preghiere, mamma piangeva. E molto cambiò pure per me, ma di segno diverso. A Montecarotto scoprii infatti la straordinaria bellezza di un altro mondo, gli alberi, i filari di viti, il grano, gli uccelli, le lepri, le oche, i pagliai con la croce, le feste per la battitura del grano. I contadini mi facevano salire sui barrocci dipinti di rosso e mentre spronavano i buoi mi spiegavano le stagioni, le fioriture, le semine, la fatica della terra, la vita degli animali.

La mattina mi svegliavo presto e correvo nei campi a caccia di nidi. Un mondo per me sconosciuto, un mondo che mi riempiva di un’infinita e gioiosa curiosità. E la guerra? Certo, la guerra. Ma continuavo a crederla un gioco, come nelle favole che finiscono “e tutti vissero felici e contenti”.

Vennero i tedeschi, coi carri armati e coi camion. I soldati, lì sopra, mi mostravano le foto dei loro figlioli lasciati in Germania. E mi sorridevano, quasi per dirmi guàrdali, ti somigliano. Poi vennero gli “alleati”, coi carri armati e coi camion. I soldati, lì sopra, mi mostravano le foto dei loro

Battaglia di Montecarotto - Il partigiano Domenico Troilo con ufficiali inglesi - foto WIKIPEDIA

figlioli lasciati in Inghilterra, in America o chissà dove. E mi sorridevano, quasi per dirmi guàrdali, ti somigliano. Ah, il gioco, per me, della guerra!

Pericoli? Tanti. Mia madre, che per campare s’era dovuta vendere gli ultimi resti del corredo nuziale, non cessava di mettermi in guardia. Sta attento a ciò che trovi per terra, ci sono le mine, molti bambini ci hanno perso le mani, gli occhi, la vita. Ed io? Per carità, magari trovarla, una mina! Ricordo che quando ci capitava, a me e ai miei amichetti, di scovare in un anfratto il bossolo di un grosso proiettile pieno di lunghi spaghetti di polvere da sparo, li tiravamo fuori, sui prati e, dopo avergli dato fuoco, ci divertivamo nel vederli scoppiettare e saltare qua e là come burattini impazziti. Un contadino ci disse che in fondo a un dirupo c’era un aereo abbattuto e lì andammo in cerca di qualche “orologio” che speravamo caduto dal cruscotto. E il pilota? Morto, ci disse:“L’abbiamo sepolto noi, c’è venuto pure il prete. La morte? Ma cos’era, la morte, per noi bambini?

Ci furono settimane che ogni giorno i tedeschi, ancora di stanza poco più a nord, a Serra dei Conti, sparavano cannonate verso Poggio San Marcello, poco più a sud, dove si mormorava che una certa casa ospitava partigiani.

Le cannonate, fischiando, passavano alte nel cielo di Montecarotto, che stava nel mezzo. “Vieni subito dentro! ”, gridava mamma. Neanche per sogno! Io seguivo quel fischio e poi, dalla nuvoletta dello scoppio finale, controllavo se era stato fatto centro. “Più a destra, più a sinistra, più avanti, più dietro!”, mi dicevo. E se la casa veniva colpita, battevo le mani. Sempre un gioco, per me, il gioco della guerra! Qualche volta, a chiedere un po’ di latte, mamma si recava in un vicino accampamento di polacchi tenendo per mano me e in braccio il mio fratellino Claudio per evitare che quei soldati avessero brutte intenzioni. Che belle passeggiate!

Quegli elmetti, quelle divise, quei mitra! E mi dispiaceva tornare a casa.

“Mamma”, dicevo, “io da grande voglio fare il polacco!”.

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LA GUERRA DEL ‘40 Un giorno una mia amichetta, figlia di un mezzadro, m’insegnò una canzoncina: “Sona mezzogiorno a più rintocchi, i pòri contadi’ giù per i campi, i pòrci dei signó che magna i polli”. Quant’era buffa! A casa la cantai anch’io, per divertire i miei genitori. Altro che divertirsi, loro ne furono impauriti! Ma che potevo saperne, io, delle lotte di classe? Non era un gioco, anche quella canzone? Non era come “Ambarabà ciccicoccò tre civette sul comò che facevano l’amore con la figlia del dottore” che a scuola ci faceva cantare in coro la maestra? Papà mi rimproverò: “Dimènticala, è una bestemmia!”. Allora la cantavo da solo, saltando fra i fossi e le siepi. E l’accompagnavo coi gesti cadenzati delle mani, come un piccolo direttore d’orchestra. E se per caso incontravo un contadino, lui diventava serio e silenziosamente mi faceva segno di sì con un dito. Non era un gioco per stare allegri? Non lo era, ma che spasso, per me!

Qualcosa, forse, cominciai a capire a guerra finita, quando un giorno, ero già grandicello, fui portato a Jesi e vidi gente impazzita di gioia e nella piazza centrale gli altoparlanti trasmettevano a tutto volume una musica dolce e potente che mi entrò nel cuore. “E’ l’intermezzo di un’opera di Mascagni”, mi disse papà, pure lui, finalmente, felice. E lo ero anch’io, forse in un modo diverso, ma felice lo ero stato anche prima, nel gioco della guerra.

Nell’animo dei bambini credo che non vi sia spazio per la dimensione del tragico. Quella viene dopo, quando i bambini sono cresciuti. Fosse per i bambini, immagino che le guerre ci sarebbero, sì, ma solo quelle coi soldatini di piombo. Ho riflettuto sulle foto che mostrano file di ebrei fatti salire sui treni merci per il campo di sterminio di Auschwitz.

L’espressione degli adulti – uomini e donne – è cupa, sgomenta, segnata dal presagio di un’orribile fine. Quella di alcuni bambini, invece, è più serena, talvolta sfiorata finanche da un sorriso. I treni, sì.

Un’avventura, per loro, un viaggio verso una meta di fiaba? Me lo chiedo, quasi sbigottito. “La bellezza salverà il mondo”, scrisse Dostoevskij. Ebbene, lasciatemi pensare, follemente, che il mondo potrebbero salvarlo i bambini.

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Bambini nella bufera della guerra - foto hfcsd.org

LA GUERRA DEL ‘40

di Janula Malizia

Un “paisà” per l’onore dell’Italia

Abbiamo conosciuto personalmente Ferruccio Giglio, ma solo oggi sappiamo che è stato tra i protagonisti di una delle pagine più importanti della storia moderna. Senza gridarlo dall’altoparlante, come accade agli uomini veri.

N

ell’agosto del 1943 le truppe di Hitler imperversavano in Europa e Mussolini era suo alleato, quando venne finalmente deciso che le forze alleate di Regno Unito, Stati Uniti e Canada sarebbero sbarcate in Normandia. Con una studiata opera di depistaggio, si fece credere ai nazisti che il luogo prescelto fosse invece Calais. Si trattò di pianificare una delle più grandi operazioni militari mai tentate che sarebbe stata il punto di svolta della Seconda guerra mondiale. Pagando un tributo altissimo in termini di vite umane, le forze alleate approdarono sulle coste europee il 6 giugno 1944 e, unendosi più tardi a quelle sbarcate a Marsiglia, avrebbero dato inizio ad una inarrestabile marcia che si sarebbe conclusa soltanto parecchi mesi dopo a Berlino con la resa della Germania nazista. Intanto il 3 settembre del 1943 venne siglato segretamente l’armistizio con il quale il Regno d’Italia si impegnava a cessare le ostilità contro le Forze Alleate. Si trattò di una vera e propria resa senza condizioni che venne comunicata al Paese l’8 settembre da Cadorna attraverso i microfoni dell’EIAR. Senza ordini le truppe dell’esercito italiano si trovarono allo sbando e molti soldati italiani finirono nelle mani dei tedeschi, che si erano trasformati da alleati a nemici nel giro di poche ore, per poi finire nei campi di prigionia in Germania. Tra i superstiti ci fu chi riuscì a tornare a casa, chi entrò a far parte dei gruppi partigiani contribuendo a ridare dignità a un Paese che l’aveva perduta e ci fu anche chi rimase fedele ai nazisti aderendo alla Repubblica di Salò. Il nostro era un paese sconfitto che aveva ancora davanti a se lunghi mesi di scontri, lutti e sofferenze.

Ma nessuno poteva immaginare che durante l’operazione “Overload”, a sbarcare in Normandia all’alba del 6 giugno 1944 con il corpo anglocanadese insieme alle truppe Statunitensi, sulle spiagge sabbiose di Courselles su Mer a 25 km a sud di Caen, ci fosse anche un caporale di nazionalità italiana di 30 anni.

Il fatto venne reso noto soltanto tanti anni dopo e la causa scatenante fu un articolo uscito a firma di Gianni Riotta sul Corriere della Sera (Nel ’44 in Normandia c’era anche Ferruccio) in occasione del 50° anniversario dallo sbarco in Normandia. Riotta vi sosteneva che nessun italiano avesse partecipato a tale impresa. Un signore di Perugia lesse quell’articolo e inviò un lungo fax a Riotta per smentirlo. Stefano Giglio scrisse a Riotta

Le foto sono di Ferruccio Giglio ottenute grazie ai figli Stefano e Richard e già pubblicate in Cronache Maceratesi, 6 Giugno 2014. Un grazie al direttore Matteo Zallocco.

che si sbagliava, c’era un italiano con le forze alleate che il sei giugno del 1944 passarono il mare per invadere la Fortezza Europa e quell’italiano era suo padre Ferruccio e a riprova di ciò fornì la carta d’imbarco firmata dal generale Eisenhower in persona. Toccò terra il primo giorno nei ranghi del Genio Militare della Divisione anglo canadese e nella zona di operazioni la mortalità raggiunse in quel giorno l’80 per cento per cui salvarsi era stato un miracolo. Probabilmente lo aiutò la lucidità che riuscì sempre a mantenere, sin dalla lunga notte in mare prima dello sbarco, durante la quale non bevve a differenza di molti altri neanche un goccio d’alcool.

Il padre giornalista antifascista, fu costretto ad abbandonare l’Italia insieme a tutta la sua famiglia perché perseguitato del regime di Mussolini. Ferruccio era nato a Palermo nel 1914 dove lavorava il padre e seguì gli stessi destini paterni trasferendosi con tutta la famiglia prima a Roma, poi a Nizza e a Parigi. Girando di città in città spostandosi all’avanzare dell’occupazione nazista in Europa, finì per laurearsi e sposarsi a Bruxelles con Matilde, una ragazza originaria di Macerata conosciuta a Roma in un momento di quiete, dopodiché con l’invasione del Belgio da parte delle truppe naziste, tutta la famiglia Giglio si trasferì a Londra. Il 25 dicembre 1940 si arruolò nell’esercito britannico e fu inquadrato nel contingente pionieri per poi passare più tardi al Genio. Il periodo cruciale della guerra arrivò sul finire del 1943 quando i soldati ricevettero l’ordine di stare in continua all’erta finché arrivò il momento di partire per questa impresa epica, lasciando a Londra la moglie e i tre figli piccoli.

Ferruccio si imbarcò sui mezzi di una forza d’urto impressionante messa insieme dagli alleati: divisioni di fanteria e divisioni corazzate, truppe di paracadutisti, incrociatori, cacciatorpediniere, navi e vascelli, aerei da caccia e da combattimento, carri armati. Una forza di quasi tre milioni di uomini per lo sbarco e le successive battaglie, al comando del generale Eisenhower, che in seguito diventerà Presidente degli Stati Uniti.

Dopo la guerra si trasferì definitivamente a Macerata, città natale di sua moglie Matilde, dove rimase a insegnare inglese tutta la vita dato che la sua laurea in architettura non gli venne riconosciuta, e lì morì nel 1994.

Ferruccio non aveva mai ucciso nessuno, era un architetto del Genio militare, ma aveva visto nella sua lunga marcia nel cuore dell’Europa tutti gli orrori della guerra. E’ stato un uomo riservato che non amava la retorica e neanche la guerra e che decise quel giorno del 6° giugno 1944 di esserci in quel punto importante della Storia di liberazione dall’oppressione nazista e di rappresentare, da solo e senza fanfare, la vecchia Italia.

Una fase dello sbarco in Normandia

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LA GUERRA DEL ‘40

di Interlenghi Luciana

Pioggia di lutti, nuvole di sangue

Due immagini di guerra a illustrazione del “durante” e del “dopo” uno dei bombardamenti subiti da Porto Recanati tra il ’43 e il ’44, sia dagli alleati anglo-americani invasori che dai tedeschi in ritirata. L’aereo non porta segni di riconoscimento della sua appartenenza ai primi o ai secondi. La morte, la gelida Thanatos, non esibisce distintivi, non agita bandiere: non guarda né davanti né dietro e nemmeno si degna di dirci chi la manda.

Bombardamento di Porto Recanati

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LA GUERRA DEL ‘40

Casa diroccata

I due disegni illustrano un racconto di Novella Torregiani “Angeli nella bufera”, pubblicato nel quaderno del Moica Marche, nel 2003.

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LA GUERRA DEL ‘40

Otto anni: un bimbo che può dire “Io c’ero” di Mario Mancinelli

Giugno/Luglio 1944. Venti di guerra sulle verdi colline di Montarice: la guerra passa, il tempo pure. I ricordi, invece, restano tutti.

E

ra una limpida mattina di fine giugno del ‘44. Mio papà, appena alzato, guardò dalla finestra della camera e vide che dalla collina di Montarice scendeva giù verso la nostra casa un plotone di soldati tedeschi. Stavano andando verso il fiume Potenza e si fermarono per una sosta attorno alla nostra abitazione. Erano talmente stanchi che si erano letteralmente sdraiati in terra. Un graduato si avvicinò a mio padre e gli chiese degli attrezzi agricoli: zappe, vanghe e pale. Servivano per scavare delle trincee a ridosso del fiume. Il grosso dell’esercito tedesco, rotta dagli alleati la leggera linea di difesa sul Chienti, si era allontanato verso il nord. Le retrovie, disciplinate ed in perfetto assetto di guerra, obbedivano ai loro rispettivi ufficiali. Questi, quando notavano anche la pur minima possibilità di resistere, non esitavano ad approntare ulteriori linee di difesa. “Fronte - acqua”, gridavano in tedesco. Mio padre, che masticava un po’ della lingua teutonica per gli anni di prigionia vissuti nel corso della prima guerra mondiale, diede subito quanto chiedevano.

I soldati si misero subito al lavoro scavando grosse buche dove piazzarono mitragliatrici leggere. Gli ufficiali tedeschi intanto con i binocoli guardavano in direzione delle colline attorno a Potenza Picena.

Avevano fatto della nostra casa il posto di comando. Le staffette tedesche andavano e venivano con le biciclette, portando gli ordini impartiti dagli

Carro tedesco distrutto dai carri del 6° rgt corazzato polacco

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ufficiali ai soldati che stavano lavorando sul greto del fiume. Qualsiasi linea di difesa non avrebbe retto all’urto dell’esercito anglo americano che, conquistata Potenza Picena, si apprestava a sferragliare con carri armati ed autoblindo in direzione di Montarice. Gli ufficiali tedeschi, che comandavano il plotone, speravano nell’arrivo di alcuni cannoni che sarebbero giunti da Ancona, per questo avevano ordinato ai propri soldati di preparare buche, camminamenti e piazzole dove avrebbero collocato l’artiglieria pesante. Tutta la mattinata trascorse senza grandi novità. Se fossero giunti i cannoni dalla città dorica, la mia famiglia si sarebbe trovata tra due fuochi, quello tedesco e l’altro anglo americano.

Verso l’ora di pranzo arrivò un soldato tedesco con un piccolo cavallo che trainava un carretto. Portava il rancio della truppa sistemata sotto l’ombra di un grande olmo. Comparvero dei barattoli che vennero distribuiti a tutti i soldati, ufficiali compresi. Contenevano dei cavoli cotti; poi sul pane nero spalmarono un po’ di burro e mangiarono avidamente il tutto. Il grande esercito tedesco, portato a modello nei primi anni di guerra per il dispiegamento di enormi mezzi e risorse, era ridotto quasi alla fame. Dal carretto, alcuni soldati tirarono giù una marmitta che conteneva del caffè. Mentre la truppa beveva qualcosa di caldo, le anatre e le oche, che erano vicine, misero il becco nella marmitta ed iniziarono a starnazzare contente. I soldati tedeschi, con i propri ufficiali, non poterono trattenersi dal fare grandi risate che contribuirono non poco ad allentare ed il momento non certo dei migliori.

Il timore comunque non era affatto passato perché, se i Tedeschi avessero resistito sul fiume, come era nell’intenzione di alcuni loro ufficiali, noi ci saremmo trovati in mezzo a due fuochi, da un lato gli anglo americani, dall’altro il plotone dei soldati del Terzo Reich.

LA GUERRA DEL ‘40 Non successe nulla di ciò che temevamo. I Tedeschi, dal momento che i cannoni non arrivavano, decisero di sloggiare nel corso della notte. Al mattino del giorno successivo infatti, l’aia davanti a casa era del tutto sgombra. Quello che temevamo di più era che nella loro ritirata, anche per auto approvvigionarsi, erano soliti portar via di tutto, compiendo delle vere e proprie razzie. Prendevano cavalli, mucche, che potevano essere loro utili per trainare carri o altro materiale bellico. Abbrancavano polli, anatre, galline, pecore, maiali, vitellini, insomma tutto quello che era a portata di mano: lonze, salami, prosciutti. Era una battaglia per combattere la fame. Sottraevano dalle case anche oro, biancheria e quadri, quando entravano in quelle abitazioni dove regnava una certa agiatezza. Si sa che in tempi di guerra tutto era lecito. C’era anche in molti tedeschi in ritirata una non malcelata rabbia contro l’italiano in genere che vedevano come traditore.

Via i Tedeschi dalle colline di Montarice, i contadini ripresero il lavoro nei campi. Il grano, giunto a maturazione, chiedeva di essere mietuto.

Per i campi c’era poi un via vai dei nuovi arrivati: Americani, Inglesi, Polacchi, Neo Zelandesi. Carri armati, jeep, autoblindo, cannoni trainati da potenti trattori sferragliavano per la campagna. All’arrivo dell’esercito alleato, noi bambini facevamo salti di gioia. I soldati distribuivano a piene mani cioccolato, caramelle e Chewing Gum, chiamata nel nostro dialetto “ciccingomma”, la gomma da masticare, dal sapore dolciastro.

Gli alleati scesero da Potenza Picena e piazzarono una decina di cannoni su una sponda del fiume ed un’altra decina sull’altra sponda. Durante il giorno sparavano in direzione della selva di Castelfidardo. Il grosso

dell’esercito era vicino alla Strada Regina, con carri armati, tende, camion (i famosi Dodge e motociclette). Qui c’erano il comando inglese ed americano. Dopo una settimana, grossi camion caricarono i cannoni e sul posto rimasero solo i carri armati che stazionavano tra la Strada Regina ed il fiume Potenza. Tutte le mattine, quattro, cinque carri armati attraversavano il fiume ed andavano verso Scossici. All’improvviso compariva un aereo che teneva agganciato un grosso pallone legato con un lungo filo alla pancia dei velivolo. I carri armati si esercitavano a sparare colpi all’indirizzo del pallone. Erano solo esercitazioni che non procuravano nessun danno, tanto diverse da quelle che invece avevamo imparato a conoscere negli anni precedenti.

Dal cielo, stormi di aerei scaricavano a terra grappoli di bombe che andavano a colpire i ponti della strada nazionale o quello della ferrovia sul fiume Potenza. I proiettili cadevano anche tutto attorno alla nostra casa. Delle volte arrivavano dal mare. I bombardamenti operati dalle navi militari verso la costa avvenivano sempre di notte. Si sentiva il sibilo sopra le nostre teste, si balzava allora dal letto si ci si rintanava nei rifugi pieni anche di sfollati che si erano allontanati da altre città che per obiettivi militari o perché punti strategici erano il bersaglio di ripetuti bombardamenti. Nei rifugi pieni di sfollati, di tremava dal freddo e si piangeva per la paura. Finalmente, un giorno imprecisato di inizio luglio, tutto questo finì. La guerra aveva fatto tanti danni e mietuto tante vittime, ma il desiderio di buttare alle spalle un così fosco passato era più forte di ogni paura. Rinasceva la vita e la voglia di ricominciare.

Fine giugno ‘44 - carro armato Shermann della 2° bgt corazzata polacca Foto dal libro “Il corpo d’armata polacco nelle Marche ’44-’46”, pp. 15 e 35 – Mostra fotografica palazzo municipale Civitanova Marche, luglio 2005

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LA GUERRA DEL ‘40

Medaglia d’oro alla mamma dei soldati di Paolo Onofri

Vittoria Germondari Giampaoli di Porto Potenza Picena, esempio di un eroismo delle “piccole cose”, figlio della spontanea generosità popolare.

I

l giorno 30 aprile 2014 durante la presentazione del libro “Albo d’oro dei decorati al valor militare della Provincia di Macerata”, curato da Mario Barbera Borroni di Potenza Picena, presso la Sala “Antonio Carestia” della Giunta Comunale nel Palazzo Municipale, tra i tanti decorati della nostra città è stata anche ricordata la sig.ra Vittoria Germondari Giampaoli, medaglia d’oro di 1ª classe assegnata dalla Croce Rossa Italiana, per tutti la “mamma dei soldati”.

Alla presentazione del libro era presente il nipote Graziano Offidani, figlio di Giulia Giampaoli e di Agostino Offidani. E’ stata l’occasione per Graziano Offidani ed anche per il curatore del libro Mario Barbera Borroni di far presente al sindaco di Potenza Picena Sergio Paolucci e a tutti gli intervenuti che alla sig.ra Vittoria Germondari Giampaoli non era stata fino ad oggi intitolata una via o una piazza per ricordare il suo impegno a favore dei soldati italiani durante la seconda guerra mondiale che transitavano nei treni ospedale dalla stazione di Porto Potenza Picena. Ma chi era Vittoria Germondari Giampaoli e che cosa effettivamente aveva fatto per meritarsi la medaglia d’oro da parte della Croce Rossa Italiana? Vittoria Germondari era nata a Potenza Picena, al Porto, il 28/1/1878, da Pietro pescatore e da Giulia Marconi filatrice in Via della Marina N°522. Le famiglie Germondari e Marconi erano tra le più antiche di Porto Potenza Picena e Vittoria era la settima di 8 figli. Gli altri fratelli e sorelle erano: Giuseppe, Elisa, Orsola, Teodolinda, Amelia, Orazio e Ottavio.

Il giorno 6/4/1902 Vittoria sposa Girio Giampaoli, campagnolo poi impiegato presso le Ferrovie dello Stato. Dal loro matrimonio nasceranno Arturo il 5/12/1902, pescatore (“l’Ascaro”) poi sposato con Maria Marabini, Giulia il 2/10/1906, poi sposata con Agostino Offidani, postino, Duilio il 9/12/1904 nato in Ancona, pescatore poi ceramista, sposato con la sig.ra Simonetti Teresa, Moretta nata il 2/5/1914 sposata con il soldato polacco Leopoldo Kwaswk e Nella nata nel 1909 e sposata con Giuseppe Ciarrocchi prima poi con Quadrio Braccialarghe. Durante la seconda guerra mondiale, nel periodo 1940-1945, Vittoria assisteva i feriti ed i malati trasportati dai treni ospedale che transitavano nella stazione ferroviaria di Porto Potenza Picena, in maniera del tutto

Consegna della medaglia-Foto di Flavio Ciarrocchi

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spontanea e generosa, portando a tutti un saluto materno e consegnando loro un cestino ricolmo di paste, dolciumi, sigarette, cancelleria che si procurava in quotidiane peregrinazioni unitamente ad altre giovanette volenterose nelle campagne potentine. Per questo motivo il giorno 11 maggio del 1964, cioè 50 anni fa, la Croce Rossa Italiana gli ha conferito il diploma Attestato della Croce Rossa Italiana di benemerenza con medaglia d’oro di 1ª classe, medaglia che gli è stata appuntata al petto dalla nobildonna Buglione di Monale, consorte del Prefetto di Macerata e Presidente della Croce Rossa Italiana della Provincia. La lettura delle motivazioni è avvenuta da parte del comm. Azzolino Clementoni, che aveva promosso la concessione dell’onorificenza in qualità di Presidente della Pro Loco di Porto Potenza Picena. Vittoria Germondari Giampaoli è morta il giorno 6/7/1971 a Porto Potenza Picena, all’età di 93 anni, circondata dall’affetto dei suoi familiari. Grazie allo straordinario lavoro di ricerca storica di Mario Barbera Borroni, il nome e le gesta di Vittoria Germondari Giampaoli continuano a rivivere, ma a questo punto sarebbe anche necessario dedicargli qualche cosa. Certo andrebbe bene sia una via o una Piazza, come propongono il nipote Graziano Offidani e Mario Barbera Borroni, ma nel caso specifico di Vittoria Germondari Giampaoli, perché non valutare l’eventualità di intitolare a questa straordinaria donna, la “mamma dei soldati”, almeno la sede o la sezione della locale Croce Rossa Italiana? Rivolgiamo in tale senso un appello anche ai dirigenti della Croce Rossa Italiana di Potenza Picena affinché il nome di Vittoria Germondari Giampaoli possa essere legato per sempre a questa istituzione, la stessa che nel 1964 gli ha conferito la medaglia d’oro. Noi lo sosteniamo con convinzione.

Vittoria con il marito Girio- Foto di F.Ciarrocchi

LA GUERRA DEL ‘40

Tu la chiami guerra, e non sai che cos’è di Franco Luchetti

Gli occhi dei bambini sono spietati. Registrano le scene della vita e le proiettano con lucida innocenza. Ci fanno vedere così anche il film della disperazione e delle paure che la guerra gira e rigira giocando con la vita degli uomini.

Il fronte passa a Castelfidardo e il suo passo è di morte.

C

erto che se ti capita addosso una guerra a 4-5 anni…, c …! non è da tutti! (chiedo scusa per il tutti!)

I miei ricordi sono disseminati lungo il sentiero dell’infinito… per quanti sono. E l’infinito diventa sempre più infinito ogni volta che si pensa di aver finito di ricordare. Ricordi di cose brutte, tanti. Però anche di belli e bellissimi; eppure parlo di guerra! C’è, per esempio quello tenerissimo di due soldati polacchi, giovanissimi, al seguito delle truppe alleate. Stanislao e Pietro che mi facevano guidare il “carrarmato”! E mi facevano anche sparare con la mitragliatrice e mi portavano con loro a pescare giù al “Musciò”. Si lanciavano un paio di bombette a mano ed i pesci, pronti, venivano a galla. Pronti! Quanto funzionavano le bombette e quanti pesci c’erano in quel piccolo fiume dall’acqua cristallina! Ed ecco arrivare il brutto ricordo. Uno dei due giovani polacchi morì dopo poco. Pietro!

Ricordo che aspettando il passaggio del fronte, con la ritirata dei tedeschi che non godevano di buona fama, nonno Nannì si era premurato di murare, nel sottoscala, le poche cose che avevamo care. Due prosciutti!

Ed altri brutti ricordi si rincorrono sul sentiero affollato. Avevo solo 5 anni. Non potendo mai dimenticare, ne rivivo alcuni.

Arrivarono i giorni della ritirata nazista. La colonna di disperati che scappavano, in quei giorni caldissimi di luglio ’44, che si trascinavano distrutti su per la “nostra” strada bianca (su per da Luchetta) verso Castello. Ragazzi che avevano la disperazione negli occhi e che, a loro

volta, trascinavano dietro altri ragazzi disperati, fatti prigionieri, legati a carri trainati da cavalloni scheletriti. Ed altri ricordi ancora. Come quello di aver visto quel tedesco che, colpito da una fucilata di un polacco che sparava proprio davanti ai miei occhi, lassù in cima alla nostra strada, esplose come una bomba imbottita di tritolo. Ma anche la grande paura che avevo quando correvamo verso il rifugio di Bacucco, curvi in mezzo al grano alto da mietere, con le raffiche di mitraglia che sentivamo sopra le nostre teste. Ma anche quando tra pianti, imprecazioni e suppliche ai Santi più famosi, si stava ammucchiati e rannicchiati in quelle buche scavate nei greppi “su per la cupa” con le pagnotte di pane duro sulla testa per ripararci dalle schegge delle granate che esplodevano attorno e c’era anche mio fratello Mauro nato da poco. Ma anche la paura che avevamo tutti quando la colonna dei disperati, in ritirata, si fermava davanti alla nostra casa per nascondersi sotto gli “americani” (alberi spontanei che crescevano lungo la strada) per sfuggire ai caccia alleati che li mitragliavano.

Eppoi la scena più straziante. Quella di quei tre ragazzi carbonizzati all’ interno del carrarmato Sherman colpito dai tedeschi in ritirata, rovesciato in un fosso giù da Brandò , proprio davanti casa “dei Sgarò”.

E la panoramica dall’alto che ci mostrava, noi sfollati a Ricciola su dal Contadì, le varie fasi del cannoneggiamento che gli alleati stavano facendo sulla ritirata tedesca. Come al cinema. Uno scenario “bellissimo” con tutte quelle nuvole di fumo che si alzavano dalle parti di casa nostro.

Ricordo che, ad un certo punto, una nuvola avvolse completamente la nostra casa e gridammo in coro: “Addio!”. Diradatosi il fumo, riapparve la casa ancora intera. La cannonata, ce ne rendemmo conto solo al nostro ritorno, aveva fatto strage di conigli, cadendo sul loro “gabbione” che si trovava a 6-7 metri da casa. Mangiammo conigli per un mese.

La guerra a Casteldidardo da Pillole di storia fidardense

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LA GRANDE GUERRA

Repubblicano e la Patria nel cuore di Massimo Morroni - foto dell’autore del diario

Se l’Italia fa appello ai Suoi figli, non si discute: si ubbidisce anche se il prezzo sarà il macabro canto di morte delle Parche su milioni di giovani vite e quello senza fine dei padri, dei figli e delle spose.

T

ra i numerosi diari di trincea che si vengono riscoprendo in occasione del centenario della prima guerra mondiale, lo scritto di Enrico Costantini si presenta come uno dei più completi da diversi punti di vista. Si tratta di una narrazione sincera, realistica, quasi quotidiana, che Costantini appuntò per circa quattro anni, registrando sia le azioni alle quali partecipava, sia i suoi stati d’animo di fronte ai casi cruenti che gli si presentavano davanti. Il tono non è mai esaltato, ma conserva quasi la stessa pacatezza in presenza di vicende anche molto diverse. La lettura ne risulta agevole e la partecipazione del lettore ne esce completa. Inoltre scattò diverse foto con la sua macchinetta, puntualmente stampate nell’edizione del diario recentemente curata dal sottoscritto, sotto il titolo “Su tre fronti”.

Enrico Costantini, primo di sette figli, nacque ad Osimo il 5 luglio 1893 in una casa tra Via Guazzatore e Via Bernini. Fu adottato dallo zio Antonio, proprietario dell’albergo La Fenice al Corso e, da contadino povero, si trovò ad essere un piccolo borghese, viziato dai nuovi genitori.

Frequentò la Scuola Tecnica, che poi diventerà Istituto Corridoni. Crebbe vivace, sicuro di sé e anche un poco spavaldo. L’esperienza della guerra lo segnerà a tal punto che si allontanerà dalla Chiesa e cambierà totalmente la sua concezione di vita. Era partito pieno di speranza, orgoglioso di servire la patria, convinto di dare un senso sublime alla propria esistenza; ritornerà sconfitto e amareggiato e con una visione negativa del mondo. Il giorno che terminò il grande conflitto, Costantini annotò che la guerra è inutile e che il sangue che costa è sproporzionato allo scopo da raggiungere. Per lui l’impegno in guerra fu gravoso e si deprimeva quando si accorgeva

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che la gente non lo capiva. Di fronte agli imboscati scriveva: “Quel­lo che demoralizza noi combattenti è il vedere l’enorme numero di giovani imboscati nei paesi e nelle città. E’ vergognoso!”. Costantini, di fede repubblicana sempre avuta, aveva risposto alla Patria che lo aveva chiamato: “La guerra! Come figlio di questo popolo, non debbo tirarmi in­dietro. La Patria fa appello ai suoi figli: è bene? è male?

Non si discute. Si ubbidisce. Sono pronto. L’Italia avanti tutto. Qui sono nato. Parlo la sua lingua.

Qui sono i miei morti. Qui vivono i miei cari.

Sono stato educato a questo dovere. Non sarò mai un traditore”.

Costantini partì con il Reggimento 81° Fanteria da Roma il 14 maggio 1915 con destinazione ignota. Arrivò, dopo varie tappe, sulle Dolomiti nel Cadore a fine maggio, dove passò il confine con l’Austria, senza incontrare resistenza.

All’inizio di giugno, nelle gole del Monte Nuvolau udì le prime cannonate. La prima azione tese alla presa di Andraz, ma non riuscì.

Quindi si proseguì per il Monte Pore. Agli inizi di luglio si avanzò, ma gli austriaci ressero, causando perdipiù perdite agli italiani.

A metà ottobre l’ordine fu di avanzare nella stretta di Val Parola e Sette Sassi, ma gli austriaci sparavano dall’alto. Il 23 ottobre ebbe luogo una spettacolare azione: “Questa notte un tremendo fuoco di artiglieria ha concentrato i tiri sulla cima del Col di Lana e, verso l’una, un boato ha fatto tremare la terra. La cima del Col di Lana è saltata sotto una potentissima carica di esplosivo. L’operazione è stata diretta da Peppino Garibaldi, nipote del nostro eroe nazionale, che comanda il 51° Fanteria alla nostra sinistra del fronte. La cima è stata finalmente conquistata e il nemico ha subito forti perdite con morti, feriti e prigionieri. Per tutta la notte passano barelle con feriti nostri e nemici”.Verso fine anno, si ebbe un riposo a Larzonei, mentre Costantini tornò ad Osimo in licenza. A metà gennaio del 1916 si rientrò al fronte per un mese, quindi ci si riposò a Villagrande, per un paio di settimane. Poi, sotto la neve, ci si spostò sempre più su: Caprile, Agai, Livinallongo, Andraz, il castello di Buchenstein.

Durante la marcia, Costantini perse il mulo e riuscì fortunosamente a recuperarne il carico.

LA GRANDE GUERRA

Il generale Peppino Garibaldi rioccupò la cima del Col di Lana, persa durante l’inverno, con 40 tonnellate di dinamite. Ma verso la fine di maggio, Costantini si ritrovò con il Battaglione decimato di soldati e di quadri, vivendo “il più tremendo e pericoloso episodio”, e uscendone miracolosamente vivo: l’attacco a sorpresa del costone del Monte Sief, prossimo al Col di Lana. La posizione sarà poi conquistata all’inizio del nuovo anno. A novembre Costantini conobbe Maria. A differenza delle altre ragazze incontrate in precedenza, questa volta egli se ne innamorò.

Partita la Brigata di Costantini per il fronte dell’Isonzo, a fine giugno 1917, egli restò nella zona, finché a metà ottobre entrò a far parte della Brigata Garibaldina. Alla fine del mese, le notizie del fronte carsico giunsero disastrose. Ai primi di novembre si partì per la ritirata fino al Piave e si arrivò a Cornuda. Al Piave Costantini assistette alla distruzione del ponte di Vidor. Dopo un breve riposo a Cornuda, in terza linea, tornò in seconda linea a Caerano San Marco e in prima nelle trincee del Piave, che trovò comode e riparate. Fu poi incaricato come telefonista al Comando, cosa che lo mise al riparo dai rischi mortali.

Finito un periodo di riposo in una villa presso Bassano del Grappa nel mese di gennaio 1918, Costantini si ritrovò in prima linea sull’Asolone, bastione di difesa del Piave, non particolarmente esposto. Ritornò quindi nella villa e intanto subodorava una grande preparazione organizzativa presso entrambi gli schieramenti. Il 10 aprile all’improvviso partì per il Monte Grappa; il fronte era calmo. In quei giorni incontrò il generale Diaz. A volte aveva anche modo di ammirare gli spettacoli della natura.

Dopo un paio di settimane giunse la notizia che la sua Brigata sarebbe stata inviata in Francia: infatti il 23 aprile partì da Bassano ed il giorno 30 arrivò a Saint-Ouen, nel dipartimento della Marne. Appena entrato in Francia, subito annotò - con spirito di osservazione - alcune diversità con la sua terra.

A maggio partì per il fronte di Verdun, trovando una calma surreale. Il 4 giugno andò in riposo nelle retrovie a Chalons, vicino Reims, per tutto il mese, in fase di preparazione per una grande offensiva da sferrare nella

successiva estate. Tornò quindi al fronte della Champagne nel bosco di Bligny, in primissima linea. A metà luglio, visse tre tragiche giornate (1516-17): “Il bosco è stato letteralmente sconvolto. Alberi secolari cadevano e volavano in aria come fuscelli. Un finimondo!”. Infranto il fronte, con la perdita di seimila italiani, gli americani avanzavano sicuri e si tornò a vivere “come esseri umani”. Costantini e pochi altri furono fatti andare a riposare ad Epernay, cittadina evacuata. A metà agosto si tornò in prima linea sullo Chemin-des-Dames, mentre gli Alleati “continuano a dar botte da orbi su quasi tutto il fronte”. Verso fine mese, mentre i tedeschi continuavano a ritirarsi, Costantini fu mandato in riposo a Sissonne, quindi marciò alle spalle del nemico. Il 15 ottobre varcò la frontiera belga e si acquartierò presso Bastogne, in un convento di frati.

L’11 novembre, finalmente, venne a sapere della fine della guerra: “Oggi 11 alle ore 11 dell’undicesimo mese del 1918 è finita la guerra mondiale 1914-18. Questa data passerà alla storia. Per le future generazioni sarà, nei secoli venturi, di monito a quanto inutili siano le guerre. Il sangue che costa è sproporzionato allo scopo da raggiungere”.

Il valore maggiore del Diario risiede senz’altro nella condanna della guerra, della sua inutilità a risolvere i problemi con lo spargimento del sangue. Da sincero mazziniano, Costantini avvertì fortemente il dovere di rispondere alla Patria che chiedeva il suo aiuto, accorse senza tentennare, con convinzione, biasimando fortemente coloro che invece si tiravano indietro. Ma, al tempo stesso, proclamò ad alta voce che, se si vuole instaurare la pace, bisogna costruirla.

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LA GRANDE GUERRA

Cimitero di noi soldà … di Nikla Cingolani - foto di Paolo Farina

“… forse un giorno ti vengo a trovar; / ta pum ta pum ta pum …”: una delle più tristi canzoni di una guerra lontana i cui morsi feroci sono ancora fissati nei marmi e nei bronzi che la ricordano.

R

ecita così l’ultima strofa di questa nota canzone di guerra che narra la vita dei soldati italiani durante la prima Guerra Mondiale. Le vittime per la Patria furono oltre 600.000, solamente nelle Marche ci furono 19.449 Caduti. All’alba del conflitto nessuno pensava ad una così grande perdita di vite umane, nemmeno i più fedeli alla Nazione e all’ideologia patriottica. Elaborare il lutto per i familiari delle vittime fu una cosa estremamente difficile, così, per rendere più tollerabile la perdita, le iniziative di commemorazione furono numerose, compresa la costruzione di sacrari e cappelle votive. Il fascismo, una volta andato al potere, racconterà se stesso come il frutto e l’erede della Grande Guerra. Non sorprende quindi se ne troviamo le tracce in ogni monumento dell’epoca. A Recanati l’antico palazzo San Vito, sede della scuola media, contiene alcuni ricordi della Grande Guerra. Uno di rilevante interesse per il suo profilo storico e artistico, è certamente la piccola Cappella Votiva. Da una documento di Rodolfo Senesi, autore delle decorazioni in ferro battuto, se ne rintraccia la storia.

Non si sa chi ebbe l’idea di costruirla, ma durante gli anni Venti il culto dei Caduti aveva la funzione di ricordare e celebrare il coraggio e il valore dei soldati morti in battaglia, identificandoli singolarmente come eroi, vittime consapevoli e garanti di un dovere verso la patria. Proprio come in questa cappella dove si trovano le foto dei giovani recanatesi caduti in guerra, il cui l’elenco completo si legge nella lapide votiva collocata sulla Torre del Borgo, ad opera dell’architetto Cirilli di Ancona (autore anche del Monumento ai Caduti nel Cimitero), inaugurata in quel periodo.

Contemporaneamente, nella Scuola di Disegno “Antonio Calcagni” di Porta Marina, si iniziavano i lavori preparatori della suddetta Cappella.

Il progetto fu eseguito in stretta collaborazione tra il direttore Cesare Peruzzi, per la parte artistica, e l’insegnante Luigi Ramponi direttore dei lavori. Sotto la loro guida gli allievi allestirono i disegni in grandezza naturale per poi procedere all’esecuzione. Vi lavorarono soprattutto la sera, durante le ore di lezione e poi, dietro compenso, anche di giorno.

Arturo Politi disegnò, modellò e rifinì il Cristo in croce posto sull’altare, realizzato in marmo-cemento su sfondo in mosaico d’oro.

I lavori in ferro battuto, costituiscono la maggior parte delle decorazioni, con l’importante cancellata a quattro elementi dove spiccano i simboli patri come la Stella d’Italia, che ha ispirato l’immenso filone della poesia universale da Cicerone fino a Leopardi. Segue la catena con i due artigli di aquila fissati alle pareti laterali, la mano con la fiaccola/lampada, i quattro candelieri dell’altare e il sostegno per la campana posta sopra l’altare. E’ importante ricordare che la campana in bronzo è la fedele riproduzione in scala ridotta di quella di Rovereto, ma non per questo il suo valore simbolico è minore.

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Il crocifisso di Arturo Politi

La cappella votiva

LA GRANDE GUERRA

Come l’originale, istituita “ente morale” nel 1968 con decreto presidenziale, essa è un utile strumento per l’educazione delle nuove generazioni alla pace e al rispetto dei diritti umani. I bassorilievi e le iscrizioni si possono vedere da vicino, salendo su un ripido soppalco in legno posto in uno sgabuzzino, che un tempo veniva usato dalle maestre per mettervi i ragazzini in punizione. E’ doveroso ricordare che le spese furono sostenute dal Comune di Recanati perché, “tutte le volte che occorreva del materiale era sempre la scuola che ne faceva richiesta al Comune e questo poi rilasciava i relativi buoni di prelevamento per i vari fornitori sia di Recanati che di Ancona”, scrive il Senesi.

Secondo le foto d’epoca realizzate da Remo Stortoni, nel 1930 la cappella era già terminata. Non si sa quando sia stata inaugurata poiché Senesi si trasferì a Milano il 27 aprile 1931, prima dell’apertura ufficiale al pubblico.

Suo fratello Emilio, anche lui allievo della scuola, rammenta di aver assistito alla cerimonia inaugurale con i compagni e molte autorità, come il prof. Giuseppe Mazzoldi, l’allora direttore, senza tuttavia ricordare il giorno e l’anno. Grazie alle ricerche del professor Paolo Coppari e della maestra Giuditta Pierini, sono state recuperate documentazioni importanti come il tema di Mauretta, ora un’anziana signora recanatese, dove si testimonia l’inaugurazione avvenuta nell’anno 1932. L’obiettivo è di valorizzare il ricordo di quello che è accaduto ed è per questo che i due professori hanno coinvolto gli studenti della Scuola San Vito in un progetto dal titolo “Correva l’anno 1932” con una serie di studi e manifestazioni per “avvicinare a questo evento le nuove generazioni che nulla sanno delle vicende di 100 anni fa; calare la “Grande Storia” nella storia locale per capire che cosa succedeva durante e dopo il conflitto nella vita della nostra città e del nostro territorio”.

La campana

Le foto dei caduti

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LA GRANDE GUERRA

Le ignorate, amorevoli, militari cure del tempo di pace di Nazzareno Pistelli (Avvenire d’Italia del 17/12/1936) *

A pochi mesi dallo scoppio del primo conflitto mondiale moriva in Libia il tenente Francesco Brunacci di Potenza Picena, medaglia di bronzo al valor militare.

N

acque il 9 gennaio del 1882 a Potenza Picena a morì in Libia presso i pozzi di El-Fatia il 2/9/1914.

Appartenente a una distinta famiglia di Potenza Picena, Francesco Brunacci, fu il più giovane figlio di Cesare Brunacci e di Giovanna Bocci. Mostrò un temperamento sensibile ed entusiasta: dotato di qualità fisiche vantaggiose, aitante della persona, robusto e di bell’aspetto, quando fu in età di scegliere una professione scelse quella delle armi, e con slancio e passione si arruolò nell’Arma di Artiglieria. Fu prima in Artiglieria da fortezza, poi in Artiglieria da montagna, quale tenente al Primo Reggimento di stanza a Torino. Si fece notare per attaccamento al servizio, per competenza e cultura, occupandosi sempre con passione dell’istruzione e del miglioramento del reparto. Scoppiata la guerra italo-turca fu tra i primi a chiedere di essere trasferito in Libia. Accolta la sua domanda fu assegnato alla 2ª Batteria Indigeni, prendendo parte ai combattimenti di Tripoli, Henni, Ain-Zara, Gargaresch, alle due battaglie di Zanzur e di altri gloriosi scontri in Libia. Per la sua condotta brillante tenuta sempre di fronte al nemico, Francesco Brunacci, oltre ad un encomio solenne, venne decorato al valore. L’11 agosto 1914, una spedizione composta dei tenenti Brunacci, Castelli e De Virgiliis partì per Qzizia per portare rifornimenti e Lire 300.000 in oro ed argento alla colonna Miani che operava nel Fezzan. Giunta a Gheriat, la carovana fu divisa in due: una parte prese altra direzione col tenente Castelli; il Brunacci con De Virgiliis proseguì il 26 Agosto per Marzuk e Brac dove avrebbero dovuto raggiungere la batteria eritrea Mondini, con 14 ascari eritrei e circa 20

30 guardie arabe locali, ingaggiate volta per volta e con 12 cammelli. I due ufficiali erano i soli bianchi e la zona non era affatto sicura.

Da Gheriat, prima di proseguire, il Brunacci scrive al fratello che temeva che la sua scorta araba fosse venuta a conoscenza delle somme che viaggiavano con la carovana, ciò che faceva temere della stessa scorta; e con serena decisione concludeva: “Se saremo attaccati non potremo far altro che vendere cara la nostra pelle”. Questa lettera giunse al fratello assieme alla notizia del massacro della intera carovana, distrutta presso i pozzi di El-Fatia il 2 settembre 1914, dopo aver venduta cara la vita con un’eroica resistenza che costò gravissime perdite ai numerosi assalitori Dervisci, forse avvertiti e forse chiamati da qualche arabo della scorta. Sulla località non rimasero che i cadaveri dei due gloriosi nostri ufficiali e dei fedelissimi ascari eritrei.” F. Bertole, colonnello Comandante del Primo Reggimento Artiglieria da montagna di stanza a Torino, il 12 settembre del 1914 ai propri dipendenti dava notizia dell’eroico sacrificio del Brunacci con il seguente ordine del giorno: “È giunta ora la dolorosa notizia della immatura morte del Tenente Francesco Brunacci della 2ª Batteria Indigeni della Tripolitania, avvenuta nelle vicinanze di El-Fatia durante un assalto dato dai beduini a una carovana diretta al Fezzan, della quale egli faceva parte. Al nostro prode commilitone perito in mezzo al deserto, mentre

Francesco Brunacci in Libia

compiendo il suo dovere di soldato, compieva opera di civiltà, vada il nostro commosso saluto.

Il Reggimento è orgoglioso di aver avuto nelle sue file un Ufficiale che alla grandezza della Patria ha sacrificato la sua balda e promettente giovinezza. Il suo nome rimarrà nel cuore di tutti noi che lo vedemmo all’opera feconda nei perigliosi ed aspri cimenti guerreschi e nell’ignorate amorevoli militari cure del tempo di pace. Egli ammonisce che alla grandezza della patria e al buon nome del Reggimento ogni artigliere da montagna deve essere pronto, sempre ed ovunque, ad immolare la vita.” Il 24 maggio 1936 la Sottosezione potentina dell’Arma di Artiglieria veniva ufficialmente dedicata a Francesco Brunacci.

Francesco Brunacci

Cavaliere ascaro

*Testo tratto da “Potentini Illustri” di Norberto Mancini, Edizioni Pupilli, Recanati, 1950.

Foto dell’Archivio Storico Com.le di Potenza Picena, fondo F. Brunacci.

L’A-VENA UMORISTICA

L’arma del sorriso di Ennio Monachesi

Per chi ha avuto la fortuna di non viverla, la guerra sembra quasi una cosa irreale, assurda e inconcepibile. Forse per questo Benigni la vede come un gioco, con gli occhi di un bambino, nel film”La vita è bella”. E forse l’arma del sorriso, che è l’arma più disarmante, potrebbe aiutarci a vivere un po’ più in pace. Perché, come dice Ionesco, “Dove c’è umorismo c’è umanità, dove non c’è umorismo c’è il campo di concentramento.” E in una scritta sul portone di un convento di suore: AVRAI LA PACE SOLO SE LA DAI.

P

rima guerra mondiale. Trincee italiana e tedesca. Si spara invano da mesi. Fronte italiano: -Ragazzi-, dice il tenente-, facciamoci venire qualche idea, se no qui ci restiamo a marcire a vita. Un soldato si fa avanti: -Io un’idea ce l’avrei.

Perché non chiamiamo per nome i tedeschi? Quelli si sporgono fuori con la testa e noi li facciamo secchi! -E’ un’idea un po’ strana, ma potrebbe funzionare-, osserva il tenente: -chi conosce i nomi tedeschi?

-Beeh.. Fritz ,.. Franz ...

-Ok, proviamo: -Ehi Franz, ci sei Franz!? Si sporge un elmetto e si sente una voce: -Yaaa!? E PAM, gli sparano e lo fanno secco! -Ragazzi funziona, passate parola! La voce si sparge: -Ehi Franz -Yaaa?! E PAM! Secco! E così tanti altri.

Fronte tedesco: -Ragazzen, qui italianen stare sterminanden. Trofiamo ein soluzionen! Profiamo anke noi usare loro tecnika: come essere nomen di italianen? -Profaree…Giofanni! -Ya, profiamo!

-Giofannii! Silenzio -Giofanniii!! Silenzio.

-Bel Giofanniii!!! Dalla trincea italiana si sente una voce: -Ehi, ma tu non sei l’amico di Franz? E quello sporgendosi: -Yaaa?! E PAM! Secco anche lui.

Una madre scrive al figlio soldato: “Caro figlio, ti mando questa lettera per farti sapere che ti ho scritto.

Se non ti dovesse arrivare fammelo sapere che te ne mando un’altra.

Ti scrivo lentamente perché so che anche tu leggi piano. Tua sorella è incinta di 5 mesi, ma ancora non si sa se è un maschio o una femmina, perciò non so se tu diventerai zio oppure zia.

Tuo padre ha cambiato lavoro, adesso ha mille persone sotto di lui: taglia l’erba al camposanto.

Caro figlio, in questa lettera io ti ci volevo mettere anche dei soldi, ma non mi è stato possibile perché avevo già chiuso la busta.

La tua cara mamma.”

Tre soldati fanno irruzione in un casolare di campagna. Ci trovano una ragazza di 20 anni con la nonna, un’arzilla vecchietta di 90 anni.

Afferrano la ragazza per violentarla: lei si divincola disperatamente gridando aiuto. Accorre il padre, che riesce a liberarla. Un soldato intanto sta cercando di violentare la nonna. E il contadino: -No, mia madre no, carogna, farabutto! E la vecchietta tutta risentita: -Zittu tu: la guera è guera!

Veneto occupazione nazista. Un ubriacone sbornio gironzola barcollando per la strada con una bottiglia di vino ancora chiusa in mano. Si imbatte negli sbirri tedeschi che gli intimano: -ALT! Ghestapo!

E lui: -No grassie, mi go el cavatapi.

L’antispionaggio incarica i carabinieri di controllare alcuni rifugi sospetti in alta montagna.

Un maresciallo con un appuntato giungono in alta quota dove c’è la neve tutto l’anno.

Il maresciallo spiega: -Ecco, vedi, qui comincia la neve perenne.

-Marescià-, osserva l’appuntato, -anche al paese mio la neve, comincia per enne.

Gli stessi notano una macchina sospetta, ferma in una stradicciola, con un signore dentro. Si avvicinano e l’appuntato gli chiede: -Documenti.

Il signore sussurra: -Digos!

Il carabiniere ripete più forte, sillabando: -I do-cu -men -ti!

E il signore sottovoce sillabando anche lui: -Diii-gos!

Allora interviene il maresciallo: -Lòs documentos pòr favor!

(Lo scrivente chiede scusa ad eventuali lettori carabinieri, vittime di uno stereotipo del tutto anacronistico: ma casomai a loro gliele spiego in separata sede.)

Il capitano di una compagnia scelta doveva sbarcare in un porto africano. Ma quando la nave è in vista del porto è bloccata da una forte tempesta.

-Che cosa succede? Perché non entriamo? - chiede il capitano.

-Non si può entrare-, risponde un soldato, -ci sono i Monsoni.

-Un vero soldato non ha paura di niente: li affronteremo!

-Ma signor capitano sono venti.

-Me ne frego, fossero anche mille! Sparategli addosso! Sterminateli!

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L’A-VENA UMORISTICA

In Africa il capitano va a caccia di leoni con un negro che gli fa da guida e un amico missionario. Sbuca fuori un leone ruggente. Il capitano spara, ma il fucile gli si inceppa: -Cilecca!-, esclama atterrito.

E il negro: -No badrone, non gi lecca, questo gi mangia!

E il missionario: -Signore, ispìragli sentimenti cristiani!

E il leone in ginocchio a zampe giunte: -Ti ringrazio Signore per il cibo che mi hai mandato!

D’Annunzio, dopo l’impresa di Fiume, si doveva incontrare con Mussolini, che detestava cordialmente, ricambiato. Giunse a bordo di un velìvolo, termine da lui coniato, che atterrò rombante davanti al Duce. Questi lo aspettava impettito attorniato da alcuni gerarchi, e salutò il poeta in modo ironicamente aulico: -Oh alato vate!

D’Annunzio, sapendo che il Duce era stato in fanteria, e un po’ se ne vergognava, ritenendola poco marziale, gli rispose: -Oh lesto fante!

Poi, indicando i gerarchi, aggiunse: -Fur fanti anch’essi?

Tra gli ufficiali c’era il tenente Festicoli. E siccome tanti ci scherzavano col suo nome, egli un giorno, dopo alcuni avvisi ai soldati, aggiunse: -E ficcàtevelo bene in testa, che io mi chiamo Festicoli, tenente Fe-sti-co-li, con la effe, chiaro?! E dopo un po’, rivolto a un soldato: -Tu, com’è che mi chiamo?

-Foglioni, signor tenente!

Il tenente interrogava le giovani reclute: -Tu-, chiese a una giovane recluta, -qual è il grido del soldato coraggioso quando infuria il fuoco nemico?

E la recluta tutta emozionata: -I nostri tremi non pettano quando le fischie pallano!

-Stai calmo, e ora dimmi: -Che cos’è la bandiera?

E la recluta: -La bandiera è quel drappo che ogni buon soldato deve difendere eroicamente dove più merva la fischia,…serva la mischia,.. mischia la serva,..serva la fischia, ...fischia la serva.

-Dove più ferva la mischia! Coglione!-, lo corregge il tenente, che continua: -E poi, vista la minchia, (vinta la mischia), si copre d’onore e di gloria!

E così infervoratosi, il tenente aggiunge: -Leggo sui vostri volti il desiderio di dare anche la vita per la Patria.

-Analfabeta!-, mormora tra sé un soldato.

Al poligono di tiro i soldati mancavano spesso il bersaglio. Il tenente sbotta: -Dammi quel fucile, imbranato-, dice a un soldato, che ti faccio vedere io! Imbraccia il fucile, mira, tira, ma manca il bersaglio! -Ecco come tiri tu!- gli dice sprezzante.

E poi tira un’altra volta, ma sbaglia di nuovo: -E’ così che tiri tu -, dice 22

ad un altro.

Il tenente sbaglia ancora altri tiri: -E’ così che tiri tu; ecco come tiri tu-, dice ad altri soldati.

Poi finalmente colpisce il bersaglio e con un ampio sorriso esclama: -Avete visto? E’ così che tiro io!

Un giorno il Colonnello convoca il Capitano e gli dice: -Capitano, domani alle 11 si verificherà un’ eclisse di sole, cosa che non succede tutti i giorni. Ragione per cui lei per quell’ora radunerà tutti gli uomini in piazza d’armi, in perfetta tenuta di campagna, affinchè i reparti possano seguire l’interessante fenomeno astronomico. Io darò loro le spiegazioni necessarie. Se dovesse piovere, raduni gli uomini nella grande sala.

Il Capitano manda a chiamare il tenente: -Tenente, per ordine del Colonnello, domani avrà luogo, in piazza d’armi, alle ore 11, un’eclisse di sole che verrà illustrata dal Colonnello stesso, cosa che non succede tutti i giorni. Se pioverà non si vedrà niente all’aperto, per cui radunerà tutti gli uomini nella grande sala in perfetta tenuta di campagna.

Il Tenente chiama il Sottotenente al quale spiega: -Per ordine del Colonnello, domani alle 11, in perfetta tenuta di campagna, s’inaugurerà un’eclisse di sole in piazza d’armi. Il Colonnello, nella grande sala, impartirà lui stesso gli ordini, se dovesse piovere, cosa che non succede tutti i giorni.

Il Sottotenente al Sergente Maggiore: -Domani alle 11, se farà bel tempo, il colonnello, in perfetta tenuta di campagna, cosa che non succede tutti i giorni, farà eclissare il sole in sala, se non sarà possibile farlo in piazza d’armi a causa della pioggia.

Il Sergente Maggiore al Sergente: -Domani alle 11 ci sarà, sole permettendo, un’eclisse del Colonnello in tenuta di campagna.

Se pioverà in sala, cosa che non succede tutti i giorni, la manovra avverrà in piazza d’armi.

Dopo qualche ora, durante il rancio, fra la truppa circolava la seguente voce: -Pare che domani alle 11 il sole in tenuta di campagna eclisserà il Colonnello: peccato che ciò non succede tutti i giorni.

STORIE ADRIATICHE

di Marco Moroni

Alla corte di Mattia il Giusto

Un umanista del Quattrocento dalle Marche in Ungheria, al servizio di un grande re: un “Livio ungherese”, come fu definito, e anche una gloria di Recanati.

E

ra l’ottobre del 1476 quando passò in visita al santuario di Loreto Beatrice d’Aragona che con il suo seguito si stava recando a Buda per sposare il re d’Ungheria Matyás Hunyadi, meglio noto come Mattia Corvino. È in questa occasione che, secondo la tradizione, sarebbe avvenuto il primo contatto di Antonio Bonfini con la corte ungherese. Forse tali rapporti si sono stabiliti successivamente, ma l’episodio va richiamato perché fa comprendere il ruolo che per vari secoli ebbe a svolgere il santuario di Loreto: meta di pellegrinaggio via terra e via mare e quindi anche luogo di incontro per ecclesiastici, funzionari, artisti, letterati e uomini di cultura con i personaggi più illustri del tempo. È un tema su cui sarà necessario tornare.

Antonio Bonfini era nato a Patrignone di Montalto, nell’Ascolano, nel 1427; altre fonti posticipano la sua nascita al 1434, ma, se così fosse, avrebbe ottenuto l’insegnamento pubblico ad Ascoli in giovanissima età, visto che tra il 1450 e il 1455 proprio per i meriti acquisiti il Comune gli concesse la cittadinanza ascolana. Nel 1478 Bonfini accetta la principale cattedra nella scuola pubblica di Recanati; vi resterà per quasi dieci anni, basando il suo insegnamento di grammatica, poetica, retorica, storia e filosofia morale sullo studio dei classici latini e greci. Per sua iniziativa in quegli anni nasce l’Accademia dei Disuguali, che egli indirizzerà alla lettura dei letterati e dei filosofi classici e di cui sarà costantemente il “principe” (oggi diremmo il rettore). Fu così apprezzato dalla città che nel 1482 il Comune gli concesse la nomina a professore a vita e la cittadinanza recanatese. A sua volta Bonfini aveva tessuto le lodi della sua nuova patria in un famoso Elogio di Recanati pronunciato in latino nel novembre 1478 in occasione dell’apertura del suo primo anno scolastico.

Nel novembre 1483 dedicherà al patrono della città un altrettanto importante Panegirico di San Flaviano. Entrambi saranno pubblicati nel 1930 a Montalto Marche da Giulio Amadio.

Nel 1486, ottenuta dal Comune di Recanati una vacanza di due mesi, poté recarsi alla corte del re Matyás Hunyadi, dove presentò alcune sue opere e traduzioni; questo gli permise di ottenere la nomina di lettore della regina Beatrice e l’incarico non solo di tradurre alcune opere dal greco al latino ma anche di comporre una storia degli Ungari. Nei due anni seguenti fece la spola tra Recanati e Buda, raggiunta ovviamente dopo aver superato l’Adriatico: nel 1487 e nel 1488 insegnò ancora alla scuola pubblica di Recanati, ma intanto raccolse il materiale necessario per scrivere la storia dell’Ungheria.

A Buda Matyás, figlio di János (Giovanni) Hunyadi, il generale che era riuscito a fermare l’avanzata turca in territorio ungherese, aveva dato vita a una corte rinascimentale, sull’esempio di quelle italiane, ospitando umanisti, letterati, architetti ed artisti; in tal modo in quella

corte si formò un circolo di umanisti che si ritrovavano periodicamente per “conversazioni” organizzate secondo il modello dei cenacoli degli umanisti italiani del Quattrocento. Il mecenatismo del re Mattia si espresse anche nella creazione di una grande biblioteca, ricca di numerosi codici e di oltre duemila volumi: in gran parte andarono dispersi dopo la sconfitta di Mohacs che nel 1526 portò alla caduta di Buda, conquistata dall’esercito ottomano guidato da Solimano il Magnifico. Bonfini si inserì in modo originale in questo vivace ambiente culturale, rispondendo fin dall’inizio pienamente ai desideri del re Mattia. In una delle sue prime opere, intitolata Libellus de Corvinae domus origine, egli individuò nel casato romano dei Corvini l’origine del casato magiaro degli Hunyadi, in tal modo conferendo quella dignità classica che loro mancava. Da quel momento Matyás Hunyadi verrà abitualmente denominato Mattia Corvino.

Edizione del 1581 delle Rerum Hungaricum decades - foto sk-sgezed-hu

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STORIE ADRIATICHE

Autore di varie altre opere, alcune delle quali perdute (come una storia di Ascoli Piceno), Antonio Bonfini va ricordato soprattutto per la sua fondamentale storia dell’Ungheria, intitolata Rerum Hungaricarum Decades. L’opera era divisa in decadi, secondo il modello delle Decadi dello storico latino Tito Livio; Bonfini riuscì a comporre le prime quattro decadi prima del 1490, anno della morte del re Mattia, risiedendo tra Recanati, Loreto e Buda; poi nel 1491, riconfermato storiografo di corte dal nuove re Ladislao II, si trasferì definitivamente a Buda, che allora non era ancora unita a Pest. Da quel momento si dedicò alla stesura dell’ultima decade, la quinta, che arriva fin quasi ai suoi giorni. Più precisamente la prima decade descrive le origini degli Ungari e i loro rapporti con i Goti e gli Unni; la seconda ripercorre il processo di cristianizzazione fino alla metà del Trecento; nella terza si analizzano i fatti storici fra 1382 e 1463; la quarta dal 1463 fino alla morte di Mattia Corvino, nel 1490; la quinta, probabilmente incompleta, va dal 1490 al 1496. In quell’anno Bonfini fu colpito da un colpo apoplettico che gli impedì di proseguire la sua opera: riuscirà a completarla, ma fermando la narrazione dei fatti all’anno 1496.

Il manoscritto in pergamena delle Rerum Hungaricarum Decades, ornato di numerose miniature, fu realizzato nel 1498 su esplicita richiesta del re; oggi non ne restano che pochi fogli. Si hanno però le edizioni a stampa: le prime tre decadi furono stampate a Basilea da Martin Brenner nel 1543; la prima edizione completa fu realizzata ancora a Basilea nel 1568 da Giovanni Sanibucus. Ma dell’opera si ebbero poi innumerevoli altre edizioni; presso la Biblioteca Benedettucci di Recanati si conservano sia l’edizione stampata a Basilea nel 1568 che quella stampata a Lipsia, presso Joan Paulus Kraus, nel 1771,; una copia dell’edizione stampata

** La foto del busto di Bonfini è nella copertina del volume di Manuela Martellini “Antonio Bonfini. Un umanista alla corte di Mattia Corvino” (ed. Sette Città, Viterbo, 2007)

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nel 1744 a Posonium (oggi Bratislava), ex typis Royerianis, è segnalata invece presso la Biblioteca comunale di Ascoli Piceno.

Con le Decadi di Antonio Bonfini ha inizio la storiografia ungherese, ma, come ha giustamente fatto rilevare la studiosa dell’Europa centroorientale Emanuela Sgambati, le Decadi non sono soltanto una storia “nazionale”; d’altra parte, al di là della sua precedente formazione, è in Italia, come si è detto, che Bonfini raccoglie il materiale documentario che gli è necessario per la stesura della sua storia. È ovvio perciò che la sua sia un’opera nella quale si fondono diverse culture: quella classica, prevalentemente romana (non a caso lo si definirà il “Livio ungherese”), e quella balcanico-danubiana, tipica dell’ambiente magiaro.

Antonio Bonfini avrebbe voluto tornare nelle Marche, ma il re non gli concesse mai il suo permesso; secondo Gerhard Rill, autore della biografia di Bonfini pubblicata nel Dizionario biografico degli Italiani edito dalla Treccani, “nel 1502, quando aveva deciso di mettersi in viaggio anche senza il consenso del sovrano, gli sopravvenne un nuovo colpo apoplettico che lo portò poco dopo alla morte”, probabilmente nello stesso 1502 o forse nei primi mesi del 1503. Fu sepolto a Buda nella chiesa di Santa Margherita. Nel 1927 le autorità ungheresi gli fecero erigere una statua nel castello di Budapest. Come si legge in un recente studio di Manuela Martellini, nel 1935 un busto di Antonio Bonfini, dono del conte ungherese Domenico Festetics, fu collocato nel cortile del palazzo comunale di Ascoli Piceno per volontà della città di Budapest; sul retro della colonna che sostiene il busto di Bonfini, si può leggere la seguente iscrizione: “In memoria del grande ascolano illustre storiografo di Mattia Corvino re d’Ungheria la capitale ungherese Budapest pose MCMXXXV donavit comes Domenicus Festetics sculpsit Zoltan Farkas”.

TOPONOMASTICA ANTICA

La città vecchia piena di coronari di Aldo Angelico

Comincia da qui un percorso alla scoperta della Loreto d’antan. Partiamo da un’antica vista della città quando correva l’anno 1620 e il borgo di allora si andava riempiendo “di fabbhriche et habitatori “

D

escrizione della città di Loreto Anno 1620 Originale presso l’Archivio Storico della Santa Casa.

“La città di Loreto è divisa in due parti, la prima vien detta Città Vecchia, et questa fu cinta di mura nell’anno 1520 da Leone decimo. La seconda è contenuta dal disegno, che d’ordine di Sisto V fu fatto dal cap. Pompeo Floriani di Macerata, et nell’istesso tempo dal medesimo pontefice fu la città ornata di seggio episcopale: et questa seconda parte vien nominata la Città Nova , la quale ogni giorno va riempiendosi di fabbriche et habitatori. [ …]

Detta Città è situata in un colle ameno di poca larghezza avendo buona calata dall’uno et dall’altro fianco. Dalla parte di levante il colle pende piacevolmente verso il mare Adriatico distante tre miglia dalla città. Da ponente dentro l’istessa città nova si và il colle agevolmente alzando verso Recanati tre miglia parimente distante. Sichè il sito della città è assai più lungo che largo et la larghezza è da levante et ponente. Il giro di tutta la città è di cinque mila et settecento passi andati.

Nel fine della città nuova verso Recanati vi è un monticello detto Monte Reale, questo viene incluso dentro la città nova, et per ordine del medesimo pontefice Sisto quinto, deve essere levato et spianato, che oggi è solamente tagliato in mezzo et fattoci la strada Romana poiché è solo quanto la larghezza delle strada istessa, e ben vero, che dall’una e dall’altra parte ci sono molte fornaci che fanno et cuocano mattoni, che vanno levando e consumando assai terra di detto monticello, tuttavia levandosi tutto renderà la città più ampla et più comoda alle fabbriche perché sarà parte saluberrima, causerà anco miglior aria nella parte più bassa e nella città vecchia per i venti che agiteranno tanto più l’aria, che viene dalle montagne particolarmente di Norcia.

L’eseguirlo sarà ottime resoluzione poiché temprerà l’aria cattiva, che riceve la città dalla parte di tramontana nella pianura, et per l’acqua del fiume Musone, che di luglio et agosto con li limi che sino alla montagna vi pongono a marcire diventa negra e fetida et infetta correndo detto fiume dalla medesima parte di tramontana. Il miglioramento dell’aria sarà maggiore ancora se si leveranno tutte le Hostaria dalla città vecchia e si reducessero nella nova, come si dirà appresso. La città nuova secondo il disegno per sua fortificazione havrà quattordeci fianchi compresi in quattro baluardi, tre piatte formi et altre diffese conforme al sito tal bisogno et

Bastione dell’ospedale oggi di Porta Marina – foto da un’antica incisione

alle spese nelli quali baluardi ci sono alcuni pezzi di artiglierie.

La città fa anime da comunione n. 1778, non atti alla comunione n. 749; il territorio da comunione n. 844, non ancor’atti alla comunione n. 458, in tutto n. 3829.

E’ abitata la città nuova, come vecchia per il più da gente povera et mercenari; vi sono artisti ordinarij, come sartori, calzolai, falegnami, fabri et simili, per il più la città vecchia è piena di coronari, che tengono botteghe di corone e varie merci, et hosti e locandieri […]”

Lavori ordinati da Sisto V Da “Lauretane historie ” di P.V. Martorelli.

“Sisto V per provvedere che vano e debil non fosse il nome di Loreto, incominciò a far spianare il vicino poggio chiamato degli abitanti Monte Reale, da Sua Santità comprato. In tal modo fecesi da quella parte assai largo spazio di poter aggrandire la novella città. Fu poi a tutte le città delle Marche comandato che in quel luogo particolari case edificassero” 25

TOPONOMASTICA ANTICA

Le vie più antiche Il Corso. Ricalca una parte della vecchia strada che da Recanati conduceva al Porto.E’ sorta sul crinale di Monte Prodo dove, secondo la tradizione, si è posata la Santa Casa. Ai margini della strada si sviluppò il primo nucleo edilizio, composto da botteghe, locande e abitazioni. La strada non ebbe subito un nome, ma per la presenza di fabbricanti e venditori di corone da rosario fu denominata “ via dei coronari”. Solo nel 1898 fu intitolata a Traiano Boccalini (1556-1613) storico e letterato. Questi era figlio di Giovanni Boccalini, insigne architetto, che aveva lavorato alla facciata del Santuario, e aveva disegnato alcune delle più importanti fontane di Loreto.

La Piazzetta. Originariamente si chiamò “ Via Delle Stalle” perché vi erano ubicate le stalle delle case e delle locande costruite su Via Dei Coronari. Vi era uno slargo, chiamato Vicolo Della Pagliara, dove venivano depositati i foraggi per gli animali. La parte più vicina alla Basilica, che era più larga, fu chiamata Piazza Galla, in onore del cardinale Antonio Maria Gallo, protettore di Loreto.Nel 1900 fu intestata a Francesco Asdrubali, che fu un docente di ostetricia all’Università Della Sapienza in Roma. Ideò uno strumento chirurgico che portava il suo nome.

La Pescheria. Originariamente era poco più di un viottolo che costeggiava il piano seminterrato degli edifici del Corso Vi si svolgeva il mercato del pesce che le “pesciarole” di Porto Recanati portavano con i loro carrettini fino a Loreto. Fu chiamata, dapprima, Via Della Pescheria Vecchia e, quindi, intestata al Papa Sisto V, che ebbe molto a cuore le vicende di Loreto tanto da elevarla a città, nel 1586, con la bolla “Pro excellenti praeminentia”.

Loreto, fontana dei galli, primi del XX secolo - foto Alterocca, Terni

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La Piana. Era la strada che conduceva a Loreto, aggirando il colle di Montereale e, quindi, più agevole. Quando il colle fu spianato e si realizzò la Via Romana ( l’attuale via Brancondi), fu chiamata “Strada Vecchia”, ma per la sua orografia continuò a chiamarsi “La Piana” Montereale. E’ la strada che da Porta Romana va verso Recanati. Il nome, secondo Monaldo Leopardi, è dovuto alla posizione preminente del colle. Nel medioevo vi era un piccolo castello, distrutto e ricostruito più volte, finché nel 1320 scomparve definitivamente. Il punto più alto, tuttora, si chiama Monteciotto e fin da epoca remota, vi era sorto un piccolo agglomerato di casupole abitato, per lo più, da “cavatori” che lavoravano nelle vicine cave di sabbia in prossimità dell’attuale Via Montereale Vecchio. Il primo nome della via fu “Strada Romana” , poi “ Strada di Montereale” e dal 1946, Via Fratelli Brancondi, in memoria dei fratelli Paolo e Bruno Brancondi, martiri della Resistenza.

Piazza dei Galli. Inizialmente era uno spiazzo scosceso antistante Porta Romana. Fu livellato con lo sbancamento di Montereale. Era la naturale congiunzione tra la Città Murata e Via Montereale e comprendeva anche l’attuale via Solari. Vi erano poste due guglie e segnavano l’inizio della Strada Romana. Il sito fu per molti anni sede di mercati e fiere e la fontana, che all’epoca si trovava al centro, era adoperata come abbeveratoio. Il nome della piazza deriva dalla omonima fontana, realizzata nel 1614, che ha come motivi ornamentali un drago e quattro galli, in onore del protettore cardinale Antonio Maria Gallo. Quando la piazza assunse l’attuale conformazione, livellando il terreno e formando l’attuale via Solari, la fontana fu spostata nell’attuale posizione.

ARTE

Sono ciò che dipingo di Eleonora Tiseni

Ironia e pathos dell’artista vera, titolare di una produzione intensa e ricercata, giunta alla consacrazione dell’Esposizione Triennale di Arti Visive di Roma. Gabriella Mingardi, un’arte senza confini «Attraverso impulsivi e rapidi tocchi di colore, l’artista indaga sugli echi interiori, minacciosi e paurosi dell’animo umano ma anche su quella maschera, di pirandelliana memoria, che l’uomo è costretto a portare, su quella condanna del singolo a recitare sempre la stessa parte, imposta dall’esterno sulla base di convenzioni che reggono l’esistenza della massa». Così, lo storico dell’arte Giorgio Vulcano descrive «Ballata degli impossibili», l’opera di Gabriella Mingardi scelta dalla Commissione scientifica dell’Esposizione Triennale di Arti Visive di Roma ed esposta, lo scorso dicembre, nelle Sale della Biblioteca Centrale Nazionale della Capitale. Un secondo quadro, dal titolo «Incubo», compare invece nel catalogo. Mingardi, bolognese di origine ma portorecanatese di adozione, nel 2006 è stata insignita del «Premio Porto Recanati» in quanto ambasciatrice della città in Italia e nel mondo e «messaggera della bellezza perenne dell’Arte». Più di recente, l’opera «Fondale marino» è stata selezionata per partecipare al «Premio Cristoforo Colombo» ed è stata in mostra al Galata Museo del mare di Genova dal 6 al 18 marzo. Ce ne aveva parlato quando l’abbiamo incontrata a pochi mesi dal prestigioso evento romano per raccogliere le sue emozioni e per conoscere qualcosa di più della sua passione, anche se lei preferisce che siano i suoi lavori a parlare: «Ci sono artisti che con filosofica ricercatezza descrivono la loro pittura dalla A alla Z, io non sono mai riuscita a farlo, io dipingo e niente più».

In quali progetti è impegnata in questo momento?

Ora mi sto cimentando nell’espressionismo astratto, e probabilmente manderò delle opere a Genova per il «Premio Cristoforo Colombo», al quale stanno lavorando gli organizzatori della Triennale. E’ richiesto che vengano descritti la natura e il mare, quindi mi sono cimentata in quest’altra tecnica, più nuova: ogni tanto mi piace fare delle cose diverse, non mi manca il coraggio di sperimentare.

Sono stata inoltre contattata da una galleria di New York e ho inviato una decina di foto: ho ricevuto una risposta positiva e lusinghiera, sto valutando il da farsi.

Signora Mingardi, negli anni ha esposto anche all’estero, da New York a Londra, per fare due esempi. Partecipare alla Triennale di Roma che esperienza è stata?

Ho partecipato a tante mostre e ormai mi sono abituata a vedermi “appesa”, le prime volte ci stavo davvero male. Questa, però, mi ha coinvolto molto più delle altre dal punto di vista emotivo, fin dall’inizio, da quando cioè ho saputo che i professori della commissione scientifica della Triennale avevano visitato il mio sito internet (www.gabriellamingardi.com) e cercato tra le immagini delle opere quelle più adatte per l’esposizione e il catalogo, rimanendo entusiasti, come mi ha confidato la dottoressa Stefania Pieralice, presidente dell’associazione culturale «La Rosa dei venti», ente promotore della Triennale, nonché nonché curatrice alla Biennale di Venezia per il Guatemala. E’ stata un’emozione molto forte e una soddisfazione immensa, vissuta in un contesto che potevo solo sognare e che mi ha dato l’opportunità di conoscere persone come i professori Philippe Daverio e Daniele Radini Tedeschi, quest’ultimo curatore dell’Esposizione, che di recente ha ricevuto un prestigioso incarico alla Biennale di Venezia.

Incubo - Gabriella Mingardi

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ARTE

Com’è nata la sua passione per la pittura?

La passione è nata con me, ma ho dovuto metterla da parte, perché nel Dopoguerra a noi giovani non era permesso inseguire certi sogni, eravamo bastonati dalle difficoltà e ci dovevamo accontentare. Mi sono riavvicinata alla pittura da adulta, verso il 1975, dopo aver avuto i miei quattro figli, prima per gioco, per aiutare loro, poi sempre più seriamente sino a un vero impegno. Sono autodidatta, ma poiché a un certo punto ho sentito di dovermi appropriare della figura nella sua raffigurazione e volevo essere libera in questo, ho frequentato, assiduamente e per cinque anni consecutivi, la Scuola del Nudo dell’Accademia di Belle Arti di Macerata. Oggi, dipingo la figura anche senza modelli, oltre che dal vero. Quell’esperienza è stata molto importante, mi ha completato e rafforzato, tanto che vorrei rifarla.

Da cosa le arriva l’ispirazione? Ci sono delle costanti e influenze nella sua pittura?

L’ispirazione è cosa astratta, un’idea sfuggente da rendere concreta. Mi aiutano i miei schizzi di pochi tratti, da loro prendo ispirazione per gli oli o altre tecniche. Fino ai primi anni Ottanta, ho usato principalmente le terre, i rossi e le ocra, per una pittura molto materica che ho definito, infatti, «Il Colore e la Materia», passando, successivamente, a una tavolozza di grigi. In questo periodo sto facendo esperienze con l’Espressionismo Astratto. La pittura mi piace tutta, ma cerco soprattutto di essere me stessa; ho frequentato sempre le gallerie e le mostre, poi mi sono detta: «No, non voglio andare più da nessuna parte, non voglio vedere più niente perché voglio fare quello che viene da me, non voglio essere influenzata da nessuno». Questo è il mio intento, direi che mi sto cercando.

Ballata degli impossibili - Gabriella Mingrardi

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Gabriella Mingardi

IL GIOVANE FAVOLOSO

La modestia dei grandi di Loretta Marcon - foto dal web

Tutti noi dovremmo sempre tenere per assai caro l’ammonimento di Socrate.

Ma non è così, anzi. Parola di Leopardi

A

pparentemente può sembrare perlomeno curioso il fatto che Giacomo Leopardi fin dal 1821, dunque prima ancora di fare il suo ingresso nel “mondo esterno”, avesse riflettuto sopra uno degli atteggiamenti, purtroppo abbastanza comuni, propri dell’uomo di cultura ( e non solo): la mancanza di modestia e di umiltà. Spontaneamente ci chiederemmo in quali occasioni e in chi egli avesse potuto osservare tale abito, stimolando così la scrittura delle sue impressioni nello Zibaldone: «non è sommo in veruna professione chi non è modesto; e la modestia, e lo stimarsi da non molto, e il credere intimamente e sinceramente di non aver conseguito tutto quel merito che si potrebbe e dovrebbe conseguire, questi dico sono segni e distintivi dell’uomo grande, o certo sono qualità inseparabili da lui. Perchè quanto più si possiede e si conosce a fondo una qualunque (ancorchè piccola) professione, tanto più se ne sentono e valutano le difficoltà; si conosce quanto la perfezione e la sommità sia difficile in essa: perchè le difficoltà della perfezione si sanno e si conoscono generalmente in ogni cosa, ma non si sentono così vivamente e precisamente, come in una professione intimamente posseduta: tanto più si comprende e vede e tocca con mano, quanto sia facile l’andar sempre più oltre, e il perfezionare anche ciò che si crede perfetto. In somma quanto più l’uomo apprezza e stima una buona professione: e l’apprezza e stima quanto meglio la conosce; tanto meno apprezza se stesso. Perchè mettendosi in confronto non già cogli altri cultori di quella professione (i quali forse gli cederanno), ma colla professione stessa; resta sempre malcontento del paragone, si trova lontano dall’uguaglianza, e riabbassa

sempre più l’idea di se stesso». (Zib. 612-613 del 5. Feb. 1821.)

In verità, si può spiegare questa nota dello Zibaldone in un modo abbastanza semplice e cioè riconoscendo in essa il frutto di un’auto osservazione profonda e continua. Leopardi, cosciente del suo valore e pur sensibile alla gloria, si era ben presto reso conto che uno dei caratteri distintivi della grandezza di un uomo è proprio la modestia. Solo la vera grandezza, che si unisce all’onestà intellettuale, conduce a paragonarsi non con gli altri uomini (verso i quali forse ci si sentirebbe superiori), ma con l’idea stessa della perfezione. Nel grande Leopardi permane, infatti, un atteggiamento di modestia, di pudore, di timidezza, di “sottovoce”… Evidentemente questo era frutto anche dell’educazione nobile ricevuta e dell’esempio del dotto padre Monaldo che molto semplicemente confessava: «Ho aperto una infinità di libri, ho studiato infinità di cose, ma tutto senza profitto; sicché arrivato agli anni maturi e aperti gli occhi ho confessato a me stesso che io non so cosa alcuna e mi sono rassegnato a vivere e a morire senza esser dotto quantunque di esserlo avessi cupidissima voglia.

Quanto apparisce in me non è letteratura o dottrina, ma prudenza, esperienza, buon senso, con qualche tintura apparente di scienze».

Il pensiero leopardiano (che egli più tardi ancora riprenderà) non necessita di alcun commento e si riallaccia alla riflessione esaminata nel numero precedente de «Lo Specchio», là dove Leopardi parla della vita come «prova di una commedia» e di uomini recitanti. Osservavo allora che solo gli uomini grandi hanno il coraggio di restare nudi e di mostrare il loro vero volto e di pagare per questo qualsiasi prezzo, anche l’isolamento dalla società…

Ecco! La presunzione, la supponenza, il “parlar difficile”, aspetti propri di tante persone di cultura, sono componenti che rivelano il bisogno di mostrarsi diversi e superiori agli altri nell’idea (sbagliata) che la creazione di una specie di lontananza da coloro che non vengono considerati alla medesima “altezza”, sia una specie di convalida del loro sapere e del loro valore. In realtà la grandezza di un uomo di cultura si manifesta, come sostiene Leopardi, nel riconoscimento che la propria conoscenza,

necessariamente limitata, si perde nell’infinito oceano del sapere. Proprio da questa coscienza deriva una semplicità di modi nella relazione con il prossimo; quella semplicità che diventa capacità di far comprendere il proprio pensiero ad ogni persona. Anche in questo Leopardi insegna… basterebbe leggere la Prefazione alla sua «interpretazione» alle Rime del Petrarca nella quale, a coloro che lo riprendevano per troppa «abbondanza di vocaboli, egli risponde di aver voluto proporre un commento fatto per tutti, anche per le donne, e, occorrendo, per li bambini, e finalmente per gli stranieri».

E non si creda che la mancanza di modestia sia propria solo di quei personaggi che consideriamo grandi perché, ahimè, questo atteggiamento coinvolge tutti gli ambiti della società mostrando come la presunzione sia davvero una componente che sembra essere persino inevitabile nei tempi in cui viviamo.

Tutti noi ne abbiamo fatto esperienza!

E così uno dei miei pensieri preferiti del grande Giacomo rimane sempre quello che, in certo senso, riassume gli altri con i quali ho aperto questa pagina: «è curioso a vedere che quasi tutti gli uomini che vagliono molto, hanno le maniere semplici; e che quasi sempre le maniere semplici sono prese per indizio di poco valore».

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LA NOSTRA TERRA

Custodi del tempio di Antonio Bartolo

Tre generazioni di Ascani impegnate nella tutela della chiesetta sorta nel luogo dell’atterraggio degli angeli che trasportavano la Santa Casa di Nazareth. Una chiesa tutta per loro, come avveniva per l’antica nobiltà?

No, un luogo di culto, ma pure di aggregazione sociale restato sempre a disposizione di tutta la Comunità.

E

nrico Ascani, poco più di settant’anni, è quello che può trasmettere, più di altri, alcune memorie importanti legate alla chiesa della Banderuola, in zona Scossici. Sono ricordi che collimano in parte con i miei, che lì sono anch’io nato e cresciuto. Cominciamo dal principio, come è sempre meglio fare.

- Perché questa zona è chiamata così, la Banderuola?

- Quando la casa della Madonna arrivò dal mare fu depositata in questa grande piana, che poi prese il nome di Scossici. La casa venne messa in mezzo a un bosco di lauri e sterpaglie, con il fondo del terreno che era quasi dappertutto un acquitrino. Nel mezzo c’era una grande pino che per la sua altezza spadroneggiava sulla pianura selvaggia.

In cima al pino fu posta una bandiera per indicare alla gente dov’era la casa della Madonna.

Di ipotesi sull’origine del toponimo ce ne sono altre, forse più vicine alla realtà, ma qui Enrico racconta le cose come le hanno dette a lui quand’era bambino e tali le vogliamo sentire.

La famiglia Ascani abitava quei luoghi da tempo immemore, probabilmente dall’epoca dei lavori di bonifica che il comune di Recanati aveva compiuto nel XV secolo. Il ricordo vissuto di Enrico parte però dal nonno, ovviamente Enrico anche lui: Mio nonno era soprannominato “il capitano de Scaino”, il capitano Ascani; aveva sposato Nazzarena Antonini, detta “Nena de Scaino”. Loro due si rimboccarono le mani e gestirono la famiglia e il terreno di proprietà della Santa Casa di Loreto nonché la chiesetta della Banderuola: c’erano le funzioni religiose nei giorni festivi e il rito serale del mese di 30

maggio dedicato alla Madonna (il “fioretto”).

Il 25 marzo, ricorrenza dell’Annunciazione del Signore, nello spiazzo antistante il tempietto si svolgeva la festa della Madonna della Banderuola. La chiesa è situata al confine di Porto Recanati con Loreto, però è proprio nel mezzo della tenuta degli Scossici e perciò si è proposta sempre di più come patrimonio di tutti gli abitanti della zona, compresi quelli di Loreto stazione. Un punto di riferimento e di ritrovo per tutti.

- Io ho ricordi molto chiari della processione con la statua della Madonna e la fiaccolata con i tozzi di granoturco imbevuti di petrolio che davano luce in tutto il percorso tra le stradine di Scossici. E poi c’erano gli altarini davanti alle case coloniche, preparati con fiori, veli e sempre un’immagine della Madonna.

- Sì, e dopo la processione, via ai giochi!La morra, la corsa dei sacchi, la gara delle biciclette che era singolare perché vinceva chi restava di più in “suspense” senza mettere il piede a terra. Seguiva la gara dei maccaró a gruppi di tre ognu manche con le mani legate dietro la schiena. Qui vinceva chi riusciva ad ingoiare più velocemente un piatto di tagliatelle. Altri giochi erano la gara di bocce al quarantotto, il tiro della fune e il ballo con l’organetto. La festa era allietata dai festarini che gestivano i giochi e distribuivano vino, ciambellone, ciambelle all’anice etc…

Eravamo noi a ospitare e organizzare la festa e addobbavamo pure l’area dove si svolgeva.

La gente era davvero tanta, veniva da tutto il comprensorio. A conclusione c’erano i fuochi d’artificio, davvero belli.

- Veniamo al presente. Tu sei il proprietario della chiesetta fin dagli anni ’70 e la sua gestione è nelle mani tue e di tua moglie. Constato che siete molto attenti a che tutto sia salvaguardato al meglio.

- La chiesa è molto frequentata, non solo la domenica mattina quando si celebra la messa, ma anche durante la settimana: gente di passaggio, turisti che vi entrano per pregare o che trovano ristoro all’ombra dei pini sedendosi sulle panche. Un luogo di culto, certo, e anche un modo di passare qualche ora tranquilla nel verde della campagna. Ci sono ancora persone che ne chiedono l’uso per ricorrenze di matrimoni, battesimi e altro. Io

penso che questo luogo possa essere utile anche sotto il profilo del turismo religioso perché legato strettamente alla tradizione della traslazione della Santa Casa di Loreto, qui a due passi.

Vicinissima Porto Recanati, da dove si arriva grazie alle piste ciclabili. Un grande patrimonio che è un peccato non riconoscere come tale.

- A quando risale la gestione da parte della tua famiglia di questo patrimonio di cui hai appena parlato?

- Gli Ascani si insediarono in questa colonìa agricola nel 1915 e ci sono dunque da tre generazioni. Prima di noi la colonìa era condotta dalla famiglia Scarabottì, che poco prima della guerra emigrarono in Argentina, stabilendosi a Santa Fé. Ogni tanto i discendenti degli antichi coloni tornano in Italia e vengono a visitare il luogo dov’era la loro casa, dove sono vissuti i loro antenati .

Storie svoltesi sotto il sole di Scossici, in una terra ubertosa, in tempi lontani. Ma storie che andrebbero indagate perché fanno parte integrante della più grande vicenda della nostra Comunità.

Enrico Ascani, nonno dell’autore, la moglie Nazzarena e, da sinistra, i figli Annunziata, Luigi e Giuseppe. Foto Talevi (Loreto)

Luigi Ascani,1935

LA NOSTRA TERRA

Il Museo dell’emigrazione marchigiana di Recanati di Marco Moroni - Responsabile Centro Studi ACLI-Marche, foto fornite dal Museo

Attivo a Recanati il museo dell’emigrazione marchigiana dedicato ai marchigiani emigrati all’estero.

Il 10 dicembre 2013 ha aperto ufficialmente le porte al pubblico il Museo dell’emigrazione marchigiana.

Il Museo nasce per volontà della Regione Marche, che ha trovato ampia disponibilità all’iniziativa nel Comune di Recanati.

L’obiettivo è quello di far conoscere la storia dei flussi migratori che hanno caratterizzato la nostra regione, in maniera realisticatica e veritiera, cercando di coinvolgere un pubblico il piu vasto possibile.

Il percorso museale si snoda su due piani all’interno delle cantine di Villa Colloredo Mels. Si compone di tantissimi documenti come passaporti, certificati, foto, lettere, diari e memorie di persone che, a causa della povertà della vita negli anni a cavallo tra l’8 e il 900, hanno dovuto fare la scelta di abbandonare le loro case e la loro terra per cercare una vita migliore. Ora, a distanza di anni, possiamo rivivere le loro storie, grazie alle Acli, alle associazioni di marchigiani all’estero e ai discendenti delle stesse famiglie degli emigrati. Inoltre le stanze del museo si completano con schermi interattivi touchscreen, collegamenti Skype con emigrati e associazioni di marchigiani all estero e accesso diretto a banche dati per poter cercare parenti e amici emigrati. Il loro percorso interattivo è fruibile e accantivante anche per i visitatori piu giovani del museo. (a cura di Antonio Perticarini)

Una storia di emigrazione lunga un secolo...

Il flusso dell’emigrazione marchigiana all’estero, manifestatosi con ritardo rispetto ad altre regioni della Penisola italiana, si fece più consistente dopo il 1880 e in particolare dopo la metà degli anni Novanta, quando si fecero sentire gli effetti delle grave crisi economica che aveva colpito il nostro Paese. Nel ventennio 1895-1914 dalle Marche si ebbe un vero e proprio esodo, con effetti dolorosi o addirittura dirompenti dal punto di vista personale, familiare e sociale. È stato calcolato che tra il 1876 e il 1965 si sono avuti circa 660.000 espatri, ai quali sono poi seguiti circa 220.000 rimpatri, ma si tratta di calcoli difficili, viste anche le ripartenze.

Si può affermare che in meno di un secolo complessivamente quasi cinquecentomila marchigiani lasciano in modo definitivo il territorio regionale. Il momento più intenso dell’emigrazione marchigiana è il primo quindicennio del Novecento: oltre 250.000 marchigiani hanno lasciato la regione nel solo decennio 1905-1914. In quegli anni le Marche avevano una percentuale di emigrati, rispetto alla popolazione residente, più elevata della media nazionale.

L’emigrazione marchigiana torna a crescere nel quinquennio 1919-1924, poi si riduce negli anni tra le due guerre, ma riprende nel secondo dopoguerra, per cessare infine nel corso degli anni Settanta. Dopo il 1972 il saldo migratorio della regione diventa positivo, anche se le partenze continuano ad essere numerose almeno fino alla fine degli anni Settanta. Nella prima fase, tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, i marchigiani emigrano soprattutto in direzione dell’America Latina (in particolare in Argentina), ma già sono numerosi gli espatri verso gli Stati Uniti. Nel secondo dopoguerra continueranno le partenze verso l’Argentina, emergerà poi un flusso in direzione dell’Australia, ma la destinazione prevalente sarà quella verso l’Europa: in particolare saranno molti gli italiani emigrati in Francia, Svizzera, Germania, Austria e Belgio.

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LA NOSTRA TERRA

Recuperare la memoria La storia dell’emigrazione marchigiana dura dunque un secolo: iniziata a metà degli anni Settanta dell’Ottocento, si conclude come fenomeno di massa a metà degli anni Settanta del Novecento. E’ una storia che non deve andare perduta.

La storia dell’emigrazione è sempre e dappertutto una storia di lavoro o, per meglio dire, una storia di persone alla ricerca di lavoro ed è quindi anche la storia di tanti aclisti; non meraviglia quindi che subito ci siamo sentiti in dovere di portare il nostro contributo al progetto della Regione Marche. Ma lo abbiamo fatto anche con un altro obiettivo: aiutare i giovani a conoscere un pezzo importante della storia della nostra regione.

In molti, soprattutto fra gli insegnanti, spesso si chiedono come fare “educazione civica”, cioè come formare i cittadini del terzo Millennio.

Un modo efficace è quello di recuperare la memoria: la memoria di momenti importanti della nostra storia, come abbiamo fatto con il 150° dell’unificazione italiana, ma anche la memoria della vita di tante persone umili, che con il loro lavoro, spesso oscuro, hanno contribuito a fare grande il nostro Paese.

Gli obiettivi del Museo La Regione Marche, che fra i suoi compiti ha anche quello di tutelare i cittadini marchigiani che per motivi di lavoro si siano trasferiti all’estero, ha deliberato di costituire un Museo dell’emigrazione marchigiana.

Fra gli obiettivi del Museo due sono i più rilevanti: oltre ad aiutare i giovani a conoscere un pezzo importante della storia della nostra regione, è importante che si riesca a costruire più intense relazioni con le comunità dei marchigiani all’estero, chiamate a collaborare alla realizzazione del Museo. È previsto che, accanto al Museo vero e proprio, si costituisca un Archivio-Centro di documentazione, dedicato alla conservazione dei documenti e dei reperti relativi all’esperienza migratoria, ma fruibile da parte degli studiosi.

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SCUOLA@INRETE

Gli uomini non sono uguali, diritti e opportunità sì di Paola Acciarresi e Eleonora Stortoni

“Se ti sedessi su una nuvola non vedresti la linea di confine tra una nazione e l’altra, né la linea di divisione tra una fattoria e l’altra. Peccato che tu non possa sedere su una nuvola.” Khalil Gibran

“U

nder the same sky, open minds and equal rights for all”, tema del meeting nato in seno all’Erasmus Plus 2015 di cui è stato protagonista l’Istituto comprensivo “E. Medi” di Porto Recanati, ha sancito nuovamente la fattiva collaborazione tra l’Istituto portorecanatese e l’Associazione Lo Specchio sostenuta dall’impegno dell’Amministrazione comunale questa volta sul fronte di uno dei diritti inviolabili e fondamentali dell’uomo: l’uguaglianza.

Su un tema così articolato, profondo e “scosceso” si sono confrontati, nell’Auditorium dell’”E. Medi” lo scorso 15 gennaio, studenti delle classi terze e competenti relatori accademici alla presenza di 14 insegnanti partner dell’Istituto provenienti da Spagna, Olanda, Slovacchia, Polonia e Turchia. L’organizzazione impeccabile della professoressa Carla Stella, aiutata dal lavoro delle professoresse Francesca Senigagliesi, Sara Doffo, Maria Bravi e Giuseppina Nardi, tutte fortemente sostenute dalla dirigente scolastica Annamaria De Siena, ha visto anche l’aiuto concreto di Barbara Luconi e Francesco Quercetti (genitori componenti del Consiglio di Istituto) di Sandro Antognini per il supporto tecnologico e di Mirthe Goldman (apprezzata insegnante di musica presso l’Istituto) che ha diretto la manifestazione inaugurale. Partecipazione anche della Civica Scuola di Musica di Porto Recanati durante il pomeriggio, di Ars Live di Recanati con Marco Sonaglia ed Edoardo Marani e l’importante lavoro di traduzione simultanea a cura di Eleonora Stortoni, collaboratrice de Lo Specchio. Dopo il successo del primo appuntamento sul tema del femminicidio, anche stavolta il format del talk show si è rivelato vincente ed ha coinvolto i ragazzi in un dinamico dibattito che ha messo “sotto torchio” gli accademici intervenuti. Cristiano Maria Bellei, docente di Antropologia della mediazione culturale presso l’Università di Urbino, Francesca Chiusaroli, docente di Glottologia e Linguistica all’Università di Macerata e Marco Moroni, docente di Storia Economica presso la Facoltà di Economia all’Università Politecnica delle Marche ad Ancona, hanno approfondito il tema sotto gli aspetti storici, culturali e sociali modulando le risposte con esempi concreti collegati direttamente alla realtà. Interessanti gli esempi della professoressa Chiusaroli che ha voluto mostrare come il linguaggio assuma un ruolo fondamentale nella costruzione sociale della realtà e, quindi, anche dell’identità di genere maschile e femminile. Nell’uso della lingua italiana prevale l’uso dei sostantivi, degli aggettivi e persino degli articoli (il/la, un/una) maschili per indicare ruoli di potere. Ad esempio, si preferisce usare “avvocato” piuttosto che “avvocatessa”, oppure di come esista “infermiera” e come invece sia rara la parola “ingegnera”. Interessante l’esempio del sostantivo ministro/ministra. La docente ha sottolineato come non abbia lo stesso effetto leggere un titolo che dichiara: “La ministra in topless” piuttosto che “Il ministro in topless”. Proposto dal professor Moroni, invece, un excursus storico che ha mostrato come sin dall’antichità gli uomini non fossero uguali e di come i diritti fossero basati su una gerarchia naturale. Nel Medioevo questa gerarchia si fondava su di un

Da sn Marco Sonaglia e Edoardo Marani dell’Ars Live di Recanati

I relatori da sn Cristiano Maria Bellei, Francesca Chiusaroli e Marco Moroni

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SCUOLA@INRETE

criterio ereditario, basato sulla nascita: i diritti fondamentali erano dei soli nobili che si consideravano dal “sangue blu”. Con i “philosophes” del Seicento e del Settecento si cominciò ad affermare che gli uomini fossero uguali nello stato di natura. Sarà la dichiarazione del 1789 che segnerà una svolta per il raggiungimento dell’uguaglianza dei diritti fra uomini e donne o fra le razze. E’ a partire dell’Ottocento e nel corso del Novecento, in particolare nel trentennio 1950-1980 che la disuguaglianza sociale incomincia a ridursi, ma tornerà a crescere dopo il 1980: oggi in Italia il 10 per cento dei cittadini controlla il 45 per cento della ricchezza.

Moroni ha concluso sottolineando come “gli uomini sono diversi ed è assurdo pensare di renderli uguali, ma uguali devono essere i diritti civili e politici e le opportunità sociali”. L’attualizzazione della tematica è stata offerta al pubblico dal professor Bellei secondo il quale la vera sfida è quella di educare all’uguaglianza per fare capire l’alterità. Spesso riconosciamo l’alterità nel senso dell’altro come nemico, come minaccia e pericolo, dando un volto a quella oscura paura con la prima persona che riconosciamo come più diversa delle altre da noi: l’immigrato, lo straniero, ecc. In questo senso l’alterità usata come uno strumento per identificare il male è una delle radici del razzismo e dell’intolleranza.

La valorizzazione delle differenze e un riconoscimento dell’uguaglianza condurrebbero ad una reciprocità e questo perché l’uomo, entità definita e autosufficiente, è un individuo dinamico, in continua trasformazione che riconosce l’alterità.

Tra gli interventi, anche quello dell’Ispettore Giovanni Soldini che, alternando la lingua italiana ed inglese, si è rivolto al pubblico e agli ospiti europei realizzando una efficace comunicazione interculturale.

Bella e formativa esperienza, dunque, quella che ha reso protagonisti questi giovani studenti già consapevoli cittadini di domani alle prese con un mondo sempre più interculturale e aperto a nuovi confronti umani e “digitali”.

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RECENSIONI

Dalla guerra nucleare sì, ma dai ladri no di Lino Palanca

È

l’amara considerazione del tenente dei carabinieri Riccardo Besso inviato in tutta fretta a Urbino dal comando del Gruppo dell’Arma istituito nel 1969 per la Tutela del Patrimonio Artistico. Nella città marchigiana è successo qualche cosa di clamoroso nel febbraio 1975, appena un mese dopo la nascita ufficiale del Ministero dei beni Culturali: sono scomparsi dalla Galleria Nazionale delle Marche, in una sola notte, due quadri di Piero della Francesca e uno di Raffaello. Non si tratta di disegni o schizzi o abbozzi. No, sono proprio quadri, e “quei” quadri. Abilità dei ladri? Inadeguata sorveglianza dei capolavori? O entrambe le iatture? Da qui comincia l’avventura dei carabinieri della compagnia di Urbino e del Gruppo TPA, primi protagonisti di una caccia tenace alla Madonna di Senigallia e alla Flagellazione di Piero, considerato, il secondo, uno dei trenta dipinti da salvare in caso di conflitto nucleare. E alla Muta di Raffaello. Con l’accompagno di tutto il bailamme mediatico che ci fu e l’immancabile indignazione trasversale di politici a molti dei quali, magari, riusciva difficile essere lucidi in tanto dolore: per qualcuno di loro Piero della Francesca avrebbe anche potuto essere il cugino di quella da Rimini, data la vicinanza con la città romagnola.

I militari del Gruppo TPA, che otterrà per questa operazione la medaglia d’oro, vanno a muoversi in una storia complicata come poche, scritta da mille possibili architetti dei crimini contro l’arte e con mille possibili sbocchi. Non hanno di fronte malandrini di quartiere, né ladri d’appartamento né scassinatori di banche. Qui c’è una delinquenza “raffinata”, colta, indirizzata ad agire con scrupolo e meticolosità, perfettamente cosciente di dove si deve arrivare e come e quando; avversario stimolante per chi la bracca, con la conseguente conferma dell’intuizione che Pascal affidò alle sue Pensées quando scrisse che più della preda vale la caccia.

Insieme al capitano Sabino Battista, a Besso e al brigadiere Domenico Oriani, altro protagonista è il giudice Giorgio Barbarigo, uomo innamorato di Urbino e delle sue bellezze artistiche e quindi colpito nel profondo dalla barbarie del furto. Capace d’intuito pronto e vivace, è uno che non si spaventa di osare; conosce bene i “suoi” carabinieri del

resto, e sa quello che può aspettarsi da loro. Non è un magistrato da poltrona e soprattutto è sempre ben presente sul terreno dell’indagine.

I quadri verranno ritrovati quattordici mesi dopo in un albergo di Locarno, il “Muralto”: da qui il titolo del romanzo. Che si legge con piacere perché la sua virtù principale è la scorrevolezza della lingua, la scrittura giornalistica applicata alla più vasta dimensione di un romanzo.

L’autore porta con sé, nella sua penna, quello che un cronista non deve mai dimenticare: ciò che scrive sarà letto dal laureato e da chi è potuto arrivare solo alla fine del corso elementare, tutti hanno diritto di capire mentre lui, il cronista, ha il dovere di mantenere sempre un equilibrio di qualità, mai scadere nel banale o perdersi nell’astrusità degli “ismi”.

Sicchè ha perfettamente ragione Luca Celidoni a scrivere, nella sua lucida prefazione, che .. In una scrittura sobria, fluidificata dalla lunga abitudine professionale, Oliveri mette un pizzico di spezie che danno sapore al racconto, senza però cercare effetti né usare gli espedienti del giallista che non appartengono al suo vocabolario … E ancora: … i fatti sono illustrati con cura della prosa e senza confondere giornalismo e ambizioni letterarie. Non certo per espediente estetico, ma perché è una buona scrittura che fonda il rapporto con il lettore.

Vincenzo Oliveri - Albergo Muralto camera 116 Loreto, Controvento ed., 2014 - Euro 14 – pp. 120 35

RECENSIONI

E t’amo e t’amo ed è continuo strazio di Luciana Interlenghi

“La solitudine mi è stata compagna per lungo tempo, ho cercato di fregarla scrivendo…”.

Uno schiaffo alla sofferenza

È

schietto il linguaggio di Maria Magi, privo di inutili lungaggini e di false retoriche e con Malgrado tutto, una personale cronaca quotidiana, quel tutto che la vita ci scaraventa addosso, si mette a nudo. La scrittrice scardina le porte dell’indifferenza, dell’isolamento, dell’assenza dei gesti d’affetto, così lontani dall’urgenza di riceverne e di regalarne, riuscendo anche a far satira sui tanti, troppi momenti di pena, per esorcizzarne la paura. Abituata ad aggredire la vita, dalle difficoltà che affronta con fermezza, produce anticorpi naturali. Combatte la malattia del marito, il morbo di Alzheimer, con la determinazione di chi sa che i suoi limiti saranno il solo sostegno su cui appoggiarsi. Condividendo il dramma di Giancarlo, Maria prende coscienza della propria labilità e della piccolezza di essere umano che, di contro, diventa grandezza nel suo soffrire di ogni giorno.

Malgrado tutto non è un grido di dolore, né una richiesta d’aiuto, ma uno schiaffo a ciò che si contrappone alla vita che continua, nonostante.

Il “quaderno” di Maria Magi è un diario della sofferenza, raccontata con parole asciutte, dirette. Verità scomode che si scagliano come pietre in un rimprovero per tutti coloro che della malattia fanno un mestiere, protetti dalla casta dell’indifferenza. La scrittrice si consegna senza maschere e trasmette il senso della forza e dell’abnegazione, necessarie per supportare il percorso di una situazione difficile. In nome dell’amore e della pìetas cristiana si volge verso un compagno di vita che non la riconosce più, che non può più regalarle un sorriso grato, perché l’Alzheimer blocca muscoli e pensieri.

Lentamente e inesorabilmente si resta soli, a combattere un mostro che non lascia scampo. La parola fine è l’ultimo orizzonte sulla cui linea si spegne l’inganno della guarigione. Il cuore di Maria ha palpitato e sanguinato all’unisono con quello di Giancarlo, sino all’ultimo istante e i loro respiri si sono intrecciati nella riconsegna finale. Restano, i ricordi, le sensazioni, le aspettative mancate, le domande prive di risposte, ma anche la sottile ironia che le ha dato forza e in cui si è rifugiata. Un’ironia che si respira con leggerezza e acume e che strappa sorrisi al lettore il quale, entrando nella storia di Giancarlo a denti stretti e con paura, ne esce abbracciando la vita con speranza.

Maria Magi nasce a Recanati.

Appassionata da sempre della lingua dialettale, nel 1995 fonda il gruppo teatrale ”Gli Instabili”, riadattando testi noti della Commedia dell’Arte.

Conduttrice radiofonica dell’emittente locale Radio Erre, è nonna di tre nipoti.

“Malgrado tutto” è il suo primo quaderno, autoprodotto.

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Maria Magi

Maria Magi - Malgrado tutto Recanati, mosca+co, 2014 Prezzo non indicato, pp. 55

RECENSIONI

Con Paolo Beni il cielo era rossoblu di Antonella Roncarolo

È

un lavoro certosino di ricerca di date, eventi e foto per ricostruire la storia calcistica ed umana del più amato dei giocatori della Sambenedettese, questo, per ciòo che lega Michele Rossi, grafico ed appassionato cultore di storia locale e Paolo Beni, “un’istituzione, forgiata da un ineguagliabile spirito di attaccamento alla maglia”. Come ogni lavoro di Michele Rossi, ciò che salta all’occhio del lettore è la cura grafica del prodotto/libro. La copertina riprende una vecchia foto in bianco e nero del campione e su uno sfondo di tifosi e un cielo colorato pastello si staglia la figura imponente di Paolo Beni, con la sua maglia rossoblu e la fascia dorata di capitano. La foto, eccellentemente ritoccata, ed il titolo “Paolo Beni - La bandiera” riassumono la storia di un uomo e di un campione che, come ha ricordato Alberto Eliani - suo mentore e primo allenatore - in una delle sue ultime interviste, era “leale in campo e nei rapporti interpersonali”. La pubblicazione, un “quaderno rossoblu” agile e piacevole, è ricca di foto di azioni sportive in campo del protagonista, riproduzioni delle figurine Edizioni Lampo, premi e riconoscimenti. Numerose le foto delle formazioni della Samb dal 1960 fino al 1973, con i nomi di tutti i giocatori che, negli anni, hanno indossato la maglia rossoblu.

Un lavoro importante per la storia del calcio e per il cuore di una città che batte da sempre in sincronia con il cuore della sua squadra, una città che non ha dimenticato che, quando negli anni Sessanta era solo un piccolo borgo marinaro sconosciuto, aveva la sua squadra di calcio in Serie B e giocava negli stadi delle grandi città. Fa da sfondo alla parabola sportiva di Paolo Beni lo stadio “Ballarin” - la mitica Fossa dei Leoni - inespugnata per venti mesi quando dal 15 giugno 1969 al 7 febbraio 1971 nessun giocatore di nessuna squadra riuscì a segnare. E del “Ballarin” Rossi ha trovato foto storiche dei suoi tifosi, Peppino il fornaio mentre urla il celebre “Svegliatevi, svegliateci, svegliamoci”, lo striscione “Paolo tu si na cosa grande” realizzato da Giuseppe Marconi e la moglie Fiorenza, discreta spettatrice di tutte le partite del suo Paolo insieme ai figli Giancarlo e Roberto che hanno seguito le orme paterne negli stadi.

La pubblicazione si apre con un editoriale di Michele Rossi in cui, nel raccontare con grande passione e ricchezza di informazioni la storia del campione, sembra amareggiato dal fatto che Beni “oggi è sicuramente sconosciuto ai giovani calciatori”. Ed è questa la molla che ha spinto il tifoso e lo storico Rossi alla ricerca e realizzazione del suo prezioso lavoro. Il corpo centrale del quaderno è una lunga intervista a Paolo Beni, in cui il campione racconta i suoi inizi, la fortuna di un incontro

di Strulli”). Una foto ritrae il povero Strulli con una smorfia di dolore nel

viso accompagnato da Paolo Beni, Pagani ed il dottor Monaldi fuori dal campo. L’attenta ricerca di Rossi nelle emeroteche ha trovato la classifica di un referendum del 1971 indetto dal quotidiano sportivo Stadio in cui veniva chiesto ai lettori di eleggere il campione sportivo ideale: in quell’elenco tra Gimondi, Mazzola, Rivera, Pelè e Panatta compare al 31° posto Paolo Beni (“quell’elenco, molti anni dopo, mi fece rendere conto di aver fatto qualcosa di importante per la società rossoblù”). In otto pagine, le ultime della pubblicazione, sono riportate tutte le partite (415, con i risultati e alcune note) giocate da Beni durante la sua lunga carriera interamente trascorsa nella Samb. Nei ringraziamenti il campione non dimentica nessuno, dai presidenti agli allenatori, giocatori, massaggiatori, custodi del “Ballarin”, amici e soprattutto i tifosi sambenedettesi che lo circondano ancora oggi di tanto affetto.

(“Auguro ai giovani calciatori di avere un maestro come lo è stato per me Alberto Eliani”), l’amore a prima vista con la città di San Benedetto che non è mai

finito, il suo ruolo di libero concepito in maniera moderna anticipando i tempi dei grandi Scirea e Baresi, i derby con l’Ascoli, il più bello al Ballarin sotto la neve (“…ma sai, quando vincevi contro l’Ascoli, era sempre bello, la felicità era doppia!”) e il più tragico quello del 14 febbraio 1965 quando morì il portiere bianconero Roberto Strulli, di origini toscane come lui (“una tragedia involontaria, ma pur sempre una brutta cosa. In seguito abbiamo disputato alcune partite anche da ex giocatori, per aiutare la vedova

Michele Rossi (a cura di) - Paolo Beni. La bandiera Acquaviva Picena, Laboratorio Terraviva, 2014 prezzo non indicato, pp. 32 37

RECENSIONI

All’università del vicolo di Angelica Bufalari Nel leggere la sceneggiatura di “El vigulu” non si può non apprezzare l’inarrestabile vena creativa di Rina Zaccari, la quale continua a sorprenderci con uno spaccato di trascorso paesano, forse sconosciuto alle nuove generazioni.

L’opera menzionata può apparire una leggera e divertente escursione in un contesto e in un dialetto ormai obsoleti.

Al contrario la materia è densa di spunti utili alla riflessione su temi che, a guardare bene, risultano sempre alquanto attuali: il fragile equilibrio dell’armonia familiare, la difesa della vita, le implicazioni dei rapporti sociali, la sofferenza del distacco nel cuore dell’emigrante, la fatica del lavoro.

E a seguire il senso dell’onore, il coraggio nei momenti difficili, la rassegnazione e l’accettazione dignitosa della propria condizione umana, la solidarietà, il perbenismo, il rispetto delle convenzioni, la coralità della condivisione quantunque cedevole al pettegolezzo.

L’arguta ed estroversa Autrice, ancora una volta, penetra con sottile e sommesso spirito d’osservazione in una quotidianità, in apparenza semplice e piana, in realtà minata da innumerevoli problemi e contrarietà in costante agguato.

E, forte di un curricolo costellato da ruoli di vario genere legati al palcoscenico, ci consegna, attraverso battute e dialoghi serrati, un mondo palpitante, immerso nella storia che, seppure non scritta con la lettera maiuscola, è capace di trasmettere la conoscenza del passato percorrendo secoli di valori, tradizioni, mentalità, costumi e linguaggi.

Di trasferire insomma, grazie all’immediatezza della comunicazione, cultura parimenti formativa , scevra dal mnemonico scolastico o libresco II tutto in rispetto all’obiettivo fondamentale del teatro: ampliare il ventaglio delle esperienze, arricchendo di conseguenza l’interiorità dello spettatore attraverso immagini, colori, suoni e parole.

Il coinvolgimento sensoriale legato alle suggestioni dell’azione scenica finisce infatti col toccare la parte più profonda della sensibilità individuale.

Con il risultato di una rinnovata predisposizione al confronto con situazioni diverse, alla comprensione delle dinamiche comportamentali, al rispetto delle scelte e delle opinioni altrui.

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Pina Zaccari El vigulu (commedia dialettale) Recanati, Bieffe Grafiche, 2015 prezzo non indicato, pp. 116

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