PORRO - Per le strade dell'arte

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Per le strade dell’arte


Ad Alessandro


Casimiro Porro

Per le strade dell’arte Ricordi e riflessioni di un protagonista, tra mercato e istituzioni con il contributo di Gianpietro Borghini


In copertina Umberto Boccioni, Elasticità, 1912 Collezione Jucker, Museo del Novecento, Milano

Crediti fotografici © 2018. Copyright The National Gallery, London / Scala, Firenze © 2018. DeAgostini Picture Library / Scala, Firenze © 2018. Foto Scala, Firenze Editor © 2018. Foto Scala, Firenze / Massimo Castellozzi Luciano Romano © 2018. Museo National Progetto grafico Thyssen-Bornemisza / Scala, Marcello Francone Firenze Coordinamento editoriale © 2018. Studio Fotografico Emma Cavazzini Luca Carrà / Scala, Firenze © 2018. Tate, London / Foto Redazione Scala, Firenze Silvia Carmignani © 2018. White Images / Scala, Impaginazione Firenze Anna Cattaneo Museo Civico della Città di Rimini Ricerca iconografica Vittorio Calore, Milano Paola Lamanna Collezione Banca Popolare dell’Emilia Romagna Collezioni d’Arte di Storia Nessuna parte di questo della Fondazione Cassa libro può essere riprodotta di Risparmio in Bologna o trasmessa in qualsiasi forma Fondazione R. Guggenheim, o con qualsiasi mezzo Venezia elettronico, meccanico o altro Foto di Pierantonio Tanzola senza l’autorizzazione scritta Gabinetto fotografico delle dei proprietari dei diritti Gallerie degli Uffizi, Firenze e dell’editore Gallerie Nazionali d’Arte © 2018 Gli autori per i loro testi Antica, Palazzo Barberini © 2018 Skira editore, Milano Museo Civico della Città © Giorgio de Chirico, di Rimini Lyonel Feininger, Mario Sironi Museo Diocesano, Milano by SIAE 2018 National Galleries of Scotland © Fondazione Lucio Fontana, Polo Museale della Campania. Milano by SIAE 2018 Su concessione del Ministero © Succession Picasso, per i Beni e le Attività by SIAE 2018 Culturali Tutti i diritti riservati Studio Paolo Vandrasch, Milano ISBN 978-88-572-3980-4 Finito di stampare nel mese di novembre 2018 a cura di Skira editore, Milano Printed in Italy www.skira.net


Sommario

7 Prefazione Gianpietro Borghini 11 Premessa 15 35 53 61 65 71 77 81 87 91 91 98 109 118 124

Milano e la collezione Jucker Il mercato dell’arte in Italia: bilanci e prospettive Gianfranco Ferroni o della giovinezza Giovanni Testori o della passione Carlo Volpe o dell’amicizia Federico Zeri o del genio Giuliano Briganti o dell’umanità Paolo Volponi o dell’impegno Da Finarte alla Porro & C. Conversazioni con quattro collezionisti Conversazione con Mario Scaglia Conversazione con Guido Rossi Conversazione con Giuseppe Iannaccone Conversazione con Francesco Micheli Note ai testi



Prefazione Gianpietro Borghini Elasticità di Boccioni del 1912, facente parte dalla collezione Jucker e qui riprodotto in copertina, è uno dei capolavori, forse il capolavoro del principale pittore dell’avanguardia italiana per eccellenza del XX secolo. Come tale lo individuò immediatamente un giovane e militante Roberto Longhi che, con la sua elegantissima prosa, ne affermava definitivamente la grandezza; e proprio dalle colonne della “Voce” di Marinetti, dall’interno, cioè, di quella irripetibile e folgorante avventura che fu il futurismo italiano: “[Boccioni] dallo studio dei piani superficiali del cubismo, per non raggelare la materia anzi per scatenarla è venuto a concepirla come un sovrapporsi di piani che si sfogliano, che si smallano come intorno a un compatto nucleo centrale: ed è il moto rotatorio impresso a questo nucleo che gli fa scartocciare la forma all’esterno come Saturno libera da sé gli anelli. [...] È a traverso queste ricerche delle direzioni essenziali della materia che si giunge a quella ‘Elasticità’ (cavallo, cavaliere e paesaggio), ch’è, sia detto a gran voce, un capolavoro, e dove si afferma quello ch’era inevitabile: il predominio delle curve vive.”1 “Elasticità”, dunque, anche nell’accezione longhiana, quale sinonimo per antonomasia di: vibrazione, movimento, vita. Nella sua propulsiva istanza di libertà, il futurismo fu certamente un fenomeno di anarchia poetica, di giocoso, sfrenato sperimentalismo destinato a esaurirsi nel medesimo lampo nel quale era rapidamente baluginato, scuotendo però la cultura italiana in modo profondo e irreversibile. Nel segno della provocazione, lucida e quanto mai salutare com’era stata quella futurista nell’Italia di allora, vuole porsi almeno in parte anche il bilancio professionale e umano raccolto in queste pagine da Miro Porro, rinnovando così una mai interrotta polemica nei confronti di una visione farisaica e conservatrice della tutela e della gestione del patrimonio artistico italiano. 7


Prefazione

Per Marinetti, schieratosi notoriamente dalla parte del più acceso interventismo, il passo dall’arte alla politica era stato breve; ma un ancor più esplicito legame tra “pensiero” e “azione” si sarebbe stabilito nell’immediato dopoguerra, quando il drammatico acuirsi delle difficoltà economiche e delle tensioni sociali aveva posto l’esigenza di proposte costruttive e concrete. Nel 1919, nel suo manifesto intitolato Democrazia futurista, Marinetti si rivolgeva ai “Fasci politici futuristi” e all’“Associazione degli arditi”, ma la valenza delle sue elucubrazioni era sostanzialmente aliena dalle mire politiche di Mussolini, malgrado l’iniziale fascino che Marinetti aveva esercitato sul fondatore del fascismo e malgrado il successivo compromesso con il partito; compromesso mai però completamente accettato da una parte né dall’altra, tanto che Marinetti venne infine schedato nel casellario politico del Ministero dell’Interno come “antifascista”. Quel che vale qui sottolineare è la radice eversiva del futurismo all’interno di un mondo culturale sostanzialmente accademico e conservatore, che presenta la spiccata tendenza a riformarsi in quanto tale anche nelle successive fasi della storia italiana, fino a oggi. Presentando nel 1919 la sua “soluzione” non più come “audaci e divertenti paradossi” (a differenza di quanto aveva fatto a suo dire nel 1913), ma per reperire fondi da destinare ai reduci di guerra, Marinetti dichiarava: “Vendiamo il patrimonio artistico! Si dice che noi siamo un popolo a tutti superiore per il suo genio elastico e creatore, il suo eroismo e per la sua giovanile resistenza muscolare, ma disgraziatamente povero. No, non è povero il popolo italiano. Noi futuristi affermiamo che il popolo italiano è il più ricco della terra, poiché possiede un incalcolabile capitale inutilizzato, costituito dall’enorme patrimonio delle opere d’arte antiche ammucchiate nei suoi musei. [...] Le nostre opere d’arte antiche, vendute in America, in Inghilterra, in Russia o in Francia, diventeranno la più efficace delle réclames al genio creatore della nostra razza.”2 Ma c’è di più. Marinetti arriva addirittura a formulare in nuce quella stessa proposta di asta archeologica con lo scopo di autofi8


Prefazione

nanziamento dei musei che, nel 1960, i fondatori della Finarte sottoporranno alla Sovrintendenza per i Beni Culturali, ottenendone però, come Porro ricorda nel libro, un netto rifiuto. Il capitolo marinettiano, che andrebbe integralmente riletto per la sua forza e la sua freschezza, finisce in sostanza con l’esortare la società italiana a un rinnovamento che non tema la tradizione ma la riattualizzi e la alimenti con nuova linfa, dialogando con essa come in un nuovo Rinascimento: “Il passato galvanizzato così, risorgerà per partecipare al gran progresso nazionale. I nostri grandi avi pittori e cultori, da Giotto a Botticelli, a Cellini, a Michelangelo, a Raffaello, parteciperanno alla nostra vita formidabile, ombre di futuristi geniali del loro tempo finalmente liberate dalla muffa e dal tedio dei musei.” La tesi di questo libro, dimostrata attraverso incontri e aneddoti pluridecennali, parte in sostanza dalla soluzione fantasiosamente lanciata cento anni fa da Marinetti, che pure conteneva semi di spiazzante verità, per rimuoverla dalla sua dimensione utopistica e paradossale e declinarla nella realtà del mercato dell’arte, praticato da Porro per cinquant’anni ai più alti livelli nazionali e internazionali. Sulla scia del futurismo dunque, massima manifestazione dell’arte italiana del Novecento, Elasticità non sta soltanto a indicare il rinnovamento radicale di un linguaggio, che è poi sostanza e modus operandi, ma diventa anche sinonimo di una visione laica dei beni culturali, di equilibrio fra tutela del passato e necessità del presente, di un’analisi della realtà forse eccentrica, ma proprio per questo ortogonale a essa, priva di accademismi, pregiudizi e velleitarismi.

R. Longhi, I pittori futuristi, in “La Voce”, 10 aprile 1913; ora in R. Longhi, Da Cimabue a Morandi. Saggi di storia della pittura italiana scelti e ordinati da Gianfranco Contini, Mondadori (I Meridiani),

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Milano 19977, pp. 1059 e sgg. 2 F.T. Marinetti, Democrazia futurista, in F.T. Marinetti, Teoria e invenzione futurista, a cura di L. De Maria, Mondadori (I Meridiani), Milano 1983, pp. 432 e sgg.



Premessa

Eravamo nel 1990 quando il Comune di Milano, grazie all’interessamento dell’allora Assessore alla Cultura Luigi Corbani, acquistò, attraverso la mediazione di Finarte, i fondamentali elementi mancanti del monumento funebre a Gaston de Foix. Il capolavoro del Bambaia, già allestito nel 1900 al Castello Sforzesco dopo secoli di degrado, veniva così ad arricchirsi e a prendere una forma molto più vicina a quella originale. Sul relativo catalogo, pubblicato per l’occasione da Finarte-Longanesi, appariva a firma del sottoscritto una nota di presentazione che spero mi si perdonerà se ripropongo ora qui: vorrei ripartire proprio da quelle considerazioni per cercare, approfondendole, di trarne un bilancio personale e professionale dopo più di cinquantacinque anni di attività spesa nel mercato dell’arte. “La riunificazione delle componenti fondamentali di questo complesso così importante per la storia artistica milanese è stata resa possibile da un rapporto di collaborazione tra la nostra società e il Comune di Milano, condotto sul filo di un’intesa continua che sarebbe auspicabile si instaurasse con maggiore assiduità tra il mondo del mercato dell’arte e le istituzioni. Finarte ha già agito in passato da tramite tra collezionisti privati ed Enti pubblici: basti ricordare la vendita del dipinto di Francesco Guardi, l’Incendio di San Marcuola, alle Gallerie dell’Accademia di Venezia o delle carte da Tarocchi di Bonifacio Bembo alla Pinacoteca di Brera, aggiunte significative e prestigiose a due grandi Musei. Ci si deve augurare che questi episodi non restino così sporadici e che si instauri tra i rappresentanti dello Stato e gli operatori del mercato dell’arte un rapporto di maggior fiducia e di mutuo e reciproco appoggio. In sistemi più evoluti del nostro il coordinamento, lo scambio, la collaborazione, sono il tratto saliente del mondo dell’arte. Accanto ai due poli contrapposti agiscono altre organizzazioni di diversa natura, 11


Premessa

che costituiscono un ulteriore elemento di mediazione e quasi completano il panorama della vita artistica, conferendogli una maggiore armonia. È il caso per esempio del National Art-Collection Fund, l’organismo che si preoccupa di assicurare ai musei inglesi tutte quelle opere che si ritengono di importanza nazionale attraverso finanziamenti e sottoscrizioni pubbliche. C’è sempre la speranza che anche in Italia possano nascere organismi animati da questo civilissimo spirito e che il medesimo cittadino comune si possa sentire coinvolto direttamente in operazioni di recupero e di arricchimento di quel patrimonio artistico del nostro paese per cui tanto si piange e ben poco si fa.” Ad altri lascio giudicare se, o in quale misura, in quasi trent’anni si siano verificati cambiamenti importanti rispetto a quella mia paginetta d’allora. Ai casi di vendita a enti pubblici che elencavo nel 1990, si possono aggiungere già a quell’altezza altri esempi notevoli e molti altri ancora dopo lo scioglimento di Finarte e la nascita, nel 2002, di Porro & C. La mediazione delle opere del Bambaia fu proprio la prima però, in ordine di tempo, tra quelle di cui vado più fiero, non solo per il valore artistico delle sculture in sé ma soprattutto perché destinate ad arricchire le collezioni pubbliche della mia città. Dopo il caso del Bambaia, altre occasioni si avvicendarono in una manciata d’anni, evidentemente favorevoli per le istituzioni pubbliche milanesi malgrado la feroce tempesta politica che stavamo attraversando: mi riferisco, prima per importanza, all’acquisto della collezione Jucker da parte del Comune di Milano, guidato dall’allora sindaco Gianpietro Borghini (1992), così come del San Benedetto di Antonello da Messina, autore quanto mai raro, scoperto in capo a una vicenda dai tratti romanzeschi dall’occhio infallibile di Carlo Volpe e, fino a ieri (ha infatti ormai preso la strada degli Uffizi) esposto nelle Civiche Raccolte d’Arte Antica del Castello Sforzesco. L’attrazione del mercante da parte del “pubblico” è del resto un fenomeno, per così dire, “endemico” e sono convinto che il matrimonio fra questi due soggetti non solo dovrebbe essere normalmente favorito ma è anche nei fatti felicissimo se si guarda ad esempi eccellenti come la fondazione Beyeler di Ginevra, che è fra le realtà più attive, efficienti e artisti12


Premessa

camente ricche d’Europa. E tuttavia non possiamo non constatare che iniziative come queste continuano a restare oggi, nel nostro Paese, casi sporadici. Ancora mancano infatti una cultura politica, e di conseguenza una legislazione, volte a regolare le operazioni di compravendita di ciò che è disponibile sul mercato da parte delle istituzioni pubbliche: direi anzi che in particolare l’idea della vendita di un pezzo da parte di un museo continua a destare scalpore sia presso i funzionari dello Stato sia in una buona parte dell’opinione pubblica, quando in tutto l’occidente (non soltanto nel mondo anglosassone) è invece un’operazione di carattere ordinario. Malgrado gli sforzi di alcuni sovrintendenti illuminati e preparati anche al di fuori del proprio settore di competenza, o di alcuni amministratori pubblici che con maggiore indipendenza di giudizio possono agire sul mercato dell’arte per conto delle istituzioni che rappresentano, il radicato atteggiamento tutto italiano di diffidenza, se non di ostilità verso il mercante, ha generato nel tempo dei paradossi. Ed è d’altro canto normale che ciò avvenga in sistemi chiusi e autoritari, arrivando a impedire, mediante l’implacabile arma della notifica, la vendita di quadri talvolta mediocri, di non imprescindibili oggetti di artigianato e perfino – sia detto senza cinismo – di insignificanti frammenti archeologici, per poi consentire l’esodo in massa di opere di immenso valore artistico (ed economico) come per esempio i tagli di Lucio Fontana; opere queste ultime che, proprio grazie a una relativamente libera circolazione negli anni sessanta, sono diventate in tutto il mondo l’emblema dell’arte italiana del secondo Novecento. Passando dall’esercizio della critica a quello della memoria, affiorano nella mia mente i volti, i gesti di quanti ho visto consacrarsi a una professione che così irresistibilmente travalica i suoi confini per coincidere con la passione e talvolta con la mania, come per Giovanni Testori, che fu il primo in ordine di tempo a collaborare con Finarte. Ma non potrei non ricordare interlocutori di eccezionale valore come Carlo Volpe, Federico Zeri, Giuliano Briganti, Paolo Volponi: tutti dotati di temperamenti molto diversi fra loro ma ciascuno, a suo modo, geniale. Ripercorrere il rapporto professionale e umano instauratosi nei decenni tra Finarte e questo manipolo di grandi significa anche prendere appunti per una storia 13


Premessa

del mercato dell’arte in Italia e rimarcarne purtroppo, in questo modo, il progressivo distacco dai lidi di una cultura fervida e di un collezionismo raffinato per navigare verso orizzonti dominati da competenze iperspecialistiche, indubbiamente piuttosto asettiche sul versante degli esperti e, sul versante degli operatori del mercato (nonché di alcuni collezionisti), dalla speculazione finanziaria. È vero che Finarte può considerarsi pionieristica anche dal punto di vista del fenomeno, oggi inarrestabile, proprio della “finanziarizzazione” dell’arte, dal momento che fu la prima al mondo, tra il 1959 e il 1960, a dotarsi di un capitale con il quale poter attuare una politica di acquisti autonoma e di garantire così venditori e compratori. È chiaro però che si trattava, allora, non di una speculazione spericolata e indifferente al suo oggetto ma di una finanza solida, al servizio di un più ampio progetto culturale e mossa da un amore incondizionato per l’arte. Soprattutto a Gianfranco Ferroni, punto di riferimento di una vita intera, va la mia memoria. Un ringraziamento cordiale devo infine agli amici che hanno accettato la proposta di raccontarmi la propria avventura con l’arte e le loro collezioni, diverse fra loro come diversi sono i caratteri e le storie degli uomini. Completa il testo una sezione iconografica che, senza alcuna pretesa di completezza, vuole fornire un saggio dell’attività economica e culturale svolta da Finarte e poi dalla Porro & C. I pezzi sono stati scelti in ragione del loro interesse storico-artistico, della loro attuale collocazione presso musei e fondazioni e per la relazione con le persone coinvolte nella narrazione. Nel momento in cui mi accingo a licenziare questo libro, Guido Rossi, la cui voce è fra quelle degli intervistati, ci ha lasciati. Alla sua memoria va il mio ultimo pensiero.

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Milano e la collezione Jucker

“Muor giovane colui ch’al cielo è caro”, traduceva dal greco Leopardi: caro agli dei fu certamente Umberto Boccioni, che moriva nel 1916 a soli trentaquattro anni. Per celebrarne la memoria nel cinquantesimo anno della nascita, Milano gli dedicava una mostra e, sul numero speciale della rivista “Dinamo Futurista”, Fortunato Depero così scriveva. “Boccioni visse la sua intensa e feconda vita a Milano. Perciò, durante il congresso futurista nel 1924 (con un mio discorso) avevo invitato le autorità e il pubblico intellettuale milanese ad onorare il maestro UMBERTO BOCCIONI, nonché ad istituire una Galleria d’arte boccioniana allo scopo anche di assicurare alla patria le sue migliori opere. Oggi sono raggiante che tali onoranze siano giunte alla realizzazione. Speriamo pure che esse si concludano con la fondazione di una Galleria d’arte non solo dedicata all’opera di Boccioni ma […] con l’aggiunta di una Galleria Futurista e delle Avanguardie straniere. Così Milano infaticabile, dinamica ed esemplare metropoli, vanterà la più originale galleria d’arte del mondo.”1 Lontano, per ragioni storiche e caratteriali, dalle “raggianti” esaltazioni di sapore futurista, preferisco, da mercante d’arte e da milanese, una silenziosa soddisfazione ispirata alla realtà. Grazie all’acquisizione pubblica della collezione Jucker, che integra in modo determinante le precedenti raccolte pubbliche, Milano possiede oggi la più ricca collezione di opere futuriste al mondo, là dove la principale avanguardia storica italiana, e non soltanto, è nata e ha prosperato. La collezione Jucker mi pare dia poi compimento, di per sé, al secondo auspicio di Marinetti e Prampolini, annoverando al suo interno una selezione altissima delle più significative avanguardie straniere, còlte nel loro momento più vibrante. Risalendo il percorso che si snoda nella “torre” del Museo del Novecento lungo le vetrate che svelano inedite prospettive su piazza Duomo, si fa largo innanzitutto il potente Quarto Stato di 15


Milano e la collezione Jucker

Pellizza da Volpedo, ma solo dopo aver varcato le soglie vere e proprie del museo si dispiega al visitatore il nucleo internazionale della collezione Jucker. Nel piccolo spazio che funge da anticamera alla grandiosa Sala delle Colonne non si può che restare catturati dall’intenso Picasso del 1907, da Kandinskij, da Klee, da Mondrian, dalla celebre Odalisca di Matisse e, sulla parete opposta, dal Morandi metafisico del 1918 e dal Braque del 1913. La Jucker continua poi a occhieggiare lungo il percorso: gli altri suoi pezzi “italiani”, accanto ai numerosi della collezione Boschi, signoreggiano nei ranghi del futurismo, con Boccioni, Soffici, Balla, Severini, per arrivare infine ai De Chirico, riservati alla sala della pittura metafisica. Al di là del Museo del Novecento basta dare uno sguardo d’insieme ai musei d’arte moderna e contemporanea presenti oggi in Italia per constatare che non poco è stato fatto negli ultimi anni sia da parte del pubblico che del privato: da Torino a Roma, da Bergamo a Napoli, da Rovereto a Siracusa. A uno sguardo più attento è tuttavia possibile definire meglio un’impressione riconducibile, secondo me, a due tendenze generali. Da un lato si assiste alla povertà di alcune collezioni permanenti, magari a fronte di edifici che sono spesso il frutto di vasti e costosi interventi architettonici (sull’esempio del cosiddetto museo star, in “stile Guggenheim” di Bilbao). D’altro lato, specie per quanto riguarda la produzione più particolarmente moderna a cavallo tra Otto e Novecento, si assiste a collezioni nutrite ma limitate ad aree di produzione regionali e appartenenti a un periodo in cui l’Italia, salvo rare eccezioni, ha ormai oggettivamente perduto la sua preminenza sulla scena artistica internazionale. Nella stessa Roma, la GNAM (Galleria Nazionale d’Arte Moderna) conserva sostanzialmente i soliti noti: Pirandello, Guttuso, Scipione e tutti i maggiori del Novecento nostrano. Di Morandi abbiamo raccolte intere: a Bologna naturalmente o a Trento dove, dal 1997, è stata depositata la famosa collezione Giovanardi. Bolognese ortodosso, Giovanardi, insieme alla moglie, la signora Di Stefano, aveva costituito una raccolta ricchissima di opere del suo conterraneo e di altri italiani tra i quali De Pisis, Licini, Mafai, Sironi. Benché essa rappresenti una delle più significative collezioni private italiane messe a disposizione del pubblico, mi sembra avvicinarsi di più ai modelli del collezionismo 16


Milano e la collezione Jucker

ottocentesco, poco incline ad autori e movimenti internazionali, intenta invece a rincorrere la pittura fra le due guerre “made in Italy”. Altro grande collezionista bolognese fu, per esempio, Oliviero Mazzoli, industriale nel settore della plastica per componenti di automobili: “un omarino” – come affettuosamente lo definiva Carlo Volpe – “intelligente e sensibile”, dotato non tanto di una cultura pittorica sua propria ma certamente di un formidabile e spontaneo intuito. Mi colpì molto quando mi confessò candidamente di non aver mai messo piede nella Pinacoteca di Bologna; e non era uomo da aver viaggiato nei grandi musei di Londra o di Parigi. A Bologna andammo insieme a visitare le vaste collezioni pubbliche soffermandoci non solo sui Morandi. A Milano, quando gli mostravo diverse opere tutte insieme, senza sospettarne l’autore o la provenienza, era in grado di scegliere infallibilmente il pezzo migliore, il più rilevante in termini storico-artistici oltreché estetici: e subito lo comprava. O ero bravo io o era bravo lui! Ricordo bene che una volta, mentre discorrevamo tranquillamente nel mio studio, gli parlai di un quadro molto bello che avevo per le mani in quel momento ma gli dissi che non credevo avrebbe incontrato i suoi gusti, che non era, insomma, “adatto” a lui. Mazzoli riuscì a fatica a nascondere un’espressione di disappunto, pensando forse che io volessi mettere in dubbio la sua capacità critica o, chissà, quella finanziaria. Naturalmente non avevo avuto nessuna intenzione di questo tipo: tutto avrei fatto tranne che offendere uno dei miei clienti migliori! Il risultato fu comunque che, per smentirmi, volle a tutti i costi accaparrarsi l’opera. Si trattava di un quadro di Michael Sweerts, tra i più preziosi fiamminghi di età barocca, rappresentante un gruppo di musici. Il mio giudizio era stato forse inopportuno ma si rivelò poi corretto. Il quadro uscì infatti abbastanza presto dalla collezione di Mazzoli per raggiungere, sempre tramite la mia mediazione, quella di Guido Rossi. Mazzoli acquisì nel tempo un numero notevole di quadri di grande qualità: ricordo, per fare solo un esempio, un Bergognone, oggi a Brera e un Gaudenzio Ferrari, oggi alla Galleria Sabauda di Torino. Un giorno, trovandomi a Londra intorno alla metà degli anni ottanta, vidi nella galleria di uno dei più importanti antiquari inglesi la porzione di una predella d’altare di Giovanni Bellini. Subito la comprai. Rientrato a Milano, chiamai Mazzoli dicendogli che avevo qualcosa 17


Milano e la collezione Jucker

che forse poteva interessarlo. Ventiquattr’ore dopo si presentò in Finarte. Quella prelibatezza non poté non esercitare il proprio fascino su una così spiccata sensibilità e il Giambellino prese immediatamente la via di Bologna. Mi soffermo su questo ricordo poiché Mazzoli era una personalità così tipicamente e, insieme, eccezionalmente italiana. Possedeva quell’intuito spontaneo, quel talento artigianale e imprenditoriale che lo aveva favorito nella professione come nel collezionismo, nella irregolare tradizione del genio italico: individualista perché istituzionalmente solo, ma per questo tanto più libero e creativo. Un ambito particolarmente amato e coltivato da Mazzoli era quello dell’antico. Un collezionismo che difficilmente ricade nel rischio del campanilismo, della parzialità, è quello di chi si dedica alla pittura delle origini, del Due e del Trecento. La ragione è semplice quanto inopinabile, dal momento che i fondi oro hanno come unico centro di produzione il centro Italia, con qualche rara propaggine a Praga, che possiede una sua scuola, o in Francia, ad Avignone. Non si può neppure dimenticare lo svizzero Konrad Witz, che ne tradusse i fasti oltralpe fino alla metà del nuovo secolo. Ma in quegli stessi anni, al di qua delle Alpi, già operavano Beato Angelico e Filippino Lippi, mentre Piero e Giovanni Bellini stavano ormai per affacciarsi sulla scena. L’acquisto di un fondo oro pisano, opera di un prolifico Giovanni di Nicola, per esempio, magari di secondo piano in termini storico-artistici rispetto a un fiorentino o un senese, non compromette comunque il valore di una ideale collezione. Si tratterà di una raccolta di artisti locali ma, nello stesso tempo, primaria a livello mondiale. Nel momento in cui la moderna Europa delle nazioni nasceva, gli italiani sono stati i maestri di tutti. Pensando a figure sul filo dell’internazionalità, che è sempre un buon sintomo di cultura e consapevolezza, la memoria mi riporta al collezionista milanese Astorre Mayer (1906-1977), uno dei più autorevoli esponenti dell’ebraismo italiano del dopoguerra che, forse non indipendentemente dalla natura cosmopolita della cultura ebraica, rivolgeva i propri interessi ben al di là dei patri confini. Mayer aveva costituito negli anni una raccolta ricchissima, specialmente di pittori impressionisti: purtroppo ebbi però con lui rapporti limitati poiché la sua collezione era già in larga parte formata quando ci conoscemmo e, dopo pochi anni, lui morì. 18


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