Short Theatre 2020

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Per un festival, manifestarsi ha sempre del miracoloso. Quest’anno, lo sentiamo tutt_, forse ancor di più. E nell’idea che le cose potessero sfuggire, sappiamo di aver chiesto “di più”: a noi, al tempo, allo spazio della città, agli/le artist_ e alle persone coinvolte nel programma. Oggi più che mai questa possibilità di manifestarsi è il frutto – e il dono – di uno sforzo collettivo di cui siamo grat_ e che speriamo di saper ricambiare. Gli edifici crollano, le statue cadono, i mari continuano a essere liquidi letali per molt_, intorno a noi la terra brucia e si fa,per noi, sempre più inospitale. I mesi che abbiamo trascorso ci impongono di guardare al cuore delle cose, con tutta la violenza che questo comporta. Non basta più preparare la casa in cui incontrarci, perché di quella casa dobbiamo riprogettare insieme la forma, reiventando anche le strategie e gli strumenti con cui costruirla. Il nostro orizzonte ci si svela oggi (finalmente?) per quello che è: squarciato, confuso, trasformato, magmatico, a volte tossico. Ma è proprio in questo che ri-scopriamo qualcosa che già sapevamo, e che dobbiamo tradurre sempre più in pratica: la nostra manifestazione non partecipa di alcuna natura divina, non ha a che fare con il miracolo, non rappresenta uno stato di grazia, un’eccezione alla regola. La nostra manifestazione riguarda la possibilità sempre presente di trasformare, il potere – tutto terreno – del lottare, la capacità di immaginare ciò che non è ancora, di creare spazio dove sembra non possa esistere, di diffondere e disseminare il desiderio, opponendo il comune al proprio, il collettivo al singolare, il trasmettere al tramandare, il trasformare al conservare. La nostra manifestazione ci ricorda che distruggere è sempre un’opzione – gioiosa, vitale, erotica – di fronte a un mondo che continua a morire di ingiustizia, privilegio, autoreferenzialità. E che distruggere, anche nelle sue accezioni più morbide – modificare, cambiare, trasformare, rivedere, correggere, spostare – non è che un passaggio che prelude al costruire.

* Il 25 maggio 2020 a Minneapolis il cittadino afro-americano George Floyd viene arrestato e ucciso da un agente di polizia bianco che lo ha spinto a terra soffocandolo con un ginocchio premuto sul collo. A partire da questa uccisione, un’ondata di proteste infuoca la città e tutti gli Stati Uniti d’America. All’alba del 29 maggio 2020 Ruhel Islam, proprietario del Gandhi Mahal Restaurant, ristorante Bangla-Indiano nella periferia sud di Minneapolis, viene informato che il suo ristorante è stato gravemente danneggiato dalle fiamme causate dalle proteste. Nel ricevere la notizia Ruhel Islam dichiara: «Let my building burn, justice needs to be served» (Lasciate che il mio palazzo bruci, bisogna fare giustizia).



Indice Intro: una manifestazione

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Conversazione #1 con Fabrizio Arcuri, Francesca Corona, Piersandra Di Matteo, Attilio Scarpellini

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Progetti in Residenza

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Displacement of Festival / More Than This

23

Controra 25 Altri Racconti

33

Per un’amatissima Atena Nera di Anna Antonia Ferrante + Francesca De Rosa

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Programma / Progetti

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Conversazione #2 con Francesca Corona, Simone Frangi, Daniel Blanga Gubbay, Elisabete Paiva 74

Tempo Libero

80

Progetti Europei

84

Network e collaborazioni

86

EcosostenibilitĂ 87 Merchandising 87 Bar & Ristoro

88

Be safe! Covid-19

88

Staff 90 Ticket 91 Appendice:

Performa il tuo genere, performa la tua razza! di Elsa Dorlin 92


CALENDARIO

VENERDÌ 4 SETTEMBRE WeGil 18:00 - 24:00

Monira Al Qadiri DIVER (4’) Travel Prayer (2’30’’) Behind The Sun (10’)

Sala Rossa Salotto | Auditorium

18:00 - 24:00

Salvo Lombardo – Jungle Soul

Mezzanino

19:00 + 20:30

Zapruder – Anubi Is Not A Dog

Campetto

25’

19:30

Radouan Mriziga – 0. / Short Theatre

Piscina

40’

21:00

Gérald Kurdian – Hot Bodies - Choir

Scalinata

30’

21:30

OHT_Scuola Nomadica

Little Fun Palace

55’

22:00

Kinkaleri / Jacopo Benassi – Once more

Hall

23:00

Elena Colombi

Piazzetta

Matthew C. Wilson, The Age of Autonomous Exploration

≈ 35’

SABATO 5 SETTEMBRE WeGil 18:00 - 24:00

OHT_Little Fun Palace progetto in residenza

18:00 - 24:00

Monira Al Qadiri DIVER (4’) Travel Prayer (2.5’) Behind The Sun (10’)

Sala Rossa Salotto | Auditorium

18:00 - 24:00

Salvo Lombardo – Jungle Soul

Mezzanino

18:00

Elsa Dorlin incontro pubblico

Piazzetta

1h30’

19:30

Radouan Mriziga – 0. / Short Theatre

Hall

40’

21.00

BLUEMOTION / Giorgina Pi – Tiresias

Campetto

45’

22:00

Gérald Kurdian – Hot Bodies – Choir

Scalinata

30’

23:00

Lala &ce

Piazzetta

00:30

Bunny Dakota – Svuotapista

Piazzetta

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DOMENICA 6 SETTEMBRE WeGil 18:00 - 24:00

Monira Al Qadiri DIVER (4’) Travel Prayer (2.5’) Behind The Sun (10’)

Sala Rossa Salotto | Auditorium

18:00 - 24:00

Salvo Lombardo

Mezzanino

18.30 + 20:00

Salvo Lombardo

Hall

40’

19:00

OHT_Scuola Nomadica

Little Fun Palace

21:00

BLUEMOTION / Giorgina Pi

Campetto

22:00

Lola Kola + Bertuccia Rock Acetato

Piazzetta

Jungle Soul

Opacity #2

Giovanni Attili, Lo spazio dell’abitare tra abbandono e spettacolarizzazione 45’

Tiresias

LUNEDÌ 7 SETTEMBRE La Pelanda 16:00 - 19:30

PANORAMA ROMA

Teatro 2

19:00 - 24:00

Forensic Oceanography

Galleria

19:30

OHT_Little Fun Palace - Immagini alla Deriva

Little Fun Palace

Timpano/Frosini Liquid Violence

opening Liquid Violence di Forensic Oceanography con Lorenzo Pezzani, Annalisa Camilli, Françoise Vergès, Elsa Dorlin e online: Camilla Hawthorne

MARTEDÌ 8 SETTEMBRE La Pelanda 16:00 - 19:30

PANORAMA ROMA

Teatro 2

19:00

OHT_Little Fun Palace

Little Fun Palace

19:00 - 24:00

Forensic Oceanography

Galleria

19:00

Marco D’Agostin

Teatro 1

45’

20:30

Giorgia Ohanesian Nardin Գիշեր | gisher

Studio 2

1h 30’

22:00

Marco D’Agostin

Teatro 1

45’

Manuela Cherubini & Luisa Merloni Memestetica. Il settembre eterno dell’arte con Valentina Tanni, Ilaria Gianni, Valerio Mattioli Liquid Violence First Love

First Love

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MERCOLEDÌ 9 SETTEMBRE La Pelanda 16:00 - 19:30

PANORAMA ROMA

Teatro 2

16:30 + 18:30

Tiago Cadete

Altri Spazi

50’

19:00 - 24:00

Forensic Oceanography

Galleria

19.30

Emilia Verginelli

Teatro 1

1h15’

20:00

OHT_Little Fun Palace Praticare alleanze:

Little Fun Palace

21:30

Giorgia Ohanesian Nardin Գիշեր | gisher

Studio 2

23:00

Ubi Broki L’anno che verrà

Little Fun Palace

lacasadargilla / Emiliano Masala Fiume

Liquid Violence

Io non sono nessuno - anteprima qual è la differenza tra “dare spazi di autonomia” e “concedere spazi controllati”? Incontro con Al. Di. Qua. Artists con Giacomo Curti, Dalila D’Amico, Francesca Corona online: Chiara Bersani, Diana Anselmo, Anna Consolati

1h 30’

GIOVEDÌ 10 SETTEMBRE La Pelanda 16:00 - 19:30

PANORAMA ROMA

Teatro 2

19:00 - 24:00

Forensic Oceanography

Galleria

19:00

Volmir Cordeiro

Galleria

1h

20:00 - 22:00

Cosmesi

Zona Esterna

20:30

Emilia Verginelli

Teatro 1

1h 15’

22:15

David Marques

Studio 2

1h

23:00

Enrico Kybbe

Little Fun Palace

6  Short Theatre 2020

Veronica Cruciani Liquid Violence Rua

Cosmesi fa un buco deluxe Io non sono nessuno - anteprima Dança Sem Vergonha Kybbe’s Bonus Beat


VENERDÌ 11 SETTEMBRE La Pelanda 17:00 + 19:00

Paola Rota + Simonetta Solder + Teho Teardo

Teatro 1

1h

19:00 - 24:00

Forensic Oceanography – Liquid Violence

Galleria

19:30

Simon Senn – Be Arielle F.

Studio 2

1h

20:30

OHT_Little Fun Palace Lo strano dancefloor:

Little Fun Palace

21:00

Catarina Miranda – Dream is the Dreamer

Teatro 2

55’

22:00

Marie Losier – Felix in Wonderland!

Spazio Aperto

50’

23:00

Felix Kubin – Concerto

Spazio Aperto

1h

24:00

Front De Cadeaux – Flusso di suono

Spazio Aperto

Illegal Helpers

trasmissioni dal New Beat con Hugo Sanchez e Maurizio Athome

SABATO 12 SETTEMBRE La Pelanda 16:00 - 19:30

PANORAMA ROMA – Alessandra Di Lernia

Teatro 2

18:00

OHT_Little Fun Palace

Little Fun Palace

19:00 - 24:00

Forensic Oceanography – Liquid Violence

Galleria

20:00

Simon Senn – Be Arielle F.

Studio 2

1h

21:30

Jacopo Jenna – Alcune coreografie

Teatro 1

45’

23:00

Dj Marcelle – selezioni musicali

Spazio Aperto

Moment of Reflection / More Than This a cura di Simone Frangi

Teatro Argentina

20:30

El Conde de Torrefiel – La Plaza

1h30’

DOMENICA 13 SETTEMBRE La Pelanda 19:00 – 24:00

Forensic Oceanography – Liquid Violence

Galleria

19:00

OHT_Little Fun Palace Il tempo sospeso delle immagini

Little Fun Palace

20:30

Jacopo Jenna – Alcune coreografie

21:30

Marie Losier – The Ballad of Genesis and Lady Jaye

Spazio Aperto

23:00

Bob Junior – Double Tape Deck

Spazio Aperto

con Attilio Scarpellini e Andrea Cortellessa

45’ 1h15’

Teatro Argentina

18:00

El Conde de Torrefiel – La Plaza

1h30’

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INTRO

UNA MANIFESTAZIONE Alla fine della scorsa edizione abbiamo cominciato a disegnare questa quindicesima, immaginandola come una festa di passaggio, come un’occasione per tessere dei fili di questi anni, cercando indietro nel tempo e nel presente – che sono poi la stessa cosa, nel loro riverberare – e trovandoci a ragionare su qualcosa che doveva essere l’inizio di un archivio, un catalogo ma non un semplice catalogo, una concatenazione di pensieri, una mappa colta nel suo comporsi – discorsi come fiumi, sguardi come piazze, forme dello stare, insieme. Nei primi mesi della inaspettata emergenza sanitaria e sociale che ha invaso questo 2020, abbiamo oscillato dall’idea di dover sospendere la realtà di questa edizione, di inventare altre forme per cui potesse manifestarsi, di farne ad esempio una versione ‘cartacea’ – prendendo così da un’altra parte ancora l’idea di un archivio di discorsi: non una semplice rinuncia di fronte all’assenza dello spettacolo dal vivo, ma il rilancio di una possibilità in cui fermarsi a pensare e a guardare, in un altro modo, ancora ma diversamente. Poi abbiamo intravisto la possibilità di esserci e di poter riaccogliere e ricomporre anche quest’anno la comunità di artist_, pubblico e operatori/trici che sono e fanno Short Theatre. E allora, nel rispetto delle regole e delle condizioni che questo periodo emergenziale ci chiede di seguire, l’impianto del festival resta inalterato, anche se articolato diversamente: attraverso un respiro ampio, si dispiega in uno spazio più largo, in un’atmosfera più morbida e rarefatta. Sarà quindi ancora una volta – la quindicesima! – ritrovarsi per cercare i gesti e le parole per manifestarsi, ritrovarsi, a sé stess_ e gli/le un_ con gli/le altr_, e immaginare già le prossime: le future, quelle che sentiremo più vicine, e che ancora non conosciamo. E saranno i linguaggi, dalla performance al teatro, dalla danza alla conversazioni, alla musica, ad animare la nostra comprensione di questo presente. Si rinnovano alcuni progetti in forme inedite, come l’incontro tra Panorama Roma e Fabulamundi, e poi i Progetti in Residenza che ci accompagneranno per tutta la durata del festival, e la Controra, un tempo musicale che quest’anno sarà ancora più prezioso, dovendo rinunciare alla sua temperatura sovversiva e coagulante. Anche quest’anno l’apertura del festival è negli spazi di WeGil, il Tempo Libero dei laboratori al Teatro India, e poi la programmazione alla Pelanda e al Teatro Argentina.

8  Short Theatre 2020


Le righe che state leggendo sono le prime di un catalogo che raccoglie tutte queste intenzioni e derive: l’idea di una concatenazione di pensieri e discorsi che ci faccia riattraversare i primi quindici anni di Short Theatre, e poi tentativi di svolgere l’interpretazione di un presente così spiazzante, in dialogo con gli/le artist_ e con tutte le persone complici che abitano e vivono il festival. Abbiamo sentito il bisogno di rivolgerci agli/lle artist_, coinvolgendoli attivamente nella costruzione del racconto del festival, chiedendo loro di prendere parola non solo attraverso i propri lavori ma anche condividendo con noi le risposte ad alcune delle domande che hanno accompagnato la preparazione di questa edizione. A raccontare il festival, così, sarà proprio il coro di voci e corpi che lo attraversano, che lo animano e lo compongono, in una trasmissione di parole e immagini che vorremmo si faccia, questa sì, contagiosa. Una delle pratiche a cui siamo più affezionat_ è la scelta del sottotitolo. Una frase, una parola, cui affidavamo il compito di raccontare l’articolazione dell’edizione, di condividere l’atmosfera in cui ci sentivamo avvolti nella sua fase finale di preparazione. Non un tema, non un titolo, ma una traccia, la condensazione di un atto collettivo di creazione e di cura. Di fronte alla complessità enorme di questi giorni, scegliamo questa volta la strada della sottrazione, occupando diversamente lo spazio del dire. Questa edizione di Short Theatre non sarà accompagnata da un sottotitolo, provando a far sì che sia la rarefazione dei segni, piuttosto che il suo moltiplicarsi, a liberare ancora altri significati. Il catalogo che andrete ora a sfogliare contiene il risultato di questo dialogo: con gli/ le artist_, teoric_, curat_, attivist_, critic_, alcun_ che conoscevamo già, qualcun_ conosciuto proprio grazie a questa occasione. I testi di presentazione del programma, così come gli interventi teorici sono frutto di conversazioni, reali o immaginarie, dirette o indirette con il gruppo di persone che quest’anno è Short Theatre 2020. Conversazioni che hanno a che fare con il tempo, con le geografie affettive e spaziali in cui si colloca il nostro fare, e con tutte quelle cose, persone, immagini, temi, pensieri che vi ruotano intorno e che lo nutrono. Conversazioni che nel farsi del festival accadono sempre, normalmente, e che oggi rivendichiamo come nostra pratica guida.

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10  Short Theatre 2020 «Su tutte le scuole dovrebbe essere scritto: non importa se non capisci, segui il ritmo.» Maria Lai


6 agosto 2020 Il ricorrere della quindicesima edizione di Short Theatre ha fatto sorgere il desiderio di riunire alcuni sguardi intorno al corpo del festival, diffuso nel tempo e nello spazio della città. Ne è nata una conversazione a quattro voci, che vuole essere un primo passo verso la ri-costruzione di un archivio di Short Theatre, a sua volta corpo vivo e multiforme, in continuo movimento nei pensieri e nei gesti delle persone che lo hanno attraversato fino a ora. A prendere parola: Attilio Scarpellini, autore e critico Piersandra Di Matteo, studiosa, dramaturg e curatrice Fabrizio Arcuri, regista e co-direttore di Short Theatre Francesca Corona, curatrice e co-direttrice di Short Theatre

Attilio Scarpellini: Forse è il caso di cominciare dall’inizio. Non per fare bilanci, che è un’attività tipica del Capitale, ma per cominciare a storicizzare qualche questione. Short Theatre nasce nel 2006 come rassegna, e non come festival, preceduta da un aggettivo inglese che vuol dire “breve”, “corto”, che al di là del formato, sembra alludere a una dimensione minore di spettacolarità e anche a uno stato di frammentazione del pubblico, a uno spettatore individualizzato e un po’ divagante simile a quello descritto da Paolo Ruffini e Stefania Chinzari nel loro Nuova Scena Italiana, un libro che si affacciava sugli anni zero ma che veniva dagli anni novanta. È una rassegna di percorsi e di processi, più che di spettacoli, che esce dai limiti della scena istituzionale per vivere e abitare lo spazio del teatro India che, già all’epoca, costituisce un luogo elettivo per tutto un vasto movimento teatrale. Alle spalle ha una compagnia, Accademia degli Artefatti, che proprio un anno prima ha sottoposto la sua poetica a una svolta radicale – segnata dalla spoglia messinscena dei Tre pezzi facili di Martin Crimp - e nel contempo un’area artistica plurale, Area06, che non a caso è stata il principale soggetto dell’occupazione di India dopo la “cacciata” di Mario Martone che di quello spazio era, è, a tutti gli effetti il fondatore. Vogliamo partire da questi dati per capire che cosa avviene nel tempo di queste premesse? Fabrizio? Fabrizio Arcuri: Effettivamente all’inizio Short Theatre aveva la r di Short cerchiata per segnalare anche un altro significato, che era shoot, un verbo che in inglese significa “sparare” (ma anche “scattare una fotografia”), l’idea di un teatro “sparato” si agganciava soprattutto alla drammaturgia contemporanea inglese, che in quegli anni prendeva forma attraverso testi estremamente puntuali rispetto a ciò che stava accadendo nella realtà e per questo veniva chiamata shoot theatre. Gli accadimenti si moltiplicavano e subito se ne facevano delle traduzioni drammaturgiche. La spinta, lo stimolo iniziale, dunque, è stato di porre l’accento sulla drammaturgia contemporanea perché sentivamo l’esigenza di staccarci da un’idea tradizionale di repertorio e di cominciare ad avvicinare il pubblico su un terreno di prossimità, non solo fisica ma tematica, chiudendo l’era delle riletture, dei tagli e delle riscritture di opere più o meno classiche.

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Complice il Blue Cheese, il Rialto Santambrogio e, appunto, Area06 in tutta la sua compagine dell’epoca: Roberto Latini con “Fortebraccio Teatro”, Ascanio Celestini con “Fabbrica”, Caterina Inesi di “Travi Rovesce” e Alessandra Sini di “Sistemi dinamici altamente instabili”, PAV, cioè Roberta Scaglione e Claudia Di Giacomo, e “Quelli che restano”, il gruppo di Werner Waas e Fabrizio Parenti. Decidemmo di fare questa azione proprio il giorno in cui Albertazzi debuttava al Colosseo con Giulio Cesare. La chiamammo Nerone: occupammo il Teatro India chiedendo all’assessore Borgna e al dirigente del dipartimento dell’epoca, che era Giovanna Marinelli, una conferenza stampa per stabilire quali potessero essere le sorti di quello spazio. Non volevamo in alcun modo appropriarcene, entrarci dentro e fare noi una programmazione, chiedevamo semplicemente che fosse restituito alla città... A.S.: è stato un po’ il problema e l’assillo di tutte le amministrazioni, più o meno fino a tempi recenti, questo continuo tentativo di sottrarre il teatro India all’impulso che l’aveva fatto nascere, di sottrarlo e di normalizzarlo con una continua sottovalutazione, svalutazione e diminuzione della capacità creativa di questo spazio, ridotto, per usare le parole di un ex direttore del Teatro di Roma, a un “palcoscenico di serie B”. F.A.: Sì, India è sempre stato visto come un luogo poco adatto al pubblico borghese dello stabile romano dai direttori che si succedevano, Albertazzi, Lavia… C’era il ghiaino e i tacchi delle signore rischiavano di rompersi, le sedie erano scomode, tutta una serie di caratteristiche “inadeguate” lo facevano vedere quasi come il figlio piccolo e menomato della grande struttura...Siamo dovuti arrivare a questa direzione per vedere di nuovo il Teatro India abitato per quello che è e non più considerato come un fratello minore da nascondere e da usare per iniziative secondarie e trascurabili. Piersandra Di Matteo: in questo senso diventa interessante capire quali erano le caratteristiche di questo luogo che meritavano invece un investimento ideativo, progettuale e abitativo. Questo figlio minore non era adatto al “grande” spettacolo. Ma quali erano invece le caratteristiche che potevano costituire le basi per immaginare un altro spazio, un altro teatro e, di conseguenza, un altro pubblico e un’altra città? Insomma, quali sono stati i pensieri che hanno animato le prime traiettorie curatoriali ideate a partire dalle caratteristiche del luogo stesso? F.A.: Il Teatro India è una sorta di grande piazza circondata da mura, di fatto è proprio una cittadella e, sostanzialmente, la sua caratteristica più interessante e più importante è proprio nella sua capacità di riunire una sorta di comunità che può frequentare quello spazio in una maniera intensa, India ha quella caratteristica essenziale dei luoghi che sono luoghi dello stare, dell’incontro e del confronto, di un modo diverso di partecipare all’esperienza teatrale, che non si limita alla visione di uno spettacolo ma si estende a tutto quello che ci può essere intorno. Quando riuscimmo a ottenere dal Teatro di Roma che producesse la prima edizione di Short Theatre, pensavamo che la cosa più importante fosse proprio restituire a quello spazio queste caratteristiche e farlo vivere agli spettatori e alle spettatrici, ai cittadini e alle cittadine, alle persone in un modo diverso. D’altronde anche Martone si era speso molto in quell’anno e mezzo di direzione del Teatro di Roma per far vivere quello spazio in una maniera alternativa, spingendosi fino al punto di inscenare l’Edipo a Colono, la sua maggior produzione con lo stabile capitolino, al Teatro India, occupandone tutti gli spazi, a cominciare da quelli esterni.

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A.S.: Insomma, Short è stato la proiezione di un desiderio rispetto al teatro India che è stato sempre molto chiaro alla comunità teatrale romana, mentre è sempre risultato opaco agli amministratori politici e ai dirigenti delle istituzioni teatrali della città. Come si spiega questa prolungata mancanza di volontà politica, questa vera e propria noluntas, nello stabilizzare uno spazio per il contemporaneo in una città come Roma di cui le alterne vicende del Teatro India sono lo specchio? F.A.: È tutt’altro che inspiegabile o sconcertante. India è un luogo che ha bisogno di un’idea, di un pensiero, e in questo senso non rientra nello standard dei teatri stabili e dei circuiti della stabilità. All’inizio era abbastanza un unicum, poi nel corso degli anni anche gli altri teatri stabili italiani si sono dotati di un taglio più piccolo. Francesca Corona: dopo la direzione di Martone, Short Theatre è stata una prima risposta, la prima conversazione reale con quel luogo. India, se si dipana il filo della sua identità, rivela una vocazione immediatamente destituente del potere centrale, ed è proprio questa la cosa che, per così dire, non si è mai voluta, l’oggetto di quella noluntas di cui parla Attilio: il fatto che quel luogo per com’è fatto chiama, quasi grida, alla coabitazione, alla frequentazione, alla socialità, ed è per questo che diventa scomodo appena accetti di assecondarne l’indole. Credo che Short Theatre, – mi sento di poterlo dire proprio perché non ero nella parte ideativa del Festival all’inizio – abbia reso giustizia a questa possibilità, diventando quello di cui il contesto cittadino aveva disperatamente bisogno: una cinghia di trasmissione tra l’underground e tutto quello che si muoveva negli spazi informali, da una parte, e l’istituzione dall’altra. A.S.: Short e il Teatro India, in fondo, rispondevano in maniera abbastanza lineare a quella vocazione artistica di Roma che ha sempre puntato a una creatività diffusa e non centralizzata dall’istituzione pubblica: Roma non è mai stata, come Milano, la città del teatro di regia e del teatro pubblico nel senso di Grassi e Strehler, così come, nel campo delle arti visive, si muoveva in una direzione molto diversa, più plurale e meno organizzata, dal mainstream dell’arte contemporanea: era la città della scuola di Piazza del Popolo, della pop art in versione italica, in cui sbarcavano gli artisti di Fluxus e non quelli dell’espressionismo astratto, la città di geni singolari come De Dominicis, di gallerie come l’Attico o la Tartaruga, che del resto intrattenevano legami stretti e profondi con il teatro delle cosiddette cantine. Città segreta, per più di un verso, dove Kantor debuttava con i suoi primi spettacoli in Italia ma non in un teatro, bensì nei sotterranei della GNAM di Palma Bucarelli. Tutto ciò, insomma, di cui Renato Nicolini avrebbe fatto la sintesi nei tempi in cui le Estati romane diventarono un modello culturale per la politica del ministro della cultura di Mitterrand Jack Lang.... F.C.: Certo, è come dire che quella è la nostra tradizione. Ma una certa critica ha fatto finta che questo modo di fare teatro, di stare a teatro e di sconfinare dai suoi limiti, sia “antiteatrale” come se non ci fossero stati anche loro al Beat 72 o a vedere spettacoli in piazza. Si disconoscono le analogie, le affinità che ci sono nell’intento politico di rimettere la cittadinanza al centro dei processi artistici. Poi, chiaramente, le cose prendono la forma del tempo che vivono. Gli attuali tentativi di marginalizzare spazi come India e quel che in essi accade, ad esempio, mi sembrano i prodotti di una malattia molto diffusa nella nostra società, quella che consiste nel creare continue controparti dialettiche, mettendo le generazioni una contro l’altra. C’è una

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tendenza del Capitale a cavalcare il conflitto tra genitori e figl_ per promuovere un’idea di rivolta che in realtà è funzionale alla restaurazione della norma, a sostituire i veri conflitti con degli pseudo-conflitti che cercano di disinnescarne la potenza e di smorzarne la carica di dissenso. P.D.M.: Vorrei fare ancora una piccola nota rispetto a quegli anni, perché stiamo parlando degli anni 70 che non furono soltanto anni di apertura, di scene alternative, dell’invasione del palco di Castel Porziano. Furono anche gli anni della deriva terroristica. La paura di stare nello spazio urbano, di occupare le strade, di essere insieme nello spazio pubblico è un dato di fatto che non va dimenticato. Quindi, come suggerisce anche Francesca, si tratta di capire quali sono i punti di convergenza rispetto a certe pratiche che stiamo cercando di mettere in campo oggi e con quello che diceva prima Fabrizio, su questo shift fondamentale per cui chi progetta con una certa attitudine è interessato a scoprire uno spettatore cittadino, uno spettatore o una spettatrice che ha un desiderio di partecipazione attiva e anche di partecipazione integrale all’evento teatrale, che non si esaurisce più con la presentazione del lavoro ma implica una processualità complessa che va da quando si esce di casa e si incontra il vicino o si aspetta insieme, tutto quel dispositivo, insomma, che in qualche modo India riusciva e riesce a fomentare. F.C.: Se ci teniamo su questa traccia dei luoghi credo che un nodo fondamentale sia la trasmigrazione di Short Theatre dal Teatro India, quello spostamento del centro che è avvenuto in maniera molto graduale tra India e la Pelanda e il Mattatoio. Su questo punto, io e Fabrizio abbiamo sempre concordato: quello spostamento ha costituito uno snodo, ci ha messo ancor più di prima in ascolto dei luoghi e di quello che questi luoghi, e i contesti che li circondano, chiedono. Lo spostamento sul Mattatoio è avvenuto nel 2010 e per un paio di anni ha visto Short Theatre dividersi esattamente a metà, una settimana a India e una settimana al Mattatoio, per poi trovare il suo centro qui al Mattatoio pur lasciando sempre accesa la relazione con il Teatro di Roma. Nel frattempo, anche Roma stava cambiando. Utilizzare, quindi, il Mattatoio, trasformandolo in un luogo di spettacolo dal vivo con tutte le amicizie con le altre arti, significava migrare in luoghi che uscivano dalla mappa degli spazi comunque “delegati” allo spettacolo dal vivo. Stiamo parlando dell’altro lato del fiume rispetto a India, di un luogo ubicato nello stesso quadrante cittadino ma che esprime una relazione con il quartiere completamente diversa. India rientra nei posti “selvatici”, mentre il Mattatoio è uno dei simboli di Roma ed è considerato da tutti come una piazza, la stessa parola che ha usato Fabrizio per descrivere India. A.S.: Dunque possiamo dire che c’è un genius loci di Short Theatre? F.A.: Creare quello che chiami un genius loci è proprio la spinta maggiore che ha sempre animato Short Theatre. Naturalmente Short Theatre ha cambiato nel corso del tempo orizzonte per ovvi motivi, ma ha sempre cercato di dialogare con la città, con le sue assenze e con i suoi vuoti. Ha sempre cercato di colmarli, non in maniera coercitiva ma rilanciando in modo ideativo e progettuale. Cercando di costruire dalle fondamenta una relazione con una nuova spettacolarità e un nuovo modo di rapportarsi agli artisti e ai loro processi creativi. Soprattutto nelle prime edizioni, c’erano artisti e artiste che invitavano altri artisti e artiste, c’era una volontà di concedere all’artista lo spazio, il tempo e la necessità che effettivamente gli servivano, esercitando una comprensione intima e profonda di cosa significava farlo. E quindi stando sempre dalla loro parte, perché li si comprendeva intimamente.

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P.D.M.: Mi sembra di aver potuto osservare anche da lontano che Short avesse la capacità di creare alleanze tra gli artisti/e, di creare una comunità che si riconosceva dentro un discorso comune. Questa possibilità di riconoscersi insieme mi è sempre parsa un dato evidente... F.C.: Questa comunità che compone e componeva Short Theatre è anche frutto di una stratificazione di responsabilità e di desideri. La possibilità di far emergere il lavoro di un artista di Roma all’interno dello stesso paesaggio in cui si muovono artisti e artiste internazionali e di generazioni diverse, tutti chiamati a coabitare nello stesso spazio. Questo sforzo e questa intenzione non puntano a omologare le diversità all’interno di uno stesso cappello, le chiamano ad appoggiarsi una con l’altra nello stesso panorama, a inserirsi e a formarne lo sguardo con le proprie differenze. La presenza a Short di artisti/e più riconosciuti a livello internazionale ha spesso innescato delle parentele inedite che facevano emergere questioni e aiutavano a rileggere lavori in apparenza iper-locali. Short ha portato all’interno di una città caotica e sfaccettata, dispersiva e segreta quale è Roma, la possibilità di immaginare il mondo come lo vorresti e di provare ad abitarlo, a frequentarlo, non solo attraverso la fruizione dell’arte, ma attraverso la creazione di uno spazio pubblico. Short Theatre, in questo senso, non esce dalla dimensione metropolitana, la sospende e la intensifica. Il fatto di aver avuto per un periodo una doppia sede ha fatto emergere una forza propulsiva che poteva abitare questo e potenzialmente anche altri luoghi. F.A.: Mi piacerebbe aggiungere che fin dalla prima edizione il tentativo è stato quello di costruire un discorso, cioè di tentare non solo di fare incontrare artisti e artiste di natura e generazioni diverse ma di farli incontrare intorno a un discorso. C’è sempre stato un tentativo forte di istituire centri di riflessione con cui relazionarsi, tant’è che fin dalla prima edizione abbiamo speso molto tempo a creare attorno agli spettacoli un apparato di conversazioni, incontri, confronti. Abbiamo sempre cercato di costruire una riflessione, se non una struttura di pensiero, che accompagnasse e orientasse la visione di questi incontri intra-generazionali. Da sempre abbiamo ospitato compagnie giovanissime che erano quasi alle prime esperienze e compagnie più adulte che magari si incontravano a Short Theatre in passaggi particolari della loro produzione perché avevano una forma poco adeguata al circuito dei teatri stabili, come è accaduto con le Albe, con Danio Manfredini, con la Valdoca. Abbiamo sempre cercato di fare in modo che anche il pubblico giovane che si avvicinava al festival spinto dalla curiosità nei confronti di giovani gruppi fosse messo in relazione anche con le generazioni del passato per costruire, o forse reinventare, una sorta di memoria. Questa volontà di mantenere viva una anti-tradizione che veniva continuamente polverizzata. P.D.M.: rispetto a quello che dici, Fabrizio, sulla creazione di discorso e di dispositivi discorsivi, mi ha sempre interessato il fatto che Short si sia preso la briga di individuare un tema, di gettare nell’arena una o due parole attorno alle quali aggregare una serie di pensieri, ma anche entrare in risonanza con il palinsesto che veniva composto. C’è tutta una diatriba nelle arti performative se sia più corretto costruire un palinsesto che lasci il pubblico nella possibilità di costruirsi un proprio percorso, se l’indirizzo di una traiettoria sia più inclusivo o meno inclusivo. Io ho sempre pensato che uno spazio debba prendersi la responsabilità di progettazione e di costruzione di un discorso, che bisogna avere la forza di individuare una traiettoria e che

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far convergere le diverse operatività intorno a questo nodo sia una presa in carico non da poco, anche perché le questioni che Short ha cercato di affrontare sono state radicali, sono state politiche, hanno toccato temi come la democrazia, il futuro... F.A.: Fin dalla prima edizione abbiamo sempre scelto un sottotitolo che rappresentasse una traccia di riflessione, la più esatta possibile, su cui costruire il discorso e intorno alla quale confrontarsi in maniera sempre dialettica e non necessariamente consensuale. È stata una necessità forte che ci ha consentito di costruire dei fils rouges che naturalmente lo spettatore segue nel modo che gli sembra più interessante, ma che comunque costituiscono il fulcro, intorno al quale contestualizzare tutto quello che succedeva all’interno del Festival. Ma non ci siamo mai messi seduti a tavolino a scegliere il titolo, prima abbiamo scelto una serie di spettacoli e poi attorno a essi abbiamo costruito il giusto contenitore in cui raccoglierli, la prospettiva che ci sembrava li attraversasse e di conseguenza fosse la più atta ad articolare un discorso. Così mi pare, almeno, no Francesca? F.C.: Sono molto d’accordo anche perché con il sottotitolo definiamo l’inizio di un discorso con il pubblico, è la prima battuta di un dialogo, non l’ultima. Tutto poi in questi quindici anni è cresciuto vertiginosamente, Short è diventato una macchina più complessa che risponde a economie più importanti. E una delle strade è stata quella dell’alleanza con la teoria, che per me è una cosa molto cara anche grazie all’esperienza che ne ho fatto all’interno di Short Theatre. È un’alleanza che guarda a tutte le intersezioni tra arte e attivismo, teoria e politica facendo così emergere che non c’è mai una cosa che commenta un’altra, ma c’è sempre un pensiero che entra in dialogo con altri pensieri, intendendo anche il teatro e lo spettacolo come forme di pensiero, al pari della filosofia o dei movimenti politici. Tornando alla città, anche Roma è cambiata molto. Quella relazione che Fabrizio ha raccontato, e che era possibile in un certo momento, con il Rialto e altri spazi sociali che sono venuti a mancare o sono stati debilitati dagli sfratti e dagli sgomberi, ha prodotto incontri e alleanze completamente diverse con dei club, con locali di Roma Est, con filosofi e filosofe internazionali. Tutte queste complicità, vicinanze, questo percorrere insieme pezzi di strada, si è articolato in un modo sempre più complesso, sviluppando una tattica più sofisticata, più capillare, più inedita. Bisogna cercare i nodi del discorso dove non ti aspetteresti di trovarli. P.D.M.: Mi sembra che questo si colleghi anche alle azioni nell’ex Gil, alla loro istanza di tematizzare l’urgenza di decolonizzare la cultura. Sempre più entra in azione un discorso filosoficamente informato e orientato contro quelle logiche che operano e attivano forme di subalternità razziale, sessuale ed economica. Ecco, mi interessa capire come specialmente in anni recenti questa operatività e questa possibilità ancora una volta di occupare uno spazio con delle istanze decolonizzanti sia entrata in una progettualità curatoriale come quella di Short. F.C.: seguendo la linea degli spazi che ci ha accompagnato fin dall’inizio della nostra conversazione, lo spazio della ex Gil arriva per ultimo. Questa che stiamo per vivere è la seconda edizione in cui ci occupiamo di questo luogo così complesso: abbiamo riflettuto tanto prima di capire se eravamo pronti o potevamo attrezzarci abbastanza per poterlo attraversare, in qualche modo è stata la possibilità per noi di incarnare e situare tutto ciò su cui stavamo lavorando. L’ex Gil è uno spazio imponente, che fa paura, è uno spazio pieno

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di segni che per un romano sono anche segni consueti, perché la nostra città è piena di segni fascisti. È stata anche una procedura curatoriale diversa da quella a cui eravamo abituati, non nelle intenzioni ma nella pratica. Gli artisti e le artiste sono stati coinvolti da subito, gli è stato chiesto se avevano voglia di abitare un luogo del genere, perché e in che modo. È stato un discorso condiviso, aperto, ritracciato, controverso e pieno di dubbi, quindi estremamente intenso, ma siamo usciti dall’ex Gil sapendo che è davvero possibile restituire, riappropriarsi di luoghi così fortemente segnati senza farsi divorare da loro, ma utilizzandoli come strumenti di decolonizzazione del nostro sguardo, del nostro pensiero. P.D.M.: Volevo sapere da Fabrizio, invece, cosa porta di nuovo dentro Short un progetto come Panorama Roma che riprende il tema del rapporto con i luoghi, con i gruppi artistici e più in generale con quella che sempre di più è la fragilità dei processi di creazione... F.A.: Panorama Roma è l’altro polo del discorso iniziato con WeGil, come sempre sulla base di un’occasione. Il discorso di Panorama Roma non è molto diverso: venendo a mancare i luoghi, le dimensioni di lavoro e le alleanze di cui ha parlato Francesca, c’è stato lo sgretolamento di quella sorta di filiera virtuosa che eravamo riusciti a mettere insieme con la complicità degli spazi informali romani. È chiaro che ora ci troviamo in un altro contesto, in un’altra situazione, ci troviamo in una città completamente diversa, dove quello che per noi è sempre stato normale, cioè che ci fosse un dialogo tra le compagnie, che ci fosse un confronto e una riflessione costante, è venuto di nuovo a mancare. Vuoi perché, come è ovvio che sia, per generazione e per età ciascuno ha trovato la sua strada. Vuoi perché non esistono più dei luoghi di incontro, di riflessione e di confronto, luoghi come il Rialto e l’Angelo Mai – e ce n’erano molti altri – dove non solo costruivamo i nostri spettacoli e facevamo le prove, ma avevamo la possibilità di confrontarci con gli altri. Anche in questo caso, Short Theatre si è nuovamente trovato nella necessità di colmare un vuoto. Quest’anno a differenza degli altri anni, la formula di Panorama Roma invece di essere la presentazione del proprio lavoro tenta di fare un piccolo passo avanti, costruendo assieme al progetto Fabulamundi il tassello di una possibile modalità produttiva. Perché non si incontra il pubblico solo al debutto, lo si incontra anche durante il processo creativo. A.S.: Uno dei titoli delle ultime edizioni di Short Theatre parlava di “Nostalgia di futuro”. Mi ricordo che qualcuno commentò: il futuro non è più quello di una volta. Vogliamo chiudere questa conversazione parlando di cosa Short Theatre sta depositando nel futuro, visto che voi due, Fabrizio e Francesca, lo state per l’appunto consegnando al futuro? F.A.: questo chiaramente è un tasto dolente, per me e immagino lo sia anche per Francesca: non è facile pensare di “abbandonare” Short Theatre, ma è anche un atto un po’ dovuto, perché credo che sia altrettanto importante che un modello come quello di Short, che è sempre stato un modello inquieto alla costante ricerca di confini e di vuoti da colmare e necessità a cui rispondere, sia arrivato a un punto in cui sperimenti la possibilità di accogliere anche altre generazioni di curatori e curatrici che si occupino di teatro in questo modo. È da un po’ che pensiamo, a un futuro altro per un festival che ha delle caratteristiche più uniche che rare, come quella di svolgersi in una metropoli e di dialogare incessantemente con quello che accade intorno, cercando appunto sempre l’interstizio giusto dove andarsi a posizionare.

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F.C.: quello che dice Fabrizio vale anche per me: non è facile lasciare qualcosa dentro al quale e con il quale si è cresciuti. Ora credo che Short Theatre sia in un momento in cui la sua identità è molto chiara e che quindi possa anche essere tradita. Il tentativo che vorremmo fare è di permettere questo ricambio, per dare la possibilità a curatori e curatrici di crescerci dentro, come abbiamo fatto noi, ma anche per dare un destino a Short Theatre che non abbiamo la capacità di individuare o di immaginare, in forme che noi non vediamo. Pur essendo enormemente cresciuto nel tempo, Short resta un meccanismo non finito che nessun atteggiamento curatoriale potrebbe esaurire, il festival è uno spazio inquieto, in un certo senso più forte di chi lo controlla, dove è difficile, se non impossibile, accomodarsi. Esistono due modelli: quello “occupazionale” dei festival e delle istituzioni culturali che vengono diretti per decenni dalle stesse persone, e quello del ricambio che ogni volta azzera bruscamente la dirigenza e ricomincia ogni volta da capo. Qual è la giusta misura invece? Personalmente credo che le cose importanti siano per la vita e dunque in qualche modo la mia relazione con Short è “per la vita”. Ma questo tutto significa fuorché occupare un posto: è proprio per prendermene cura, invece, che voglio lasciare spazio.

editing: Attilio Scarpellini

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Negli ultimi anni Short Theatre si è fatto sempre più spazio aperto alle smarginature, pronto ad accogliere le intuizioni che arrivano dall’esterno. I Progetti in Residenza sono quei progetti stanziali che abitano il festival per tutta la sua durata, o quasi. Zone di accadimenti quotidiani, con un proprio calendario che si innesta su quello principale, curate da artist_ con cui il festival condivide sguardi e affinità. In questo modo Short Theatre moltiplica virtualmente e fisicamente i suoi luoghi e si fa contenitore di una simultaneità di dialoghi che, a loro volta, nutrono la temperatura, gli accadimenti e le presenze che attraversano il festival. Quest’anno i progetti in residenza si mescolano in particolar modo con Tempo Libero, la sezione che Short Theatre dedica ai laboratori e alle occasioni di apprendimento, rendendo ancora più presente la vocazione alla condivisione e aprendo nuovi percorsi che incontrano gli altri spazi del festival.

The Resident Projects are those projects which are designated to function throughout the entire duration of the festival. There are two areas for daily happenings, a specific calendar which interacts and comments on the main calendar of the festival, two oases curated by artists with whom the Festival shares affinity and proximity. This year the resident projects are mixed in particular with Tempo Libero, the section that Short Theatre dedicates to workshops and learning opportunities, making the vocation to sharing even more present, and opening new paths that meet others spaces of the festival.

OHT Little Fun Palace

dal 4 al 6 | WeGil dal 7 al 13 | La Pelanda

Riccardo Fazi / Muta Imago + Elise Simonet + Jessie Mill Les Cliniques Dramaturgiques

dall’ 8 al 12 | La Pelanda

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OHT / Little Fun Palace Una roulotte. Un padiglione piccolo e portatile. Un luogo effimero di aggregazione. Un omaggio al Fun Palace; il leggendario progetto dell’architetto Cedric Price e della regista teatrale Joan Littlewood che negli anni sessanta volevano realizzare un’università della strada, un laboratorio del divertimento. Little Fun Palace è un progetto parassita di OHT al cui interno vengono organizzati incontri, dialoghi, balli e ogni forma di spontaneità possibile. Un progetto che mette a fuoco il momento successivo all’offerta culturale; il momento in cui le idee, le parole e le reazioni delle persone hanno bisogno di spazio per avvenire. Little Fun Palace affronta un vuoto contemporaneo riesumando la raison d’être delle aree pubbliche; quella di forum aperto all’incontro fra persone diverse. Durante il primo weekend di Short Theatre, Little Fun Palace diventa una Scuola Nomadica che s’interroga su come lo spazio produce la realtà considerando lo spazio e il paesaggio come territori estetici che hanno implicazioni politiche pur non utilizzando le parole della politica. Per info vedi Tempo Libero a pagina 82.

Fondato nel 2008, OHT [Office for a Human Theatre] è lo studio di ricerca del regista teatrale e curatore Filippo Andreatta, il cui lavoro si occupa di paesaggio e di politica personale sottilmente affrontata nello spazio pubblico e privato. OHT ha collaborato a livello nazionale e internazionale con, tra gli altri, Fondazione Haydn (IT), NYC Artists’ Salon (USA), Romaeuropa festival (IT), Triennale Teatro Milano (IT), the Josef and Anni Albers Foundation (USA), Whitechapel Gallery Londra (UK), Teatro della Tosse Genova (IT), Istituto Italiano di Cultura di Vienna (AT) e MAXXI museo delle arti del XXI secolo Roma (IT). Infine, Centrale Fies è stata spesso partner di vari progetti, sia per produzioni sia per debutti. OHT è stata premiata per eccellenza artistica, con premi come Nuove Sensibilità per giovani registi teatrali (2008), premio Movin’Up per giovani artisti (2016 e 2017), OPER.A 20.21 Fringe (2017) e una nomina come Miglior Allestimento Scenico ai premi UBU (2018).

Little Fun Palace di OHT | Office for a Human Theatre idea Filippo Andreatta collaborazioni artistica Salvatore Peluso set-design Filippo Andreatta costruzione Massimiliano Rassu, Franco Righi, Antonello Marzari produzione Laura Marinelli co-produzione OHT, MAXXI museo nazionale delle arti del XXI secolo, Short Theatre, Terni festival in collaborazione con MutaImago

dal 4 al 13 settembre WeGil e La Pelanda

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Little Fun Palace is a parasite project of OHT, founded by Filippo Andreatta, an ever-changing place for encounters, talks, balls, gigs and any other form of possible spontaneity. This is a project focusing on the moment right after the cultural activity; the moment in which ideas, words and people’s encounters require space to happen. Little Fun Palace tackles a contemporary void exhuming the raison d’être of public areas; that one of being an open forum for encounters of different people. During Short Theatre 2020, Little Fun Palace becomes a Nomadic School questioning how space produces reality by considering space and landscape aesthetic territories that have political implications although not using the words of politics.

18:00 - 24:00


OHT / Little Fun Palace

21:30

Scuola Nomadica

Matthew C. Wilson,

film | 55’

The Age of Autonomous Exploration

ingresso gratuito

domenica 6 settembre

19:00

Scuola Nomadica

Giovanni Attili

incontro

lunedì 7 settembre

19:30

martedì 8 settembre

19:00

mercoledì 9 settembre

20:00

mercoledì 9 settembre

23:00

giovedì 10 settembre

23:00

venerdì 11 settembre

20:30

sabato 12 settembre

18:00

Lo spazio dell’abitare tra abbandono e spettacolarizzazione

WeGil

venerdì 4 settembre

ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria su Eventbrite

incontro

con Lorenzo Pezzani, Annalisa Camilli, Françoise Vergès, Elsa Dorlin e online: Camilla Hawthorn

ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria su Eventbrite

Memestetica, il settembre eterno dell’arte con Valentina Tanni, Valerio Mattioli e Ilaria Gianni

presentazione del libro ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria su Eventbrite

La Pelanda

Immagini alla deriva

Praticare alleanze: qual è la differenza tra “dare spazi incontro ingresso gratuito di autonomia” e “concedere spazi controllati” con Al. Di. Qua. Artists, Giacomo Curti, Dalila D’Amico, Francesca Corona online: Chiara Bersani, Diana Anselmo, Anna Consolati

con prenotazione obbligatoria su Eventbrite

Ubi Broki L’anno che verrà

selezioni musicali

Enrico Kybbe Kybbe’s Bonus Beat

selezioni musicali

Lo strano dancefloor: trasmissioni dal New Beat

ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria su Eventbrite

con Hugo Sanchez e Maurizio Athome

Moment of Reflection / More Than This

a cura di Simone Frangi

domenica 13 19:00 Il tempo sospeso delle immagini settembre con Attilio Scarpellini e Andrea Cortellessa

ingresso gratuito fino ad esaurimento posti

ingresso gratuito fino ad esaurimento posti

incontro ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria su Eventbrite

presentazione del libro ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria su Eventbrite

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Riccardo Fazi / Muta Imago + Elise Simonet + Jessie Mill Les Cliniques Dramaturgiques

Riccardo Fazi, in collaborazione con Jessie Mill e Elise Simonet, sviluppa per la prima volta in Italia il format di ricerca e condivisione de Les Cliniques Dramaturgiques, ideato dal Festival TransAmériques di Montréal. Cinque dramaturg internazionali sono invitate/i a condividere pratiche, teorie, questioni, strumenti legate alla loro pratica drammaturgica. Uno spazio-tempo di lavoro condiviso della durata di una settimana durante il quale i/le dramaturg provenienti da paesi, contesti e pratiche artistiche diverse discutono insieme dei loro progetti in corso, delle loro pratiche individuali e delle scene artistiche, teoriche e politiche all’interno delle quali queste si sviluppano. Al centro di tutto un’indagine sul ruolo del dramaturg nella creazione artistica contemporanea, in relazione alle istituzioni, alle pratiche di compagnia, all’insegnamento nel contesto delle performing arts. Le tracce dei materiali prodotti durante gli incontri verranno raccolte, editate e in seguito pubblicate: in formato cartaceo e in forma di “sound capsules”, brevi podcast audio per piattaforme online. La ricerca si aprirà anche verso l’esterno, attraverso una serie di “consultazioni private”. Le/i dramaturg invitate/i offriranno infatti quotidianamente la loro attenzione, il loro ascolto e la loro presenza ad un gruppo di artist_ locali di teatro, danza e arti performative, in una serie di incontri “uno a uno” dedicati alla cura dei processi di creazione legati alla drammaturgia e alla scrittura di progetti inediti. Dramaturg presenti: Piersandra Di Matteo, Nedjma Hadj Benchelabi, Riccardo Fazi, Sandra Noeth, Elise Simonet

Le Clinique Dramaturgique è il progetto artistico proposto da Short Theatre per il programma di Fabulamundi Effects, il festival conclusivo del progetto Fabulamundi. Playwriting Europe.

dall’ 8 al 12 settembre La Pelanda nell’ambito di Fabulamundi. Playwriting Europe.

22  Short Theatre 2020


Dal 2018 Short Theatre ha intrapreso un’avventura in compagnia di cinque festival e spazi culturali e altrettant_ artist_ disseminat_ in Europa e non solo. Quest’avventura si chiama More Than This ed è un progetto europeo che si conclude quest’anno, il cui obiettivo è ridefinire la nozione di “spostamento” come cambiamento nel nostro modo di percepire identità e pratiche, ripensando le modalità di ospitalità, mettendo in discussione la nostra capacità di accogliere gli/le altr_ e di andare verso di loro. Nel 2020 Short Theatre è stato coinvolto in una delle attività più innovative di More Than This, il Displacement of Festival, attraverso la quale ragionare non solo sulla mobilità dell’artista, ma anche su quella delle istituzioni culturali stesse. A coppie, ogni festival coinvolto dal progetto è stato ospitato o ha ospitato a sua volta uno degli altri partner, dando vita di fatto a 3 piccoli festival itineranti e ibridi, risultato della co-abitazione tra quello “ospite” e quello “ospitato” e del loro lavoro comune sviluppato nei mesi precedenti, in cui sperimentare altri approcci al lavoro, condividere know-how e creare nuovi strumenti e nuovi modi di lavorare insieme.

In questa edizione così stratificata e definita dal dialogo, Short Theatre 2020 accoglie così al suo interno tracce di Materiais Diversos, che a sua volta assume delle forme specifiche nel suo “spostarsi” a Roma, e che si sostanziano nella presenza di quattro artist_ propost_ dal festival portoghese: Tiago Cadete, Volmir Cordeiro, David Marques e Catarina Miranda. Accompagnerà questa co-abitazione il Moment of Reflection, un incontro a più voci curato da Simone Frangi, in cui lasciar emergere ed ampliare il pensiero nato intorno alla pratica del Displacement of Festival.

In 2020 Short Theatre became part of The Displacement Of Festival, one of the most innovative projects from More Than This, and one which asks questions not only about the mobility of artists but that of cultural institutions themselves. Working in pairs, each festival involved in the project hosted or was hosted by, one of its partners. This gave life to 3 small roving hybrid festivals, each the result of months of co-habitation between “guest” and “host” as well as their common experimental approaches to work, sharing know-how and creating new tools and new ways of working together. For this multi layered, dialogue-defined 15th edition, Short Theatre 2020 welcomes the Portuguese festival Materiais Diversos – with all the variables due to the temporary relocation to Rome – here represented by four artists: Tiago Cadete, Volmir Cordeiro, David Marques and Catarina Miranda.

mercoledì 9

16:30 + 18:30

Tiago Cadete,

Altri Spazi

giovedì 10

19:00

Volmir Cordeiro,

La Pelanda

giovedì 10

22:15

David Marques,

La Pelanda

venerdì 11

21:00

Catarina Miranda,

La Pelanda

Fiume Rua

Dança Sem Vergonha Dreamis the Dreamer

performance itinerante

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«il 25 marzo del 1939 Adolf Hitler promulgò una legge che rendeva obbligatoria l’iscrizione di tutti i ragazzi tra i quattordici e i 18 anni alla Hitlerjugend, la “Gioventù Hitleriana”, e di tutte le ragazze della stessa età alla Bund Deutscher Màdel (Federazione delle Giovani Tedesche). All’incirca nello stesso periodo, ad Amburgo, sorse un movimento giovanile alternativo, che si diffuse rapidamente per tutta la Germania: la “Swing Jugend” (Gioventù Swing), uno dei molti gruppi o movimenti scarsamente organizzati che si opponevano all’implacabile omogeneizzazione promossa da Hitler per educare i giovani fedeli nei secoli alla Germania. La Gioventù Swing era formata da ragazzi in larga parte apolitici che portavano lunghe code di capelli, contravvenendo esplicitamente all’ordinanza che imponeva agli uomini di tenere i capelli corti, con tagli militari, e indossavano giacche sportive inglesi lunghe, sciarpe vistose, cappelli alla Borsalino. Le ragazze avevano capelli lunghi e fluenti, sopracciglie ritoccate con il rimmel, rossetto e smalto alle unghie. Ovviamente i nazisti erano scandalizzati di questa sfacciata ostentazione di una degenerazione di stampo hollywoodiano: le “vere” donne tedesche avevano una bellezza “pura” e portavano i capelli raccolti in trecce alla Heidi. I gusti musicali della Swing Jugend rappresentavano un affronto ancora più grave alla “sensibilità” nazista: musica degenerata e da “scimmie ebree americane”, creata da afroamericani e diffusa dall’industria dei media, dominata dagli ebrei. La Gioventù Swing ballava in maniera oltraggiosa (tenendosi per le braccia, saltando su e giù, freneticamente e fino allo sfinimento, con donne che si accompagnavano a due uomini… nello stesso momento!) al ritmo del sound caldo di Louis Armstrong e Nat Gonella. Ma per loro non era facile ballare: la Camera Musicale del Reich monitorava i locali per snidare la musica swing e avvertire la Gestapo, le SS avevano promulgato una ordinanza che impediva ai giovani di uscire la sera o partecipare a balli che si tenessero dopo le 21. Di conseguenza i ritrovi della Swing Jugend erano feste clandestine organizzate in fretta e in furia in locali dismessi con un grammofono portatile e la collezione di dischi swing di qualche appassionato, ovvero un “disc jockey” ante litteram che metteva musica di sua scelta e non necessariamente i pezzi da hit parade, per un pubblico specifico che ballava in uno spazio non domestico. Se a questo elemento si aggiungono il clima culturale intimidatorio, la pratica fuorilegge, il gusto eccentrico nel vestirsi, si potrebbe dire che la Swing Jugend ha inventato la disco con trent’anni di anticipo. C’erano gruppi analoghi a Vienna (“Schlurfs”), a Praga (“Potapki”) e specialmente a Parigi (“Les Zazous”). Gli Zazous prendevano nome dai nonsense cantati in scat (un canto improvvisato del jazz), si salutavano con la frase “Ca swing!”e la domenica, anche durante l’occupazione nazista, muniti di giradischi portatili, si ritrovavano nei ristoranti e nei caffè dei dintorni di Parigi e ballavano i loro album swing preferiti. Uno di questi ritrovi era la “Discotheque”, un piccolo club seminterrato nel quartiere Latino, che era stato aperto proprio durante l’occupazione. I clienti potevano “ordinare” un disco assieme a un drink.»

You should be dancing. Biografia politica della discomusic, Peter Shapiro, 2007

24  Short Theatre 2020


Nella tradizione popolare, la Controra è quella che descrive le ore visionarie del primo pomeriggio, quando il sole si fa impietoso e le ombre scompaiono, lasciando apparire spiriti, sirene, ninfe e demoni. È il tempo magico e caldo che interrompe lo scorrere scandito della giornata, l’ora che blocca l’attività e si dilata in atmosfera. In questa edizione così delicata trasformiamo la Controra di Short Theatre, che si colora di tinte differenti e ci conduce in un territorio fatto di morbidezze sonore, ascolti intimi, ritmi lenti o sperimentazioni musicali preziose e piene di dettagli. Sarà una Controra all’insegna della rarefazione, dell’emotività o dell’ascolto attento, in cui abbiamo chiesto agli/alle artist_di immaginare per noi delle sessioni di ascolto collettivo, in modo che la prossimità possa tradursi in intimità e connessione più che in movimento e contatto fisico.

C ONTRORA WeGil - piazzetta Venerdì 4

23:00

Elena Colombi

selezioni musicali

Sabato 5

23:00

Lala &ce

concerto

Sabato 5

00:30

Bunny Dakota – Svuotapista

selezioni musicali

Domenica 6

22:00

Lola Kola + Bertuccia Rock – Acetato

selezioni musicali

La Pelanda – Esterno Mercoledì 9

23:00

Ubi Broki – L’anno che verrà

selezioni musicali

Giovedì 10

23:00

Enrico Kybbe – Kybbe’s Bonus Beat

selezioni musicali

Venerdì 11

23:00

Felix Kubin

concerto

Venerdì 11

24:00

Front De Cadeaux

flusso di suono

Sabato 12

23:00

Dj Marcelle

selezioni musicali

Domenica 13

23:00

Bob Junior – Double Tape Deck

selezioni musicali

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selezioni musicali Amsterdam

Elena Colombi è una DJ e conduttrice radiofonica; con i suoi set gioca con le emozioni di chi ascolta, attraverso modulazioni di intensità, tono, luce e ombra. Le sue selezioni accendono la musica donandole quasi una nuova personalità: i suoi set sono come un puro spirito libero, capace di accogliere stati d’animo molto diversi fra loro, a volte quasi capricciosi, e sempre sorprendenti. L’unicità del suo approccio è dovuta ad un’ampia conoscenza delle più svariate culture musicali, suoni e ritmi, frutto dei viaggi intorno al mondo fatti con la famiglia fin dalla tenera età. Questa mentalità nomade non l’ha mai abbandonata. Nata in Italia, Elena Colombi ora vive ad Amsterdam dove prosegue la sua esplorazione della DJ culture privilegiando l’energia e l’emozione piuttosto che la forma e la funzione, e concentrandosi in particolare su artist_ poco conosciut_. Oltre a documentare i suoi gusti ad ampio raggio nel suo programma mensile su NTS, Elena ha creato dei mix eccezionali per FACT e Crack Magazine, Beats In Space, Intergalactic FM, Digital Tsunami e Dekmantel. Nel circuito dei festival si è esibita al Club To Club, Nuits Sonores, ADE, Unsound e altri. Gli elementi che compongono il suo percorso da DJ sono variegati e surreali quanto le sue perfette selezioni, un riflesso della sua capacità di tradurre la sua vasta cultura musicale e i suoi set in ambienti differenti. Elena Colombi is a DJ and a radio host who privileges energy and emotion over form and function. The uniqueness of her approach is due to a wide knowledge of the most diverse music cultures she had the opportunity to get in touch with since her young age travelling around the world with her family. This nomadic mentality never left her.

venerdì 4 settembre WeGil

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23:00 Piazzetta


concerto Lione

Lala &ce è l’antidoto avanguardistico al rap francese, troppo spesso stanco e annoiato. Si fa notare per le sue produzioni sinuose, le cui clip superano le migliaia di visualizzazioni. Con un flow arioso e una scrittura ricercata, Lala mette al centro del suo rap l’arte della punchline, sempre con disinvoltura ed eleganza, costruendo dei ritmi ipnotizzanti e ritornelli inebrianti. Lala &ce è un UFO che, ad ogni suono, ci trasporta nel suo singolare universo musicale.

The musical universe and the nonchalant voice of Lala &ce have been arousing the enthusiasm of the public and the press for more than a year now. Known for its sinuous productions, she adapts to many musical genres and her nebulous productions have a dark and mysterious side.

sabato 5 settembre WeGil

23:00 Piazzetta

1h

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concerto Amburgo

Tra le personalità più originali del panorama musicale internazionale, Felix Kubin è un compositore, autore di radiodrammi, curatore e media artist di base ad Amburgo, in Germania. A 12 anni comincia a registrare ed esibirsi suonando pop music elettronica sperimentale. Negli anni ’90 si converte all’electro acoustic noise music e fonda i Klangkrieg con Tim Buhre. Nel periodo 1992-1994 partecipa all’organizzazione di interventi artistico-politici con il Dada-communist Party KED e il gruppo vocale Liedertafel Margot Honecker, le cui famigerate azioni ottengono ampia copertura dai media. Nel 1998 comincia a produrre pop music futuristica e lancia l’etichetta indipendente “Gagarin Records”. Negli ultimi dieci anni si è esibito in ottanta festival internazionali di musica e media arts tra cui Sonar, Club Transmediale, Mutek, ISEA, Wien Modern e Ars Electronica. Dal 2001, Kubin scrive e produce drammi radiofonici per le stazioni radio nazionali WDR, BR, DR, SWF e la ORF Kunstradio di Vienna. Nel 2011 ha vinto il Prix Phonurgia Nova con il radiodramma Säugling, Duschkopf, Damenschritte. Inoltre, ha composto musica per produzioni cinematografiche e teatrali di autori e autrici quali Christoph Schlingensief, Mariola Brillowska, Robert Florczak e Schorsch Kamerun. Felix Kubin è stato invitato a tenere laboratori e lezioni presso istituzioni culturali e università in Europa, Stati Uniti, Canada e Sud America. I suoi lavori musicali sono stati pubblicati da etichette quali A-Musik, Dekorder e Minimal Wave.

L’11 Settembre alle ore 22:00 nello stesso spazio del concerto sarà proiettato il film Felix in Wonderland! di Marie Losier

venerdì 11 settembre La Pelanda

28  Short Theatre 2020

Felix Kubin is a composer, a radio play author, a curator and a media artist. At the age of 12 he starts recording and performing, playing experimental electronic pop music. In the 90s he turns to electro acoustic noise music. From 1992 to 1994 he takes part in the organisation of artistic-political interventions that obtain wide coverage from the media. In 1998 he starts producing futuristic pop music and launches the independent music label Gagarin Records. Also, he wrote compositions for films, theatre productions and orchestra.

23:00 Spazio Aperto

1h


selezioni musicali Amsterdam

Sorpresa, avventura, intrattenimento ed educazione: quattro parole chiave usate spesso per descrivere la DJ e produttrice olandese Marcelle/Another Nice Mess. Fonde generi e tracce musicali come nessun altro, dando l’illusione al pubblico che si tratti di una traccia unica. Gioca con aspettative e ruoli: suoni ambientali, sono combinati con rumori avantgarde, suoni di animali sono mixati con leftfield techno, free jazz, hip hop e musica elettronica d’avanguardia, new African dance, dubstep, dancehall reggae e molte altre tracce meno classificabili. Influenzata tanto da movimenti artistici d’avanguardia come Fluxus, Dada e la commedia dell’assurdo dei Monty Python, quanto dal forte sperimentalismo della dub, del post-punk e i più recenti sviluppi di musica dance elettronica – Marcelle ha un orecchio attento a suoni innovativi e “nuovi”. Con la sua vasta collezione di oltre 20.000 vinili, ha una profonda conoscenza del passato e del presente della musica underground. Marcelle, musicista

e dj, nei suoi mixaggi utilizza ben tre piatti, sia live che in studio. È producer della sua stessa musica; dal 2016 l’etichetta tedesca “Jahmoni” ha iniziato a rilasciare una serie di suoi vinili: In The Wrong Direction (10”), Too (12” ep), Psalm Tree (12” ep). Il suo For (10” ep) è un tributo a Mark. E. Smith. Dal 2008 al 2014 Marcelle ha pubblicato 4 doppi vinili con l’etichetta tedesca Klangbad, fondata da HansJoachim Irmler, membro fondatore della leggendaria band krautrock Faust. Marcelle suona in tutta Europa, sia in discoteche che in musei e gallerie, ed è resident in molte città.

Thanks to her deep knowledge in past and present underground music, the Dutch dj and producer Marcelle/Another Nice Mess combines ambient sounds, avantgarde noises, animal sounds, leftfield techno, free jazz, hip hop, avantgarde electronic music, new African dance, dubstep and dancehall reggae to give the audience the illusion it’s all part of a unique flow.

sabato 12 settembre La Pelanda

23:00 Spazio Aperto

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selezioni musicali

Svuotapista

Roma

Bunny Dakota aka Martina Ruggeri nasce in una vecchia città di fronte al mare, da cui scappa in cerca di guai e esseri simili con cui congiungersi e confondersi. Fonda nel 2005, con Erika Z. Galli, Industria Indipendente, collettivo di arti performative e visive.

Negli anni performa in festival e club e crea con Industria Indipendente l’happening MERENDE_queer oasis di cui è dj resident e maîtresse.

Bunny Dakota crea ambienti e paesaggi, dando vita a universi immaginari aperti da abitare insieme, reinventa generi e mescola estetiche traducendo in suoni il battito della realtà. Traccia mondi fittizi fatti di sud, droni, suoni macchinici, elettricità, alte maree, kebab e mojito, magia nera, beat, sensualità scomposta, commistionati con parola poetica e cinematografica, registrazioni quotidiane e archivi sonori.

Bunny Dakota aka Martina Ruggeri was born in an old city facing the sea, from which she escapes in search of trouble. In 2005, with Erika Z. Galli, she founded Industria Indipendente, a collective of performing and visual arts. She creates environments and landscapes, giving life to imaginary to live together, reinventing genres and mixes aesthetics, translating the beat of reality into sounds.

sabato 5 settembre WeGil

00:30 Piazzetta

ingresso gratuito fino ad esaurimento posti

selezioni musicali

Acetato è snella la via a 45 giri è dolce la puntina sul vinile giro giro in tondo, solco tutto il mondo solco la terra, bella per la musica che balla. “Non si è mai capito cosa sia e cosa faccia Lola Kola. È una donna, un uomo, una transgender, un bimbo, un giocattolo e una cavalla a dondolo da monta. È stata una disegnatrice di moda, modella, attrice, prostituta, spacciatrice, tossica, cantante, icona pop e diva, una matta, senza voler mai essere nessuna cosa. Il suo unico gioiello rimane Sambaca, il video musicale di Alien Alien. Adesso è impegnata nella festa evento più bella della capitale, Tropicantesimo, creata dal miglior dj di sempre, Hugo Sanchez.

domenica 6 settembre WeGil ingresso gratuito fino ad esaurimento posti

30  Short Theatre 2020

Roma

Nato in una sperduta periferia del sud Italia, Rocco Bartucci aka Bertuccia Rock inizia a nascondersi nella camera oscura e a guardare il mondo attraverso l’obiettivo di una macchina fotografica. È dopo aver fatto parte del collettivo di Pescheria che trova la propria strada. Diventa il mago di Tropicantesimo. Inizia per gioco a collezionare 45 giri fino alla ricerca di suoni ancestrali che lo portano a fare il giro dei Paesi senza muoversi dai giradischi. Nobody ever understood what Lola Kola is and does. A woman, a man, a transgender person, a kid, a toy and a rocking-horse to be mounted. Now it’s a new genderless sound in the most beautiful and controversial party of the capital Tropicantesimo. Rocco Bartucci aka Bertuccia Rock is the magician of the same event: he dances, takes photos, films and builds the scenographies. Like an uncontrollable monkey, he brings his wrong, not too wrong, music to listening.

22:00 Piazzetta


selezioni musicali

L’anno che verrà

Milano

La musica di Ubi Broki si genera dalla messa in atto di una rete di relazioni. Relazione tra un pezzo e l’altro, tra quello che sente di condividere e la risposta di chi c’è, tra il suo corpo e quello di chi balla o ascolta, tra noi e lo spazio che occupiamo insieme nel momento preciso in cui accade. “Tutto è importante, ma anche doloroso, e la cosa che è più difficile nel corso del tempo è riuscire a immaginare la fine delle cose, o capire come non avere paura che le cose finiscano. E la fine è intesa come un cambiamento, ma sempre verso l’alto. E alto significa, più vicino al centro.”

Fra De Isabella (Ubi Broki) nasce a Milano nel 1984. Nel 2009 cofonda il collettivo milanese Strasse gruppo che si muove in ambito performativo nello spazio pubblico. Si occupa di djing dal 2007 con lo pseudonimo di Ubi Broki e organizza party. Con altr_ artist_ da qualche anno si interroga sulle pratiche di produzione artistica da un punto di vista transfemminista e queer. Fra De Isabella (Ubi Broki), after graduating at Civica Scuola di Cinema, in 2009 cofounds Strasse, a performing art group that works in public space. “Ubi Broki’s music is generated within a network of relationships. Relationship between one piece and another, between what I feel to share and the response of those who are there, between us and the space we occupy together in the precise moment in which it happens.”

mercoledì 9 settembre La Pelanda

23:00 Little Fun Palace

ingresso gratuito fino ad esaurimento posti

selezioni musicali Roma

Kybbe’s Bonus Beat Sardo di Roma Est, appassionato di musica a 360 gradi, Enrico Kybbe inizia a raccogliere dischi fin da giovanissimo, e la cosa gli sfugge di mano. Tra tutti quelli che ha accumulato nel tempo se ne scovano di generi disparati: Cosmic Disco, junkshop glam, punk, afro disco, reggae, dub ecc. ecc. Lontano da ogni idea di nostalgismo, più che collezionarli, ama scovarli, seguirne le tracce più nascoste e dargli nuova vita nelle sue serate in giro per Roma, da Proudfoot Sound a Rootsvibes fino alla selezione afro/disco Cosmic70.

giovedì 10 settembre La Pelanda

Il suo approccio lo porta a scendere in intimità con ogni sound che incontra, sviscerandone la (sotto)cultura fin nel profondo, lungo un percorso personale di ascolti in cui ogni volta scoprire nuovi generi e influenze. I suoi set sono, insomma, estratti della soundtrack della sua vita, e di quella dell’ambiente in cui si muove: un panorama di culture, di energie e di persone. From Sardinia, but living in East Rome, passionately digging music with an open mind, Enrico Kybbe began to collect records in his early teen years, until he got out of control, hoarding a wide range of genres such as cosmic disco, junkshop glam, punk, afro disco, reggae, dub, etc

23:00 Little Fun Palace

ingresso gratuito fino ad esaurimento posti

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flusso di suono

Bruxelles / Roma Front de Cadeaux (F2C) non è solo due amici che collaborano, è un incrocio di decenni di esperienze di dj, che danno forma a una rivoluzione. F2C sta portando una rottura epistemologica applicata all’arte e la cultura del dj’ing, suonando 45 giri alla velocità sbagliata (33 giri). Lo chiamano Supreme Rallentato e mostra che il corpo segue il groove e non il bpm. La musica di F2C è lenta e sensuale. Il loro suono è prodotto dal rallentamento della velocità di rotazione del giradischi: è come guardare una fotografia con lente di ingrandimento o vedere un film in slow motion. Rallentare il suono significa ingrandire il campo percettivo da esplorare con i nostri sensi. F2C produce dal 2013.

Front de Cadeaux it’s a junction decades long dj experiences, shaping a revolution. F2C is bringing an epistemological breakdown applied to the art of the djing culture by playing 45 rpm at 33 rpm. They call it Supreme Rallentato and it shows that the body follows the groove, and not the bpm even at peak time.

venerdì 11 settembre La Pelanda

24:00 Spazio Aperto

ingresso gratuito fino ad esaurimento posti

selezioni musicali Roma

Double Tape Deck Paracadutato a Roma nel 2004 per lavorare in una libreria dedicata al ‘900 e le sue sovversioni, si ritrova a gestire il Circolo Fanfulla da 15 anni, dove, dicono, succedono cose. A Short Theatre 2020 ci farà scoprire la sua selezione in musicassette realizzata con una doppia piastra, portando alla luce tante produzioni contemporanee uscite esclusivamente su nastro, e quindi poco reperibili su internet. Il genere varia da produzioni DIY intime al post-punk e minimal synth-punk. Senza essere feticista del supporto in sé, il nastro è un oggetto che ha

domenica 13 settembre La Pelanda ingresso gratuito fino ad esaurimento posti

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una semplicità (di produzione e divulgazione) rara. Può essere generato in casa, cancellato, duplicato all’infinito. Non è niente (di dimensione ridotta), molto umile (non ha valore e non pretende), però rimane nel tempo. Manu aka Bob Junior, armed only with a double cassette deck, that allows him to profile the many contemporary productions that are exclusively released on this medium (i.e tape) and therefore not readily available on the internet. His genres range from intimate DIY productions to post-punk and minimalist synth-punk.

23:00 Spazio Aperto


installazione audio

“che la mappa della primavera è sempre da rifare”* Ilenia Caleo ~ Muna Mussie: una conversazione a distanza.

Una mappa, vuota: te la descrivo. E poi. Il gesto che segna i confini. La memoria. L’intimità. Si può rifare storia partendo dall’intimità? Una foto degli anni Settanta: te la descrivo. I corpi sono archivi che vibrano. La voce come mezzo. Una conversazione aperta che prosegue l’intervento negli spazi dell’ex-Gil provando a chiederci come riabitare, risignificare, problematizzare i segni di un’eredità coloniale sempre rimossa. [* da un verso di Aimé Césaire, Diario del ritorno a un paese natale]

Ilenia Caleo è performer, attivista e ricercatrice indipendente. Dal 2000 lavora come attrice e performer nella scena contemporanea, collaborando con diverse compagnie e registe/i. Si occupa di corporeità, epistemologie femministe, sperimentazioni nelle performing arts, nuove istituzioni e forme del lavoro culturale, relazione tra arte e attivismo. È docente collaboratrice presso lo IUAV di Venezia nel laboratorio di Arti visive diretto da Annalisa Sacchi. Collabora con la redazione di Iaph e con OperaViva.­Attivista del Teatro Valle Occupato e nei movimenti dei commons e queer-femministi, è cresciuta politicamente e artisticamente nella scena delle contro-culture underground.

4 - 5 - 6 settembre WeGil

Muna Mussie, artista eritrea attiva tra Bruxelles e Bologna, inizia il suo percorso artistico nel 1998 a Bologna, formandosi come attrice performer con il Teatrino Clandestino e con il Teatro Valdoca. Dal 2001 al 2005 è parte attiva nel gruppo di ricerca Open, progetto con il quale inizia a maturare il desiderio di indagare altre possibilità dello stare in scena. Dal 2006 crea lavori pienamente autoriali, di cui cura concezione, messa in scena e interpretazione, sino aI recente Monkey See, Monkey Do (2012) e Milite Ignoto(2014-15). Ha collaborato continuativamente con il filmmaker Luca Mattei e con gli artisti Flavio Favelli, Riccardo Benassi, Sonia Brunelli, Gaetano Liberti, Irena Radmanovic, Dominique Vaccaro, Massimo Carozzi, Brett Bailey, Mette Edvardsen. Il lavoro performativo di Muna Mussie ricerca accordi precari su ipotesi di s-confino.

18:00 - 24:00

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Ripiglini. Un racconto in divenire a cura di Lele Marcojanni l “gioco del ripiglino”, caro a Donna Haraway, è quel gioco che si fa intrecciando tra le mani un filo di spago per generare figure che vengono scomposte da altre mani allo scopo crearne sempre di nuove. In questa 15esima edizione di Short Theatre, Lele Marcojanni si occuperà di riprendere le fila di tutte le diramazioni in cui si rifrange il festival, curando un video-racconto costruito giorno per giorno e disseminato online e in diversi luoghi della città. Un documentario sperimentale che mescola i linguaggi multimediali, tesse i fili di un prima, frutto di scambi, voci, testi e confronti con la presenza del festival in divenire. La camera si infila tra gli spazi di un dialogo aperto per la costruzione del festival e restituisce un racconto di punti di connessione spinti da intenzioni e traiettorie attraverso le immagini dei lavori e degli eventi in programma. La lunghezza del lavoro cresce con lo svolgersi del festival, diffuso in contemporanea su schermi e pareti, una disseminazione di prossimità che cerca di coinvolgere anche chi il festival non potrà seguirlo in presenza.

Lele Marcojanni vive e lavora a Bologna. Racconta e sviluppa progetti di narrazione visiva in luoghi e su supporti che trova più adatti alla storia. Lele Marcojanni ha firmato la regia di documentari, cortometraggi e mockumentary con i quali è stato selezionato in festival di cinema nazionali e internazionali. Lele collabora da anni con realtà culturali italiane per la documentazione di eventi performativi. Usa anche la scrittura e si interessa di progetti editoriali da tempi non sospetti: ha realizzato Carta, due cortometraggi dedicati a Giorgio Maffei e Christoph Schifferli, tra i più importanti collezionisti di libri d’artista in Europa. Le città hanno gli occhi (2016) è un progetto espositivo che raccoglie il racconto corale di Bologna e il suo rapporto con il fumetto. Con I racconti di nessuno/Nobody’s tales (2019) e il primo capitolo del lavoro girato a Taranto vecchia, Lele Marcojanni ibrida il linguaggio della letteratura stampata a quello del cinema creando un dispositivo che costringe il lettore/spettatore ad intervenire direttamente sulla composizione dell’opera. Lele Marcojanni è un progetto collettivo fondato da Elena Mattioli, Flavio Perazzini e Roberto Mezzano.

4 - 13 settembre WeGil - La Pelanda

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videoracconto


PER UN’AMATISSIMA ATENA NERA di Nina Ferrante e F r anc esc a D e R o s a

Nina Ferrante è una studiosa e un’attivista terrona trans-femminista queer, si occupa di studi culturali e postcoloniali del mondo anglofono ed epistemologia femminista Francesca De Rosa docente, ricercatrice e autrice, si occupa di studi visuali e costruzioni dell’alterità nelle ex-colonie africane di lingua portoghese

FATTO È il 20 luglio 2020 quando iniziano a diffondersi da un profilo Twitter le immagini di una donna che verrà presto soprannominata “Naked Athena”. A Portland le proteste si sono di nuovo infiammate da qualche giorno, anche se in realtà è da maggio che vanno avanti quasi senza tregua, a seguito della morte di George Floyd. La giustizia rivendicata non chiede solo di individuare e perseguire i responsabili di quel crimine specifico, piuttosto pretende di non finanziare le forze dell’ordine, braccio armato del razzismo di Stato, a favore di un investimento su scuola, salute e per rimuovere tutte le cause di ineguaglianza strutturale tra bianchi e neri negli Stati Uniti. In quei giorni per la prima volta vengono utilizzati dei reparti militari, che a mano armata tentano di arrestare, letteralmente, le giovani generazioni di neri che con determinazione mostrano la possibilità di una nuova storia degli Stati Uniti e dell’Occidente. Il fatto però non è questo, i giornali e le risorse sociali narrano l’evento: lei, incappucciata siede a terra, a gambe spalancate, di fronte alla polizia. Ciò che mostra a noi è celato dalla costruzione di un’immagine grammaticalmente perfetta, per altro rispettosa di tutti gli standard di condivisione social che perseguono il nudo. Non conosciamo la sua identità, dunque non conosciamo la sua appartenenza, ma la sua schiena è leggibile, a noi che osserviamo solo quell’immagine, come bianca. È importante sottolineare che quella non è molto probabilmente la sua identità, ma ciò che soprattutto in Italia è leggibile come “noi e loro”, in una contrapposizione che non è per forza oppositiva, ma anche una giustapposizione di alleate a donne razzializzate, che nel nostro immaginario sono le altre, senza alcuna sfumatura.

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L’immagine dell’Atena nuda attraversa l’Atlantico e giunge a noi: più si allontana dall’asfalto infuocato della protesta e più diventa bianca, perde le sfumature e si solidifica, diventa immaginario, per stabilirsi infine nei riquadri confortevoli dell’icona ribelle e di quello che universalmente ha ancora il potere di sbaragliare il resto, salire vorticosamente sul podio. È una notte di luglio, è lunedì. I just wanna live. Il ritmo violento degli spari infuocati si mischia con le parole e le note di Keedron Bryant, i fasci di luce delle pallottole al peperoncino rallentano ma non cessano, Atena nuda fa la sua apparizione, la donna nera che nei primi minuti siede accanto a lei e che si allontana solo per sfuggire alla brutalità degli spari, non è il fatto e non farà notizia. L’immagine racconta un evento e il fatto smette di essere la protesta, le rivendicazioni, la violenza poliziesca e la resistenza. Il fatto che riportiamo qui, tuttavia, non è neanche riportare la verità, la ricerca dell’identità e dunque le ragioni del gesto. Il fatto per noi è il gesto performativo che produce conseguenze, la diffusione dell’immaginario nelle nostre risorse sociali, le didascalie che l’accompagnano leggendola come icona di una protesta che non è lì. Il ragionamento prende le mosse a partire dal potere di solidificare un corpo e il suo gesto come simbolo ritagliato dal suo contesto e si apre per osservare ciò che ci è celato ancor prima di ciò che ci è mostrato.

ICONOGRAFIA Atena-monolitica domina le piazze delle città e delle cittadelle universitarie. Non è permesso rivolgerle lo sguardo fino al legittimo titolo di dottore. Lei, dea della sapienza, ovvero dell’arte e della guerra, il fascismo pose a ricordare una storia omogenea in cui tutta la conoscenza genera dal ventre della cultura classica e la missione resta di portare la nostra civiltà oltre ogni confine, rendendo l’epistemologia parte di una missione imperiale. Poche, invece, sono le tracce di Baubo, senza volto, ma che parla per via delle sue altre labbra, tutta vulva a gambe spiegate. Dea dell’osceno, ovvero di tutto ciò che deve restare fuori dalla cornice della rappresentazione. Baubo è protagonista del gesto della anasuromai, su la gonna, il gesto provocatorio e irriverente di sfida.

DISTRUZIONE E RASSICURAZIONE Dall’inizio della protesta chi manifestava ha richiesto la rimozione dei simboli della violenza razzista e coloniale su cui si è strutturato lo Stato e la Società statuinitense. Da lì, in tutto il mondo è nato e si è diffuso un movimento che ha individuato e dato opacità alle cicatrici della violenza coloniale che ha fondato l’Occidente. Le prime a cadere sono state le vecchie pietre confederate, hanno seguito nel crollo Cristoforo Colombo, pioniere del genocidio delle popolazioni native americane ancora salutato come eroe nazionale dalle nostre parti, seguono schiavisti di ogni paese, preservato in una bara in legno Wiston Churchill fuori al parlamento londinese, dopo il tuffo spettacolare di Bristol del benefattore e/o mercante di schiavi Edward Colston. Già troppo a lungo Theodor Roosvelt ha cavalcato tenendo al giogo un nativo americano e uno schiavo africano ai lati. In Italia c’è chi piagnucola per difendere un fascista stupratore di bambine come Montanelli, chiedendo di contestualizzare il sessismo e il colonialismo, che in effetti sono pratiche ben contemporanee in questo paese. A lui sono toccate per adesso solo due barattoli di vernice fuxia e rossa, in due momenti diversi, tagliando il Velo di Maya degli “italiani brava gente”. Nel 2018, invece nell’8 marzo di sciopero collettivi, artiste e lavoratrici del mondo della cultura femministe alzano la gonna contro alcuni

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simboli individuati del patriarcato e del fascismo e mostrano a noi le loro fiche pelose, permettendoci di notare ciò che ancora è scritto del fascismo nelle nostre città e si insinua tra le pieghe dell’abitudine. L’osceno che mette in mostra ciò che solitamente non si vede. Questo è il portato destabilizzante dell’ostensione della fica. Dell’ Atena nuda ci manca tutto ciò che la foto da copertina ci cela. Ma gira sui nostri social, sulle copertine dei giornali più avari a raccontarci del movimento, ci racconta che le statue cadono, ma il corpo bianco sta ancora in piedi e con i nuovi valori, riformati, è ancora il corpo della civiltà a poter narrare ciò che è bello, desiderabile, progresso. Il corpo leggibile come bianco può ancora riempire i buchi di ciò che è crollato, senza prendersi cura delle macerie, un corpo, non necessariamente bianco, ma leggibile come tale, chiaramente femminile, ma desiderabile, può ancora rassicurare su ciò che verrà scritto nei nuovi immaginari, nella storia e ciò che resterà osceno, fuori dalla cornice della rappresentazione. *** Dear white people, ebbene sì: le cose crollano. Si consiglia di nascondere le sopracciglia ricurve dal fastidio. Perché non fermeranno il crollo delle monumentali storie erette sul dolore dei corpi delle persone nere. E diversamente da quello che vorremmo immaginare, la distruzione non è, non è stata e non sarà il frutto di insensata sragionevolezza. La rabbia pulsa con forza il sangue agli occhi. Sono corpi indesiderabili che non da oggi ma già da tempo calpestano i sentieri dolorosi della memoria e chiedono giustizia. Corpi che penetrano a fondo e si nutrono come tarli della polpa del legno della cornice perfetta, svuotandola della retorica della lineare compiutezza. È il 2013 e l’artista Nona Faustine nella serie White Shoes calpesta quei luoghi della città di New York un tempo scenari violenti del commercio dei corpi neri schiavizzati, venduti, sfruttati e uccisi. Indossa solo scarpe bianche, il suo corpo è nudo per ricordare come le nere/i venivano messe all’asta per essere vendute/i, per ricordare lo sfruttamento disumanizzante inflitto alle donne nere. Maestosa, orgogliosamente nera e svestita - per la norma obesa, oscena e inopportuna - l’artista ci riconsegna la parte rimossa della storia, quei corpi che hanno costruito la grande mela e il grande sogno americano, a suon di frustate e di violenza. Nona Faustine sfida la normatività dello sbiancamento del corpo nero imposta dal patriarcato e dalla supremazia bianca e il suo corpo sfida le immagini rassicuranti e i canoni di bellezza in una celebrazione dell’imperfetto, e nel 2016 riporta alla luce la storia dolorosa del suo paese tra cui un bellissimo elogio alle schiave fuggitive. Il suo corpo è qui avvolto di bianco, una cintura composta da scarpe per ricordare quelle creature costrette al mondo per essere merce, il seno scoperto e in mano un’arma da fuoco: Nona Faustine nella memoria delle fuggitive, aspetta appoggiata a un albero il passaggio dei suoi padroni, resiste e si appella agli dei per un miracolo, cerca vendetta. Nona Faustine, Lobbying the Gods for a Miracle, Brooklyn, 2016 (https://museemagazine.com/features/2019/4/8/arnt-i-a-woman-interview-with-nona-faustine)

ICONOGRAFIA DI ALTRI CORPI Al bronzo e al marmo la consegna di propagare la storia, la statua racconta le gesta oltre lo spazio e il tempo. Il gesto, invece, trova solo nel corpo il proprio archivio, ma consegna alla registrazione la possibilità di raccontare l’evento, e nella circolazione può tradursi in icona, scrivendo la storia. E dunque, cambiati i mezzi, nel regime di visibilità entra solo chi rispetta la regola di ciò che può essere visibile, perché racconta la storia giusta, o perché in qualche modo è tollerabile. La circolazione della Naked Athena ci rassicura anche perché attesta che sta ancora al corpo bianco occidentale la possibilità di scrivere gli immaginari e definire

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i confini della cornice della rappresentazione, perché non si è mosso il potere di raccontare e i mezzi per farlo. Eppure nei movimenti, come nel movimento BLM i corpi acquistano una potenza tale da far saltare i tappi e altre storie, biografie, corpi, impongono altri orizzonti per sporgersi a guardare, immaginare un’ altra storia per altri futuri ancora da scrivere.

LA RAGIONE PER CUI LE CITTÀ BRUCIANO Le immagini della Black Athena viaggiano parallele alla discorsività costruita sulla dicotomia pacifico/ violento sempre pronta all’incasellamento dialettico nostrano per inquadrare un movimento, che va ben oltre ciò. Cade la linearità della narrazione delle rivolte, dei teppisti, dei saccheggiatori, dei devastatori tanto cara alla critica dei detentori del manuale del privilegio bianco. Tamika Mallory lo dice con chiarezza lo scorso giugno. Le sue affermazioni che riescono a giungere persino sui media nazionali italiani bruciano come i palazzi, perché l’articolazione costante ed efferata del razzismo strutturale non può essere esemplificata come episodi isolati, perché troppo è troppo, perché se di saccheggio bisogna parlare, è importante nominare le depredazioni ai danni dei nativi americani in una società intrisa di razzismo sistemico da 400 anni. Burn Baby Burn. Le piazze sprigionano una forza collettiva che si rinvigorisce proprio attraverso la potentissima unione delle tante anime che avanzano ascoltandosi nel passo. A guardare bene anche le narrazioni maschilizzanti non combaciano con quello che le immagini ci offrono: le donne, le impreviste, le soggette molto spesso estromesse dalle narrazioni e dalla storia consegnataci sfondano l’obiettivo disidentificando anche la categoria donna e arricchendo il femminile. Non è mai troppo ribadire il continuo processo di autodeterminazione, che sgretola la retorica della maschilizzazione alla ricerca del leader da diffondere e dà un’impronta femminista, trans femminista, non binaria alle pratiche e ai linguaggi.

BALLERINE Sarà scontato ma lo ricordiamo. Non è la Black Athena a proporci la performance o la danza, ma è la danza che è espressione, rivendicazione e azione consolidata e indissolubile delle proteste di BLM. Essere vive/i significa anche imporre il proprio corpo danzante, renderlo manifesto in tutto il suo dolore, nelle ferite e nelle cicatrici ma anche nell’esplositività della rabbia e della gioia. I corpi danzanti hanno nel movimento la memoria di chi c’è stato, la sofferenza del corpo di chi non c’è più. Parlano la lingua della solidarietà tra corpi neri, trans, non binari e di tutt_ coloro che resistono. E così l’omaggio si fa barricata, si fa fuoco, si fa lacrime di gioia e di dolore e si fa danza, danze tradizionali espressioni delle comunità afro-diasporiche, danza degli antenati, hip hop, electronic boogie, slam poetry, voguing, twerking, danza classica, improvvisazione singola o collettiva. Ava Holloway e Kennedy George, 14 anni. Appena ricevono la notizia che la statua del generale Lee, iconica figura della storia confederate di Charlotteville, Luisiana, verrà rimossa, si danno appuntamento, tra i tanti, per festeggiare. Mentre la storia sta per essere riscritta loro mettono in scena già l’immaginario del futuro che verrà. Le due ragazze si presentano in tutù, portando il pugno nero sulle punte. Ad andare a pezzi lì, non è la statua del generale, ma l’idea di cosa può un corpo nero: vincere. L’immaginario non è legato solo a quello della protesta, il corpo nero è infatti da sempre escluso dai rigidi canoni della danza classica, che

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vuole corpi privi di gravità, oltre che di forma, che attraversano il mondo senza lasciare impronta. Negli anni 50 il corpo nero di Angela Bowen sfida i canoni della danza classica, negli anni diventa una leggendaria insegnante di balli su percussioni aprendo una scuola per insegnare alle bambine nere che il loro destino non è segnato e il loro corpo può essere strumento di liberazione; incontra Audre Lorde, il femminismo nero, il lesbismo e diventa un’attivista appassionata e sfrontata. E con la stessa passione e sfrontatezza si dedica agli studi fino a diventare professoressa universitaria, portando la sfida all’Accademia, a ciò che ha posto legittimo nei curriculum universitari: famosa è la sua battaglia per poter insegnare nel suo corso Tony Morrison, già allora Premio Nobel. L’attacco, tutt’altro che in punta di piedi, è al cuore dell’epistemologia occidentale e a ciò che riceve il lustro di poter entrare nel canone dell’arte e della cultura.

TWERKING È un’altra notte. È giugno. Il muro delle volanti è lì a impedire il passaggio. Una ragazza nera si fa avanti, scarpe da tennis, body, stoffa fucsia a coprire bocca e naso e una T-shirt che grida che le vite nere importano. Si posiziona al centro e parte la danza. Twerka e balla. Mostra il culo ai poliziotti. Una donna le si avvicina incitandola. I passi di danza continuano, la schiena è ora sull’asfalto, apre le gambe in direzioni opposte in spaccata, mostra e tocca con un breve movimento della mano la sua vagina, solleva il braccio sinistro, nel punto più alto il suo dito medio. Si rialza e continua a twerkare, la sua voce si alza contro quelle auto: this is my black ass! Quel culo che per secoli è stato violato, sfruttato, torturato, cosificato. Le sue gambe sono canonicamente scomposte, troppo aperte, quella rigidità pelvica è tanto lontana dal decoro culturale occidentale che la definirebbe sporca e indecorosa. Per non parlare di chi di fronte al passo del twerk prova ad articolare l’oggettivazione della donna in nome di un femminismo bianco e perbenista. Lei sorride, muove il culo liberamente e quel sorriso è forse più immorale del culo in sé perché è fottutamente libera e dissidente nel rivendicare il suo corpo. Lì a un metro le quattro ruote e le luci delle volanti della polizia continuano a farsi muro.

AMAZZONE NERA - E tu Athena Nuda come ti sei sentita? “Ovunque io vada, è come se fossi l’unico fiore giallo in un campo di rose rosse, capite?” a dirlo è Brianna Noble, il cui nome forse ci dirà poco. Potremmo ricorrere all’immagine di una Black Lady Godiva ma la mitologia classica a cui faremmo riferimento sarebbe comunque un velo bianco sul volto di Brianna in sella al suo cavallo lo scorso giugno per le strade di Oakland. Questa volta è lei che si alza sul piedistallo e sovrasta anche gli ufficiali a cavallo, fiera e risoluta, con il pugno alzato si auto-definisce amazzone. È impossibile non notarla, non una donna, per giunta nera, su di un cavallo più grande della stazza media in un contesto in cui non c’è mai stato spazio per lei. Brianna non è la sola a scendere in sella al suo compagno, lo fa con un cartello per ricordare che la sua vita conta, contro un sistema giudiziario ingiusto. Anche lei per dire i loro nomi: George Floyd, Breonna Taylor, Manuel Ellis, Trayvon Martin, Michael Brown, Eric Garner, Jamar Clark, Philando Castile, Ahmaud Arbery, Dreasjon “Sean” Reed, Botham Jean, Ezell Ford, Michelle Shirley, Redel Jones, Kenney Watkins, Stephon Clark, Laquan McDonald, Tamir Rice… e tanti (troppi) altri ancora.

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BLACK ATHENA [Si capisce allora meglio il caso di Margaret Garner, schiava in fuga che rimase intrappolata nei pressi di Cincinnati, uccise sua figlia e cercò di uccidersi. Si rallegrò per la morte della ragazza- “almeno non saprà quanto soffre una donna da schiava”. E implorò di essere condannata a morte: “Preferirei cantare sul patibolo piuttosto che ritornare alla schiavitù”. (Aptheker, “The Negro Woman”, cit., p.11. Dalle trame femministe di Angela Davis in Donne Razza e Classe p.50) [Una donna incinta che ha commesso una violazione nel campo è obbligata a sdraiarsi su una fossa adatta a contenere il suo pesante corpo, dopodiché viene sferzata con una frusta o battuta con un manico perforato. A ogni colpo si forma una piaga. Una delle mie sorelle venne punita proprio in questo modo, tanto duramente da far cominciare il travaglio. Il bambino nacque nel campo.] (Moses Grandy, Narrative of the Life of Moses Grandy. Late a Slave in in the United States of America, Boston 1844, p.18. Sempre dalle trame femministe di Angela Davis p. 35). [Il cucciolo rossiccio si avvicina vacillando, minuscolo e grasso. (…) [Chia] affonda i denti. Lo sbatte di qua e di là come un copertone che non ha ancora morsicato abbastanza perché Skeetah glielo tolga. Chia ha la bocca insainguinata e gli occhi sfolgoranti, come Medea. È questo che significa essere madre? le chiederei se potesse parlare. (Salvare le ossa, di Jasmin Ward, p.158)

[…] l’ora del sole che va e viene , della luce che arriva da ogni parte e da nessuna, e tutto è grigio. Rimango li sveglia e non vedo altro che il bambino, il bambino a cui ho dato forma nella mia testa, un’Atena Nera che allunga la mano verso di me. (Di nuovo nel sangue e nella bellezza di Salvare le ossa, di Jasmin Ward, p. 262) Questi corpi raccontano storie: AIN’T I A BLACK ATHENA? Non sono forse anch’io una Atena Nera?

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ÂŤIl suono accade di continuo; siamo in ascolto e senza mai stancarci seguiamo note, rumori, sussurri e fragori che si trasformano in musica. Onde sonore che ci trasportano verso approdi ignoti, alla scoperta di panorami interiori senza confini.Âť

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installazione video Berlino

DIVER + Behind the Sun + Travel Prayer Cammelli, palme, la lucentezza oleosa del petrolio e il calore del fuoco dei pozzi che bruciano nel deserto. La tecnologia, il denaro, la preghiera, la parola poetica. Monira Al Qadiri, visual artist del Kuwait, nata in Senegal, formatasi in Giappone e ora di base a Berlino, ci introduce attraverso il linguaggio delle immagini in movimento fin nel cuore dell’iconografia del Golfo Persico, portandone alla luce contraddizioni, complessità, e stereotipi. Nel 2010 ha conseguito un Ph.D. in Inter-Media Art presso la Tokyo University of the Arts, con una ricerca sull’estetica della tristezza in Medio Oriente e le sue origini nella poesia,

musica, arte e pratiche religiose. Nelle sue opere esplora le identità di genere non convenzionali, le culture del petrolio e il loro possibile futuro, e l’eredità della corruzione. Le sale di WeGil ospitano tre suoi lavori - DIVER, Behind the Sun e Travel Prayer - che, intrecciando motivi tradizionali e astraendoli in immaginari ipnotici ed immersivi, sembrano raccontarci di un mondo che continuiamo a pretendere altro, lontano, diverso, e che invece è solo l’altra faccia di quello voluto da noi.

Monira Al Qadiri brings us to the core of the Persian Gulf’s iconography, enlightening its contradictions, complexities and stereotypes. WeGil hosts DIVER, Behind the Sun and Travel Prayer, three video-installations that abstract traditional motifs bringing them to hypnotic and immersive imaginaries and, in doing so, seem to tell us about a world we keep pretending being something else, far away, different.

DIVER Prima del petrolio, divinità tellurica indiscussa dell’oggi, c’erano le perle.

anche con quella del petrolio, in un sinuoso rovesciarsi tanto delle forme che dei significati.

Per secoli l’economia delle regioni costiere del Golfo Persico si è basata sul commercio di perle decorative. Con la scoperta del petrolio nel XX secolo, la società si trasforma completamente e quella parte della storia viene cancellata, relegata alla cultura popolare. DIVER tenta di colmare quel vuoto tramite l’astrazione formale del colore, seguendo i movimenti di alcune nuotatrici sincronizzate che eseguono delle coreografie su una canzone tradizionale che accompagnava la pesca delle perle. I loro costumi dicroici ricordano la lucentezza delle perle, ma hanno a che fare

ideazione e regia Monira Al Qadiri produzione Ezzat Al Hamwi direzione della fotografia Elias Trad editing Vartan Avakian coloring Belal Hibri costumi Jasmina Popov-Locke coreografia Isabelle Tan danzatrici Isabelle Tan, Carly Athawes, Zsofia Péres, Daria Galkina produzione Durub Al Tawaya (DAT), the performing arts program of Abu Dhabi Art, Warehouse421 Abu Dhabi and the Asia Pacific Triennial of Contemporary Art (APT) (2018) commissionato da Durub Al Tawaya VI (Abu Dhabi), 9th Asia Pacific Triennial (Brisbane)

4 - 5 - 6 settembre WeGil ingresso gratuito

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18:00 – 24:00 Sala rossa

4’


Behind the Sun Dopo la prima Guerra del Golfo nel 1991, innumerevoli pozzi petroliferi in Kuwait vennero incendiati nel corso della ritirata degli eserciti invasori, come gesto finale di disprezzo. Il paesaggio che ne risultò coincideva in modo inquietante con la classica immagine dell’apocalisse biblica: la terra che sputa fuoco e il cielo nero catrame. Il ritratto dell’inferno. Un paesaggio della memoria per la generazione di Monira Al Qadiri, che riafferma la sua importanza oggi. Alberi, cascate, montagne, animali e insetti, che prima costituivano gli elementi con cui la religione del Corano esaltava la grandezza di Dio, sono oggi spariti: al loro posto, una fine del mondo in continuo divenire, tanto nel paesaggio della rappresentazione che in quello del reale.

4 - 5 - 6 settembre WeGil

ideazione, regia ed editing Monira Al Qadiri filmografia Adil Al Yousifi (1991) suono archivi della televisione del Kuwait sound design Fadi Tabbal commissionato da Beirut Art Center, Beirut, Libano (2013)

18:00 – 24:00 Salotto

2’30’’

ingresso gratuito

Travel Prayer Una corsa di cammelli tratta da un programma televisivo, in un’unica stretta inquadratura, rallentata fino a trasformare il galoppo in un volteggio. Travel Prayer è un autoritratto e uno studio sul progresso nel suo significato più ambiguo: un passo avanti è anche un passo indietro. Da tradizione antichissima, quella della corsa dei cammelli è divenuta nel tempo fonte di quella che di fatto è una tratta di bambini, usati come fantini. Uno dei segni di come lo sviluppo supersonico che ha investito il Golfo a partire dalla seconda metà del secolo scorso abbia innescato delle trasformazioni incontrollabili, che finiscono per toccare nel profondo l’identità individuale, oltre che la cultura e la politica.

4 - 5 - 6 settembre WeGil

video e musica Monira Al Qadiri voce Duaa Al Safar (Travel prayer) lettura di Saad Al-Qureshi filmato della corsa dei cammelli tratto dalla Televisione del Kuwait

18:00 – 24:00 Auditorium

10’

ingresso gratuito

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Roma

Jungle Soul + Opacity #2 Nella “spazio da riscrivere” di WeGil, Salvo Lombardo e la sua compagnia Chiasma contribuiscono a generare segni che aprono a nuove interpretazioni dello stesso, a partire da due lavori: Jungle Soul e Opacity#2, espressioni di un progetto più ampio dal titolo L’esemplare capovolto. Da diversi anni Chiasma porta avanti un percorso di ricerca legato all’emersione, sempre più visibile, dei nodi politici e sociali che nascono dalla destrutturazione dell’immaginario etnocentrico che l’”Occidente” ha costruito al di sopra di coloro che classificava come “Altri” e “Altre”. Un atlante performativo tentacolare, in cui prendono posto situazioni e formati artistici differenti, originato dalla rilettura di una celebre opera della danza accademica italiana, il Gran Ballo Excelsior (1881), attraverso la lente degli studi e delle pratiche postcoloniali.

Salvo Lombardo è performer, coreografo e regista multimediale. La sua ricerca artistica, assieme a quella del gruppo Chiasma, si muove tra la danza, il teatro e le arti visive, con particolare attenzione ai linguaggi della video arte.

Salvo Lombardo and his company Chiasma, whose research goes along with the postcolonial studies and practices, contribute in opening new interpretations of WeGil through Jungle Soul and Opacity#2. The two works belong to the wider project L’esemplare capovolto, a performative atlas in which different artistic formats and situations take place.

installazione

Jungle Soul L’installazione multimediale Jungle Soul è un habitat immersivo che riproduce un indistinto giardino “esotico”, dal quale si stagliano otto micro video performance. A cavallo tra un patinato zoo umano e un allucinato freak show, Jungle Soul mette in luce le derive dell’appropriazione culturale e dei suoi immaginari contemporanei, nei vari ambiti estetici e linguistici di un sempre crescente capitalismo jungle e di una impostazione etnocentrica che ci spinge a idealizzare ciò che non conosciamo.

4 - 5 - 6 settembre WeGil ingresso gratuito

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di Salvo Lombardo performance in video Jaskaran Anand montaggio video Isabella Gaffè suono Fabrizio Alviti produzione Chiasma, Roma, con il sostegno di MiBACT – Ministero Beni e Attività Culturali e del Turismo

18:00 – 24:00 Mezzanino


Opacity#2 Opacity#2, è un dispositivo di relazione che mira, legando i formati di un talk/conferenza, performance e installazione, a un’analisi e una discussione condivisa, assieme al pubblico, di una serie di rappresentazioni classiche e contemporanee legate al corpo e alla definizione delle “alterità”. Dalla soglia del perturbante esotismo, fino alla nevrotica ricerca di “trasparenza” nella definizione delle identità che emerge oggi, Opacity#2 è pensata come una camera-bottega della recente ricerca artistica che Chiasma muove a partire dalla rilettura critica di uno dei titoli cardine del repertorio della danza accademica italiana: il Gran Ballo Excelsior.

domenica 6 settembre WeGil

lecture performance

di Salvo Lombardo ottimizzazione del suono Fabrizio Alviti consulenza culturale Viviana Gravano produzione Chiasma Roma con il sostegno di MiBAC – Ministero Beni e Attività Culturali e del turismo in collaborazione con Versiliadanza, Firenze; Spellbound Contemporary Ballet, Roma; ACS Abruzzo; Triangolo Scaleno Teatro

18:30 + 20:00 Hall

40’

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set performance Roncofreddo

Anubi Is Not A Dog Nel 2019, Zapruder incontra in un bar di Helsinki il signor Kari J., un uomo distinto sulla settantina che gli chiede di tenergli il cane mentre lui entra all’interno del locale. Al suo ritorno iniziano a chiacchierare; viene fuori che Kari è un giudice di Dog Show, concorsi di bellezza per cani, ed è anche un collezionista d’arte a tema canino. Sorprendentemente l’uomo li invita a casa sua per ammirare le opere che ha raccolto nel corso del tempo: una collezione di quadri e sculture meravigliose. Tra gli oggetti c’è anche un Anubi e Zapruder si lancia in congetture sulla possibile discendenza del dio egizio dal volto canino con il levriero, ma Kari non ci sta: “Anubi is not a dog”, afferma deciso.

Anubi è un luogo preparato, con regole proprie e una lingua a sé stante. In Anubi is not a dog si assiste alle routine di danza tra cani e padroni, proprie della disciplina artistico-sportiva nota come Dog Dance. Nella rapida successione dei passi della routine, l’attenzione è volta verso i comandi e i richiami che costituiscono il codice relazionale tra i due partner e si mostra come spesso la risposta del cane ai comandi vocali del padrone anticipi il comando e determini l’ordine al passo successivo della coreografia. Si tratta a tutti gli effetti di una danza di coppia, basata su ritmo, scambi veloci, dono e fiducia. Anubi si not a dog è una delle manifestazioni del discorso sullo speaking in tongues che attraversa il percorso di Zapruder, ed è anche il set di un film che viene girato in uno spazio pubblico. Zapruder è il nome collettivo che sigla le produzioni audiovisive e gli happening ideati e diretti da David Zamagni e Nadia Ranocchi. La loro pratica si sviluppa attraverso il set cinematografico, la performance, l’acustica e la scultura, in direzione di un’esperienza totale. Nel 2000 fondano con Monaldo Moretti Zapruder filmmakersgroup, collettivo che opera sui set e alla post-produzione dei progetti di Zapruder. Anubi is not a dog è parte del progetto Allegoria della Felicità Pubblica realizzato grazie al sostegno dell’Italian Council (VIII edizione, 2020), programma di promozione dell’arte contemporanea italiana nel mondo della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo. produzione Associazione Santarcangelo dei Teatri. in collaborazione con XING – Bologna; Rencontres Internationales Paris/Berlin; Kunstraum Walcheturm – Zurigo; Short Theatre – Roma; MART – Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto

Zapruder stands for David Zamagni and Nadia Ranocchi’s audiovisual productions and happenings. Anubi is not a dog is a manifestation of the speaking in tongues’ discourse that crosses Zapruder’s path. It consists in a dog dance routine in which the vocal code used between the dog and the owner during the show is amplificated.

venerdì 4 settembre WeGil ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria su Eventbrite

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19:00 + 20:30 Campetto

25’


danza Tunisi

0. / Short Theatre Può un corpo in movimento appropriarsi di un spazio architettonico? Come può la conoscenza di discipline diverse come la danza e l’architettura fondersi e dare vita a un nuovo tipo di spazio? Il coreografo Radouan Mriziga torna a Short Theatre con 0. / Short Theatre, un nuovo tassello della sua ricerca sul rapporto tra danza ed architettura, un’installazioneperformance che accetta la sfida di adattarsi alle specificità dei luoghi in cui viene presentata. In questo progetto Mriziga va ancora oltre, concentrandosi su un principio che ha cominciato a sviluppare all’inizio della sua carriera: la convinzione che possiamo pensare e agire solo grazie all’insieme di corpo, anima e spirito.

Radouan Mriziga è un coreografo e danzatore originario del Marocco stabilitosi a Bruxelles. Le sue performance esplorano il rapporto tra movimento, costruzione e composizione. Considerando l’essere umano come creatore di ciò che lo circonda, le coreografie di Mriziga forgiano collegamenti tra il corpo in movimento, l’espressione della forma nei materiali quotidiani e l’architettura dell’ambiente costruito. Le sue opere sono state ospitate nei principali teatri e festival del mondo.

ideazione e coreografia Radouan Mriziga performer Maïté Jeannolin assistente alla drammaturgia Esther Severin produzione A7LA5 co-produzione Extra.City management e distribuzione Something Great

venerdì 4 settembre sabato 5 settembre WeGil

The choreographer Radouan Mriziga comes back to Short Theatre with the installation-performance 0. / Short Theatre interpreted by Maïté Jeannolin, a new step of his research on dance and architecture. Considering the human being as the creator of what surrounds him, Mriziga’s works interlace the body in movement, the expression of the form in the everyday materials and the architecture of the constructed space.

19:30 19:30

Piscina Hall 40’ nell’ambito di Shift Key

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performance | esito del laboratorio Bruxelles

Hot Bodies – Choir

Hot Bodies – Choir è l’esito del workshop che Gérald Kurdian terrà dall’1 al 3 settembre e che coinvolge un gruppo di persone nella costruzione di un repertorio canoro queer. In che modo diamo alla musica la possibilità di diventare uno strumento politico? E come i corpi discriminati possono usarla per dare slancio alla loro rivoluzione? Cantare è un’occasione per gli esseri umani di connettersi al sé più profondo e ascoltare la loro voce interiore. Le soggettività queer portano spesso con sé emozioni inespresse, traumi e oppressioni irrisolte, che si accumulano nel tempo e per i quali il mondo normativo non offre alcun luogo di guarigione. Il workshop Hot Bodies – Choir è pensato come un luogo per esprimere questi sentimenti, un luogo per esternare e diventare un corpo collettivo che dà voce e sostegno ad altri corpi. Hot Bodies – Choir riunisce persone queer, LGBTIEA+ e femministe intorno a pratiche di scrittura e di canto corale. In questo spazio ognun_ è invitat_ a condividere e scambiare esperienze e idee a partire dalla lettura dei manifesti queer, femministi, decoloniali attraverso la scrittura collettiva di testi rivoluzionari. Questi testi unici, polifonici e sovversivi verranno arrangiati da Gérald Kurdian e performati live da tutt_ i/le partecipanti in un esito pubblico. (Per maggiori informazioni vedi Tempo Libero pag. 80)

concept and transmission Gérald Kurdian produzione Tiphaine Gagne / Hot Bodies of the Future in collaborazione con La Francia in Scena, stagione artistica dell’Institut Français Italia / Ambasciata di Francia in Italia e con il sostegno della Fondazione Nuovi Mecenati

venerdì 4 settembre sabato 5 settembre WeGil ingresso gratuito fino a esaurimento posti

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Hot Bodies – Choir è il terzo progetto del ciclo di ricerca di Gérald Kurdian Hot Bodies Of The Future un ciclo di ricerca musicale incentrato sulle rivoluzioni sessuali e le micropolitiche queer.

Il 3 Settembre per l’anteprima di Short Theatre 2020 TAREK X aka Gérald Kurdian terrà un concerto presso la Reale Accademia di Spagna a Roma

Gérald Kurdian ha studiato arti visive alla ENSA Paris-Cergy e poi ha partecipato al programma di danza contemporanea Exerce 07 sotto la direzione di Mathilde Monnier e Xavier Le Roy. I suoi concerti live sono ispirati dai generi della stand-up comedy, dei musical e del pop, e si configurano come opportunità per inventare sinergie tra la musica elettronica, la performing art e le pratiche documentarie. Nel 2016 rilascia un album in francese prodotto dal musicista elettronico Chapelier Fou.

Gérald Kurdian is developing HOT BODIES OF THE FUTURE, a performative and musical research cycle on alternative forms of sexualities and queer micro-politics within which he initiates experimental queer healing choir project Hot Bodies - Choir. At WeGil will be performed the final outcome of the workshop.

21:00 22:00 Scalinata

30’


performance Prato

La Spezia

Once more Once More è una performance che si sviluppa nella relazione fra due soggetti, in un continuo confronto senza freni. Un display concertistico dove corpo, suono e parole sono assunti come elementi imprevedibili della composizione. Sullo stesso piano, luce, buio e immagine si stratificano come partitura ritmica in un vortice circolare in cui anche ciò che il corpo produce si sottrae, in favore di un unico movimento performativo. L’occhio imperscrutabile della macchina fotografica, nella sua meccanica soggettività, registra i contorni di ciò che accade, ridefinendone la percezione. Once More è caos, estasi e libertà.

Kinkaleri nasce a Firenze nel 1995. Kinkaleri opera fra sperimentazione, ricerca coreografica e del movimento, performance, installazioni, allestimenti, materiali sonori, cercando un linguaggio non sulla base di uno stile ma direttamente nell’evidenza di un oggetto. Jacopo Benassi è fotografo. Collabora a Rolling Stone, GQ, Wired italia, Wired u.s.a Riders, 11 Freun de, Crush Fanzine, Dapper Dan, Vice, Almaviva / Le Figàro, Gioia. Nel 2009 l’agenzia 1861 United gli pubblica una monografia monumentale; collabora con diversi registi come Paolo Sorrentino, Daniele Ciprì, Asia Argento. progetto e realizzazione Jacopo Benassi, Kinkaleri / Massimo Conti, Gina Monaco, Marco Mazzoni produzione Kinkaleri / KLm con Jacopo Benassi, Marco Mazzoni

venerdì 4 settembre WeGil

Once more is a performance by the collective Kinkaleri and the choreographer Jacopo Benassi. It is a concert display where body, sound and words are assumed as unpredictable elements of composition, where light, darkness and image are stratified and unified in a whole performative mouvement.

22:00 Hall

35’

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incontro pubblico Parigi

Dopo quello della scorsa edizione tenuto da Françoise Vergès, quest’anno la scalinata di WeGil ospiterà un incontro pubblico con la filosofa e intellettuale Elsa Dorlin, la quale affronterà i temi al centro della sua ricerca e del suo pensiero: la violenza del potere, la repressione strutturale e strutturata che alcuni corpi si trovano a subire da sempre, l’intreccio tra colonialismo, patriarcato e disarmo. Una lectio aperta in collaborazione con il Master di Studi e Politiche di genere dell’Università di Roma Tre e la casa editrice Fandango, di fronte all’ex Gil riaperto dalla Regione Lazio dal 2017, che Short Theatre già dallo scorso anno abita e attraversa, cogliendo l’occasione per riflettere sull’eredità architettonica del ventennio fascista e quella – forse mai davvero risolta – del colonialismo italiano. Una riflessione che è importante fare collettivamente mettendo in primo piano i temi dell’oppressione razzista e patriarcale, sulla scia del pensiero decoloniale e femminista.

Elsa Dorlin è professoressa di Filosofia all’Università di Parigi 8. È autrice di La matrice de la race. Généalogie sexuelle et coloniale de la Nation française (La Découverte, 2006, 2009) e Sexe, genre et sexualités. Introduction à la théorie féministe (PUF, 2008). È una delle collaboratrici del lavoro collettivo Vulnerability in Resistance (Duke U.P., 2016).

sabato 5 settembre WeGil ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria su Eventbrite in francese con traduzione simultanea in italiano

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Ancora oggi, nonostante gli insegnamenti della storia, alcune vite contano così poco che si può sparare alle spalle di un adolescente e sostenere che sia aggressivo, armato e minaccioso. Un disarmo organizzato che contrappone i corpi “degni di essere difesi” a coloro che, disarmat_ o res_ indifendibil_, rimangono espost_ alla violenza del potere dominante, contro il quale, nel corso della storia, si sono spesso opposte lotte e movimenti di liberazione: dalle suffragette ju-jitsu alle pratiche di insurrezione del ghetto di Varsavia e le Black Panther, passando per le brigate queer e i movimenti di resistenza contemporanei. Una storia disseminata della difesa che Elsa Dorlin, traccia nel suo ultimo testo Difendersi. Una filosofia della violenza, edito da Fandango nel 2020.

WeGil will host a public meeting with Elsa Dorlin, who will be addressing the themes at the centre of her research and thinking: the violence that is inherent within power, the structural repression and the systematic suffering some have always suffered, as well as the interweaving of colonialism, patriarchy and oppression.

18:00 Piazzetta

1h 30’


teatro

Roma

Tiresias Un performer in scena, dei piatti da dj, un microfono, dei dischi: Tiresias porta in scena il testo del_ poeta, rapper e performer londinese Kate Tempest, Hold your own e lo fa vivere in una drammaturgia che è simultaneità, trasformazione, intuizione. Giorgina Pi, sulle orme di Tempest, e Gabriele Portoghese in scena, prendono le mosse dalla tradizione teatrale occidentale, per riscriverla e ribaltarla completamente, ritrovando in essa la possibilità di resistere al cambiamento, di creare una propria nomenclatura immaginaria con cui amare le cose del mondo, e trasformando la memoria delle nostre vite in simultaneità, invece che cronologia. “Tiresia è il veggente che sa, che conosce ciò che si dovrebbe fare. Fa paura ascoltarlo, il suo corpo conturba, è al di fuori dell’ordine naturale, è un corpo che vive più sessualità, più età in una vita. Quando i suoi occhi smettono di vedere iniziano a leggere il futuro. Tiresia è un’entità che nell’Ade custodisce le risposte, è tramite tra l’umano e il divino. È fuori dalla retorica del potere, è continuamente una frattura nella narrazione, non è gerarchico nel sapere e nell’esperire. La nostra vita di adesso è lacerata e frastornata da ferite ancestrali dovute a questa nuova peste e da pressioni soffocanti causate dalla ferocia rinnovata del capitalismo. Difficile trovare la forza di restare sé stesse/i. Abbiamo chiesto aiuto a chi non ha bisogno di guardare per sapere. (...).” Giorgina Pi un progetto di Bluemotion da Hold your own/Resta te stessa di Kate Tempest traduzione di Riccardo Duranti regia di Giorgina Pi con Gabriele Portoghese dimensione sonora Collettivo Angelo Mai bagliori Maria Vittoria Tessitore echi Vasilis Dramountanis

sabato 5 settembre domenica 6 settembre WeGil

costumi Sandra Cardini luci Andrea Gallo direzione di produzione Alessia Esposito comunicazione Benedetta Boggio una produzione 369gradi con Angelo Mai | Bluemotion ringraziamo il Comune di Ventotene, Cecilia Raparelli e la Terrazza Paradiso per la collaborazione e il sostegno

BLUEMOTION è una formazione nata a Roma all’interno dell’esperienza artistica e politica dell’Angelo Mai, che coinvolge performer, regist_, musicist_ e artist_ visiv_, attivist_ nel campo dei diritti umani e dei diritti dei lavorat_ dello spettacolo. L’Angelo Mai e BLUEMOTION nel 2016 ricevono il premio UBU Franco Quadri. Giorgina Pi è un’artista nata e cresciuta a Roma. Si laurea al Dams, conciliando fin da principio l’interesse per il teatro e i gender studies. Autrice di saggi e articoli è dottoranda in comparatistica presso le Università di L’Aquila e Paris 8. Regista, attivista, videomaker, femminista, fa parte del collettivo artistico Angelo Mai. Gabriele Portoghese inizia il suo percorso sotto la guida di Carlo Cecchi. Ha lavorato, tra gli altri, con Andrea Baracco, Valerio Binasco, Ferdinando Bruni, Fabio Cherstich, Giorgio Barberio Corsetti, Roberto Rustioni, Federica Santoro. Dal 2015 collabora col regista Fabio Condemi.

Tiresias stages the text Hold your own by the Londoner poetess, rapper and performer Kate Tempest. The feminist director Giorgina Pi, in the author’s footsteps, and the actor Gabriele Portoghese, overturn the western theatre tradition finding in it the possibility to resist to change and rethinking the memory of our lives through simoultaneity rather than chronologically.

21:00 21:00 Campetto

45’

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Panorama Roma è un progetto a cura di Fabrizio Arcuri nato nel 2018 tra le maglie di Short Theatre e che raccoglie l’adesione di altre strutture romane. Si tratta di una zona di condivisione, di ricerca e di riflessione nata intorno alle necessità della comunità artistica romana, nella quale gli artisti e le artiste sono invitat_ a condividere parte del proprio percorso artistico e del processo in cui si trovano immers_. Quest’anno Panorama Roma amplia il proprio sguardo trasversale sulla produzione culturale romana, alla ricerca di nuovi modelli produttivi e convergenze che possano nutrirli, intrecciandosi con il progetto europeo Fabulamundi Playwriting Europe. Gli/le artist_ e le compagnie che quest’anno sono state coinvolte si confronteranno con testi internazionali ancora inediti

in Italia, selezionati durante questi tre anni di Fabulamundi, allestendo nei giorni di Short Theatre un cantiere creativo visibile al pubblico. La Pelanda ospiterà infatti una sala prove aperta, dove le compagnie si alterneranno giorno dopo giorno per lavorare ciascuna al testo loro commissionato, dando così modo agli spettatori e alle spettatrici di entrare direttamente in relazione con il processo – magmatico, caotico, vivo – che dà vita alla creazione. Anche in questa edizione Panorama Roma sarà quindi il ritrovato luogo in cui aprire la propria pratica al confronto con coloro che appartengono alla comunità artistica cittadina, moltiplicando le possibilità di scambio con l’esterno, illuminando in modo specifico una delle tante dimensioni della creazione che hanno attraversato le passate edizioni: la drammaturgia.

lunedì 7 settembre Frosini/Timpano

lavorano su The Writer di Ella Hickson

Scozia

lavorano su L’Eurocommissario di Joan Nederlof

Paesi Bassi

martedì 8 settembre Manuela Cherubini & Luisa Merloni

mercoledì 9 settembre lacasadargilla / Emiliano Masala

lavorano su I mangiatori di patate di Tyrfingur Tyrfingsson Islanda

giovedì 10 settembre Veronica Cruciani

lavora su Sacra Famiglia di Jacinto Lucas Pires

Portogallo

lavora su Due parole su Ulla di Eeva Turunen

Finlandia

sabato 12 settembre Alessandra Di Lernia

52  Short Theatre 2020


prove aperte

Panorama Roma:

Frosini/Timpano The Writer Elvira Frosini e Daniele Timpano sono autori, registi e attori della scena contemporanea italiana; portano sul palcoscenico i loro corpi con cui disinnescano, decostruiscono ed incarnano le narrazioni della Storia, analizzando le derive antropologiche della società a partire da un vasto materiale di riferimenti che compongono l’immaginario e la coscienza contemporanei. Per Panorama Roma lavorano sul testo The Writer di Ella Hickson. The Writer è un dramma meta-teatrale su una giovane scrittrice che scopre il costo personale della creatività. Spinta da un anziano operatore teatrale a dire se le sia piaciuta una rappresentazione a cui assiste, la giovane ammette di avere una visione del teatro diversa da quella che prevale: uno spazio sacro con uno scopo politico che sappia riflettere la realtà in modo non conservatore. L’uomo anziano le risponde suggerendo che potrebbe scrivere qualcosa da sola.

The Writer di Ella Hickson (Scozia)

‘’Questo lavoro apre e tiene aperte molte domande sul teatro e sul mondo. Infatti sono domande che noi stessi nel nostro scrivere e fare teatro affrontiamo continuamente, oltre a molte altre: la funzione dell’arte, della scrittura, del teatro, della rappresentazione, il controverso rapporto tra l’arte e la società, tra scena e platea, tra il mondo del teatro ed il denaro, e quindi il potere, in un mondo governato da uomini’’. Ella Hickson è una scrittrice pluripremiata il cui lavoro è stato rappresentato in tutto il Regno Unito e all’estero. Il suo spettacolo teatrale Oil ha aperto l’Almeida Theater nell’ottobre 2017 e il suo spettacolo più recente The Writer ha debuttato nella primavera del 2018. È un membro della Royal Society of Literature e ha vinto due volte un MacDowellFellow. Al momento sta lavorando su nuovi lavori su commissione del The National Theatre, The OldVic e del Manhattan Theatre Club. Lavora anche come sceneggiatrice per la TV e il cinema.

studio del testo, avvicinamento alla resa scenica Elvira Frosini, Daniele Timpano con Elvira Frosini, Daniele Timpano e Camilla Fraticelli traduzione di Monica Capuani produzione PAV, Short Theatre

Elvira Frosini and Daniele Timpano work on The Writer, a meta-theatrical drama about a young writer who challenges the status quo but discovers the personal cost of creativity. The author is Ella Hickson, an award-winning writer whose work has been performed throughout the UK and abroad.

lunedì 7 settembre La Pelanda

16:00 - 19:30 Teatro 2

ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria su Eventbrite

nell’ambito di Fabulamundi. Playwriting Europe

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prove aperte

Panorama Roma:

Manuela Cherubini & Luisa Merloni L’eurocommissario “Ci siamo conosciute un sacco di tempo fa; quel che c’è da sapere è che eravamo piccine e con in testa il chiodo fisso del teatro. Luisa voleva diventare attrice, Manuela regista, e allora ci siamo messe insieme a fare teatro. Abbiamo imparato l’una dall’altra e insieme da tutto e da tutti quelli che ci capitavano a tiro: abbiamo scritto, diretto, interpretato, scenografato, illuminato, curato spazi per fare prove e andare in scena. Dovevamo darci un nome e allora abbiamo fondato Psicopompo Teatro, che diventa il luogo delle nostre sperimentazioni’’ Per Panorama Roma lavorano sul testo De Eurocommissioner di Joan Nederlof.

De Eurocommissaris di Joan Nederlof (Paesi Bassi)

Il titolo rappresenta già il nocciolo del contenuto: si parla d’istituzioni europee, di conflitto fra nazionalismi e interessi comuni, dell’artificialità delle costruzioni e delle narrazioni messe in atto per affrontare il conflitto fra interesse particolare e generale. Attualità. È molto difficile affrontare in teatro l’attualità. In De Eurocommissioner, un commissario europeo immaginario accompagna il pubblico in un viaggio attraverso i suoi pensieri e le sue tribolazioni. Il sogno di un’Europa unita e democratica è possibile anche se gli Stati membri mettono costantemente al primo posto la propria agenda? Uno sguardo sull’inaccessibile politica e sui valori contrastanti dell’Europa. Joan Nederlof (1962) è un’attrice, una drammaturga e una scenografa olandese. Si è laureata nel 1985 presso la Toneelschool Amsterdam e successivamente ha fondato la compagnia teatrale Mugmetdegoudentand (“Mug”), insieme a Marcel Musters. Dal 1997 scrive principalmente per la televisione. Nel 2005 è tornata sul palcoscenico, interpretando un’opera teatrale di cui è anche autrice, Brünnhilde 40+.

studio del testo, avvicinamento alla resa scenica Manuela Cherubini e Luisa Merloni con Manuela Cherubini e Luisa Merloni produzione PAV, Short Theatre

Luisa Merloni and Manuela Cherubini work on De Eurocommissaris, which gives a glimpse into the inaccessible politics and conflicting values of Europe. The author is Joan Nederlof, a Dutch actress and playwright/scenarist.

martedì 8 settembre La Pelanda

16:00 - 19:30 Teatro 2

ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria su Eventbrite

nell’ambito di Fabulamundi. Playwriting Europe

54  Short Theatre 2020


prove aperte

Panorama Roma:

lacasadargilla / Emiliano Masala I mangiatori di patate Attiva dal 2005, lacasadargilla riunisce intorno all’autrice e regista Lisa Ferlazzo Natoli, Alessandro Ferroni – disegnatore del suono e documentarista –, Alice Palazzi – attrice e coordinatrice dei progetti –, Maddalena Parise – ricercatrice e artista visiva, oltre un collettivo di attori, musicisti, drammaturghi, e artisti visivi. Ensemble allargato che lavora assieme su spettacoli, istallazioni, concerti, rassegne e attività di formazione, è prodotto da istituzioni nazionali e internazionali. Emiliano Masala, diplomato alla scuola del Teatro Stabile di Torino, vince nel 2008 il PREMIO UBU come miglior attor giovane e nello stesso anno vince il concorso NUOVE SENSIBILITÀ con lo spettacolo Brugole di cui è interprete e regista. Negli anni lavora con diversi registi teatrali, tra cui: Carmelo Rifici, Antonio Latella, Valerio Binasco, Lisa Ferlazzo Natoli/lacasadargilla, Tindaro Granata, Mauro Avogadro, Paola Rota, Andrea Chiodi, Luca Ronconi, Walter Le Moli e Marco Plini. Per Panorama Roma lavorano sul testo Kartöfluæturnar di Tyrfingur Tyrfingsson.

Kartöfluæturnar di Tyrfingur Tyrfingsson (Islanda) I mangiatori di patate ci arriva da lontano. L’Islanda è la patria dell’autore e dei personaggi che abitano questa singolare commedia nera che ha un suo odore tutto particolare. Ma nonostante le latitudini, sempre di famiglia, di crisi dei rapporti, di guerra fuori e dentro se stessi si parla. Lísa è un’infermiera di guerra, conosciuta per il suo lavoro nelle guerre jugoslave e la sua adesione al movimento femminista. La sua figliastra, Brúna, autista di autobus, le sta chiedendo di fare da babysitter a suo figlio, mentre bussare alla porta. Fuori c’è Mikael, suo figliastro e amante, in piedi e ha un disperato bisogno di aiuto. Un dramma sull’egoismo della sofferenza, sulla co-dipendenza e su come un trauma persista all’interno della famiglia fino a quando non viene palesato. Tyrfingur Tyrfingsson è nato nel 1987 ed è cresciuto nella piccola città di Kópavogur in Islanda. Ha conseguito una laurea in performance presso l’Accademia delle arti islandese nel 2011. La prima opera teatrale di Tyrfingur Tyrfingsson, Grande, gli è valsa una nomination al premio islandese Gríman. La sua ultima commedia, Kartöfluæturnar, ha ricevuto recensioni a cinque stelle; il critico Jakob S. Jónsson ha nominato Tyrfingur come uno dei principali drammaturghi islandesi.

studio del testo, avvicinamento alla resa scenica di Emiliano Masala con Caterina Carpio, Aglaia Mora e Stefano Scialanga traduzione italiana di Silvia Cosimini produzione PAV, Short Theatre

Emiliano Masala / lacasadargilla works on Kartöfluæturnar of Tyrfingur Tyrfingsson, who was named by Jakob S. Jónsson as one of Iceland’s preeminent playwrights. Kartöfluæturnar is a dramedy about the selfishness of suffering, codependency and how trauma travels within the family and isn’t stopped until it is seen.

mercoledì 9 settembre La Pelanda

16:00 - 19:30 Teatro 2

ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria su Eventbrite

nell’ambito di Fabulamundi. Playwriting Europe

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Panorama Roma:

Veronica Cruciani Sacra Famiglia Veronica Cruciani è attrice e regista. Nel 2003 Ascanio Celestini scrive per lei Le Nozze di Antigone – vincitore del premio Oddone Cappellino – di cui è interprete e regista con Arturo Cirillo. Con la Compagnia Veronica Cruciani, dal 2004, indaga il rapporto fra memoria e drammaturgia contemporanea. Nel 2012 vince il Premio HystrioAnct dell’associazione dei critici italiani. Per Panorama Roma lavora sul testo Sagrada Família di Jacinto Lucas Pires.

Sagrada Família di Jacinto Lucas Pires (Portogallo)

Nella Sagrada Família, Pedro e Maria sono disoccupati e il loro Figlio fa molti incubi sul mondo. In risposta, Pedro decide di ‘inventare’ una religione. La microimpresa di famiglia diventa un successo, ma gli incubi continuano: strane pulsioni, nuove parole, immagini tirate fuori dal nulla da un Figlio senza età e senza nome. Forse la religione dovrebbe funzionare altrimenti? Forse Pedro dovrebbe entrare in politica? Ci riuscirà? E che dire di Maria? E il figlio? E gli altri? E noi? Jacinto Lucas Pires nasce a Porto nel 1974 e vive a Lisbona. È uno scrittore e un drammaturgo. Il vero attore (pubblicato negli Stati Uniti) ha vinto il DST – Distinguished Literature Award 2013 per il miglior libro pubblicato in Portogallo negli ultimi due anni. Nel 2008 ha vinto il prestigioso Prémio Europa / David Mourão – Ferreira. Negli Stati Uniti, le sue storie sono state pubblicate su San Pietroburgo Review, The Common e The Mass Review. Suona con la band Os Quais e tiene il blog O que eugosto de bombas de gasolina. Scrive di calcio per O Jogo e si occupa di politica per Radio Renascença.

studio del testo, avvicinamento alla resa scenica di Veronica Cruciani con Marco Foschi, Silvia Gallerano e Benedetta Calogero traduzione italiana di Francesca De Rosa supervisione di Vincenzo Arsillo produzione PAV, Short Theatre

Veronica Cruciani works on the text Sagrada Família by writer and playwright Jacinto Lucas Pires, a text focused on the ambiguities and nightmares of the family, unemployment and religion, raising doubts and questions.

giovedì 10 settembre La Pelanda

16:00 - 19:30 Teatro 2

ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria su Eventbrite

nell’ambito di Fabulamundi. Playwriting Europe

56  Short Theatre 2020


Panorama Roma:

Alessandra Di Lernia Due parole su Ulla Alessandra Di Lernia è drammaturga e interprete, ha svolto attività di ricerca in ambito islamistico. È autrice di cinque testi: col tempo, L’anticamera, del sordo rumore delle dita, il trittico Attraverso un inverno e Speranza contro speranza, presentato in anteprima a Short Theatre nel 2019. Per Panorama Roma lavora sul testo Muutama sana Ullasta di Eeva Turunen. Dopo essersi autoincarcerata nel suo appartamento, una giovane donna perde gradualmente la presa sulla realtà. Sotto le minuzie della vita quotidiana, l’autrice dipinge un ritratto universale della brama di amore e affetto, di ambizioni represse e sogni turbolenti. Il testo è uno studio intenso e sottilmente umoristico sul comportamento ossessivo compulsivo. ‘’Da questo incontro con l’autrice finlandese emerge anche un interrogativo sul genere, sul margine identitario maschile femminile poco netto, mobile,

Muutama sana Ullasta di Eeva Turunen (Finlandia)

che nelle mie opere è sempre assente, riflettendo io sul femminismo in maniera diversa. Anche il movimento del pensiero – per quanto in una struttura drammaturgica a quadri, da me non di consueto praticata – mi ricorda un mio andamento della parola: l’inciso, il salto logico, la propensione al cambio, la possibilità di abbandonarsi al paradosso e lo scarto di registro con improvvisi precipizi lirici, buttati là’’. Eeva Turunen ha debuttato nella scena teatrale finlandese nel 2014 con il suo monologo Muutama sana Ullasta in cui mostra accuratezza per i dettagli psicologici, e sicurezza con una vasta gamma di espressioni linguistiche. Il primo romanzo della Turunen, Ms U Reminisces about Her So-called Relationship History, ha ricevuto il premio per la letteratura Helsingin Sanomat come miglior debutto dell’anno.

studio del testo, avvicinamento alla resa scenica di Alessandra Di Lernia con Alessandra Di Lernia collaborazione artistica ed elaborazione imma gini Costanza Cosi traduzione italiana di Delfina Sessa produzione PAV, Short Theatre

Alessandra Di Lernia works on Muutama sana Ullasta of Eeva Turunen, which is the author’s debut monologue (2014), it is an intense and subtly humorous study of obsessive compulsive behavior. As an author, she displays accuracy for psychological detail without the fetters of realism, confidently exploiting a wide range of linguistic expression.

sabato 12 settembre La Pelanda

16:00 - 19:30 Teatro 2

ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria su Eventbrite

nell’ambito di Fabulamundi. Playwriting Europe

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installazione

Liquid Violence Dal 2011, Forensic Oceanography – progetto della Forensic Architecture Agency (Goldsmiths – University of London) – indaga il regime militarizzato dei confini imposto dagli Stati Europei lungo le frontiere marittime dell’Unione, analizzandone gli elementi politici, spaziali ed estetici che hanno trasformato le acque del Mediterraneo in un liquido letale per quei/lle migranti, considerat_ illegali, che cercano di attraversarlo. Unendo le testimonianze umane alle tracce lasciate da sensori digitali, quali radar, immagini da satellite e sistemi per la localizzazione delle imbarcazioni, Forensic Oceanography mobilita contro la loro stessa natura quegli strumenti solitamente utilizzati per la sorveglianza, con l’obiettivo di contestare tanto la violenza dei confini quanto il regime estetico, la narrazione visiva, su cui questa sorveglianza militare si fonda. Se la violenza dei confini europei sfrutta specifiche strategie di in-visibilizzazione e rimozione, lottare per i diritti dei/lle migranti significa sfidare i confini di ciò che può essere visto e ascoltato.

Forensic Oceanography è stato fondato da Charles Heller e Lorenzo Pezzani. Charles Heller (Svizzera, 1981) è un ricercatore e filmmaker che da tempo dedica il suo lavoro alle politiche migratorie. Nel 2015 ha conseguito un Ph.D. in Research Architecture presso la Goldsmiths University di Londra. Attualmente riercatore al Graduate Institute di Studi Internazionali e dello Sviluppo di Ginevra. Lorenzo Pezzani (Italia, 1982) è architetto e ricercatore. Nel 2015 ha completato il suo Ph.D. in Research Architecture presso la Goldsmiths University di Londra, dove ora lavora come Lecturer e dirige il MA in Forensic Architecture.

da lunedì 7 a domenica 13 settembre La Pelanda in inglese e in italiano | ingresso gratuito

58  Short Theatre 2020

Londra A Short Theatre 2020, Forensic Oceanography presenta un percorso installativo articolato in quattro indagini, sviluppate negli ultimi nove anni, ognuna delle quali affronta una specifica modalità di violenza di frontiera: il naufragio del marzo 2011 durante l’intervento militare della NATO in Libia; l’indagine Death by Rescue che si concentra sui naufragi del 12 e 18 aprile 2015; la controindagine sul caso della nave Iuventa, sequestrata il 2 agosto 2017 dalla magistratura italiana con l’accusa di “favoreggiamento dell’immigrazione illegale” e collusione con i trafficanti; e la ricostruzione video del recupero e ‘trascinamento’ violento in Libia di 47 passeggeri della Sea Watch, il 6 novembre 2017. Questi materiali video sono accompagnati da una rappresentazione grafica della cronologia temporale che situa le diverse indagini all’interno dell’andamento, molto oscillante negli anni, del controllo dei confini e della (non) assistenza in mare; e da un archivio dei materiali di ricerca, contenente i vari rapporti di Forensic Oceanography e le interviste-video che sono servite come base di tutta la ricerca. Lunedì 7 settembre alle ore 19:30, Short Theatre ospiterà l’incontro Immagini alla Deriva in occasione dell’opening di Liquid Violence di Forensic Oceanography con Lorenzo Pezzani, Annalisa Camilli, Françoise Vergès, Elsa Dorlin e online: Camilla Hawthorn. L’ingresso è gratuito con prenotazione obbligatoria su Eventbrite.

Forensic Oceanography critically investigates the militarised border regime imposed by European states across the EU’s maritime frontier, analysing the political, spatial and aesthetic conditions that have turned the waters of the Mediterranean Sea into a deadly liquid for the illegalised migrants seeking to cross it.

19:00 - 24:00 Galleria


danza Bologna

First Love First Love è un risarcimento messo in busta e indirizzato al primo amore. È la storia di un ragazzino degli anni ’90 al quale piaceva lo sci di fondo – e la danza, anche, ma siccome non conosceva alcun movimento si divertiva a replicare quelli dello sci, inghiottito dal verde perenne di una provincia del Nord Italia.

Marco D’Agostin è un artista attivo nel campo della danza e della performance. I suoi lavori interrogano con insistenza i temi della memoria e dell’intrattenimento. Circuitano dal 2010 ad oggi in tutta Europa ed hanno ricevuto numerosi riconoscimenti in Italia (Premio UBU, Premio Gd’A Veneto, Premio Prospettiva Danza, Menzione Speciale Premio Scenario) e all’estero (BEFestival, (Re)connaissance, MasDanza).

Diventato adulto, non più agonista ma ancora agonista per via di un’attitudine competitiva alla coreografia che non si scolla mai, nostalgica e ricorsiva, ha incontrato il suo mito di bambino, la campionessa olimpica Stefania Belmondo, ed è tornato sui passi della montagna. In una rilettura della più celebre gara della campionessa piemontese, la 15km a tecnica libera delle Olimpiadi di Salt Lake City 2002, First Love grida al mondo che quel primo amore aveva ragione d’esistere, che strappava il petto come e più di qualsiasi altro.

un progetto di e con Marco D’Agostin suono LSKA consulenza scientifica Stefania Belmondo e Tommaso Custodero consulenza drammaturgica Chiara Bersani luci Alessio Guerra produzione VAN 2018 coproduzione Teatro Stabile di Torino/ Torinodanza festival e Espace Malraux - scène nationale de Chambéry et de la Savoie progetto realizzato in residenza presso Lavanderia a Vapore, Centro Regionale per la Danza, inTeatro, Teatro Akropolis con il supporto di ResiDance XL, inTeatro

martedì 8 settembre La Pelanda

Marco D’Agostin is an artist active in the field of dance and performance. His works question with insistency the themes of memory, extinction, entertaining. First love is a re-enacting the most renowned competition run by the Italian champion, Stefania Belmondo, a 15km free style race at the Olympic Games of Salt Lake City.

19:00 + 22:00 Teatro 1

45’

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performance video

Milano

Գիշեր | gisher

Գիշեր | gisher è un video per lo spazio scenico. Al centro di Գիշեր | gisher ci sono le immagini, che moltiplicano e scompongono la visione chiedendo a chi guarda di Orientarsi. Ci sono le parole, scritte e raccontate e offerte e tradotte e lette ad alta voce. Գիշեր | gisher è l’azione dell’alimentare, del tenere acceso, del bruciare. “La Sindrome dell’Impostore è eredità ancestrale è trauma intergenerazionale. Ieri avevo così tanto fuoco che mi sono dovut_ stendere sull’erba i palmi rivolti verso la terra. Volevo smettere di sentire il mio corpo che andava a fuoco. Sono forse diventat_ i miei meccanismi di sopravvivenza? Autosabotaggio per me significa avere tantissime opinioni sull’amore che ricevo. Ma non posso semplicemente ricevere amore, chi cazzo lo fa? Sono così stanc_. Sono così stanc_. (Io non so chi sono senza la mia stanchezza.) Vorrei poter scrivere prima dell’approdo alla critica prima di questa interiorizzazione di un senso egemonico di valore. Prima del pensiero di non aver pensato a tutto, di non aver considerato tutte le cose potenzialmente catastrofiche e le formulazioni che potrebbero distruggere tutto. Me. Perché crea davvero molta confusione. Si. Sono nat_ di lunedì.”

Giorgia Ohanesian Nardin è artista, ricercator_ indipendente e agitator_ queer di discendenza armena. Educat_ nell’ambito della danza, il suo lavoro si manifesta in movimenti/video/testo/coreografia/suono/raduni e ha a che vedere con narrazioni attorno a ostilità, riposo, attrito, sensualità e cura.

scrittura Giorgia Ohanesian Nardin riprese F. De Isabella, Giorgia Ohanesian Nardin composizione suono e video F. De Isabella drammaturgia video F. De Isabella, Giorgia Ohanesian Nardin ambiente luminoso Giulia Pastore domande Kamee Abrahamian, Ilenia Caleo, Taguhi Torosyan traduzione Giorgia Ohanesian Nardin, Taguhi Torosyan note alla traduzione Clark Pignedoli voci Kamee Abrahamian, Chiara Bersani, F. De Isabella, Simone Derai, Maddalena Fragnito, Jamila JohnsonSmall, Ndack Mbaye, Giorgia Ohanesian Nardin, Raffaele Tori, Taguhi Torosyan disegno della pubblicazione Flo Low cura e produzione Giulia Messia nel video compare l’opera Ghost Theatre di Vahram Galstyan e Repentance.Variation on themes by Pinturicchio and Raphael (dedicated to Vasily Katanyan) di Sergei Parajanov grazie Studio Azzurro, Luca Chiaudano, Yuri D., Gayanè Movsisyan, Valentina Stucchi prodotto da Associazione Culturale VAN, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Regione Emilia-Romagna. coprodotto da Centrale Fies Art Work Space sostenuto da AtelierSì Bologna, ICA Yerevan, Movin’Up – sostegno alla mobilità degli artisti italiani nel mondo, Spazio Fattoria Milano, DiD Studio Milano

Giorgia Ohanesian Nardin is an artist, independent researcher and queer agitator of Armenian descent. Գիշեր | gisher is a video for a performance space. At the center of Գիշեր | gisher are images that multiply and discompose the action of looking, asking the viewer to Orient. There are words, written and told and offered and translated and read out loud.

martedì 8 settembre

20:30

mercoledì 9 settembre La Pelanda

21:30 Studio 2

1h30’ nell’ambito di Shift Key

60  Short Theatre 2020


performance itinerante* Lisbona - Rio de Janeiro

Fiume Fiume parla di un film che ancora non esiste. Una passeggiata lungo le rive del Tevere in cui lo spettatore ascolta la colonna sonora del film che si sta registrando lungo il percorso. Un cammino come quello di una bottiglia d’acqua senza etichetta: da dove viene e dove va, si può bere o no, proviene dal vicino Tevere o dal lontano Tago? L’incapacità di etichettare l’acqua è una cosa ai limiti della realtà, che rompe gli argini dell’immaginazione. Una lunga sequenza che interseca le storie del Tevere e del fiume Tago. I due fiumi hanno chilometri di storie da raccontare; sono due esseri viventi, testimoni e protagonisti di episodi straordinari e cruciali della storia. È stato il fiume Tago a creare Lisbona e il Tevere a creare Roma. Entrambi divoravano barche, si infuriavano con tempeste, alluvioni e terremoti che colpivano chi abitava sulle sue sponde. Caravelle e navi partirono per colonizzare popoli sconosciuti agli europei. Gloria e tragedia. Mistero e intrighi. Vittoria e sconfitta. I due fiumi ora raccontano una nuova storia.

Tiago Cadete è a Short Theatre 2020 grazie all’invito del festival Materiais Diversos nell’ambito del Displacement of Festival / More Than This.

*appuntamento per la partenza all’infopoint de La Pelanda mezz’ora prima dell’inizio, arrivo a Ponte Garibaldi. Non è previsto un servizio navetta per il ritorno.

Tiago Cadete vive tra il Portogallo, dov’è nato, e il Brasile. Lavora sul confine tra arti performative e arti visive. Ha frequentato il dottorato in Visual Arts presso l’EBA-UFRJ, dopo aver conseguito la laurea. Ha anche una laurea in Teatro conseguita presso la Escola Superior de Teatro e Cinema. Nel 2011 ha partecipato al progetto europeo di ricerca e creazione sulla performance con nuove tecnologie A.D.A.P.T Advancing Digital Art Performance Techniques.

creazione Tiago Cadete produzione Co-pacabana voice over e sostegno drammaturgico Catarina Vieira con il sostegno di Materiais Diversos; Estúdios Vítor Cordon voice over in italiano in via di definizione

mercoledì 9 settembre La Pelanda performance in italiano

Tiago Cadete’s line of work lies on the border between the performing and visual arts. Fiume is about a film that doesn’t exist yet. A walk on the banks of the Tiber river where the viewer can only listen to the soundtrack of the film that is being recorded along the way. A long sequence shot that intersects the stories of the Tiber and the Tagus River.

16:30 + 18:30 Altri Spazi

50’

nell’ambito di More Than This

61


teatro

Io Non Sono Nessuno – anteprima Io Non Sono Nessuno è il primo progetto di Emilia Verginelli e prende vita dall’indagine su quello che sono le relazioni al di là delle definizioni e dei vincoli di sangue e su come il concetto di famiglia venga ridefinito attraverso la comunità e la collettività. Attraverso una serie di interviste nasce un puzzle di relazioni intrecciate che cerca di ri-definire il concetto di ‘ruolo’. In scena con lei Michael Schermi e il break dancer Muradif Hrustic. Io Non Sono Nessuno arriva in anteprima a Short Theatre 2020 e debutterà a dicembre a Santarcangelo Festival 2050 – Winter is Coming. “Io Non Sono Nessuno raccoglie episodi della mia esperienza come volontaria teatrale all’interno di una Casa-Famiglia e indaga il mio rapporto con alcuni dei bambini che la abitano, tra cui Muradif. Un luogo da chiamare casa per chi non ha famiglia, dove i ruoli originali di madre-padre-figlio sono sostituiti da altri: educatore, tutore legale, avvocato, assistente sociale, giudice, psicologo, genitore affidatario, genitore adottivo, suora, volontario… Cosa implicano tutti questi ruoli? Cos’è un ruolo? Partendo da queste domande si sviluppa un’indagine sui rapporti umani, attraverso le interviste di Muradif, Michael, Daniele, Marilù, Siham e Pasquale, mio padre. La breakdance di Muradif, l’esperienza condivisa, lo stare insieme dialogano attraverso le interviste: punti di vista differenti, che diventano il linguaggio scenico di Io Non Sono Nessuno.”

Emilia Verginelli nasce a Roma, si diploma negli Stati Uniti. Per la sua formazione teatrale studia con Ragnar Freidank, Declan Donnellan, Fabrice Murgia, Natalie Beasse, Thomas Ostermeier, Daria Deflorian, Lucia Calamaro, Fanny & Alexander. Nel 2003 crea un laboratorio teatrale permanente all’interno di strutture del tribunale dei minori. Fonda in seguito la Onlus Gruppo Sorriso Roma. Nel 2010 crea Fivizzano27, uno spazio culturale indipendente situato nel cuore del quartiere Pigneto di Roma dove cura una programmazione di residenze creative e workshop.

di Emilia Verginelli con Muradif Hrustic, Michael Schermi, Emilia Verginelli contributi video e audio Pasquale Verginelli, Daniele Grassi, Marilù Rebecchini, Siham El Hadef luci Camila Chiozza collaborazione alla drammaturgia Luisa Merloni aiuto regia Brianda Carreras assistente al lavoro scenico Gioia Salvatori e Aglaia Mora

From 2003 Emilia Verginelli manages a theatre workshop in a foster house. Io Non Sono Nessuno collects episodes of her volunteering, investigates her relation with a few children, particularly Muradif, and human relationships in general. In a place people with no family call home, the original family roles are replaced by others: educator, legal guardian, lawyer, social worker, judge, psychologist, foster parent, adoptive parent, nun, volunteer

mercoledì 9 settembre giovedì 10 settembre La Pelanda in italiano con sovratitoli in inglese

62  Short Theatre 2020

post-produzione Matteo Delai comunicazione Federica Zacchia foto di scena Claudia Pajewski produzione 369gradi coproduzione Santarcangelo Festival e con il sostegno di Fivizzano27, Angelo Mai/ BLUEMOTION, Carrozzerie | n.o.t, mixò ass.culturale e con la collaborazione di Teatro di Roma – Teatro Nazionale

19:30 20:30 Teatro 1

1h15’


danza Concordia - Parigi

Rua Un ritratto carnevalesco della vita quotidiana della strada: questo è Rua, del brasiliano Volmir Cordeiro, creato in collaborazione con il percussionista brasiliano Washington Timbó. Una ricerca di imprevedibili relazioni in cui suono, corpo e movimento lasciano emergere una serie di domande che hanno la voce della rabbia della strada, della sua memoria stratificata e collettiva. Attraverso il movimento, Volmir Cordeiro offre il corpo nella forma di brevi poesie. Tra queste anche alcuni testi di Brecht sulla guerra. Il tamburo scandisce il ritmo della scrittura e dei movimenti, tagliando e sospendendo lo spazio, amplificandone il tempo, mentre i movimenti esagerati di Volmir Cordeiro, lontani dalla norma degli standard della danza classica e contemporanea, accompagnano e spiazzano il pubblico, trascinato dalla vita della strada.

Volmir Cordeiro è a Short Theatre 2020 grazie all’invito del festival Materiais Diversos nell’ambito del Displacement of Festival / More Than This.

Nato nel 1987 in Brasile, Volmir Cordeiro si è diplomato nel 2012 presso il centro coreografico di Angers. Al momento sta elaborando la sua tesi di PhD sulle figure della marginalità nella danza contemporanea. Di recente ha chiuso un ciclo di opere composto da tre assoli: Céu, Inês e Rua (creati nell’ottobre 2015 al Musée du Louvre, in collaborazione con FIAC). Volmir Cordeiro è stato artista associato della Ménagerie de Verre nel 2015 e dal 2017 è artista associato del Centre National de la Danse (CND – Pantin). Washington Timbó è un danzatore, musicista, pedagogo e coreografo brasiliano. Come danzatore lavora con la compagnia Abieié De Irineu Nogueira e con diversi gruppi di samba, tra i quali Samba de Vela. La sua pedagogia ruota intorno alle danze tradizionali afro-brasiliane ispirandosi ai movimenti degli Orixàs e dei loro legami con la natura. Nel 2015 inizia la sua collaborazione con Volmir Cordeiro.

coreografia e performance Volmir Cordeiro e Washington Timbó produzione, tour manager, amministrazione Manakin Production – Lauren Boyer e Leslie Perrin

giovedì 10 settembre La Pelanda

A carnivalesque portrait of everyday street life, a research of unlikely relations in which sound, body and movement raise a series of questions using the voice of street’s rage and its embedded collective memory. This is Rua by Volmir Cordeiro in collaboration with the Brazilian percussionist Washington Timbó.

19:00 Galleria

1h nell’ambito di More Than This

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performance / concerto Bologna

Cosmesi fa un buco deluxe “L’Antica Grecia i vestiti in prestito montagne burocrazia ridere dimenticarsi isolazionismo snob toast al formaggio fare altro fare tutto fare di più coccolarsi Piero Ciampi lo smalto rotto grandi intellettuali dell’Ottocento i pomodori dell’orto Bulldog piastrelle Ornella Vanoni i grandi intellettuali del Novecento il battesimo sforzi vani amicizie indissolubili chiavi scomparse rossetto.” “A giugno del 2018 abbiamo realizzato un disco di otto canzoni pop, suonate, scritte e cantate interamente da noi che però siamo due artisti visivi e performer che non hanno mai suonato uno strumento.

Nel riallacciare un rapporto con il fare, nell’immaginare un’azione sintetica e simbolica, ci siamo immaginati a scavare come i bambini sulla spiaggia, come il nostro buco in banca, come le fondamenta di una casa o scavarci la fossa. Allora Cosmesi fa un buco è un buco scavato da Cosmesi. Durante lo scavo accadono le canzoni, nella difficoltà del nostro non saper suonare le nostre canzoni. Cosmesi fa è un travestimento. Una miscela impossibile: la sovrapposizione di due mondi, ritrovarsi a reggere la parte dell’impostore e ignorare il limite, fare finta.˝

Cosmesi nasce 17 anni fa; è un gruppo fondato da Eva Geatti e Nicola Toffolini che da sempre collabora con differenti artist_ per sviluppare progetti ibridi nel contesto del teatro, dell’installazione e della performance. Il primo lavoro del 2003 aveva un titolo molto lungo, mentre l’ultima produzione (che ha debuttato al festival Ipernatural – Drodesera nel 2019) si intitola Cosmesi fa un buco, ultimo tassello di un progetto che ne contiene tanti altri (un disco, un live, un videoclip…). di Eva Geatti, Nicola Toffolini e Marcello Batelli musica e testi Eva Geatti e Nicola Toffolini audio Marcello Batelli grafiche Alberto Merlin prodotto da Cosmesi, 2019 in collaborazione con Centrale Fies

giovedì 10 settembre La Pelanda ingresso libero fino ad esaurimento posti

64  Short Theatre 2020

Cosmesi develops hybrid projects at the crossroads of theatre, installation and performance. “We made a record of eight pop songs, played, written and sung entirely by us but we are two visual artists and performers who never played an instrument. Cosmesi fa un buco is an impossible mixture: the overlapping of two worlds, finding ourselves holding the part of the fraud and ignoring the limit, pretending”.

20:00 - 22:00 Zona Esterna


danza Lisbona

Dança Sem Vergonha David Marques nel suo Danca Sem Vergonha esplora gli immaginari motòri e culturali legati alla danza ma da una posizione intima, quella della propria stanza, in cui “senza vergogna” si abbandona all’espressione di sé confondendo il piano del tempo e dello spazio, del pubblico e del privato.

David Marques è a Short Theatre 2020 grazie all’invito del festival Materiais Diversos nell’ambito del Displacement of Festival / More Than This.

“Sono sempre andato alla ricerca dei modi, delle forme della danza, e dei motivi e delle possibilità del danzare. Questa ricerca l’ho condotta sia danzando in casa, sia nei club, da solo o con altri, in studio e in teatro. In questa ricerca ho sempre trovato un piacere della danza, al di là di qualsiasi contesto o formalismo musicale o artistico. Oggi, la mia danza senza vergogna esiste in teatro dove posso combinare ogni condizione e ogni aspetto della mia ricerca, e della mia vita di danzatore. Il movimento si mischia con la sensazione del danzare, e così la danza diventa immediata e meditata, semplice e complessa, referenziale e ingenua, astratta e simbolica, seria e divertente, intima e condivisa, tecnica e impreparata.”

David Marques è un performer e coreografo. Il suo lavoro interroga le questioni dello sguardo e del tempo, cercando di creare le condizioni per imprevedibili relazioni sul palco. Si è formato alla Escola Superior de Dança – IPL di Lisbona e al Centre Chorégraphique National de Montpellier. Conduce seminari e insegna presso istituzioni come la Escola Superior de Dança – IPL, l’Accademia di musica e danza di Gerusalemme e Danslab Brussels. È il fondatore di PARCA. creazione e danza David Marques DJ set live Joe Delon spazio Tiago Cadete video Diogo Brito costumi Tiago Loureiro occhio esterno Patrícia Milheiro direzione tecnica Gonçalo Alegria

giovedì 10 settembre La Pelanda

residenze Estúdios Victor Córdon e EIRA/Teatro da Voz organizzazione e amministrazione Vítor Alves Brotas produzione PARCA insieme con AGÊNCIA 25 co-produzione PARCA e EIRA/Festival Cumplicidades supporto Curtas de Dança 2019 – Festival DDD Dias de Dança (per lo sviluppo del video), la borsa di studio di Self-Mistake – Experimentation

David Marques’s work questions the issues of gaze and time, trying to create the conditions for unlikely relations on stage. In Danca Sem Vergonha, he explores the imaginary and cultural motors related to dance from an intimate position, from his own room, where “without shame” he abandons himself to expression, confusing time and space, public and private.

22:15 Studio 2

1h10’ nell’ambito di More Than This

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teatro

Roma

Illegal Helpers Illegal Helpers è un testo teatrale composto da interviste e dialoghi che l’autrice Maxi Obexer ha registrato in quattro diversi paesi europei. Gli/le intervistat_ aiutano i/le migranti e i/le richiedenti asilo, li/le salvano dalla deportazione, offrono loro protezione e alloggio o li/le aiutano a passare il confine. Alcun_ sono già stat_ condannat_, altr_ mettono a repentaglio il loro lavoro e la loro esistenza. Nel testo s’indagano le motivazioni profonde, le difficoltà, le paure, le sconfitte. Sono voci, testimonianze, necessariamente anonime, che pongono una domanda etica: cosa faremmo noi al loro posto? La risposta appare immediata e decisiva: se personalmente non facciamo nulla diventiamo complici. Siamo oberat_ di informazioni che ci immobilizzano e ci alienano. La risposta qui è ancora immediata e decisiva: uscire dal mondo dell’informazione è possibile se si comincia ad agire.

di Maxi Obexer un progetto di Paola Rota, Simonetta Solder, Teho Teardo con le voci registrate di Luigi Diberti, Luigi Di Majo, Pietro Faiella, Silvia Gallerano, Giorgio Marchesi, Orietta Notari, Irene Petris, Francesco Bolo Rossini

venerdì 11 settembre La Pelanda

allestimento scenico di Andrea Violato produzione Festival delle Colline Torinesi–Torino Creazione Contemporanea, TPE (Teatro Piemonte Europa), PAV/Fabulamundi Playwriting Europe– Beyond Borders

Paola Rota lavora come attrice con vari registi (Vacis, De Capitani, Bruni, Solari, Mazzacurati, Garrone, Cappuccio); come regista dirigendo spettacoli prodotti dal Teatro Stabile di Torino, dalla Biennale di Venezia, dal Teatro dell’Elfo di Milano, dedicandosi a testi di autori contemporanei. Dal 2008 collabora con Mario Martone. Simonetta Solder, attrice/ traduttrice, italo/austriaca. Fa parte della Compagnia Horovitz- Paciotto. Fra i registi con i quali ha lavorato in Tv/Cinema: Campiotti, Giacomo Battiato, Milani, Tullio Giordana, Cotroneo. Teho Teardo nasce a Pordenone. Compositore, musicista e sound designer. Compone colonne sonore per i più importanti registi italiani. Con l’attore Elio Germano realizza lo spettacolo Viaggio al termine della notte.

Illegal Helpers is a play by Maxi Obexer composed by interviews and dialogues with people that help migrants and asylum-seekers. Some of them are condemned already, others are jeopardizing their work and existence. The text investigates their profound reasons, difficulties, fears, failures.

17:00 + 19:00 Teatro 1

1h

nell’ambito di Fabulamundi. Playwriting Europe

66  Short Theatre 2020


performance Ginevra

Be Arielle F. Possiamo ancora distinguere cosa è reale e cosa è virtuale nella nostra realtà? Simon Senn ha acquistato online la copia digitale di un corpo femminile ed è poi partito virtualmente alla ricerca della donna il cui corpo avrebbe abitato tramite la realtà virtuale. Salirà sul palco a raccontare questa esperienza, in cui è possibile sentirsi doppiamente nudi: nel corpo virtuale così come in quello reale. “Ho comprato una replica digitale di un corpo femminile sul sito www.3dscanstore.com per 12 dollari. Il file conteneva una rappresentazione tridimensionale statica e fotorealistica del corpo nudo di una giovane donna. Ho utilizzato uno strumento online gratuito per darle ossa digitali; in questo modo ho potuto

farla muovere. Con l’aiuto di numerosi utenti di internet di tutto il mondo che ho conosciuto online, ho sviluppato un sistema di motion capture immersivo. Ho comprato l’attrezzatura per la realtà virtuale, sensori inclusi, destinata ai video giochi. Ho posizionato i sensori sul mio corpo, messo in testa il caschetto per la realtà virtuale e “sono diventato” questa giovane donna. Dopo questa esperienza disturbante, ho cercato la donna sui social media usando l’hashtag #3dscanstore. Ho trovato un selfie che lei aveva pubblicato all’epoca della scansione. L’ho contattata e le ho proposto di incontrarci. Ha accettato. Sono andato a casa sua in Inghilterra e ho filmato il nostro incontro. Abbiamo deciso di usare per lei il nome Arielle.”

Simon Senn, nato nel 1986, è un videographer e visual artist con base a Ginevra. A prima vista, il lavoro di Simon Senn può far pensare che sia un artista socialmente impegnato. Invece, uno sguardo attento rivela un approccio più ambiguo. Anche se le sue opere si basano sulla realtà (fino a un certo punto), vi è sempre uno strato di finzione che si interpone. I suoi lavori sono stati presentati alla Liverpool Biennial, all’Institute of Contemporary Arts di Londra e al Kunstmuseum di Berna. Ha vinto numerosi premi tra cui lo Swiss Performance Art Award, lo Swiss Art Award e il Kiefer Hablitzel Award.

ideazione e regia Simon Senn con Simon Senn; Arielle F. e un corpo virtuale produzione Compagnie Simon Senn coproduzione Théâtre Vidy-Lausanne, Le Grütli, Centre de production et de diffusion des Arts vivants, Théâtre du Loup

distribuzione e tour Théâtre Vidy-Lausanne con il sostegno di Fondation suisse pour la culture Pro Helvetia; Fondation Ernst Göhner; Pour-cent culturel Migros; Porosus

Simon Senn’s work may suggest that he’s a socially engaged artist. But he has a more ambiguous approach, there’s always a layer of fiction interposing. The videographer and visual artist bought online the digital copy of a female body. He positioned the sensors on his own human body, put on the virtual reality headset, and ‘became’ this young avatar woman. On stage, he tells this disturbing experience where oneself possibly feels doubly naked: in the real body and in the virtual one.

venerdì 11 settembre sabato 12 settembre

19:30 20:00

La Pelanda

Studio 2

1h

in francese e inglese con sovratitoli in italiano | si consiglia la visione a un pubblico maggiore di 15 anni

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danza Porto

Dream is the Dreamer Antropocentrismo, post-umanesimo, aerocene, fantascienza, era atomica ed ecologica: temi profondi, in orizzontale e verticale, nella storia e nella geografia, risuonano nell’evocazione spaziotemporale che è Dream is the Dreamer. Un esercizio solista per palcoscenico, pensato per un performer e tre buste di plastica; una topografia fittizia per disegnare un immaginario collettivo. Una serie specifica di coordinate incidono lo spazio vuoto, mentre si incarnano in una sequenza di eventi fantascientifici, dando vita a una specie di ‘fuso orario’ scenico, di altrove. Eventi di fantasia che sembrano impossibili su un palco, eppure eccoli ora lì. La costruzione dell’esperienza sensoriale del corpo comincia con l’esercizio della contemplazione, con un personaggio solitario in posizione eretta, in contrasto con la linea dell’orizzonte. Il vocabolario del gesto si ispira alle forme codificate del teatro giapponese No, diventando momento generativo analogico e astratto.

direzione artistica, testo, scenografia Catarina Miranda performance André Cabral ideazione coreografica Catarina Miranda, André Cabral assistente alla drammaturgia, musica Jonathan Saldanha luci Leticia Skrycky produzione esecutiva Joana Cardoso produzione SOOPA co-produzione DDD Festival / Municipal Theatre Porto promozione Sara Abrantes / Materiais Diversos con il sostegno di DGARTES / Portuguese Ministry of Culture, Materiais Diversos (Lisbona, Portogallo),

Explore Dance Festival (Bucarest, Romania), Be My Guest International Network. residenze creative Pact Zollverein (Essen, Germania), Nave (Santiago, Chile), Grand Studio (Bruxelles, Belgio), WASP (Bucarest, Romania), Exerce/CCNICI (Montpellier, Francia), Espaço do Tempo (Montemor o Novo, Portogallo), Srishti Institute (Bangalore, India) programmi di ricerca Exerce/CCN-ICI (Montpellier, Francia), TTT/ Traditional Theatre Training in NOH (Kyoto, Giappone) ringraziamenti Cristina Planas Leitão, Luísa Saraiva, Sara Abrantes, Sofia Matos

venerdì 11 settembre La Pelanda in inglese con sovratitoli in italiano

68  Short Theatre 2020

Catarina Miranda è a Short Theatre 2020 grazie all’invito del festival Materiais Diversos nell’ambito del Displacement of Festival / More Than This.

Catarina Miranda lavora prevalentemente per il teatro, concentrandosi su linguaggi che traducano la danza, la voce, la scenografia e la luce, con un approccio verso il corpo inteso come veicolo di trasformazione ipnagogica e di consapevolezza del presente. Ha di recente completato il Master in coreografia Exerce presso l’ICI-CCN di Montpellier (Francia), il BA in arti visive alla Fine Arts University (Porto/ Portugal) e il TTT Program sul Teatro No a Kyoto (Giappone).

Anthropocentrism, Post-Humanism, Aerocene, Science Fiction, Atomic World and Ecology are the themes resonating in the spatial evocation that’s Dream is the Dreamer of Catarina Miranda, a solo exercise, designed for 1 performer and 3 plastic bags, where a fictional topography is activated establishing a collective imaginary projected through the development of word and gesture.

21:00 Teatro 2

55’ nell’ambito di More Than This


film Parigi / New York

Marie Losier è una filmaker e curatrice francese che lavora a New York City da 20 anni. Ha studiato letteratura all’università di Nanterre e arte all’Hunter College di New York. Ha diretto diversi ritratti avant-garde di regist_, musicist_ e compositor_, come the Kuchar brothers, Guy Maddin, Richard Foreman, Tony Conrad, Genesis P-Orridge, Alan Vega, Peter Hristoff and Felix Kubin. Stravaganti, poetici, onirici e non convenzionali, i suoi film, presentati nei più prestigiosi festival cinematografici e nei musei di tutto il mondo, esplorano la vita e il lavoro di quest_ artist_.

Se lo scorso anno ci aveva accompagnato nella scoperta dello sgargiante mondo di Cassandro The Exotico!, a Short Theatre 2020 facciamo la conoscenza di due percorsi eccezionali del panorama della musica internazionale, il cui racconto svela il profondo intreccio che lega arte, musica, politica e storia personale: quello di Felix Kubin e quello di Genesis P-Orridge e Lady Jaye.

Marie Losier, is a filmmaker and curator who’s worked in New York City for 20 years. Losier studied literature at the University of Nanterre and Fine Arts at Hunter College, City University of New York. She has made a number of film portraits on avant-garde directors, musicians and composers. Whimsical, poetic, dreamlike and unconventional, her films explore the life and work of these artists.

Felix in Wonderland! Tra le personalità più originali del panorama musicale internazionale, Felix Kubin è un compositore, autore di radiodrammi, curatore e media artist di base ad Amburgo, in Germania. Immergetevi nel mondo di Felix Kubin dove, con il suo strumento prediletto (il KORG MS20), sperimenta e crea nuovi suoni. Un ritratto di un grande artista che vive costantemente con la musica in testa. Accompagnati dalla potenza creativa e dall’inesauribile ispirazione di Felix, gli spettatori vengono trasportati nell’universo della Musica pura, dall’elettronica al radiodramma, al pop, la musique concréte, l’opera e le performance con il microfono.

venerdì 11 settembre La Pelanda

L’11 Settembre alle ore 23:00 nello stesso spazio del film si terrà il concerto di Felix Kubin

regia Marie Losier cast Felix Kubin musica Felix Kubin prodotto da Ecce Films (FR), Mathilde Delaunay co-produzione Bandits-Mages (FR), Isabelle Carlier premiere al Locarno Film Festival 2019 in collaborazione con La Francia in Scena, stagione artistica dell’Institut français Italia / Ambasciata di Francia in Italia con il sostegno della Fondazione Nuovi Mecenati

22:00 Spazio Aperto

52’

ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria su Eventbrite

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The Ballad of Genesis and Lady Jaye Genesis P-Orridge ha rappresentato una delle figure più innovative e influenti in ambito musicale ed artistico degli ultimi 30 anni. Ha fondato gruppi leggendari come i COUM Transmissions (1969–1976), i Throbbing Gristle (1975–1981) e gli Psychic TV (dal 1981 fino alla sua morte). Sfidando ogni confine, Genesis ha definito la sua stessa arte come una provocazione rispetto ai limiti della biologia. Nel 2000, Genesis ha cominciato un serie di interventi chirurgici per assomigliare sempre più alla sua amata Lady Jaye (nata Jacqueline Breyer), che è stata sua moglie e partner artistica per quasi 15 anni. È stato il suo atto di devozione definitivo e la sua performance più rischiosa, ambiziosa e sovversiva in assoluto. Genesis ha chiamato questo progetto “Creating the Pandrogyne,” un tentativo di decostruire due identità individuali attraverso la creazione di un terzo invisibile. The Ballad of Genesis and Lady Jaye documenta un nuovo tipo di consapevolezza romantica, nonostante la quotidiana disumanizzazione del corpo a opera della presenza pervasiva della pubblicità e della pornografia.

di Marie Losier diretto, girato e montato da Marie Losier secondo montatore Marc Vives prodotto da Steve Holmgren, Marie Losier, Martin Marquet assistente alla produzione Elyanna Blaser–Gould, Amy Browne produttore storia Charlotte Mangin con Genesis Breyer P-Orridge, Lady Jaye Breyer P-Orridge, Big Boy (Breyer P-Orridge) psychic TV / PTV3 Edley ODowd, David Max, Markus Persson, Alice Genese, Thee Majesty Bryin Dall supervisiore alla post produzione / taglio negativo Ryan O’Toole audio / compositore Bryin Dall In collaborazione con La Francia in Scena, stagione artistica dell’Institut français Italia / Ambasciata di Francia in Italia con il sostegno della Fondazione Nuovi Mecenati

domenica 13 settembre La Pelanda ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria su Eventbrite

70  Short Theatre 2020

21:30 Spazio Aperto

1h15’


teatro Barcellona

La Plaza La Plaza è una pièce immaginata come una piazza cittadina, e prende avvio da un inquadratura soggettiva: lo sguardo, e pertanto le immagini che si ricevono, sono un materiale inaffidabile in quanto elaborate dalla percezione di una sola persona che in qualche modo la può condividere (o no) con il pubblico presente. Il teatro e la piazza sono accomunati dagli stessi meccanismi di narrazione del presente e dagli stessi richiami a una memoria collettiva del passato. La Plaza ritrae la realtà della vita pubblica della città, intesa come luogo di convivenza e nella quale convergono e collidono una molteplicità di espressioni e modi di stare al mondo, forme di vedere e intendere lo spazio in cui ci muoviamo e i corpi con cui esso si condivide.

Fin dall’inizio, il XXI secolo si delinea già molto agitato e conflittuale su scala globale. I giorni sono bipolari: i nostri modi di pensare e gestire noi stess_ stanno cambiando in maniera radicale e incontrollabile, eppure, allo stesso tempo, non sta cambiando nulla. Le tensioni tra memoria e immaginazione che ci rendono unic_ al mondo, creano a loro volta un conflitto perpetuo tra il desiderio e la paura di superare le imperfezioni di ciò che è sconosciuto, inspiegato e, in particolare, deforme. La possibilità di immaginare un futuro inspiegabile si trasforma in una privilegiata condizione di perfezione: un luogo in cui i nemici sono sconfitti, un paradiso raggiungibile solo con la morte.

El Conde de Torrefiel è un progetto guidato da Tanya Beyeler e Pablo Gisbert con base a Barcellona. El Conde de Torrefiel si propone di comprendere i nessi tra razionalità e il senso delle cose determinato dal linguaggio, l’astrazione dei concetti, l’immaginario e il simbolico in relazione all’immagine.

ideazione e composizione El Conde de Torrefiel in collaborazione con i/le performer regia Tanya Beyeler e Pablo Gisbert testo Pablo Gisbert cast Gloria March Chulvi, Albert Pérez Hidalgo, Mónica Almirall Batet, Nicolas Carbajal, Amaranta Velarde, David Mallols + 9 performer locali tbc stage design El Conde de Torrefiel e Blanca Añón costumi Blanca Añón e i/le performer manager tecnico Isaac Torres luci Ana Rovira suono Rebecca Praga tecnici del suono Adolfo Fernández García e Uriel Ireland tecnici in tour Roberto Baldinelli e Javi Castrillón

produzione Kunstenfestivaldesarts (Bruxelles), El Conde de Torrefiel co-produzione Alkantara e Maria Matos Teatro (Lisbona), Festival d’Automne e Centre Pompidou (Parigi), Festival GREC (Barcellona), Festival de Marseille, HAU Hebbel am Ufer (Berlino), Mousonturm Frankfurt am Main, FOG Triennale Milano Performing Arts, Vooruit (Gent), Wiener Festwochen (Vienna), Black Box Theater (Oslo), Zurcher Thetaerspektakel (Zurigo) con il sostegno di Zinnema (Bruxelles), Festival SÂLMON, Mercat de les Flors and El Graner – Centre de Creació (Barcellona), Fabra i Coats – centre de creació (Barcellona) promozione e tour management Caravan Production

El Conde de Torrefiel is a Barcelona-based project headed by Tanya Beyeler and Pablo Gisbert. El Conde de Torrefiel intends to understand the existing connections between rationality and the meaning of things determined by language, as well as the abstraction of concepts, the imaginary and the symbolic in relation to the image.

sabato 12 settembre domenica 13 settembre Teatro Argentina

20:30 18:00

con sovratitoli in italiano e in inglese

in corealizzazione con Teatro di Roma - Teatro Nazionale

1h30’

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danza Firenze

Alcune coreografie Alcune coreografie di Jacopo Jenna è un lavoro che si costruisce attraverso la mimesi di una moltitudine di frammenti video montati in una sequenza serrata, frugando tra la storia della danza e della performance, attraversando il cinema e internet, in cerca di una materia cinetica sensibile, frutto di anni di ricerca e raccolta di materiali video e di archivio legati alla danza in tutte le sue sfaccettature: la modern dance, la danza classica, le danze urbane, le posture e i movimenti delle tribù umane. Diviso in due parti, Alcune coreografie parla della danza che parla della danza attraverso la danza, e che con essa si confonde fino a produrre nuove immagini. Attraverso il corpo della danzatrice in scena, Ramona Caia, la danza si libera dalla forza dell’immagine e smette di riferirsi a qualcosa d’altro da sé, per iniziare invece a riferirsi solo a se stessa. Tutto viene decontestualizzato per essere riadattato nel presente della scena a nuova forma, per ricercare sempre altri significati, giungendo così alla seconda parte dove, nel video originale dell’artista Roberto Fassone, la coreografia diventa puramente visiva, un paesaggio simbolico dove l’umano è assente ma alla ricerca di un rapporto con il corpo in scena, e di quella materia intangibile di cui la danza è fatta.

A Short Theatre 2020 propone anche Désir Mimetique, laboratorio per ragazz_ dai 10 ai 14 anni all’interno di Tempo Libero (vedi pagina 81) ideazione, regia e videocoreografia Jacopo Jenna collaborazione e danza Ramona Caia collaborazione e video Roberto Fassone musica originale Francesco Casciaro disegno luci Mattia Bagnoli costume Eva di Franco

organizzazione Luisa Zuffo produzione KLM – Kinkaleri coproduzione Centrale Fies con il supporto di Azienda Speciale Palaexpo Mattatoio | Progetto PrendersiCura

sabato 12 settembre domenica 13 settembre La Pelanda

72  Short Theatre 2020

Jacopo Jenna è un coreografo, performer e filmaker. La sua ricerca indaga la percezione della danza e la coreografia come una pratica estesa, generando vari contesti performativi in cui ricollocare il corpo in relazione al movimento. Jacopo Jenna is a choreographer, performer and filmmaker creating stage works, video pieces, and installations. The works are oriented towards research concerning the perception of dance or choreography as an extended practice generating a variety of performative context to reframe the body in relationship with movements.

21:30 20:30 Teatro 1

45’


«Il suono è perpetuo. Arriva da ogni dove. E cresce, si nutre, si rompe e ricomincia. E sussurra anche. Si propaga con le migliori intenzioni. Ed è pronto a trasmigrare in spazi/tempi irregolari e incontaminati. Ti accompagna si sorprende lascia semi e cresce alberi. È la vita che ama. »

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19 agosto 2020 Questa conversazione, a cura di Simone Frangi, nasce in occasione di una delle attività previste da More Than This, progetto europeo di cui Short Theatre è partner dal 2018, e che quest’anno volge a termine: il Displacement of Festival. Parte di questa edizione del festival è frutto della collaborazione – e coabitazione – con un secondo festival, Materiais Diversos di Minde, Portogallo. Un festival estero, anch’esso partner del progetto, che si “disloca” a Roma per aprire nell’accadere di Short Theatre una finestra, uno spazio, una temperatura diversa, che non sarà né quella propria, né quella del festival ospite. Prefigurare questa temperatura è stato il lavoro che i due staff del festival hanno condotto in questi mesi, che avrebbero dovuto vedere diverse fasi di collaborazione in presenza, e che l’emergenza sanitaria ha inevitabilmente reso differenti, fecondi in un modo forse inaspettato: la riflessione sui concetti di ospitalità, identità, diversità e mobilità si è fatta ancora profonda, urgente, radicale, immaginativa. A prendere parola: Simone Frangi, curatore e ricercatore Daniel Blanga Gubbay, co-direttore del Kunstenfestivaldesart - Bruxelles Elisabate Paiva, direttrice artistica di Materiais Diversos - Minde Francesca Corona, co-direttrice di Short Theatre

Daniel Blanga Gubbay: Disconnettere la nozione di “ospitalità” da quella di “territorio”, ha importanza, secondo me, anche rispetto alle riflessioni di Jurema Mombaça qui e in altri contesti. La nozione di ospitalità ha la tendenza a ricalcarsi sempre nella pratica cartografica, nel marcare un territorio che appartiene all’host e in cui il guest è invitato, “accettato”, una decisione che implica sempre la possibilità del suo contrario. Una delle questioni che più mi ha interessato nello sviluppo e nella scrittura del progetto More Than This e delle riflessioni che abbiamo fatto intorno alle pratiche curatoriali è la maniera in cui la dicotomia tra host e guest possa complessificarsi al di là degli spazi territoriali definiti. In che modo potersi pensare continuamente, simultaneamente ospitanti e ospitati, host and guest? È un aspetto strutturalmente pregnante se pensiamo al festival, non soltanto in un progetto come More Than This che si basa sull’idea di displacement. Storicamente i festival si sono sempre pensati come una pratica di accoglienza di artist_, di pubblico, di altre pratiche. In che maniera, invece, il festival si deve pensare accolto all’interno di quelle pratiche o accolto all’interno di un territorio che non gli è proprio? Simone Frangi: rispetto alla nozione di inclusività come ti posizioneresti? Effettivamente è il nucleo più critico della posizione di Jurema Mombaça.

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D.B.G.: la nozione di inclusività ha il suo limite politico nel fatto di avere un dentro e un fuori che è predeterminato rispetto alla performatività politica. Esiste un limite imposto a priori e un’accettazione politica – il termine “accettazione” è volutamente problematico in questo campo – di poter includere qualcosa o qualcun_ all’interno di questo territorio predeterminato: questo ricalca una modalità coloniale di occupazione del territorio e definisce quelle che sono le regole e le persone che hanno diritto di entrare in quel territorio. L’inclusività, per come è marcata nel contesto occidentale, viene presentata come un’eccezione a quella regola, sottolineando il fatto che ogni territorio ha delle sue regole non scritte, le quali prevedono che qualcun_ possa sì essere inclus_, ma che non ne fa naturalmente parte. La questione è quindi il poter immaginare una forma di territorio che non sia definito da regole normative o naturalizzanti, ma che si possa fondare sulla possibilità e l’uguale diritto di coloro che abitano quel territorio, anche in maniera temporanea. Simone Frangi: chiederei a Elisabete e Francesca come secondo loro questa provocazione di ordine politico possa tradursi in termini curatoriali. Come scardinare la nozione binaria di ospitalità applicata alle pratiche degli/lle artist_ e ai formati? Come attivare pratiche che, in termini di programmazione di un festival, possano scardinare determinate regole curatoriali e decisionali? Elisabete Paiva: mentre parlavate stavo pensando all’importanza di poter immaginare un festival fuori dal suo territorio naturale. Materiais Diversos è visto come un festival prevalentemente legato al suo territorio, e all’identità specifica della sua comunità. Io, al contrario di chi dirigeva il festival all’inizio, non provengo da quel territorio quindi sin da subito le questioni si sono mescolate e complessificate. Durante il periodo di dialogo per la preparazione del Displacement a Short Theatre ci siamo rese conto che non stavamo entrando in relazione con la soggettività di un festival o di un territorio, ma con la totalità delle soggettività che lo compongono. Credo che l’introduzione dell’individuo, del dialogo tra persona e persona, tra collettivo e collettivo e non il dialogo tra territorio e territorio, aggiunga uno strato ulteriore a questa questione che può essere produttiva. In questo processo ci confrontiamo anche con la possibile semplificazione dei territori nei quali emergono i nostri festival, siamo invece in dialogo come gruppi di persone che dirigono e sviluppano festival in e con quei territori, senza volerli rappresentare. Francesca Corona: stavo riflettendo sulla relazione tra territorio e ospitalità. In qualche modo il Displacement messo in atto per More Than This, arriva oggi con un sistema di pratiche molto diverse da quelle che avevamo immaginato, aggiungendo un altro scarto nella relazione tra territorio e ospitalità. L’impossibilità di ospitare fisicamente Materiais Diversos nella preparazione, il fatto di non poter coabitare negli stessi spazi mentre immaginavamo questo Displacement, ha evidenziato in modo più radicale la relazione non tanto tra ospitalità e territorio, piuttosto tra ospitalità e pratiche, includendo in esse anche le modalità d’invito dell’altr_. Fare ulteriormente spazio a un festival, quindi a “qualcun_” che è abituato a invitare

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e a ospitare l’altr_ ha permesso una specie di allenamento a questa disgiunzione tra territorio e ospitalità. Sì, è stato un vero allenamento, forse più atletico di quello che pensavo, anche rispetto alle reali possibilità di mobilità nelle quali ci troviamo a operare ora. E.P: sono completamente d’accordo. È stato frustrante non poter arrivare a Roma e stare più tempo con il gruppo di lavoro, eravamo molto consapevoli che la modalità di lavoro di Short Theatre implicasse leggere insieme, camminare insieme, mangiare insieme e, nel mentre, pensare al Displacement. Il fatto di aver dovuto risolvere tutto attraverso riunioni Zoom ci ha richiesto un altro tipo di esercizio che non ci aspettavamo di dover fare. È allo stesso tempo atletico, come diceva Francesca, e ridotto, ci si sente forzati a un esercizio di sintesi, che sembra semplificare qualcosa che non è per nulla semplice. Ad esempio, mentre Francesca parlava, stavo pensando a come a tutti_ percepiscano un festival come una mappa definitiva, un prodotto finito che rappresenta un discorso, una visione, un territorio, mentre credo sia solo una piccola parte che emerge di un intero processo di pensiero e di lavoro, che in realtà non è mai davvero finito, concluso. Quello che ho sentito con il Displacement a Roma è che alcune scelte siano state anche il risultato di una serie di fattori contingenti: il lavoro davvero atipico di questi mesi, il fatto che non siamo riuscite a stare insieme, ma, anche, il fatto che abbiamo desiderato davvero che alcun_ di quest_ artist_ viaggiassero con noi. D.B.G.: vorrei aggiungere una parola al lessico immaginario che emerge dal progetto di More Than This, che era stato scritto due anni fa attraverso una serie di parole chiave: hospitality, complexity, displacement e anche rispetto al desiderio di rompere questa idea di rigidità della territorialità di chi è ospitat_ e chi ospita. Una parola si aggiunge in questo momento storico, ed è quella di contagio. Le pratiche di ospitalità hanno in sé una potenzialità di contagio, di contaminazione, rispetto all’uso – e all’abbandono – di pratiche definite. In che modo è possibile, in questo anno così particolare, rivalutare la possibilità di contaminazione che esiste in queste pratiche, qualcosa che sposta continuamente, in maniera impercettibile o percettibile ma, soprattutto, imprevedibile, l’asse di ciò che contaminiamo, venendo a nostra volta contaminati dalla pratica dell’altr_? Per me il Displacement può essere visto oggi attraverso la lente della contaminazione, ovvero di ciò che resta iscritto nel DNA una volta che questo incontro è avvenuto. S.F.: per reagire a quello che ha appena detto Daniel mi soffermerei anche sulla nozione di complessità, che questa idea di contaminazione mette in crisi. Siamo abituati a pensare la complessità in termini additivi, mentre la vera sfida a cui siamo di fronte adesso è tentare di trovare una nuova narrativa per questa nozione. La seconda provocazione teorica, ma anche estremamente pratica, che mi sembra utile lanciare è quella di pensare la nozione di complessità tentando di rimettere in discussione anche quella di diversità: è possibile rinunciarvi? Sara Ahmed in On Being Included: Racism and Diversity in Institutional Life, in maniera estremamente critica affronta la retorica della diversità da un punto di vista

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istituzionale. Spesso soggettività artistico-politiche che sono state considerate straniere rispetto a un territorio che, come diceva Daniel, è estremamente definito, sono di fatto impossibilitate a entrarvi. Vengono quindi inserite in narrative istituzionali per dimostrare che l’istituzione stessa non ha problemi con il razzismo, con il sessismo, con la complessità e la diversità. In realtà, sostiene Sara Ahmed, per queste soggettività è un lavoro emozionale molto duro perché, oltre a essere othered, considerate altre, quando vengono incluse all’interno dell’istituzione viene chiesto loro di fare un lavoro di critica severa nei confronti dell’istituzione stessa. C’è quindi una forma di secondo sfruttamento dal punto di vista istituzionale. Da un punto di vista organizzativo, curatoriale, di organizzazione e creazione di spazi, come si può lavorare all’altezza della complessità senza sfruttarne la retorica, proprio in una dimensione più fluida, pensando a interazione mutue e anche di messa in pericolo di alcuni spazi istituzionali così come sono stati creati? Penso proprio nell’ottica di programmazione di un festival, di un’istituzione, anche nell’apertura verso determinati pubblici che spesso non hanno codici, che non arrivano con tante chiavi di lettura dei lavori e che possono anche effettivamente mettere a rischio la validità di alcune proposte artistiche o curatoriali. D.B.G.: in questa domanda ci sono due aspetti che mi interessano molto. C’è il sapere che nel momento in cui organizziamo un festival quello che stiamo curando non è semplicemente quello che stiamo guardando ma come lo stiamo guardando. La performing art ha la possibilità di iscriversi in una storia di allenamento dello sguardo, ma si ritrova in ogni caso all’interno di una storia coloniale e deve quindi fare i conti con cosa significa guardare un altro corpo, guardare un’altra pratica, cosa significa poterlo fare in una modalità che metta in discussione non tanto il corpo che si sta guardando ma lo sguardo che lo guarda, e riconoscere che quello sguardo è iscritto in una griglia che ha un suo portato storico e politico nella storia della visione in Occidente. Questo mi viene in mente rispetto a quello che propone Sara Ahmed, ovvero di capire in che maniera questo discorso politico stesso possa intaccare la storia dell’istituzione e non soltanto il suo contenuto. Ci sono molte riflessioni che stanno emergendo in questo momento, mentre parlavi mi veniva in mente una frase molto famosa di Su’ad Abdul Khabeer, che dice: «You don’t have to be a voice for the voiceless. Just pass the mic» (Non c’è bisogno tu sia la voce di chi non ha voce. Semplicemente, passa il microfono). Pensare che, anche la pratica curatoriale, non debba sempre iscriversi nell’idea di dare la possibilità a qualcuno di parlare ma capire quali sono gli strumenti strutturali per poter “passare il microfono”, e potersi iscrivere in quel gesto non di accoglienza o di spazio determinato in un vero gesto di empowerment dell’altro o dell’altra. E.P: nella nostra pratica quello che cerchiamo di fare è dare più spazio possibile, anche nel processo curatoriale, a ogni artista che invitiamo. Ed è stato generoso ora da parte di Short Theatre lasciarci lo spazio per continuare quello stesso nostro dialogo con gli/le artist_. In quello che è stato detto, mi tocca in maniera particolare la nozione di complessità, che solitamente associamo all’idea di sommare, e adesso invece ha molto a che vedere con il dover togliere. È molto complessa la maniera in cui si deve agire con la mancanza di così tante cose.

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F.C.: prima si citava Sara Ahmed e di come l’invitare e il presentare il lavoro di minoranze all’interno di alcune istituzioni possa agire, in parte, vampirizzandole. Credo che questa sia la questione in questo momento, credo sia il rischio più vicino, almeno quello che sento più vicino alle nostre – parlo di nostre perché mi sento di includere tutta una generazione di festival, di curatori e curatrici, di teste, di pensieri, di emotività. Ci siamo riferite a questo Displacement come allenamento, ma possiamo parlare anche di un disallenamento dello sguardo, nell’imparare a non sottovalutare questo rischio e attivare delle pratiche di sottrazione di strati che sono nei nostri occhi. Quanto possiamo fidarci del nostro sguardo? S.F.: mi sembra che il Displacement fosse proprio lo strumento che More Than This ha creato per mettere in atto processi da una parte di decolonizzazione rispetto anche a delle nostre posture, se vuoi nazionali e disciplinari e, dall’altro, uno strumento per aprire nuove vie di collaborazione, che non fossero semplicemente lo scambio di competenze, ma l’idea di creare zone di rischio per le diverse istituzioni coinvolte all’interno del progetto. Avevo identificato una citazione che mi è molto cara, una teoria di Susan Leigh Star, sociologa della scienza, che parla di come noi dal punto di vista dello spazio immaginiamo la nostra vita, le nostre attività, i nostri formati. Think of space as an arrangement of priorities: Things that are more important are closer to the center; things less important are farther away. The center is always defined with respect to a set of questions. […] How are formal (mathematical, computational, abstract) representations defining the space of our world? What are the moral consequences of using formal representations? 1 Le mappature sono sempre frutto di una sorta di regole accettate dalla comunità. Come questo strumento spaziale che è il Displacement rivoluziona completamente le regole dell’accettazione comunitaria? Che cosa ci insegna il Displacement? Oggetti culturali emersi in un determinato spazio comunitario, nel momento in cui vengono spostati in un altro spazio, assumono significati completamente diversi e mettono a rischio sia le pratiche artistiche, che le istituzioni, ma, anche, i concetti che ci sono dietro. La mia domanda ruota proprio intorno all’efficacia del Displacement come strumento pedagogico. Da punto di vista istituzionale, vi è sembrato abbia modificato qualcosa? F.C.: in questo momento, mentre parliamo, il Displacement che abbiamo costruito insieme deve ancora avvenire, o, almeno, è avvenuto nella sua immaginazione, ma manca quel guardarlo accadere. Ma già nella sua preparazione la questione della desoggettivizzazione è il primo meccanismo evidente. Nel momento in cui si fa veramente un passo laterale rispetto al territorio e alla comunità che si vuole costruire, o che si pensa di aver costruito, si deve rinunciare all’idea del curatore o curatrice come qualcun_ che tiene le fila di tutto, che immagina tutto quello che deve avvenire, tutto quello che accade. All’interno del Displacement c’è radicalmente, fin 1  Pensate allo spazio come a un’articolazione di priorità: Le cose più importanti sono più vicine al centro, quelle meno importanti sono più lontane. Il centro si definisce sempre rispetto a una serie di domande. […] Come le rappresentazioni formali (matematiche, computazionali, astratte) definiscono lo spazio del nostro mondo? Quali sono le conseguenze morali nell’usare queste rappresentazioni formali?) [Ecologies of Knowledge: Work and Politics in Science and Technology, a cura di Susan Leigh Star]

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dall’inizio, la negazione di tutto questo. Non è un lavoro di co-curatela o di invito a un_ curatore o curatrice, è un altro tipo di pratica: è mettersi da un lato e guardare accadere, una pratica a cui siamo abituati nel momento in cui festival si fa, non nel momento in cui il festival si immagina. In apertura di Short Theatre 2020 quest’anno c’è una lectio/assemblea di Elsa Dorlin. Capire cosa significa situare il discorso di Elsa Dorlin nella piazza davanti all’Ex Gil, è fondamentale per osservare la differenza tra territorializzare il discorso e situarlo. Sono due cose molto diverse, che non vanno confuse e lo dico anche a me stessa. Rispetto alla responsabilità pedagogica che abbiamo in quanto istituzioni, trovarsi a lavorare, in modo chiaro e definito, sulla questione del “situare”, sottraendosi ad ogni prospettiva antropologica. S.F.: è molto interessante mettere in opposizione l’idea della prospettiva antropologica con l’idea della prospettiva pedagogica. La pedagogia implica in un processo critico anche coloro che portano le istanze dell’educazione, quindi le istituzioni stesse; mentre l’antropologia, storicamente fa astrazione dei soggetti che si pongono le domande. Credo sia molto importante quello che dici anche nell’ottica di una pedagogia espansa, una pedagogia delle istituzioni, una pedagogia dei monumenti, un processo di reale complessità.

Simone Frangi e Daniel Blanga Gubbay curano la parte teorica del progetto europeo More Than This.

E.P.: quello che sento nel nostro caso è che abbiamo dovuto delegare a Short Theatre questa parte del lavoro di cui di solito ci prendiamo cura nel dettaglio. Non sappiamo veramente nulla del pubblico romano, pensiamo possa essere non solo locale, perché Roma a differenza di Minde è una capitale, pensiamo ci possano essere delle minoranze, molt_ artist_, ma in realtà non lo sappiamo. Abbiamo lasciato la questione del pubblico e dello sguardo pedagogico nelle mani di questo gruppo di lavoro. È stato un esercizio un po’ strano. C’è una questione in particolare che vorrei sottolineare: non avevamo pianificato di viaggiare con quattro artist_ portoghesi. È qualcosa che è successo a giugno, durante il processo di costruzione del Displacement ed è stato strano rendersi conto che eravamo un festival portoghese che avrebbe portato tre artist_ dal Portogallo e uno dal Brasile. Come ha detto Francesca, non sappiamo che cosa accadrà e ne sono molto consapevole, il Displacement è in corso e sapremo solo alla fine del Festival che cosa avrà voluto dire per i team, il pubblico, gli/le artist_ e per i festival stessi. Sono molto curiosa di capire che cosa succederà agli/lle artist_, che non sono assolutamente contestualizzat_ come “gli/le artist- della rassegna portoghese a Roma”. Affrontano la questione del luogo in modi diversi ed è questo che lega questi quattro lavori insieme: il nodo dell’essere in un posto, di trovarsi in una certa posizione, ognuno a suo modo è distante da una presunta “questione portoghese”. Aggiungerei qualcosa sulla complessità che si lega all’idea di curatela che sia io che Francesca abbiamo evidenziato. Un festival non è qualcosa di finito. È un punto lungo un percorso. È un esercizio, un flusso di pensiero e non può essere imprigionato in un prodotto. È la creazione di una comunità che è costantemente in costruzione, che non afferma solo un’identità, ma che cresce insieme, in costante trasformazione.

editing Paola Granato.

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laboratori

ingresso gratuito

Dal 2018 Short Theatre guarda ai modi e alle condizioni con cui si trasmette il sapere, con cui si dà forma all’esperienza e alle idee e pone particolare attenzione ai percorsi di formazione e all’offerta laboratoriale, raccogliendola nella sezione Tempo Libero. Skholē’ nell’antica Grecia era il tempo libero, dedicato allo svago della mente, cioè lo “studio”, diventato solo in seguito ‘luogo ove si attende allo

studio’. È questa la temperatura che Short Theatre vuole raggiungere, aprendo al suo interno degli spazi di libertà – dal produrre, dal contabilizzare, dall’ottenere – che possano coinvolgere le spettatrici e gli spettatori, e che siano fecondi nell’immaginare nuovi percorsi della realtà. Short Theatre in Tempo Libero mette a disposizione del pubblico laboratori, workshop pratici, masterclass aperti al pubblico a cura degli artisti ospiti al festival, ma si fa anche “oggetto di studio” per percorsi formativi più ampi.

Gérald Kurdian Hot Bodies_Choir Il workshop riunisce persone queer, LGBTIE+ e femministe intorno a pratiche di scrittura e di canto corale. In questo spazio ognun_ è invitat_ a condividere e scambiare esperienze e idee a partire dalla lettura dei manifesti queer, femministi, decoloniali attraverso al scrittura collettiva di testi rivoluzionari (come Radical Tenderness del collettivo La Pocha Nostra, The Ecosexual Manifesto di Beth Stephens e Annie Sprinkle, Scum Manifesto di Valérie Solanas, Il pensiero eterosessuale di Monique Wittig, Manifesto Cyborg di Donna Haraway etc.). Questi testi unici, polifonici e sovversivi verranno arrangiati da Gérald Kurdian e performati live da tutt_ i/le partecipanti in un esito pubblico.

Il worskshop è diviso in quattro parti: nella prima parte i/le partecipanti produrranno testi, mantra trasformativi, ispirati dalla lettura collettiva. I testi saranno scritti nella lingua di ciascun_ partecipante. La seconda sarà più legata alla tecnica vocale, Gérald Kurdian condividerà uno specifico metodo per connettere il corpo fisico a quello emotivo. Nella terza parte ci si concentrerà sulla pratica di canto corale/collettivo, volto a condividere e imparare i testi di ciascun_. Infine, venerdì 4 e sabato 5 settembre esito finale a WeGil con i/le partecipanti del laboratorio.

1 - 3 settembre + 4 - 5 settembre esito finale del laboratorio Teatro India

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17:00 – 20:00


Riccardo Fazi / Muta Imago + Elise Simonet + Jessie Mill Les Cliniques Dramaturgiques Riccardo Fazi, in collaborazione con Jessie Mill e Elise Simonet, sviluppa per la prima volta in Italia il format di ricerca e condivisione de Les Cliniques Dramaturgiques, ideato dal Festival TransAmériques di Montreal. Cinque dramaturg internazionali sono invitate/i a condividere pratiche, teorie, questioni, strumenti legate alla loro pratica drammaturgica. La ricerca si aprirà anche verso l’esterno, attraverso una serie di “consultazioni private”. Le/i dramaturg

invitate/i offriranno infatti quotidianamente la loro attenzione, il loro ascolto e la loro presenza ad un gruppo di artisti locali di teatro, danza e arti performative, in una serie di incontri “uno a uno” dedicati alla cura dei processi di creazione legati alla drammaturgia e alla scrittura di progetti inediti. Dramaturg invitati: Piersandra Di Matteo, Nedjma Hadj Benchelabi, Riccardo Fazi, Jessie Mill, Sandra Nöth, Elise Simonet.

Jacopo Jenna Désir Mimétique Désir Mimétique è un workshop di danza rivolto a ragazz_ dai 10 ai 14 anni, ideato dal coreografo e performer Jacopo Jenna. Con Désir Mimétique sperimentiamo la danza contemporanea a partire dal concetto di imitazione, meccanismo basilare per l’incorporazione e la trasmissione della cultura, attraverso la quale creiamo qualcosa di nuovo e inaspettato. Le informazioni e la qualità del movimento si replicano o si trasferiscono da una persona all’altra attraverso un processo “memetico”: così come nell’evoluzione biologica e genetica l’unità del gene si trasmette, trasformandosi, così il meme – unità di

11 settembre 12 – 13 settembre Teatro India

informazione intellettuale o culturale –può passare da una mente all’altra. Attraverso l’imitazione in diretta di filmati composti da vari esempi di coreografie dell’ultimo secolo, dai balletti di Nižinskij, passando per Merce Cunningham, Yvonne Rainer o ai passi di street dance, Désir Mimétique si concentra su principi semplici come la copia, la trasformazione e la ricomposizione. I movimenti, talvolta complicati o astratti, mutano in una nuova danza in cui l’errore diventa un elemento di novità che trasforma il processo di imitazione in creazione.

15:00 – 17:00 10:30 – 12:30

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Little Fun Palace_Scuola Nomadica Dal 4 all’8 settembre WeGil e La Pelanda

A Short Theatre 2020 torna la roulotte di Little Fun Palace, che in questa edizione si manifesta in una duplice forma, moltiplicando le sue possibilità di reinventare lo spazio e lo stare insieme. Durante il tempo radicato della quarantena Covid-19 si è materializzata la necessità di trasformare Little Fun Palace in una Scuola Nomadica; un esperimento in cui l’individualità accentuata di quest’isolamento si rilascia in momenti collettivi in cui ripensare il nostro rapporto con la produzione dello spazio che ci circonda. Approfondendo la celata implicazione politica di una roulotte, possiamo sfidare le norme in cui lavoriamo [il teatro] e viviamo [la realtà]. La Scuola Nomadica si rivolge a un pubblico giovane di architett_, designer, theatre-maker e artist_ e propone quattro workshop / incontri con altrettante figure a cavallo tra la ricerca e le pratiche artistiche, indagando lo spazio e il paesaggio come territori estetici che hanno implicazioni politiche pur non utilizzando le parole della politica. La Scuola Nomadica non esclude nessun_ ed è aperta anche ai/lle professionist_ dei vari settori e a chiunque voglia mettere in dubbio chi decide cosa è reale, lasciandosi alle spalle la distanza rappresentativa tipica degli ambienti accademici così come di quelli culturali.

Programma: WeGil

Matthew C. Wilson,

11:00 14:00

WeGil

Donato Epiro

domenica 6 settembre

19:00 20:30

WeGil

Giovanni Attili

lunedì 7 settembre

17:00 19:00

La Pelanda

Donatella Saroli

martedì 8 settembre

17:00 19:00

La Pelanda

Giulia Crispiani

venerdì 4 settembre

21:30

sabato 5 settembre

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film 55’

The Age of Autonomous Exploration

Nessuna Musica

Lo spazio dell’abitare tra abbandono e spettacolarizzazione

Il mio posto è al centro delle cose. Scrivo partendo dal nucleo di un atomo Distanza


Françoise Vergès Nous tissons le linceul du vieux monde Parole e pratiche per l’antirazzismo, l’anticapitalismo, l’antimperialismo e l’antipatriarcato

Dopo aver acceso la scalinata di WeGil lo scorso anno con le sue parole intorno a Un féminisme décolonial, Françoise Vergès torna a Short Theatre 2020 per chiamare a raccolta e rilanciare la comunità che nella scorsa edizione si radunava intorno al suo discorso. La violenza sistemica e strutturale del capitalismo razzista e del patriarcato è stata, ancora una volta, aggiornata dalle politiche di contenimento che i governi hanno attuato per rispondere alla pandemia causata dal Covid-19. Femminicidi, assassini di militanti e autocton_, violenze nei confronti delle persone anziane e dei/le bambin_, aggressioni da parte delle forze dell’ordine, violenze razziste, non sono per nulla diminuite. La diseguaglianza, l’ingiustizia sociale e razziale si sono fatte ancora più gravi, contribuendo al rinnovarsi dell’immensa precarietà creata dalla globalizzazione del capitalismo e dalla sua struttura razziale. Questa politica getta una viva luce sulla diffenziazione perpretata dai governi tra coloro che, avendo storicamente beneficiato di protezione, continuano a godere di questo privilegio, e coloro che, altrettanto storicamente, sono stat_ costituit_ come usa e getta, come

8 – 9 – 10 settembre Teatro India

un surplus e come riluttanti e resistenti per natura a ciò che il potere ha concepito come “vita normale”, e che quindi non solo vengono esposti al virus e alla morte, ma vedono criminalizzati i propri comportamenti. A volte mancano le parole per comprendere appieno l’esplosione di violenza che può manifestarsi, creando una sensazione di impotenza, rabbia, angoscia e disperazione. Eppure ogni giorno, ogni mattina, da qualche parte, donne e uomini resistono, squarciando il velo della normalità del crimine. Uno dei compiti che ci daremo è aggiornare gli intrecci di temporalità e spazialità che creano una vulnerabilità differenziata alla morte prematura delle persone razzializzate, precarie, trans, queer, lavoratrici del sesso, migranti, rifugiate. In questo workshop di tre giorni, che riunirà attivist_, artisti_e ricercat_, cercheremo di tracciare questi intrecci, partendo dai temi che mobilitano in questo momento l’Italia, per poi sforzarci di mettere in parole le nostre aspirazioni e i nostri desideri di emancipazione e liberazione

10:30 – 18:30

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Fabulamundi. Playwriting Europe: Beyond Borders? Fabulamundi. Playwriting Europe: Beyond borders? è un progetto di cooperazione che ha come obiettivo il sostegno e la promozione della drammaturgia contemporanea in Europa, al fine di consolidare e potenziare le attività e le strategie degli artisti che operano nel settore. Fabulamundi nasce nel 2013 e nel 2020 giunge al suo ultimo anno. Si svolge in 10 paesi europei, con 15 partner fra teatri, festival e organizzazioni culturali in Italia, Francia, Germania, Spagna, Romania, Austria, Belgio, Polonia, Inghilterra e Repubblica Ceca, e con altri 8 paesi gemellati, coordinato da PAV. Il progetto – del quale Short Theatre è partner sin dall’inizio – è stato finanziato due volte della Commissione Europea, nel 2013 e nel 2015, e prosegue fino al 2020 grazie ai fondi di Creative Europe 2014-2020. Nell’ambito di Fabulamundi, Short Theatre 2020 presenta Illegal Helpers di Paola Rota, Simonetta Solder e Teho Teardo, il progetto a cura di Riccardo Fazi / Muta Imago, Elise Simonet e Jessie Mill, Les Cliniques Dramaturgiques. Inoltre quest’anno Fabulamundi Playwriting Europe si intreccia con Panorama Roma: gli/le artist_ e le compagnie che sono state coinvolte, infatti, si confronteranno con i testi internazionali ancora inediti in Italia, selezionati durante questi tre anni, allestendo nei giorni del festival un cantiere creativo visibile al pubblico.

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More Than This More Than This è un progetto di cooperazione europea, nato nel 2018 e che si conclude quest’anno, che vede tra i partner il Festival Parallèle – Productions Parallèle di Marsiglia, l’Universidad Carlos III de Madrid, Máterias Diversos di Lisbona, Kanuti Gildi SAAL di Tallin, Ramallah Contemporary Dance Festival e Short Theatre, il cui scopo è condividere con un vasto pubblico la complessità delle geografie da cui provengono i partner, dando forma a uno spazio comune e vibrante. More Than This ridefinisce la nozione di “spostamento” come un cambiamento nel nostro modo di percepire identità e pratiche, ripensando le modalità di ospitalità, mettendo in discussione la nostra capacità di accogliere gli altri e di andare verso di loro. More Than This riscrive la geografia e le metodologie del sistema delle arti dello spettacolo. Nuovi modi di produrre, programmare, condividere e ricevere. Nel 2020 Short Theatre è stato coinvolto in una delle attività più innovative di More Than This, il Displacement of Festival, attraverso la quale ragionare non solo sulla mobilità dell’artista, ma anche su quella delle istituzioni culturali stesse.

Shift Key

Festivals of the Future

Shift Key nasce nel 2010 da un gruppo di festival internazionali europei dedicati alle perfoming art, che ha deciso di costruire una rete con l’obiettivo di sostenere la mobilità degli artisti emergenti. International Theater Festival MESS (Sarajevo), Short Theatre (Roma), ACT Festival (Bilbao), BE FESTIVAL (Birmingham) e ITS Festival (Amsterdam) hanno così in questi sette anni contribuito alla mobilità e al sostegno di compagnie emergenti. Shift Key è un progetto che mira a rinvigorire e rinforzare il partenariato tra i festival per facilitare la mobilità degli artisti e per costruire un sostegno più solido alle loro carriere. Gli artisti selezionati sono: Sleepwalk collective (UK); Sra. Polaroiska (Spain); Alma Söderberg (Sweden); Bertrand Lesca and Nasi Voutsas (UK ); Teatro Sotterraneo (Italy); Oliver Zahn (Germany); David Espinosa (Spain); The Moving Island (Bosnia Herzegovina); 1er stratageme (France ); Radouan Mriziga (Belgium); Mokhallad Rasem (Belgium); Strasse (Italy); Giorgia Ohanesian Nardin (Italy).

Festivals of the Future è un progetto di cooperazione tra cinque festival, per esplorare insieme modelli alternativi e immaginare i festival del futuro in modo innovativo e sostenibile. Insieme a Short Theatre, gli altri partner sono Transform (Leeds) – capofila, MIRfestival (Atene), Take Me Somewhere (Glasgow) e Festival Parallèle – Productions Parallèle (Marseille), con i partner associati: D-Caf (Egitto), My Wild Flag (Svezia), Les Urbaines (Svizzera) e Homo Novus (Vilnius). Attraverso residenze collettive e progetti collaborativi, Festivals of the Future riunirà gli staff dei festival coinvolti per interrogare ogni componente delle proprie pratiche di lavoro, da modelli a basse emissioni di carbonio, ai finanziamenti alternativi, fino alla leadership collaborativa, la co-creazione, lo sviluppo del pubblico.

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Boarding Pass Plus Dance Boarding Pass Plus Dance è un progetto per la professionalizzazione e mobilità internazionale di dance artists e producers under35, sostenuto dal MIBAC. Capofila del progetto è Opera estate/ CSC di Comune di Bassano del Grappa – Operaestate Festival Veneto, in partnership con Short Theatre, Fondazione Piemonte dal Vivo, Indisciplinarte srl, Santarcangelo Festival, e numerosi partner stranieri.

Master Studi e Politiche di Genere di Roma Tre

Dominio Pubblico

Nato nel 2001 all’Università Roma Tre, il Master Studi e Politiche di Genere di Roma Tre è un progetto formativo basato sull’approfondimento degli studi di genere e del pensiero femminista, con un focus verso le tendenze e i dibattiti più recenti. L’obiettivo del Modulo Arti, a cura di Ilenia Caleo, è di fornire una strumentazione teorica per leggere i linguaggi artistici del contemporaneo, attraverso l’assunzione femminista di un pensiero delle pratiche. Per l’edizione 2020 prosegue la collaborazione con Short Theatre, che quest’anno vede la presentazione della lectio magistralis di Elsa Dorlin. Il Modulo Arti si svolgerà in modalità intensiva nell’arco di 6 incontri alternando lezioni frontali a momenti seminariali e laboratori pratici, sperimentando differenti metodologie di lavoro e di ricerca, a contatto con pratiche creative.

Dominio Pubblico è un progetto di formazione del pubblico rivolto a ragazzi Under 25 che vogliano sperimentarsi in un percorso da spettatori attivi, finalizzato alla conoscenza della scena contemporanea e alla produzione, promozione e organizzazione di un festival multidisciplinare. DP in tour è un format ideato per creare uno strumento di circolazione del giovane pubblico a livello nazionale e per realizzare la crescita e lo sviluppo di una rete di soggetti che in Italia ha scommesso su una nuova generazione di artisti e sulla creazione di una platea attenta e partecipe. In ogni contesto il gruppo DPU25 che si formerà avrà il compito di partecipare attivamente al programma delle attività documentandole attraverso foto, video, GIF e Stories, con l’uso dei social network e del blog. Nel corso del 2020 DP attraverserà i Festival di cui è partner: Strabismi Festival a Foligno – Trasparenze a Modena – Up To You a Bergamo – Polline Fest a Sezze – Kilowatt Festival a Sansepolcro – Direction Under 30 al Teatro Sociale di Gualtieri - Castellinaria ad Alvito - Festival dello Spettatore ad Arezzo – Attraversamenti Multipli e Short Theatre a Roma - Festival 20 30 a Bologna.

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Ecosostenibilità Dal 2017 Short Theatre ha avviato un processo di riduzione del proprio impatto ambientale. In questa 15esima edizione rinnoviamo quella stessa intenzione, affinandone gli strumenti e provando a fare dei piccoli passi in più. Una serie di pratiche – necessarie più che virtuose – attraverso le quali, nel corso del tempo, eliminare il consumo di plastica, ridurre gli sprechi e sensibilizzare la comunità che ogni anno abita Short Theatre.

Acqua Pubblica con 24Bottles Short Theatre 2020 ribadisce il proprio impegno nell'eliminare del tutto l’utilizzo di bottigliette d'acqua in plastica, offrendo in zona esterna la possibilità di rifornirsi liberamente di acqua potabile, e rinnovando la collaborazione con il brand 24Bottles, che fa della sostenibilità e dell’attenzione al design la propria mission. Grazie all’intesa tra 24Bottles e Short Theatre, anche quest’anno non solo lo staff ma ciascun component_ delle compagnie presenti al festival riceverà una Urban Bottle brandizzata.

Stop alla Plastica! Bicchieri riciclabili, posate e stoviglie biodegradabili e compostabili, riduzione da parte della gestione del bar di bottiglie e contenitori: tutto per azzerare l’utilizzo e la dispersione di materiale plastico.

Merchandising COLORIAGE

Coloriage è un laboratorio di condivisione di saperi e pratiche artigianali un luogo in cui si svolgono corsi di apprendistato e seminari aperti a persone migranti e inoccupate che amano la creatività; uno spazio in cui artigiani, designers, e maestranze di ogni provenienza possano trasmettere le loro conoscenze e le loro storie un luogo di incontri creativi e contaminazioni culturali, in cui nascono pezzi unici e originali. Un atelier di sartoria, ma presto anche di pelletteria, in cui si creano vestiti e accessori per grandi e piccoli, e un laboratorio di riciclo e di riuso, dove si trasformano abiti, complementi d’arredo e mobili un gioco tra colori e materie, tessuti originali e forme contemporanee, con attenzione di qualità. In questa quindicesima edizione, Short Theatre collabora con Coloriage, che realizza gli zainetti brandizzati del festival.

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Bar&Ristoro Gargani

food, beverage, ecosostenibilità Gargani è una bottega enogastronomica, storica a Roma, riconosciuta per l’eccellenza dei prodotti. Dal 2015 Gargani ha iniziato a collaborare con Short Theatre nella gestione dell’offerta enogastronomica del festival. Fin dall’inizio è stata una complicità che va oltre la semplice cogestione di un servizio, ma invece è la condivisione di un’idea di cura quotidiana di chi abita il festival, di artist_, pubblico, tecnic_ e operat_, in armonia con i suoi ritmi e con le sue energie, in un comune impegno legato a pratiche di ecosostenibilità sempre più completa.

BE SAFE! Covid-19 Lo sappiamo che lo sapete, però meglio ricordarlo. Siamo content_ che Short Theatre possa mantenere la stessa articolazione di sempre, ma è inevitabile che alcune cose dovranno funzionare un po’ diversamente. Ad esempio:

I posti in sala Nel rispetto delle norme sanitarie vigenti e per permettere a tutt_ di assistere agli spettacoli in piena sicurezza, abbiamo ridotto la capienza delle sale e cercato di immaginare più appuntamenti possibili all’aperto. Le molte installazioni presenti nel programma permetteranno poi una certa flessibilità negli ingressi. La maggior parte delle performance avrà una doppia replica, ci stiamo attrezzando per trasmettere gli incontri in diretta streaming e racconteremo il festival in tutto il suo accadere attraverso video, interviste, approfondimenti. Ciò nonostante, vi chiediamo di avere più pazienza del solito se i biglietti che cercate dovessero essere esauriti!

La prevendita Una delle cose che più ci piace a Short Theatre è il fatto che ogni momento diventa anche un po’ un pretesto per incontrarsi e stare insieme. Persino la fila in biglietteria alla Pelanda o WeGil assume quella funzione! Quest’anno però ci toccherà rinunciare a questa cara abitudine: i biglietti saranno acquistabili online a partire dall’ultima settimana di agosto e non sarà possibile riservarsi l’ingresso senza aver preacquistato – o prenotato, dove necessario – il proprio posto. Per lo stesso motivo, è importante arrivare con mezz’ora di anticipo rispetto all’orario di inizio dello spettacolo e avvisare la biglietteria in caso di rinuncia.

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Feste e divertimento La festa è per noi una cosa seria, perché crediamo sia uno dei momenti centrali nella costruzione della comunità, e uno degli strumenti più importanti perché resti in buona salute. Per questo cercheremo di non rinunciarci anche in questa edizione così delicata, ma di trasformarla, chiedendo agli/alle artist_di immaginare per noi delle sessioni di ascolto collettivo, in modo che la prossimità possa tradursi in intimità e connessione più che in movimento e contatto fisico. I momenti musicali si terranno all’aperto, per far sì che l’esperienza sia piacevole e luminosa, oltre che per garantire un numero più alto di ingressi, che saranno in ogni caso contingentati. Perché tutt_ possano partecipare in sicurezza, abbiamo bisogno di farlo nel rispetto delle regole, di connetterci agli altri e le altre e di includerl_ nel nostro sguardo: speriamo di poter contare sulla vostra pazienza e apertura perché tutto sia bello come vogliamo, e perché tutt_ possano sentirsi a loro agio nel vivere questo tempo di condivisione, nel rispetto delle regole.

Mascherine & disinfettanti Ormai vi sarete abituat_: indossate mascherine dove è richiesto e usate spesso e volentieri il gel disinfettante che troverete in giro per gli spazi. Se doveste aver dimenticato la mascherina, chiedete all’ingresso e vi sarà data. Vi preghiamo però di fare attenzione ed evitare che finiscano a terra: ci teniamo alla nostra salute, ma anche a quella dell’ambiente!

Distanza fisica Ci fidiamo di voi – come non potremmo. Ci aspettiamo quindi che siate responsabili e coscienti dei rischi che correte nel condividere una certa vicinanza con le persone con cui verrete al festival, e soprattutto del rischio a cui esponete le persone intorno a voi. Facciamo in modo che Short Theatre 2020 diventi un grande esperimento di responsabilità collettiva e di esercizio del consenso, cercando di riconoscere quando un’eccessiva presenza di corpi, vicinanza e altre questioni somatiche possano non soltanto mettere a repentaglio la salute di chi condivide con noi lo spazio, ma anche la sua serenità nel vivere l’esperienza del festival.

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STAFF Short Theatre 2020 è a cura di Francesca Corona e Fabrizio Arcuri coordinamento organizzativo Martina Merico direzione@shorttheatre.org produzione Roberta Zanardo Matteo Angius Giulia Messia Pietro Monteverdi con la collaborazione di Elena Bastogi, Anna De Bartolo, Erica De Chiara, Livia Torchio organizzazione@shorttheatre.org amministrazione Roberta Scaglione Elena Campanile Giusy Guadagno con la collaborazione di Gea Polimeni amministrazione@shorttheatre.org coordinamento tecnico Chiara Martinelli con collaborazione di Diego Labonia e di Valerio Corallini, Ruben Facondo, Ida Mandato, Bogdan Melinte, Alice Molinari tecnica@shorttheatre.org comunicazione e promozione Lorenza Accardo Giulia Flenghi con la collaborazione di Giulia Salvatori e Francesco Di Stefano comunicazione@shorttheatre.org social media Gianluca Cheli e Caterina Occulto per E45

biglietteria Monica Maffei e Silvia Parlani comunicazione@shorttheatre.org; info@shorttheatre.org ufficio stampa Alessandro Gambino agambi75@gmail.com grafica Simone Tso con la collaborazione di Leonora Marzullo foto Claudia Pajewski video Laura Accardo, Eleonora Mattozzi Maria Giovanna Sodero con la collaborazione di Gilda Ballarini e Vanessa Pistilli web master Manlio Ma traduzioni Kalima Studio di Gaia Resta staff tecnico

Amoni Vacca, Davide Zanni, Francesco Costa, Ilie Moraru, Angelo Longo, Camila Chiozza, Emiliano Bonafede, Giacomo Cursi, Tiago Ignacio Branchini, Daria Grispino, Raffaella Vitiello, Enrico Ceccarelli, Gianluca Cioccolini, Marco Guarrera, Javier Delle Monache, David Ghollasi, Riccardo Giubilei, Matteo Rubagotti, Daniele Torracca

bar e ristoro Gargani Chiara Capparella e Maddalena Lucarelli Grazie a tutt_ le/gli stagist_ e le/i tirocinanti che offrono il loro lavoro volontario.

Ringraziamo: Cecilia Guerrieri Paleotti, Cesare Pietroiusti, Ilaria Mancia, Lady Maru, Sara Seghizzi, Servizio Giardini del Comune di Roma, Studio54 Torpignattara, Giulia Galzigni, DOM-, Natalia Agati, Igiaba Scego, Enrico Casagrande e Daniela Niccolò, Rita Calzetti, Francesca Suria Jayarajah, Miguel Angel Cabezas Ruiz, Roberta Scaglione, Claudia Di Giacomo, Valentina De Simone, Laura Belloni, Laura Marano, Luca Valerio, Marco De Francesca, Martina Ruggeri, Filippo Di Battista, Laura Marongiu, Andrea D’Ammando, Ilenia Caleo, Silvia Calderoni, Paola Granato, Daniele Spanò, Marina Donatone

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TICKET Le capienze degli spettacoli di Short Theatre 2020 sono limitate nel rispetto delle normative di sicurezza per l’emergenza Covid-19.

Per facilitare l’acquisto online, Short Theatre si fa carico del 50% del costo di prevendita su ciascun biglietto, che sarà quindi maggiorato di 1e invece che 2e.

L’ingresso è possibile solo pre-acquistando il biglietto online su www.vivaticket.it o su www. shorttheatre.org, o prenotando il proprio posto su Eventbrite lì dove richiesto, nelle pagine dei singoli spettacoli. I biglietti per La Plaza di El Conde de Torrefiel possono essere acquistati anche presso la biglietteria del Teatro Argentina.

Munit_ di mascherina, è necessario recarsi all’ingresso della sala 30 minuti prima dell’inizio dello spettacolo, per adempiere alle procedure di sicurezza previste per il contenimento del Covid-19 (misurazione temperatura, consegna dell’autocertificazione, ecc.). Per qualsiasi dubbio o ulteriore informazione relativa alla biglietteria scrivete a info@shorttheatre.org

BIGLIETTERIA WEGIL Monira Al Qadiri, Gérald Kurdian, Jungle Soul di Salvo Lombardo, Bunny Dakota, Acetato:

gratuito fino a esaurimento posti

Zapruder, Elsa Dorlin, Giovanni Attili:

gratuito con prenotazione obbligatoria su Eventbrite

Kinkaleri + Jacopo Benassi, Radouan Mriziga, BLUEMOTION / Giorgina Pi:

7e + 1e d.p.

Elena Colombi, Lala&ce, Opacity#2 di Salvo Lombardo:

5e + 1e d.p.

BIGLIETTERIA LA PELANDA Intero

10e + 1e d.p.

Ridotto

7e (under30 – over 60) + 1e d.p.

Tiago Cadete, Volmir Cordeiro, Felix Kubin, DJ Marcelle

5e + 1e d.p.

Forensic Oceanography, Ubi Broki, Cosmesi, Enrico Kybbe, Front de Cadeaux, Bob Junior

ingresso gratuito fino ad esaurimento posti

Panorama Roma, incontri a Little Fun Palace, Marie Losier

ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria su Eventbrite

ABBONAMENTI PELANDA Abbonamento 5 spettacoli: intero 40e; ridotto 30e + 1e d.p.

LUOGHI La Pelanda - Mattatoio di Roma Piazza Orazio Giustiniani, 4 – Testaccio

BIGLIETTERIA TEATRO ARGENTINA

WeGil

El Conde de Torrefiel: intero 15e – ridotto 10e (under30 – over 60) + d.p.

Largo Ascianghi, 5 – Trastevere

È possibile acquistare i biglietti sia online che presso il botteghino del Teatro Argentina: Largo di Torre Argentina, 52

Teatro Argentina

aperto a partire da due ore prima dell’inizio dello spettacolo

Teatro India

Largo di Torre Argentina, 52 – Campo Marzio Lungotevere Vittorio Gassman, 1 – Marconi

Orario Info Point 18:00 - 22:00 dal 4 al 6 settembre a WeGil | dal 7 al 13 a La Pelanda   91


Capita spesso che, trovandosi nel corso di un certo processo, accada di trovarsi di fronte a quelle che sembrano coincidenze, e che invece tali non sono: nomi che tornano, concetti che riecheggiano, questioni che, segnate dal tempo, riemergono trasformate, illuminate di nuove sfumature. Nel tentativo di inseguire le concatenazioni di cui si compone questa edizione di Short Theatre e il suo catalogo, ci siamo imbattute in una di queste non-coincidenze. Il dialogo con Ilenia Caleo, curatrice del Modulo Arti del Master in Studi e Politiche di Genere di Roma Tre – con cui Short Theatre collabora da tre edizioni, ha fatto emergere l’esistenza di questo “vecchio” testo di Elsa Dorlin – invitata a tenere una lectio pubblica al festival – che nel 2008 era stato pubblicato sul primo numero di ControStorie, dal titolo Razzismo_Genere_Classe. In “Performa il tuo genere, performa la tua razza!” Ripensare l’articolazione tra sessismo e razzismo nell’epoca della postcolonia, tradotto in italiano da Brune Seban, Elsa Dorlin prende le mosse dal concetto di “performatività del genere” elaborato da Judith Butler nei primi anni ’90, coniugandolo con quello di “imitazione coloniale” di Frantz Fanon, applicandolo poi alla questione del razzismo e cercando così di ripensare l’articolazione tra sessismo e razzismo, in un momento in cui in Francia il dibattito sull’intersezionalità era acceso e all’ordine del giorno. Un tema che, a distanza di anni, è ancora centrale e da cui dipendono le sorti del movimento transfemminista tutto. Riallacciamo quindi i fili di questo discorso che, più o meno sotterraneamente, attraversa il dibattito politico in Italia già da decenni, e che ora si fa più pressante che mai, ripubblicandone la traduzione. Un testo che, inevitabilmente, sente il suo tempo ma che contemporaneamente lo stratifica e lo innerva di nuova linfa, portando alla luce la precocità di alcuni flussi del pensiero del movimento femminista italiano e l’importanza, oggi, di riconnettere e rilanciare le genealogie sommerse delle lotte, stringendo nuove – ma in fondo già presenti, attive e feconde – alleanze. Vedi il testo completo su www.shorttheatre.org

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PERFORMA IL TUO GENERE, PERFORMA LA TUA RAZZA! ipensare l’ar ticolazione tra sessismo e razzismo R nell’epoca della postcolonia di El sa Dorlin t r adu zione d i B ru ne S e b a n Dal concetto di performatività del genere all’imitazione coloniale (…) Homi Bhabha, una delle figure più importanti dei postcolonial studies, s’ispira a Frantz Fanon1 per sviluppare il concetto di “imitazione coloniale” [colonial mimicry], che potrebbe essere una trasposizione/ traduzione interessante della problematica della performatività sulle tematiche del razzismo e della postcolonia. L’imitazione coloniale è definita come «una delle strategie le più difficili da capire ma anche una delle più efficaci del potere e sapere coloniale»2. (…)Può essere intesa come tecnica del potere per rinchiudere il colonizzato o la colonizzata nell’identità infamante che li caratterizza: l’identità preclusa dello stereotipo diventa allora l’identità che il colonizzato è costretto a imitare per esistere, di performare per essere riconosciuto. Fanon lo aveva perfettamente dimostrato, lo stereotipo diventa allora il palcoscenico sul quale si recita la soggettivazione del colonizzat_, il suo accesso allo status o alla posizione di soggetto, ma anche quella del colonizzatore: è il Bianco che “crea” il Nero, ed è il Nero reso oggetto che crea il Bianco. (…) Pelle nera, maschere bianche: cosa significa questo titolo? Nell’introduzione, Fanon oppone due personaggi: quello del capitolo “L’uomo di colore e la Bianca” e quello del capitolo “L’esperienza vissuta del Nero”. Il primo è colui che cerca di raggiungere l’uguaglianza tramite l’imitazione del Bianco, tuffandosi nel mondo del Bianco, andando a letto con la donna del Bianco3. (…) Possiamo rilevare qui l’importanza della sessualità, il modo in cui diventa una posta in gioco importante nel contesto del razzismo: la soggettivazione passa necessariamente tramite il rapporto sessuale, ultima tappa del riconoscimento. L’imitazione è qui imitazione del Bianco, perché il bianco è L’Uomo4, è Il Soggetto. Tuttavia, come analizza Bhabha, tale imitazione è sempre debole, non funziona mai perfettamente, non riesce mai a

1   Frantz Fanon, Pelle nera, maschere bianche, e I dannati della terra. Ma ispirandosi anche a Karl Marx, Il 18 brumaio: «Hegel fa da qualche parte questa osservazione che tutti i grandi eventi e personaggi storici si riproducono in qualche modo due volte. Si è dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa», Karl Marx, Le 18 brumaire de Louis Bonaparte, 1852, Paris, Mille et une nuits (Editions sociales 1969), 1997, p. 13. 2

Homi Bhabha, The Location of Culture, 1994, New York, Routledge, 2005, p. 122; trad. it. I luoghi della cultura, Meltemi, 2001.

3  È l’uomo dell’invidia, l’uomo colonizzato dei Dannati della terra: «Sogni di possessione. Tutti modi di possessione: sedersi al tavolo del colono, sdraiarsi sul letto del colono, magari con la moglie. Il colonizzato è un invidioso. Il colono lo sa, lui che sorprendendo il suo sguardo alla deriva, constata amaramente ma sempre allerta: “Vogliono prendere il nostro posto”», Frantz Fanon, Les Damnés de la terre, 1961, Paris, La Découverte, 2002, p. 43. 4

«II Nero vuole essere Bianco. Il Bianco si accanisce a realizzare una condizione di uomo», ivi, p. 9.

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far dimenticare che è pur sempre un’imitazione, e rinvia l’imitatore a ciò che non è. È un processo che permette non solo di mantenere l’altro all’esterno del mondo dei dominanti – sempre in una performance imperfetta, infelice della norma – e quindi di escluderlo in quanto impostore, ma anche, allo stesso tempo, di controllarlo completamente, poiché mentre si sforza di imitare non sta inventando nuovi modi di resistenza. (…) Qui la maschera non è ciò che nasconde, ma appunto l’elemento che segna il dominato, che lo fa vedere e lo mantiene all’interno della recita. Il “soggetto coloniale” – qui soggetto colonizzato, dominato – è definito da questa “presenza parziale”5 (…) che lo caratterizza. L’imitazione segnala la propria presenza tramite le metonimie: lui sta imitando, quindi “è”, ma poiché imita non potrà mai “essere” veramente. (…) Però, ciò che produco, che realizzo, è il modello originale del Bianco, il Bianco come soggetto autentico. Nel testo di Fanon, troviamo un secondo personaggio: il Negro. (…) E qui che Fanon decide di «lanciare il suo urlo negro»6, un tuffo primitivista nella «cultura negra», nella storia del suo popolo: «È il periodo in cui gli intellettuali elogiano la benché minima determinazione del panorama indigeno. Il boubou (vestito colorato diffuso in Africa occidentale e in Nord Africa, simbolo, anche in Francia di “un’identità” africana, ndt) è sacralizzato, le scarpe parigine o italiane abbandonate a favore delle babouches (scarpe piatte di cuoio identificate come appartenenti al mondo africano o arabo, ndt). (…) Ritrovare il proprio popolo significa diventare bicot (insulto comune contro gli arabi, ndt), diventare il più indigeno possibile, il più irriconoscibile»7. Anche la négritude (…) è una deformazione che agisce come “finzione regolatrice”, (…) una sorta di incorporazione dello stereotipo, anche se rovesciato: “fare il negro” è tutt’insieme recitarlo e fabbricarlo. Le caratteristiche dispregiative sono ri-significate, ri-valorizzate, ma rimane il fatto che i contorni di questa identità sono stati tracciati dai dominanti. La maschera non è caduta. Di più, la maschera non è nera su una pelle nera: la maschera rimane bianca, perché rimanda precisamente a un’identità nera fantasticata dal Bianco, proiettata sul Nero. Dietro l’idea di ritrovare un’identità nera pre-coloniale, un’identità nascosta, ancestrale o ancora autentica che sarebbe nascosta sotto lo stereotipo che siamo stati costretti a imitare, troviamo in realtà un’identità assolutamente coloniale, e moderna8: una nuova maschera. Qui ritroviamo il concetto di performatività/performance, poiché tutto è fatto per fare vedere, e far credere all’esistenza di un’identità nera fondamentale, di un soggetto, un agente che sarebbe causa e punto focale di questa cultura “differente”9. (…) Donne nere, sguardi bianchi: il mito del matriarcato. C’è una relazione di somiglianza tra le analisi di Butler sul rapporto di genere e quelle di Fanon e Bhabha sul rapporto coloniale. La mia ipotesi è che i concetti di performance-performatività / imitazione

5

Ibidem.

6

Ivi, p. 98.

7

Frantz Fanon, Les Damnés de la terre, cit., p. 210. Sottolineo io.

8  Allo stesso modo e secondo lo stesso ragionamento, la “cultura degli immigrati” può essere da loro pensata come conforme a quella del paese natale. Permette di mantenere il legame tra qui e là. Ma è molto più rigida o immobile e quindi tradizionale della cultura del paese di origine, è ferma allo stato della cultura al momento della partenza, mentre quella cultura ha continuato a “vivere”. È anche inedita perché nuova versione di questa cultura, ricostituita, rimodellata. Si veda Abdelmalek Sayad, L’immigration ou les paradoxes de l’altérité, 1991, Paris, Raisons d’agir, 2006. 9  E qui che si posiziona la retorica del razzismo senza razza, del “razzismo culturalista”. Su questo punto, vd. Etienne Balibar, Immanuel Wallerstein, Race, nation, classe, Paris, La Découverte, 1988.

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ci possono permettere di capire insieme sessismo e razzismo. Senza coprire o sovrapporre l’uno con l’altro, si tratta di pensare alla logica che hanno in comune. (…) Negli Stati Uniti, nel periodo della schiavitù e della segregazione razziale, si è sviluppato il concetto di “matriarcato nero” che si ritrova oggi sia nel discorso neoconservatore della destra americana10 sia in alcune ricerche antropologiche sulla matrifocalità falsamente caratteristica delle società delle Antille o dell’Africa. Mi concentrerò sugli Stati Uniti. Sin dal periodo della schiavitù, viene costruito questo mito del “matriarcato nero”: una forma di organizzazione sociale totalmente mostruosa, nella quale l’ordine “naturale” dei sessi viene capovolto. Un’organizzazione sociale dove le donne sono presentate come “cattive madri”, donne violente e castratrici. (…) Il matriarcato nero si articola attorno a una figura emblematica: quella della welfare mother o welfare Queen (che traduco “la Regina dei sussidi”). Questa figura è eminentemente sessuale, sovraerotizzata e sovravirilizzata allo stesso tempo, e ciò permette di assicurarsi la longevità del suo effetto castratore sugli uomini neri, ai quali vieta di diventare “veri” patriarchi, cioè “veri” dominanti. La sua sessualità è anche riportata alla sua fertilità: «la madre assistita [welfare mother] rappresenta una donna amorale, dalla sessualità sfrenata, entrambi fattori identificabili come causa della sua situazione precaria»11. Ciò che fa di questo matriarcato uno dei più mostruosi è che sintetizza le due facce opposte di una femminilità normativa: la mamma e la puttana. Come sottolinea perfettamente Patricia Hill Collins, la BBM [la Bad Black Mother 12] è oggi una rappresentazione onnipresente dei discorsi razzisti e sessisti, largamente ripresa da figure emblematiche della cultura africana americana contemporanea. La BBM è una sintesi “mostruosa” come testimoniano i due significati principali della parola bitch con la quale è spesso chiamata, cioè con la quale le si dà realtà/materialità. Il termine bitch (o hoe) indica prima di tutto una ragazza sessualmente insaziabile e intraprendente. Questa pretesa immoralità delle donne nere è una concezione residuale delle ideologie razziste, schiaviste e segregazioniste. Nelle piantagioni del Sud degli Stati Uniti, come nelle abitazioni delle colonie francesi tra l’altro, ha permesso di scagionare i Bianchi dagli stupri sistematici perpetuati sulle donne nere, in nome della lubricità o dell’immoralità di queste. Eppure, il termine bitch come viene promosso anche dal gangstarap13 o persino dal rap “bling bling”14, fa anche riferimento all’animalità, e paragona le donne nere a delle cagne (…). Questa rappresentazione insultante di BBM e bitch è estremamente infida perché fa scomparire lo stereotipo in quanto stereotipo. In altre parole, per essere riconosciuta nella propria femminilità “nera” – femminilità razzializzata che risponde alla femminilità dominante, razzializzata anch’essa, delle Bianche o delle borghesi – bisogna incarnarla totalmente.

10  Si veda il famoso rapporto di Daniel Patrick Moynihan, professore ad Harvard, intellettuale liberista che lavorò per le amministrazioni Kennedy e Johnson, pubblicato nel 1965: The Negro Family: The Case For National Action. Moynihan divenne poi uno dei rappresentanti più influenti dei neoconservatori e il braccio destro di Nixon sulle questioni sociali. 11  Patricia Hill Collins, Black Feminist Thought, New York, Routledge, 2000, p. 84. Altri stereotipi sono: la “mammy”, la “jezabel”, l’adolescente svergognata, la “hoochie” (la ragazza “calda” dei clip gangsta rap)... 12

Nota inserita nel testo.

13  Si veda la polemica attorno ai testi del gruppo 2 Live Crew negli Stati Uniti e la risposta di Queen Latifah nel 1990. In Francia, numerosi gruppi sono ai limiti in materia di rappresentazioni, posizioni o discorsi sessisti come testimoniano i richiami all’ordine di alcune rapper come Bams. 14  È il rap “sbrillucicante”, depolicizzato – possibilmente compiacente nei confronti del consumismo o degli ideali neoconservatori –, che ha mantenuto solo le forme e le apparenze del gangasta senza il radicalismo e la rabbia. In Francia, è rappresentato da Booba o Doc Gynéco.

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Il mito del “matriarcato nero” funge infine da ideologia incapacitante, perché neutralizza deformandola tutto ciò che si apparenta un’affermazione delle donne nere15: l’autonomia e il potere sono terreno riservato agli uomini, impossessarsi di questi attributi tipicamente “maschili” implica necessariamente femminilizzazione degli uomini neri e virilizzazione delle donne nere. In altre parole, gli stereotipi che pesano sulle donne nere sono stereotipi che mettono in scena delle mutazioni di genere (donne che diventano uomini, uomini che diventano donne): l’imitazione di questi stereotipi, alla quale le donne nere sono costrette, funziona in modo complesso perché articola sessismo e razzismo. (…) La femminilità dominante, razzializzata, si è costruita intorno a un certo numero di tratti, intorno a un motivo ideologico (la moralità, la maternità, e, se non proprio la purezza e l’innocenza, perlomeno l’ignoranza della sessualità). È per questo motivo che diventerà una risorsa politica, una posta in gioco importante nel processo di emancipazione delle donne nere. Diventare libera, accedere all’uguaglianza, è anche diventare madre, cioè lottare per essere riconosciuta nel proprio ruolo di donna e di madre, di “buona madre”. «Le immagini e le istituzioni che descriviamo come sessiste hanno effetti sia sulle donne nere sia sulle donne bianche, ma gli effetti sono diversi a secondo del modo in cui una donna è colpita da altre forme di oppressione. Sarebbe infatti falso dire che tutte le donne sono oppresse dall’immagine della donna “femminile” così com’è comunemente descritta: onesta, delicata, bisognosa del sostegno e della protezione di un uomo»16. Questa rappresentazione ha potuto, storicamente, essere considerata desiderabile. Si capisce quindi che le donne Africane Americane non abbiano partecipato in massa ai movimenti di donne degli anni Sessanta e Settanta negli Stati Uniti. Si spiega per l’indifferenza, per non dire razzismo, delle femministe bianche allora maggioritarie nel movimento, ma anche per il fatto che l’agenda politica del movimento (...). Le lotte per l’aborto libero e gratuito e contro gli stereotipi sessisti che associano femminilità e maternità, sessualità e riproduzione, sono state prioritarie per le donne bianche eterosessuali, ma per le donne non bianche alle quali storicamente è stato negato l’accesso alla maternità, o che sono state vittime di sterilizzazioni forzate? (…) Per via di questa svalutazione sistematica della maternità nera (matriarcato mostruoso, libidinoso, castratore, parassita) e dell’esclusione dai benefici sociali e simbolici della femminilità, la femminilità/ maternità diventa una posta in gioco: per accedere al riconoscimento, bisogna smettere di performare questo stereotipo, e imitare – nel senso che ho definito prima – la norma dominante, una norma gendered e razzializzata. Bisogna imitare l’identità sessuale bianca per accedere ai suoi privilegi. Bisogna quindi rimettere il patriarcato a testa in su. E così, negli anni Sessanta e Settanta, i leader Neri hanno chiaramente rivendicato un’identità virile, promuovendo il loro ruolo di dominante all’interno del patriarcato (…). Grandi figure femminili del movimento dei diritti civili hanno accettato di attenersi a una divisione sessuale estremamente tradizionale e conservatrice dei ruoli. (…) Come ricorda bell hooks: «Le donne nere di oggi che sostengono il dominio patriarcale hanno mantenuto “lo status quo” sulla questione della propria sottomissione, per tenere conto del contesto della politica razziale e hanno affermato che erano disposte ad accettare un ruolo subordinato nei loro rapporti con gli uomini neri, per il bene della razza»17. Di questo compromesso, storicamente, si è pagato un caro prezzo. 15  È il “black women standpoint” di Hill Collins: l’idea è di mostrare che fu da quest’esperienza particolare di intersezione tra razzismo e sessismo che le donne nere hanno potuto sviluppare il loro potere e la loro autonomia. 16

Elisabeth V. Spelman, Inessential Woman, Boston, Beacon Press, 1988, p. 122.

17

Ivi, pp. 183-184.

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Prolegomeni per pensare e agire nel contesto francese (…). [In Francia] Le polemiche molto forti che scoppiarono intorno alla legge del 15 marzo 2004 che vietava «i segni che manifestano visibilmente l’appartenenza a una religione» testimoniano in particolare le tensioni esistenti tra lotte femministe e antirazziste. Le linee di separazione tra chi era a favore e chi era contrario a questa legge hanno provocato spesso situazioni estremamente problematiche, dove le argomentazioni femministe sono state utilizzate dalla retorica razzista e le argomentazioni antirazziste alimentavano la retorica sessista18. Christine Delphy riprende con precisione questa problematica dell’intersezionalità e denuncia ciò che lei chiama un “falso dilemma” tra antisessismo e antirazzismo. Sottolinea a ragione come una parte del femminismo pro-legge sia caduta nella trappola del proprio colonialismo, attribuendo una matrice culturale, per non dire razziale, al sessismo – lasciando pensare che le violenze fatte alle donne sarebbero monopolio culturale degli uomini “delle banlieues” e di “quartieri popolari” vari, o addirittura un’importazione dai paesi “musulmani”, mentre il resto della società francese sarebbe miracolosamente diventata egualitaria. Per Delphy, il fatto stesso di concepire il sessismo “dei quartieri” come «violenza straordinaria»19 ha avuto come conseguenza la riduzione delle “ragazze col velo” a semplici “vittime” eccezionali della violenza patriarcale – e l’altra faccia di questo discorso è stata il rinfacciare loro una certa accettazione, o anche complicità con la violenza dei “loro” uomini. (…) Quest’analisi rimane essenziale in un contesto in cui la decolonizzazione del femminismo francese è un obbiettivo cruciale e quanto mai necessario, poiché una parte del movimento, volendo “svelare” le ragazze musulmane, non ha capito l’utilizzo elettorale che ne sarebbe stato fatto qualche mese dopo dalla destra. (…) Nel 2006, in un’intervista rilasciata alla rivista «Nouvelles Questions Féministes», Houria Boutelja, figura del “Movimento degli indigeni della Repubblica” e dell’associazione femminista delle “Blédardes” (il primo è un movimento di intellettuali e attivisti discendenti dalle migrazioni forzate dalle colonie, la seconda un’associazione di donne che ne è vicina) spiegava perché «il velo è un’affermazione di lealtà»20 verso gli uomini arabi e viceversa un messaggio ai dominanti, “agli uomini bianchi”: “Non ci avrete!”21. Questo messaggio è indirizzato ai protagonisti attuali del dibattito, ma anche alle generazioni passate. Secondo me, quattro generazioni di donne sono ricordate e richiamate; quattro generazioni incarnate da quattro figure stereotipate della femminilità indigena: la “prostituta orientale”, la “fatma analfabeta”, la “beurette integrata”, la “ragazza col velo indottrinata”22. La prima è la donna araba sovraerotizzata, bella donna orientale velata, che svela le sue grazie ai militari francesi sulle cartoline diffuse in tutto il paese, definendo per decenni i tratti di una femminilità indigena, ripresa dalla femminilità razzializzata della 18  Legge che lotta contro il patriarcato intrinseco nelle religioni in generale, e nell’Islam in particolare, e allo stesso tempo legge liberticida, neocolonialista e razzista. Su tutti questi argomenti si può rimandare a Charlotte Nordman (dir.), Le Foulard islamique en question, Paris, Editions Amsterdam, 2004; i molti numeri della rivista «Prochoix» consacrati alla questione tra il 2002 e il 2006; Christine Delphy, Antisexisme ou antiracisme? Un faux dilemme, «Nouvelles Questions Féministes», n. 1, 2006; Françoise Gaspard, Le Foulard de la dispute, «Le Cahiers du genre», Hors séries, 2006. 19  Christine Delphy, Antisexisme ou antiracisme? Un faux dilemme, cit., p. 68. 20  Entretien avec Houria Boutelja, On vous a tant aimé-e-s, «Nouvelles Questions Féministes», cit., p. 128. 21

Ivi, p. 133.

22  L’elaborazione di questi quattro stereotipi segue il metodo sviluppato da Patricia Hill Collins. Si veda Elsa Dorlin, Corps contre nature: stratégies actuelles de la critique féministe, «L’Homme et la société», n.151/151, 2003-2004. Su queste rappresentazioni, si rimanda i lavori di Karima Ramdani, in particolare Construction des identités de genre de la colonisation ou post-colonialisme: représentations de la femme musulmane, tesi di laurea in scienze politiche sotto la direzione di E. Dorlin, Université Paris VIII, 2004-2005, in corso di pubblicazione dall’Harmattan.

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schiava, selvaggia e libidinosa, delle colonie di coltivazione della canna da zucchero. (…) La seconda figura è quasi asessuata, o comunque “de-erotizzata”, resa invisibile nella Francia degli anni Sessanta e Settanta, nel periodo della forte immigrazione dai paesi arabi: la “fatma analfabeta”. La moglie sottomessa, a malapena tollerata, permette di definire “diversi” i lavoratori immigrati, di essenzializzarli in valori opposti alla Francia della liberazione sessuale, di collocarli in una modernità diversa, “orientalizzata” a oltranza, barbarizzata, anche se centotrentadue anni di colonizzazione francese in Algeria l’hanno resa comune e condivisa. (…) La terza è la “beurette”: modello d’integrazione, è sistematicamente data come esempio e contrapposta a suo fratello (il “beur”, presto chiamato “ragazzo arabo”) che non va bene a scuola, non rispetta l’autorità, “gironzola” nelle banlieues, nelle scale delle torri popolari; si ribella contro la madre e la famiglia, considerata “arcaica”. Un’intera generazione sarà rinchiusa in ingiunzioni contraddittorie: deve cavarsela, ma senza rinnegare le proprie origini, senza tradire23. Infine, oggi, la figura della “ragazza col velo” per forza “indottrinata”, è la sorella minore della “beurette” di qualche anno fa. Di fronte a questa figura ipermediatizzata e senza parola propria, il femminismo delle ragazze col velo in mobilitazione è di fatto una risposta politica dei subalterni agli stereotipi coloniali e postcoloniali. (…) La femminilità rivendicata dalle giovani femministe musulmane militanti è una risposta nel presente alla passata persecuzione delle nostre madri colonizzate, stigmatizzate come donne immorali, lascive, e sottomesse. Tuttavia, è una risposta che rimane intrappolata nella dialettica del sapere e del potere coloniale: la “ragazza col velo” performa una femminilità tradizionale, vergine, pia, ed effettivamente potente (come tutte le figure femminili eroiche, vergini guerriere o amazzoni); una femminilità estremamente “occidentale”, checché ne dicano le Indigene, poiché un’unica e simile modernità lega le due sponde del Mediterraneo. (…) Dichiarare piena lealtà ai “nostri uomini”, dare garanzie e render conto sulla nostra sessualità, significa accettare (ovviamente non nelle stesse proporzioni) l’insieme degli stereotipi coloniali – riconoscere che come ieri siamo responsabili della loro persecuzione (“traditrici”), siamo il punto debole della lotta antirazzista, donne “naturalmente” immorali, bestiali, che bisogna “controllare”, “civilizzare” – e non fa differenza che si faccia con le norme astoriche e antagoniste dell’Occidente o quelle dell’Oriente. II tutto finisce con l’accettare di fatto una norma di femminilità dominante, eterosessista e borghese, che pure denunciamo. (…) Infine, in questo gioco perverso di performance e contro-performance, ci produciamo come soggetto politico, ma soggetto che identifica la resistenza con l’onore maschile ritrovato, la virilità, quindi soggetto esclusivamente uomo, ed eterosessuale. Finché l’identità sessuale (di genere e di sessualità) dominante rimarrà al centro del processo di soggettivazione politica, finché sarà in quanto tale una posta in gioco della lotta, la virilità e la femminilità eteronormative saranno “maschere bianche”, mimiche sessiste che un rapporto di forza razzista ci obbliga a recitare per assicurarsi la continuità. Siamo noi in grado di svelare queste maschere, non per ritrovare un’autenticità pretesa, ma per costruire una personalità femminista decolonizzata, efficacemente sovversiva contro un sessismo e un razzismo tra i più violenti che ci siano?

23

Si veda il notevole lavoro di Nacira Guénif Souilamas, Les Beurettes, Paris, Grasset, 2000.

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NOTE DI TRADUZIONE

Controstorie (…) voleva raccontare le storie taciute. Il collettivo che aveva prodotto i due numeri di questa fugace rivista era composto da persone che si definivano rivoluzionarie, attive sia nel gruppo politico diventato da poco “Sinistra critica” lasciando Rifondazione, sia in collettivi femministi, ma anche nel movimento queer già attivo a Roma e Napoli. Due di noi erano francesi. Allora ci sembrava che forse di queer, performatività si parlasse più a Roma che a Parigi – e infatti Butler è stata tradotta molto prima in italiano che in francese. E che si facesse di più: workshop di drag king e squirting, Preciado alla Casa internazionale delle donne, il ciclo di seminari Queer it yourself, Weird festival, Porn to be alive… giusto per condividere le prime. (…) La copertina del numero uno della rivista annunciava: Controstorie “Razzismo_genere_classe”. Ci pare volessimo parlare di sessismo e razzismo con la sinistra, di razzismo e classe con i movimenti queer e femministi, e dell’articolazione delle tre cose con un po’ tutt*. Il testo di Dorlin ci sembrò perfetto, anche se complesso – leggendolo pensammo anche che spiegava en passant la performatività di Butler meglio che tanti saggi letti fino a lì. Siccome non era stato mai tradotto, decidemmo di farlo noi. L’operazione di rendere Dorlin in italiano non aspirava a essere una traduzione scientifico letteraria, ma era piuttosto animata dal desiderio di mettere in condivisione degli strumenti che ritenevamo utili per il dibattito politico, in quel momento e i tempi che ci preparavamo ad affrontare. Utile anche perché il piano della riflessione più sofisticata investiva in modo immediato il piano delle pratiche, mostrando anche delle possibilità; la traduzione doveva tenerne conto, e grazie a diverse revisioni e qualche rimaneggiamento, si scostava quel tanto che ne permettesse la leggibilità in un altro contesto. A dodici anni dalla pubblicazione di Controstorie, raccogliamo l’invito a pubblicare questa traduzione come se fosse una fotografia di quel tempo, perché intanto sia in Francia che in Italia sono successe cose, ma soprattutto sono cresciuti movimenti che hanno prodotto la lingua per narrare altre storie. Non sappiamo se e come Dorlin riscriverebbe quel testo oggi, forse anche noi faremmo altre scelte nella traduzione, ma a oggi ci sembra più onesto che sia chi voglia leggerlo per usarlo, che provi a riempire i buchi, affilando lo strumento in modo che sia più utile possibile per i tempi che attraversiamo. La versione originale, « Performe ton genre : Performe ta race ! » Repenser l’articulation entre sexisme et racisme à l’ère de la postcolonie è stata ripubblicata nel 2010* ma senza la parte finale, quella sulla situazione francese ed è in accesso libero qui: https://books.openedition.org/iheid/5888?lang=fr. Il testo completo era sul sito sophia.be, ma non è più disponibile. *in Christine Verschuur, Genre, postcolonialisme et diversité de mouvements de femmes, Genève, Cahiers Genre et Développement, n°7, Genève, Paris : EFI/AFED, L’Harmattan, 2010, pp. 227-237

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