FIL DI FUMO

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Un fil di fumo (una storia di cowboy)

di Davide Mana


Se capisci, le cose sono come sono... Se non capisci, le cose sono come sono. (Proverbio zen)


Il brontolio basso dei motori mi riportò alla mente l’immagine di un giovane in tuta di volo, sogghigno selvaggio sul volto abbronzato, che accarezzava affettuosamente la fiancata del B-24 che per i prossimi tre anni sarebbe stata la nostra casa. Un viso aperto, un sorriso cordiale. Honolulu rimpiccioliva ormai dietro di noi quando tornai alla realtà.

Di solito lo chiamavamo Pinky. Avevamo iniziato insieme, sulla Gobba, nel ‘43, lui, io, Ripper Pace e tutti gli altri, trasportando provviste da Johrat a Kunmin. Era un aviatore fin troppo entusiasta, arrivato da qualche parte sulla costa del Massachussets, felice come una pasqua di essere il primo ad infrangere la lunga successione di uomini dati al mare dalla sua famiglia, e se la godeva un mondo a volare su una carriola fra le montagne più alte del mondo. Io facevo da navigatore su quella stessa carriola. Ci eravamo conosciuti così. Avevamo vissuto il nostro numero di disastri per poco evitati, di casini e di avventure al limite della farsa, e questo ci aveva fatto avvicinare, come è normale che capiti fra commilitoni. Dopo il Gran Botto, lui venne trasferito in Giappone, mentre io rimanevo indietro sul confine Nepalese, per poi finire a DC a pilotare una scrivania, con un paio di patacche non troppo comuni appiccicate sul mio dossier. Per servizi resi. Lo scambio di lettere si fece progressivamente meno frequente mentre le nostre vite si allontanavano. Venni a sapere del suo matrimonio con una ragazza del posto, nel ‘48, una cosa che fece innervosire gli alti papaveri. Ricevetti una


fotografia in quell’occasione, ed una forse un anno dopo, scattata durante una specie di festa che i suoi avevano messo in piedi quando finalmente era tornato a casa. Forse l’inizio dei suoi guai, forse solo l’ultimo giro di vite. Poi le comunicazioni si interruppero, come spesso succede. E sedici anni dopo il nostro primo incontro, ora venivo mandato a chiudere il suo incartamento.

Il piedipiatti giapponese mi aspettava allo sbarco. Ispettore, Tokyo CID, con un completo marrone scuro ed un impermeabile color bruciato, pelle scura, per un giapponese, e alto, per un giapponese, forse quasi un metro e ottanta e con l’aria cattiva; sembrava giovane e pieno d’energia ma c’era una specie di vulnerabilità nella sua mascella serrata, ed una certa idea di ineleganza, di grossolanità, nel suo modo di muoversi, che tradiva una fresca promozione dal servizio di ramazza alle alte sfere. Intelligente, però. Da sotto alla tesa larga della sua lobbia, osservava con attenzione il flusso dei passeggeri in arrivo. L’agente al suo fianco, in uniforme impeccabile, reggeva un cartello, e sul cartello c’era un nome. In quelle specifiche circostanze, il mio nome, a tutti i fini pratici. Li raggiunsi e mi feci riconoscere. Accettò senza commenti i miei falsi documenti dell’OSI. Ci stringemmo la mano, e puntammo verso l’auto di servizio che ci aspettava di fuori. Mi sorprese sedendosi al posto di guida, l'agente col cartello liquidato con un cenno e una raffica di parole brusche. “Immagino vorrà vedere immediatamente il posto,” disse, mentre prendevamo a


strisciare nel traffico del primo pomeriggio. Aveva una voce aspra, ma il suo inglese era più che passabile. Annuii. Proseguimmo, puntando verso i sobborghi.

Era una casa intonacata di bianco, a due piani, un po’ malandata ma piacevole. Gran parte degli isolati lì attorno erano occupati da anonime scatole di calcestruzzo e legno, che la mia guida chiamava machi-nami o qualcosa di simile, ma questa casa per lo meno aveva una sua individualità. Ci fermammo appena prima del cancelletto del cortile ed io istintivamente controllai l’ora. C’era un grosso orologio in cima all’edificio, ma le lancette erano ferme alle dieci e ventitré. Mi voltai verso lo sbirro giapponese. Lui annuì seccamente e fece strada verso l’ingresso principale. C’erano una cuccia vuota ed un piccolo porticato, un paio di gradini fino alla porta. Un uomo di mezza età annuì due o tre volte mentre la mia guida gli parlava, poi ci lasciò entrare. Corridoio con pavimento di legno, porte con vetri smerigliati sui quali erano dipinti in nero dei numeri. L’odore di cera e di cibo cucinato da poco permeavano l’aria. “Affittacamere,” spiegò il detective, “Studenti, impiegati senza famiglia, talvolta un pendolare che si ferma per la settimana. Al piano di sopra,” aggiunse, con un cenno del capo verso la scala. “Stanza numero cinque. Venga.” La porta era sigillata con strisce di carta appiccicate. Lui le spezzò e mi fece entrare. La stanza oltre la porta era piccola ma tutt’altro che affollata: una parete era dominata da un grande armadio a muro, che conteneva pochi effetti personali ed


un materasso arrotolato. Una radio su un basso tavolino presso la finestra, uno scaffale con alcune foto e dell’altra roba. Al centro della camera, il tappeto chiaro del pavimento era macchiato di marrone scuro. Come le pareti, spruzzate irregolarmente. Su una di queste c’era una macchia più grande, come una scura pennellata dall’alto al basso. “Viveva qui?” Inspirai, l'aria asciutta e polverosa nelle mie narici. Una sola stanzetta con il bagno al piano di sotto. Non era ciò che mi ero aspettato. I nostri quartieri privati a Jorhat, quindici anni prima, erano stati più piccoli, più affollati, molto più maleodoranti e malandati, ma tutto questo era... Esalai. Il mio accompagnatore mi osservava dalla porta. Diedi un'occhiata in giro. Abiti appesi nell’armadio a muro: due completi, due cravatte, ed un solo paio di scarpe. Calzini e biancheria ripetutamente rammendati, impilati con ordine. “Testimoni?” Cacciò una mano in tasca. Aprì un taccuino. “Il gentiluomo che occupa la stanza numero quattro,” indicò la parete di fronte a me, oltre l'armadio a muro, “ha sentito gli spari ed ha chiamato la polizia dal telefono al piano inferiore. Poi è rimasto rintanato al sicuro fino all’arrivo dell’agente di quartiere. A parte questo,” assunse un’espressione arcigna, “nessuno ha visto, nessuno sa.” Chiaramente una versione che non lo soddisfaceva. C’ero anch’io in una delle foto sulla mensola, alto orgoglioso e giovane alle spalle del gruppo. Jack Pace era aggrottato e belligerante come sempre, massiccio come un lottatore, mezzo sigaro fra i denti stretti. Pinky era come d’abitudine al centro dell’immagine, e si pavoneggiava nella sua giacca di volo,


con un cappello di pelliccia da montanaro tibetano. Junior Dawson e l’inglese, Chubby Wyngarde, erano accosciati ai nostri piedi. Ridevano. Qualche altra foto dei tempi del servizio. Nessuna foto scattata dopo il 1949. Nessuna foto di suo figlio. Nessuna delle sue due mogli, né la giapponese minuta che aveva sposato nel ‘48, né la bionda stile Mansfield, arrivata di fresco dal confine canadese, che si era portato a letto ed aveva sposato nel ‘50. Bigamo. Io avevo fotografie di entrambe, copie che mi aveva mandato e che ora io avevo aggiunto al suo incartamento, ma che lui non aveva conservato. C’erano anche un modellino di caccia P-38, sospeso in cima a un piedistallo di fil di ferro, come un fenicottero su una zampa sola, ed uno zippo dell’USAF. “E la vittima?” Lo zippo funzionava. Niente sigarette in vista. Nessuna nelle tasche della giacca. Nessun posacenere. L’ispettore chiuse di scatto il taccuino. “Ancora nessun indizio conclusivo,” disse. “Veniva da fuori, probabilmente. Benestante, da com’era vestita. Siamo sicuri che fosse la prima volta che veniva qui, ma la mia conclusione è che si fossero conosciuti da qualche parte, in precedenza, e frequentati.” Una pausa, appena percettibile. “Non era il loro primo incontro.” Avevo immaginato fosse una vicina. Gli lanciai ciò che speravo venisse interpretato come un’occhiata interrogativa. “Una ragazza di quell’età non va da sola nella casa di un uomo appena incontrato.” C’era qualcos’altro sotto. Annuii. “Magari non era sola.” Lui anche. “Magari.”


Era divertimento ciò che sentivo nella sua voce? Mi accovacciai e toccai il tatami macchiato. Vidi un paio di ciabatte sotto al tavolino, rendendomi conto che entrambi indossavamo ancora le scarpe. La Legge non faceva concessione alla cortesia, evidentemente. Mi guardai di nuovo attorno. Mancava qualcosa. Mi rimisi in piedi. Andai alla finestra. Tornai alla porta. Aprii l’armadio a muro. Gli occhi del piedipiatti non mi mollavano, le rughe sulla sua fronte si facevano più profonde. “Che ora era?” Un altro lieve segno di esitazione. “Le sei e trentacinque del mattino.” Ora mi stava studiando apertamente. “Aveva passato la notte qui?” Silenzio. “Non era nel rapporto.” Fece una smorfia. “Ci sono questioni che sono,” esitò appena, “delicate.” Grugnii. Non si poteva negare--un perdente di gaijin che imbottisce di piombo una minorenne locale dopo essersela scopata a morte era un biglietto di sola andata per l’inferno per entrambe le nostre amministrazioni. Il risveglio degli incubi della guerra. Addio serena e amichevole collaborazione. Non c’era da sorprendersi che l’Air Force volesse spazzare il tutto sotto ad un bel tappeto. Possibilmente un tappeto tanto lontano. Guardai di nuovo la macchia sul pavimento, e mi ricordai del nostro Capodanno 1944 sulla Gobba, con Pinky che strillava Auld Lang Syne al di sopra del ringhio dei motori e dell’ululato del vento, e che poi chiedeva a Dawson di


rimpiazzarlo mentre andava a recuperare una bottiglia di spumantello estremamente dubbio che un inglese gli aveva venduto al mercato nero. Un bigamo a cui piacevano le ragazzine. Il mio amico. “Nient’altro che voi considerate delicato ed io dovrei sapere?” “No.” “Immagino abbiate raccolto e schedato tutto ciò che c’era di interessante .” “Non siamo dilettanti.” Il tono era tagliente. Non avevo idea delle pressioni alle quali fosse soggetto in quel momento, ma non era difficile immaginarlo. “Andiamocene da questo posto.”

La strada del ritorno era soffocata dal traffico, e rallentammo fino a strisciare. Guardai fuori dal finestrino. Folla. Uomini in nero, signore con gonne simili a meringhe, vecchie in kimono, ragazzini in uniforme. Biciclette, qualche motoretta. Rimasi sorpreso dal numero di donne giovani e sole per strada così tardi la sera. “Ce n’è un sacco,” disse lui. “Prego?” L’ispettore mi stava leggendo la mente. “Ragazze che arrivano dalla campagna,” spiegò. “Chiudere lo Yoshiwara non è stata una soluzione.” Yoshiwara. Avrei dovuto controllare. Avevo un dizionario, in valigia, insieme con una copia del vecchio libro della Benedict. “Sta pensando alla ragazza?” “Lei non ci stava pensando?” In un gesto improvviso, abbatté la mano sul clacson ed emise un breve assolo di


tromba, senza alcun risultato. Mormorò qualcosa in giapponese, a denti stretti. Si affacciò al finestrino, urlando una serie di frasi che, dal tono, erano molto lontane dalla cortesia formale. “Si,” disse, poi, “alla ragazza, ed alla moglie del suo connazionale.” Evitai di chiedergli a quale delle due si riferisse. “Pensavo fosse una qualche specie di... artista, qui, oppure a Yokohama.” Temevo che la parola geisha suonasse in qualche modo offensiva. Lui emise un grugnito. Ci fermammo completamente. Lui fece spallucce, frustrato. “Perché si trova qui? Il vero motivo.” “Per scoprire cosa abbia tramutato un bonario cialtrone amante del divertimento in un assassino di ragazzine. Era mio amico.” Mi guardò in tralice. “Vedo.” “E lei?” gli chiesi io. “Sto facendo il mio dovere. Sono l’ufficiale a cui è stato affidato il caso.” “Vedo.”

Dormii fino a tardi, il mattino successivo. Sulla strada per l’obitorio, ci fermammo ed io passai pochi brevi ma intensi minuti all’ambasciata. La mia gente non amava rendere nota la propria presenza ai Nuovi Alleati, specie se questi, come spesso accadeva, rientravano nella categoria dei Vecchi Nemici, ma con le autorità americane eravamo tenuti a parlar chiaro. Più o meno. Un sergente USMC in uniforme da parata controllò le mia carte e mi indirizzò con una voce dall’accento del sud ad un piccolo ufficio al secondo piano. Il tipo che sedeva dietro alla scrivania lucida là dentro era proprio il tipico modello di passacarte della Central Intelligence Agency, intento a coccolare il


proprio piccolo delirio di onnipotenza, seduto su un morbido cuscino di autocompiacimento mentre elargiva al mondo il suo sorriso di celluloide. Sentii ancora una volta una fitta di dolore per la scomparsa dell’OSS e dei suoi più caserecci operativi. Mi invitò a sedermi ed io rifiutai, solo per il gusto di contraddirlo. “Era un po’ che non si sentiva parlare di voi,” disse, esaminando svogliatamente le mie credenziali. Quelle autentiche. Ero venuto per cacciare nei suoi boschi e lui chiaramente non ne era troppo contento. Se avesse avuto un minimo di cervello si sarebbe limitato ad aver paura. Spinse le carte verso di me. “Pensavo foste morti tutti dopo la guerra.” Le raccolsi. “Quale?” Chiaramente non sarebbe stato l’inizio di una meravigliosa amicizia. “Quella roba dice che devo fornirle completa assistenza.” Annuii. “Siete a caccia di qualche scienziato pazzo nazista?” sogghignò. Lo ignorai. “Dovrebbe esserci un pacchetto qui per me.” “Ce ne sono due, in effetti,” replicò con un sorriso smagliante. Ovviamente. Pinky mi stava aspettando nello scantinato, dietro al cartello “Magazzino”, chiuso in una cassa di pino foderata di zinco, i sigilli pronti per l’imbarco, in attesa che il mio lavoro fosse finito per poter finalmente tornare ad una pretesa di casa, ammesso che qualcuno fosse disposto ad accettare l’incombenza di riconoscerlo come familiare. C’erano delle foto, di un uomo non più giovane, privo di segni particolari ma con la calotta cranica esplosa. Aggiunsi anche quelle all’incartamento e fissai la cassa per forse dieci secondi. Uscendo ritirai la scatola che avevano lasciato per me. L’aprii in una sala d’attesa deserta, selezionai un paio di articoli. L’ultimo collega che se ne era servito vi aveva lasciato anche un quarto ancora sigillato di Laphroaigh di provenienza discutibile, la bottiglia squadrata e piatta


sistemata sul fondo, sotto al passaporto australiano ed alla busta di traveller’s cheques, ma io non avevo nulla per cui brindare, e non ancora abbastanza da voler dimenticare. Andai a restituire la scatola, in modo che la conservassero per me o per chi fosse venuto dopo. In attesa nella hall, l’uomo del CID si era liberato dell’impermeabile e del cappello e sedeva in una delle poltrone imbottite, gambe distese, leggendo un romanzo tascabile malandato. “Divertente?” gli chiesi. Alzò gli occhi, arrossendo, e si passò una mano fra i capelli a spazzola. “Sto facendo pratica di Francese.” Si alzò, ancora sorridendo come una pecora, e mi mostrò il volume, qualcosa di gallico su una ragazza con gli occhi verdi, di Maurice Leblanc. Fece scorrere le pagine ingiallite contro il pollice. “Questo per me è un posto provvisorio,” spiegò, mentre uscivamo in strada. Il Marine fece un cenno di saluto col capo mentre passavamo. “Voglio fare domanda per una posizione come Ufficiale di Collegamento Internazionale. INTERPOL. A Parigi,” sorrise di nuovo. “Quello è il posto che fa per me, a dare la caccia a trafficanti internazionali d’arte e ladri di gioielli.” E rise, forte, facendo sembrare tutto uno scherzo, e ricacciò il libro nella tasca dell’impermeabile. “Nel frattempo passo le mie ore libere in compagnia dei migliori: Simenon, Leblanc, Vidoq.” E rise di nuovo.

Il tipo del CID mi spiegò che maneggiare cadaveri non è considerato buono per l’anima, in Giappone, e perciò il compito è riservato tradizionalmente ad una


classe speciale di persone che fanno solo cose che non sono buone per l’anima di tutti gli altri. Poveri disgraziati. Maneggiare cadaveri non era buono per l’anima di nessuno, da dove venivo io. Uno di questi tizi, basso e calvo, ci stava aspettando quando arrivammo, e ci portò nella stanza refrigerata. “Asokoni,” ci disse, indicando. Da quella parte. Il corpo era stato disposto su una lastra di pietra, coperto con un telo bianco, con pezzi di ghiaccio dentro a sacchetti tutto attorno, una lampada a sommare la propria luce alla poca che filtrava attraverso un lucernario. Studiai le gibbosità e gli avvallamenti del lenzuolo. La ragazza era chiaramente in pessimo stato. Un condizionatore d’aria rantolava in distanza. Un tanfo insopportabile gravava sul corpo disteso, un odore che non riuscii immediatamente a collocare, ad associare alla morte. Era acre, come limoni marci, e vagamente salmastro. Aveva un che di paludoso, un fondo di salamoia che mi risultava naturalmente repellente. L’ometto prese un angolo del telo fra indice e pollice e lo sollevò. Il puzzo si fece più intenso. Il mio accompagnatore emise un gemito strangolato, i suoi occhi sbarrati quanto lo dovevano essere i miei. Seguì una salva di giapponese staccato, tagliente, aggressivo e l’inserviente si allontanò di corsa. “E’ andato a cercare un medico. Certo un qualche genere di difetto meccanico...” Guardò più da vicino e si voltò di scatto, pallido, chiaramente nauseato. Io ero pagato per continuare a guardare. Il corpo stava precipitando in una sorta di estesa, pervasiva cancrena,


dissolvendosi lentamente ma senza pausa in uno spiacevole fluido giallobrunastro. Questo aveva impregnato il telo al di sotto del corpo, e si stava raccogliendo in torpide pozze ceree al bordo del tavolo. In una di queste galleggiava, capovolta, una singola unghia. Brani di muscoli rossi, le costole, bianche e pulite come porcellana, alcune porzioni dell’epidermide erano ancora intatte, ma ben poco del resto. Era come una statua di burro rancido e grumoso, con una lucentezza spiacevole. Un solo occhio, l’iride nera rivolta fissamente al soffitto, riposava su un monticello di quella roba, circondato da un’incongrua, lussureggiante chioma di capelli neri resi quasi blu dalle luci, l’unica cosa che il processo degenerativo avesse lasciata intatta. Arrivò il dottore. Diede un’occhiata e fu come se qualcuno lo avesse schiaffeggiato con forza. Si scatenò una discussione furiosa, lo staccato di sillabe del giapponese riecheggiante fra le piastrelle delle pareti. Tutte le persone coinvolte evitavano di volgere lo sguardo alla cosa sul tavolo. Li lasciai discutere la faccenda ed andai fuori attraverso una porta laterale, in cerca di una boccata d’aria. Una breve scala fino al livello stradale, suoni di traffico. Normale. Ero arrivato tardi ancora una volta. “Stanno per aprire ed esaminare il corpo.” Il mio collega era nuovamente con me. Mi resi conto che mi aveva seguito, ripetendo a mezza voce un qualche tipo di preghiera buddista. Ora si accese una sigaretta stropicciata malamente. Utile per scacciare il fetore. Tornammo dentro. La morgue era antiquata e deprimente, piastrelle bianche e lampade nude a


formare uno schema in bianco e nero, un seminterrato ammuffito, l’aria pesante per il puzzo di disinfettante industriale. Il medico, sudato, il volto nascosto da una mascherina, l’assistente che spingeva un carrello vicino al tavolo. Lo guardai scegliere un bisturi, verificarne il filo sotto alla luce affilata della lampada, piegarsi in avanti lentamente per guardare la cosa. Abbassò la mano. E la cosa gridò.

Il calare della notte nella terra del sol levante ci trovò in un ufficio saturo di fumo, con un mare di caffè cattivo alle spalle, i rispettivi incartamenti aperti e sparsi sul tavolo, a scervellarci in cerca di un indizio di qualsiasi genere. Qualsiasi cosa di qualsiasi genere pur di non pensare alla cosa nel seminterrato. Il medico si era inventato una qualche storia a proposito della pressione residuale nei polmoni, possibilmente accresciuta dai gas rilasciati dalla putrefazione accelerata, spinta attraverso la laringe dalla pressione esercitata sul bisturi ed all’origine di ciò che l’uomo del CID al mio fianco tradusse come “un forte gorgoglio”. Stronzate, e lo sapevamo entrambi. Il grido era stato acuto ed orribile, e lungo, interrotto solo quando l’assistente aveva reciso la gola di quella cosa. “Cosa succederà ora?” Mi guardò, la cicca stropicciata una luce brillante fra le sue labbra serrate. “Al cadavere, intendo?” “Lo cremeranno,” disse. Pareva la cosa più normale del mondo. Smise di camminare avanti e indietro e si volse verso di me, sbattendo le mani sul tavolo.


“Cosa sta succedendo?” mi chiese. Cercai di mantenere un’espressione neutra. “Cosa intende?” “Avanti, siamo professionisti. Questo non è un caso per l’intelligence della vostra Aeronautica o che altro. Lo avevano buttato fuori. Il suo amico. Nel ‘52. Per bigamia e, prima di quello,” i suoi occhi si ridussero a due fessure, “era stato sospeso indefinitamente, prima, a mezza paga, io sospetto per il fatto di aver sposato una mia connazionale. Succedeva di continuo, per quanto la fraternizzazione fosse scoraggiata. E poi sono passati quasi dieci anni. L’Aeronautica ormai non ha nulla a che fare con questa storia, e non ha voluto averci niente a che fare per molti anni. O forse sbaglio? Cosa succede? Perché questa collaborazione, quando i signori all’ambasciata ed al comando aereo prima erano stati così restii a cooperare? Perché hanno mandato lei? A fare cosa?” Scossi la testa. Ero stanco e spaventato. Molto spaventato. In questa città, forse in tutta quest’isola, stava succedendo qualcosa. Qualcosa di orrido ed inaspettato. Ma lui non aveva intenzione di farsi blandire. “Lei è andato da loro, e loro la stavano aspettando,” disse. Feci un’espressione stupida. Rise. “Quelli che sostengono di essere venditori di macchinari agricoli, ma non saprebbero distinguere il davanti di un maiale dal suo di dietro. All’ambasciata. Cosa sono? CIA?” No, solo degli sciocchi. E dicevano di essere un’agenzia ‘a basso profilo’. Allargai le mani. “Io sono solo un garzone di bottega...” Gettò la cicca nel posacenere e sbatté di nuovo le mani sulla scrivania. Il posacenere sobbalzò, le penne nel bicchiere portapenne tintinnarono, la pila di


documenti traballò disassandosi, fogli scivolarono e si sparsero turbinando sul pavimento, un ampio ventaglio di pagine bianche e gialle. “Non mi prenda in giro!” Puntò un dito verso la porta. “Cos’è quella cosa nell’obitorio? Una specie di test atomico che voi avete nuovamente fatto nel mio paese? O qualcosa che avete testato in Corea, questa volta, ed ora sta venendo qui, allargandosi?” “L’ha detto lei stesso... una specie di problema meccanico, un intoppo con la refrigerazione...” Sbuffò, raddrizzandosi. Scuotendo il capo. Indignazione. “Lei pensa di avere a che fare con un idiota!” Si volse nuovamente, lo sguardo da folle. “Io sono cresciuto qui in Giappone. A Tokyo. Non avevamo parenti in campagna, la mia famiglia non poté lasciare la città. Mio padre era nella polizia ma lavorava anche come capostazione. Ci addestravano a tirare con l’arco per difenderci dagli invasori. Io ero qui. In questa città!” Chiuse gli occhi, esalando un lungo sospiro. “Ero in questa città il nove di marzo del 1945,” disse. “Ricorda?” Io stavo giocando alla spia in India a quell’epoca. Ma avevo amici fra quelli dei B-29. Ricordavo. “Ho visto più edifici distrutti e cadaveri da ragazzo di quanti lei ne abbia visti da soldato. Ho visto quelli che erano stati uccisi dalle bombe, e poi in seguito ho visto quelli che si erano tolti la vita dopo l’armistizio, per vergogna ed umiliazione. Io ho visto gli hibakusha.” Andò alla finestra. “Niente di quello che ho mai visto,” disse lentamente “somigliava minimamente a quella cosa là sotto. Mai. La gente normale non si decompone a quel modo. I cadaveri normali non gridano quando li tagli!” Si voltò e rimase lì, in attesa di una risposta.


Era un brav’uomo, e l’unico che avessi a portata di mano. Perciò gli diedi una risposta.

“Non so cosa stia succedendo.” Non parve convinto. “Davvero. La gente che mi ha mandato qui non ha fiducia negli osservatori che possano covare dei pregiudizi. Mi hanno mandato senza informarmi di nulla, affinché potessi valutare meglio la situazione. Senza preconcetti.” Un solo cenno del capo. “Chi sono queste persone che l’hanno mandata? CIA? FBI?” “No, siamo... qualcos’altro. Con l’incarico di gestire... certe cose. Cose come quella nell’obitorio. Come quelle con cui commerciavano i Nazisti. Soderkommando H. In Slesia, e altrove. Abbiamo affrontato questo genere di cose per... per parecchio tempo.” Non sembrò troppo sorpreso alla rivelazione. Puntò di nuovo il dito verso la porta. “E’ opera vostra?” “No, non lo è.” Speravo. “Allora cos’è?” “Non lo so. Sono qui per scoprirlo.” “E quando l’avrà scoperto?” Raddrizzai le spalle, sentendo un dolore fra le scapole. “Me ne occuperò.” “Come?” Posai la mia Browning nove millimetri sul tavolo. Era pulita, nuova, senza numeri di serie. “In questo modo.” La fissò. “Non le era permesso portare quell’arma nel mio paese.”


“Non l’ho portata. Era qui ad aspettarmi quando sono arrivato. E allora? Intende arrestarmi?” Sogghignò senza allegria e si lasciò cadere sulla poltrona, braccia conserte. “Cappa e spada, nah? Ed io ora cosa dovrei fare?” Mi limitai a fare spallucce. Era tardi ed ero stanco. “Sa cosa?” disse dopo un minuto di silenzio, “Voglio vedere il fondo di questa faccenda anche se fosse anche l’ultima cosa che vedo.” “Potrebbe esserlo.” Serio. “Sta cercando di spaventarmi?” “Per voi il caso è chiuso, giusto?” “Fin dall’inizio non è mai stato un caso. Un semplice omicidio-suicidio, sarebbe morto in uno schedario dopo quarantotto ore. Ma c’era coinvolto un gaijin, e questo o quel politico voleva che si facesse qualcosa di ufficiale.” Accese un’altra sigaretta. “Questi suoi padroni,” disse. “Hanno contatti politici in questo paese? Al Ministero della Sanità, magari?” Imparava in fretta. “Non ne sarei sorpreso.” “Allora forse era solo necessario che io corressi qua e là mentre voi vi preparavate per subentrare,” fece un gesto, “Ah, e occuparvene, esatto?” “Non ne sarei sorpreso,” ripetei. “E cosa mi impedirebbe a questo punto,” domandò teatralmente, “di darle una mano ad occuparsene?” Sfilò una grossa 45 dalla fondina ascellare e la piazzò sul tavolo. Mi sorprese scoprire che portava un’arma. Ci osservammo per qualche tempo, come giocatori di poker in un film western. I rumori della strada ci arrivavano attraverso la finestra aperta. “Niente,” gli dissi alla fine. I nuovi ragazzi del bebop nella struttura chiamavano quelli come lui “contatti


amichevoli.” Utili e sacrificabili. L’ispettore schiacciò la cicca nel posacenere affollato. “Bene. Ripuliamo questo casino e chiudiamo i lavori per la giornata, ok?” Si chinò per raccogliere i fogli sul pavimento. “Domattina ricominceremo da capo più freschi e ... ehi!” Quando tornò a raddrizzarsi stringeva una fotografia. Era la foto della festa di nozze che avevo portato da casa--il flash dell’ignoto fotografo aveva colto Pinkerton con un’espressione impacciata nella sua uniforme blu, la donna in kimono rosso con un motivo ricamato, il suo viso poco più che un ovale candido nell’inquadratura incerta, altra gente appena visibile sullo sfondo. “Questo è lo stesso fottuto kimono!”

Era proprio lo stesso fottuto kimono. Era macchiato di sangue e strappato, ma il motivo era evidentemente lo stesso, silhouette simili a piccole farfalle, nero, oro ed argento sulla superficie rosso brillante del tessuto. Era leggero, ancora morbido dove il sangue non lo aveva impregnato, ed odorava debolmente di qualcosa che non riuscii a collocare con precisione. Incenso. O erbe di qualche genere. Con un fondo di bruciato. Il disegno aveva uno sviluppo complesso, come se le singole farfalline che volavano attraverso la superficie dell’indumento fossero infatti piccole tessere di un’immagine ancora più complessa, ma il danno era troppo esteso perché potessi dirlo con sicurezza. Lo stesso fottuto vestito.


O no? Il mio consigliere locale ne era certo. “Osservi la tessitura, l’evidente qualità della manifattura.” Quello era facile a vedersi. “Roba di prima classe?” Grugnì. “Etichette del sarto, del negozio? ” Fece una spallucciata. “Questo è chiaramente un kimono di Nishijin. Li fanno a Kyoto, a sud. Un oggetto molto pregiato, tecnica di manifattura speciale, una specie di segreto del mestiere, utilizzando fili d’argento e d’oro per il ricamo.” Le sue dita danzarono brevemente sui resti, ricavando un lieve suono sussurrante mentre si rigirava il tessuto fra le mani più e più volte. “Costoso, prima classe superiore. Fatti su ordinazione, vengono normalmente venduti solo ad una clientela selezionata, e vengono indossati solo in occasioni particolari--come fidanzamenti della classe superiore, matrimoni. Anche funerali.” “Molto appropriato.” “Esatto. Le avevo detto che si presumeva la vittima fosse di buona famiglia. Ora sa per quale motivo. Ed ora sappiamo anche da che famiglia veniva.” Tamburellò col dito sulla mia foto. “Dalla famiglia di questa donna. E’ probabile che sia lo stesso kimono. Letteralmente.” Provai un capogiro. Perciò Pinky aveva ucciso una parente. O più probabilmente aveva scopato ed ucciso una parente. Lo aveva saputo? Roba per gli psichiatri. Ma era evidente dove lui volesse arrivare. “Ora siamo in grado di risalire al luogo di provenienza della ragazza. Ci basta controllare il certificato di matrimonio del vostro uomo, e vedere da dove arrivava la giovane signora.” Lui annuì, gli occhi ancora sulla foto.


“Lo indossa a rovescio,” mormorò. Non vedevo nulla di strano nella foto. “In che senso?” gli chiesi. Incrociò le braccia sul petto un paio di volte. “Il lembo destro sopra al sinistro.” “E allora?” “E’ strano,” disse, continuando a guardare la foto. “Brutto.” Rimasi in attesa. Fece una smorfia. “Solo i morti lo portano a quel modo.”

Ci facemmo portare da mangiare e ricominciammo a passare al vaglio le carte. Richiedemmo anche i giornali dell’epoca, per verificare se qualcosa a riguardo fosse stato pubblicato da qualche parte. Nulla. Niente certificato di nozze, niente documenti accessori. Tutte le carte relative erano state trasferite in una specie di limbo burocratico, sospeso da qualche parte fra l’Aeronautica degli Stati Uniti ed il Governo Giapponese, un luogo dal quale non c’era speranza di recuperarli. L’uomo del CID fece un po’ di chiamate, talvolta inchinandosi al telefono più volte mentre parlava, altre volte assumendo toni aggressivi, o compiacenti. Niente. Esaurite le nostre opzioni, provammo nell’incertezza a chiamare i produttori di seta dell’area di Kyoto, sperando in qualcosa di diverso dalle cortesi risposte negative che ci diedero tutti. Presto esaurimmo ogni altra labile opzione. “Aveva un figlio. Un maschio.” Ripescai le carte relative. C’era poco riguardo a quella storia. “Morto alla fine del ‘51. Polmonite.” “L’uomo era in America in quel momento, giusto?” Giusto.


Pinky era stato a casa, a godere delle gioie del matrimonio con la sua pinup bionda. Non aveva mai incontrato il proprio unico figlio. Date, numeri, qualche relitto in forma di fotografia sbiadita o qualche brano di documento ufficiale. Uno spaccato di vita. Ricominciai ancora una volta a scartabellare, mentre il mio socio guardava senza vedere fuori dalla finestra ed oltre.

Primavera 1948, e Pinky sposa la sua geisha. Niente nome o altri dettagli della donna, le carte perdute da qualche parte nel caos del Giappone del dopoguerra. La notizia mi era arrivata come una sorpresa. Non era così che faceva il mio amico, non con una cerimonia così affrettata. L’unica foto disponibile è scura, lui è troppo serio nella sua uniforme, lei porta quel dannato kimono rosso, la faccia un pallido ovale con delle chiazze scure sotto ad una acconciatura complicata, la gente attorno a loro sagome scure nella luce del flash, inginocchiati su un lucido pavimento di legno. Inverno 1949, Pinky è a casa ed è tutta una festa da ballo. E’ il giovane guerriero restituito ai suoi cari. Un’istantanea, mio personale contributo all’incartamento, lo coglie mentre danza qualcosa di veloce ed allegro con una bionda pettoruta, e se la gode un mondo. Il resto degli astanti che roteano attorno a loro sono sagome sfocate e confuse; una delle luci sul soffitto è riflessa da una tromba appena visibile sullo sfondo, l’alone brillante orlato di nero a causa di un effetto ottico. Si chiamava Dorothy, come ne “Il Mago di Oz”. La sua strada di mattoni dorati sarebbe giunta ad una rapida interruzione da lì a pochi mesi.


Come quei cartelli che mettono sulle vecchie strade di campagna--Fine Carreggiata. Altri relitti. Un certificato di matrimonio, da qualche parte sulla strada per Vegas, carta da poco compilata alla svelta con scarabocchi di penna a sfera, la firma del testimone illeggibile, forse quella del prete stesso, forse quella di un accessorio nuziale professionista. Matrimonio e luna di miele in un unico comodo pacchetto. E mentre Pinky si sposa la sua bionda pettoruta il Febbraio 1950 arriva strisciando, e mancano solo due mesi alla nascita del suo unico figlio. Il documento giapponese mi risulta indecifrabile, inutile al mio compagno. Niente foto di nessuno dei due eventi, matrimonio e nascita persi nel crescente labirinto nel quale la vita di Pinky si sta trasformando. Sapeva di avere un figlio in arrivo? Il viaggio a casa era forse la fuga di un uomo dalle sue crescenti responsabilità? Com’era possibile che nessuno sapesse nulla del suo matrimonio in Giappone? Ma poi arriva il 1951 e tutto cambia. Mentre il suo figlioletto giace fra la vita e la morte, la sua moglie giapponese chiede all’Aeronautica di rintracciare il suo coniuge scomparso. Rapporti medici, un certo numero di telegrammi, qualche lettera su carta intestata ufficiale, qualcuna no. E viene fuori tutto quanto. Pinky punta verso casa ma le cose si fanno frenetiche. Il ragazzino muore, la donna giapponese si taglia la gola, e nessuno dei due eventi viene testimoniato da una sola riga sui documenti ufficiali. Ma il mio socio giapponese ha una parola per il suicidio. Lo chiama funshi. Il suicidio di chi è indignato. Strana gente, i giapponesi.


Perché ci mise tanto a tornare indietro? Perché non lo processarono per bigamia? L’Aeronautica preferì passare tutto sotto silenzio? Poi, attraverso un pedestre rapporto di sceriffo, la bionda pettoruta Dorothy prende la via della fuga mentre Pinky è in Giappone , e poi si taglia i polsi nella vasca da bagno di una stanza di motel, non troppo lontano dal confine canadese, usando una bottiglia di gin spaccata. Noi non abbiamo un nome apposta per certe cose. Solo una reazione alla perdita, alla vergogna, o alla disperazione. Stando al rapporto del coroner, la donna aveva appena subito un rapido e piuttosto brutale aborto procurato in qualche clinica nascosta in qualche scantinato da qualche parte. Un altro figlio morto. La simmetria è spaventosa. Arriva il 1952 e lo Zio Sam restituisce il Giappone ai legittimi proprietari, almeno sulla carta. Pinky è tutto solo in un paese straniero. Tutti i funerali finiti, tutti i cadaveri sepolti. Poi il limbo. Passeggiate nel parco, forse. Forse una casuale frequentazione del Mercato dell’Acqua. Piacevano ancora i film, al mio amico? Solo. Niente amici. Niente famiglia. Niente di niente. Fino a quattro colpi di pistola contro una ragazzina i forse quindici anni, probabilmente una parente di qualche genere, dopo una notte d’amore. Amore?


Sollevai lo sguardo dalla foto delle nozze. Mi doleva la testa, dietro. Nessuna speranza di ricavare alcun dettaglio utile. Pinky sembrava l’unica persona reale nella foto, serio fin quasi ad essere truce, tutti gli altri solo manichini accosciati sul pavimento nei loro abiti tradizionali scuri. Matrimonio buddista? Shinto? Qualcosa di completamente diverso? Di sicuro il fotografo doveva essersene già bevuti parecchi, a giudicare da quant’era mossa l’immagine, la foschia della sfocatura una prova della mano malferma. Girai la foto. Non c’erano segni o scritte sulla carta. Ma c’era una possibilità. “Pensa che questa possa essere stata scattata da un fotografo dell’Aeronautica?” domandai. Perché c’era stato un tempo in cui le migliori macchine fotografiche in Giappone erano dello Zio Sam. E lo Zio Sam ha la memoria molto lunga.

Ci vollero tre giorni per rintracciare il posto in cui era stata fatta la foto. Il tipo che aveva fotografato le nozze di Pinky si era ritirato nel ‘52, aveva sposato una interprete civile nisei che aveva incontrato ad Osaka e successivamente si erano trasferiti ad Hong Kong, dove lui faceva un po’ di lavoro per le riviste del posto ed un po’ di freelancing.


Il nome era Dzulinsky. Sergente William T. Dzulinsky, USAF, cong., un ragazzo di Chicago con il bernoccolo della fotografia. Non più molto ragazzo, forse, ma il bernoccolo gli era rimasto. Al telefono era come una piovra umida e impazzita, e sfuggiva in quindici diverse direzioni mentre al contempo cercava di far presa su qualunque pezzetto d’informazione che io mi lasciassi scappare. Lavorava per una rivista, mi disse, come se quella fosse una ragione bastante per cercare di spremermi nella speranza di uno scoop. Che rivista? Una rivista. Non volle elaborare ulteriormente. Un basso suono raschiante ci tenne compagnia sulla connessione internazionale, come onde che ruggissero in profonde caverne. Mi attenni alla mia storia. Pinky morto d’infarto, nessun famigliare sopravvissuto a casa, lo Zio Sam disposto a scucire qualche dollaro ai parenti giapponesi ancora in circolazione, come forma di pensione, col fatto che lui era un eroe di guerra, e tutto quel genere di cose. Non abboccò, non completamente per lo meno, non era stupido, ma mi diede un paio di informazioni comunque. Fu vago. Il nome della ragazza? Tomiko qualcosa. Ragazza timida. Molto per bene. Non proprio lo standard, per Pinky. Era da un po’ che si frequentavano, all’epoca. Il posto del matrimonio? Da qualche parte a sud est. Un posticino piccolo ed accogliente. Nell’area di Boso. Yourou-qualcosa. “Piuttosto fuori mano,” disse. Ma ricordava di essere passato per Goi, per andarci. Conosceva una ragazza a Goi.


Un paio. Si erano fermati per dei drink. Parecchi drink. Disse chiaro e tondo che sia lui che Pinky erano piuttosto sotto spirito quando erano arrivati sul posto. Le sue ultime parole rimasero nelle mie orecchie a lungo dopo che la connessione venne interrotta. “Era tutto una specie di scherzo, sa?” Uno scherzo. Nel momento in cui la foto era stata scattata, il Caporale Dzulinsky era probabilmente l’unica persona che ancora pensasse a tutta la faccenda come ad uno scherzo. La serietà dell’espressione di Pinky mi colpì ancora una volta. Era appena tornato sobrio, rendendosi conto del casino in cui si stava cacciando? L’espressione truce, la mascella serata, erano forse un segno della sua mente che cercava furiosamente di trovare una via d’uscita in extremis?

Non si poteva che ammirare il modo in cui questa gente faceva le cose. Una telefonata e tre autopattuglie con agenti in uniforme e due camionate di poliziotti in tenuta da sommossa correvano sulla strada per Chiba, in tre ore esatte. Il piano era di raggiungere Goi--dall’altra parte della baia rispetto a Tokyo-- e poi risalire il corso del fiume Yourou fino al posto chiamato Youroumachi. Un nome originale. Avevamo dovuto far ricorso ad una mappa di prima della guerra per localizzare quel maledetto posto, perché non risultava sui rilevamenti più recenti, né quelli fatti da loro né quelli fatti da noi.


E stando alle vecchie mappe c’era proprio un tempio, laggiù, di proprietà della locale famiglia di maggiorenti. Niente nomi, niente registri, niente dettagli. Era sempre stato lì.

Un grigio Buddha di pietra stava in piedi vicino al fosso, le dita delle mani del rosario andate, la testa ad uovo inclinata ad un angolo spiacevole. Mi ricordava un impiccato. La nostra auto si fermò sul vialetto che conduceva al tempio ed il mio socio ed io scendemmo. Alberi spogli stiracchiavano i rami sopra di noi, il villaggio deserto ormai solo una memoria due miglia alle nostre spalle, perduto al termine di una strada sterrata serpeggiante. Mormorando qualcosa, il poliziotto giapponese raddrizzò la testa di pietra e chinò la propria, sussurrando rapidamente una preghiera. “Non ci si può fidare di gente che non rispetta le tradizioni,” mi disse. Potevo capirlo. “Qual’è il piano?” gli domandai. “Andiamo a rendere omaggio al signore della casa,” disse. Si tirò su il colletto dell’impermeabile, colto da un brivido improvviso. “Diamo un’occhiata in giro, ci facciamo un’idea del posto.” Cominciò a camminare lentamente oltre il tempio, in direzione della casa. “E poi?” “Pretendiamo delle spiegazioni.” Pittoresco. “E se il gentiluomo dovesse rifiutarsi?” “Allora chiamiamo gli agenti e cominciamo a rivoltare il posto.” Si fermò, si volse. “A fondo.”


Ma il posto era morto. Il villaggio era un cumulo di macerie. Il tempio era un’inutile pila di legno annerito, strisce di carta gialla appese a corde davanti all’ingresso. Il mio compagno non riuscì a decifrare l’iscrizione sull’architrave. La casa era in condizioni appena più decenti, ma comunque un relitto. Passammo attraverso il cancello cadente ed entrammo nel giardino inselvatichito, pietre piatte a segnare un incerto cammino verso l’ingresso. La mia guida scosse la testa, addolorato alla vista. “Una casa così grande,” disse. Il posto era enorme, uno di quegli affari giapponesi montati su corti trampoli ed esteso quanto un campo da calcio. Gran parte dei muri e del tetto erano ancora al loro posto, ma le porte scorrevoli erano andate da tempo, buchi neri che ci fissavano spalancati. “Immagino potremmo chiamare i ragazzi e cominciare la nostra ricerca,” dissi. Ma dubitavo che avremmo trovato qualcosa di consistente. Un altro vicolo cieco. Sembrava che il mondo fosse sempre ad un paio di passi indietro quando si trattava di chiudere la triste ballata di Pinkerton. Il mio compagno annuì distrattamente e tornò verso la macchina. Avevamo lasciato la truppa a due curve della strada di distanza, dando loro il tempo di smontare dai camion e di prepararsi alle danze. Salii alcuni gradini scricchiolanti e guardai nell’edificio attraverso quella che era stata, immaginai, la porta principale. Ebbi l’impressione di sentire una campanella che tintinnava nella brezza da qualche parte. Altrimenti, il posto era silenzioso. Entrai.


Un po’ di luce entrava dai buchi nel tetto sfondato, raggi di sole pomeridiano che piovevano dall’alto, rendendo le tenebre ancora più scure per contrasto. Niente mobilio in vista. Un odore dolce, spiacevole nell’aria. E qualcos’altro. Un suono come di strisciamento, come un grattare sul pavimento, che veniva dall’interno. Come carta stropicciata. Come una grossa cicala. Sfoderai la pistola ed entrai più all’interno. Deboli passi ticchettanti--come di un cane randagio che ispezionasse la casa e raspasse il pavimento per arrivare ad una tana di topo. Ancora stanze vuote. Ragnatele pendenti dalle pareti come tende di seta a brandelli. Il suono, ora più forte. Più vicino. Il pavimento scricchiolò in modo spiacevole mentre entravo in un ampio spazio completamente buio. “E’ stato gentile da parte tua...” Mi voltai sulla sinistra, arma pronta, il dito che si stringeva sul grilletto, il muso della pistola a non più di una spanna dalla faccia del mio amico. Pinkerton.

“Venirmi a trovare,” concluse. Sorrise, ignorando la pistola, e si voltò, scomparendo nelle tenebre. Andato. “Fermo!” Passi. Un cerino sfregato nell’ombra, una lampada accesa. Pinky scosse la testa.


“Non dovresti essere così nervoso,” disse. Alla luce della lampada indossava un abito grigio, di qualità mediocre, che qualcuno doveva aver modificato affinché meglio si adattasse alla sua forma sparuta. Nel buio era difficile vedere i suoi piedi. Non era troppo diverso dal mio compagno di volo. Un po’ più vecchio, l’attaccatura dei capelli un po’ arretrata. Il viso pallido nella luce tremolante. “Mi spiace di non poterti invitare a sederti,” disse. Si spostò di lato, allontanandosi dalla luce. Qualcosa si mosse fuori dalla stanza. “I nippo non ce le hanno le sedie, sai. Una sfortuna.” Avevo altro a cui pensare. Guardai a destra ed a sinistra, senza voltare il capo, in cerca di una via di fuga. “Terrai quell’affare puntato contro la mia faccia ancora a lungo?” Nessuna via d’uscita, solo oscurità. “Sei morto.” “Questo non è molto gentile da dire, sai.” Allargò le braccia, debolmente, in un gesto di sconfitta. “Ho visto la tua bara,” proseguii. E delle foto, ed il rapporto di un coroner. Dove diavolo erano gli sbirri? “Io non ero là dentro,” sorrise lui di nuovo. “Evidentemente.” Passò un lungo minuto. Abbassai l’arma. Diamogli corda. Prendiamo tempo. Il terrore cercava di togliermi il respiro. Il terrore e a polvere. “Così va meglio,” annuì lui. “Sarà meglio che tu abbia delle spiegazioni di prima classe, mister, e sarà


meglio che tu cominci a darmele alla svelta.” La mia gente vuole delle risposte. Ma non glie lo dissi. Ridacchiò. “Si. Anch’io sono felice che tu stia bene.” Abbassò la testa, grattandosi la sommità come ricordavo di avergli visto fare un milione di volte durante le nostre infinite partite a carte, col vento che ululava sulla pista di volo. “Un bel pavimento, eh?” mi chiese. Si accovacciò, tamburellando sul parquet con l’indice. “Una stanza da diciotto tatami,” disse. “E’ un sacco di spazio da queste parti, sai.” Si rimise in piedi. Mi aspettavo quasi che si sfregasse le mani per liberarle dalla polvere, e che poi facesse lo stesso col ginocchio sinistro, ma non lo fece, le braccia abbandonate lungo i fianchi. “I tatami sono disposti in uno schema a spirale,” spiegò, facendo un paio di passi a sinistra. “Le spirali sono estremamente comuni in una quantità di diverse culture, sai?” Era vicino ad una parete. Sollevò la destra e lentamente, attentamente tracciò una spirale tremolante nella polvere che la ricopriva. “Un segno che rappresenta l’evoluzione.” “Cosa diavolo sta succedendo in questo posto, amico?” “Ma in realtà si tratta di qualcosa che gira senza fine per restare nello stesso posto. Come una trottola.” Mi guardò, poi tornò a volgersi verso il muro. Avrei dovuto impiombarlo subito e fare le domande dopo, ma ero stato mandato qui per avere delle risposte. “Non se ne può sfuggire, sai,” disse, seguendo col dito la spirale che aveva tracciato, lentamente, senza staccare gli occhi.


Arretrai leggermente. Le mie spalle colpirono una parete sottile dietro di me, o forse una porta scorrevole. Cedette un poco, poi si fermò. “Non ti lasceranno mai andare, prova finché ti pare. Io ci ho provato, sai,” proseguì Pinky, gli occhi bassi, fissi sul pavimento, “ma non puoi scappare alla tua famiglia.” Ridacchiò ancora. Io non gli toglievo gli occhi di dosso, misuravo la distanza, cercavo bersagli sicuri. Il pavimento scricchiolò debolmente. Una figura in kimono emerse dalle tenebre oltre il raggio della lampada. Era bassa, curva e coi capelli neri, con una faccia impossibile da distinguere, un disco bianco di cipria gessosa. S’inchinò, sussurrò qualcosa, si volse verso di me quando lui fece un gesto svogliato. Ebbi l’impressione di uno sguardo, localizzato da due ovali scuri sotto alla frangia nera della sua acconciatura, focalizzato in un punto da qualche parte sopra la mia testa mentre sussurrava quello che decisi dovesse essere un saluto. “Il té ti va bene, vecchio mio?” gracchiò lui. Si schiarì rumorosamente la gola mentre io facevo un cenno di assenso. La donna si ritirò e vene nuovamente inghiottita dall’oscurità. “I giapponesi lo sanno, sai. La famiglia è per loro importante quanto lo era per noi un tempo. Loro parlano di Amae.” La risatella si tramutò in una risataccia spezzata. Il rumore cartaceo era vicino, dietro di me. “Tutto questo è stato solo un modo per tornare a casa!” Si volse verso di me, la spirale ormai dimenticata. “Fecero un patto, capisci? Omiai, capisci? Il vecchio nella sua casa di Telegraph Hill accettò la chiamata dei suoi amici antipodei ed io potei viaggiare verso oriente. Ero divenuto oggetto di trattative.” La risata divenne un singulto, un rigurgito.


Il suo tono era improvvisamente rotto, si fece più vicino di due, tre passi, si fermò, sospirò. “Nuovo sangue per la vecchia dinastia. Omiai. Un matrimonio preordinato,” parlando balbettava, la bocca rifiutava di dar forma ai suoi pensieri storti. “Ed io avevo pensato. Sciocco, immaginare di poterli eludere.” Rise di nuovo. “Mentre questa era sempre stata la mia destinazione.” Il tempo stava per finire. Il palmo della mia destra era sudato attorno alla gomma nera del calcio. Il muro alle mie spalle parve muoversi leggermente, come sotto la spinta di una brezza discontinua. “Ora mi dispiace per la povera Dotty,” sospirò, di nuovo apparentemente sotto controllo. Dotty. Dorothy, la sua moglie bionda. “Dì a tutti che sono dispiaciuto per lei. Quando seppe della cosa. Dentro di lei...” Qualcosa gridò da qualche parte. “Che cresceva.” Rimasi paralizzato per un istante ma la mia mente continuava a correre. Gli sbirri. Stavano arrivando. Domande. “La ragazza...?” Mi guardò per un istante, perso. Poi annuì. “Volevano una seconda nidiata, capisci? La prima era difettosa.” Il muro alle mie spalle tremava. “E loro mi rimandarono Tomiko, di nuovo, per farsi impregnare. Loro... Esso me la mandò più giovane questa volta.” Rise, una risata infantile. “Conosceva meglio i miei gusti. I suoi.”


Un colpo di pistola. Un altro. “Ma io. Lui. Ci rifiutammo.” Sembrava confuso, si fece più vicino. Il pavimento tremava. Pinky annuì. “I tuoi amici hanno trovato l’alveare principale,” mi disse. Mi afferrò la destra, sollevandola di forza. “Ora fai il tuo dovere,” disse appoggiando la fronte alla bocca della pistola. “Tira il fottuto grilletto e libera il tuo vecchio amico dalla sua gabbia almeno per qualche momento.” La sua mano sul mio polso era fredda, morbida, umida, sottilmente oscena. Una singola lacrima, giallastra oleosa e fetida gli scivolò sulla guancia. E mentre io lo fissavo una terza mano scese dall’alto e serrò i propri lunghi artigli sottili sull’arma, tirando con forza. Alzai gli occhi.

C’era un viso capovolto di donna che mi fissava, gli occhi completamente gialli che colavano lacrime cremisi ed una grande bocca ghignante zeppa di una fitta foresta di denti simili a spilli, ma lunghi una spanna, lunghe ciocche di capelli che le cadevano attorno al viso bianco. La cosa si sporgeva avanti per guardarmi mentre io cercavo di strappare la mia arma dalla presa di una mano che pareva e sembrava al tatto la radice appena divelta di un albero molto vecchio. Cominciai a gridare, senza riuscire a sentire la mia voce. Una parete crollò in una nube di macerie, e degli uomini in uniformi impolverate si precipitarono a passo di carica nella stanza, illuminando la scena con le torce, una testuggine ispida di magli, accette e manganelli. Alcuni portavano degli scudi squadrati.


C’erano ancora grida in sottofondo, e l’odore della benzina e della paura invasero le mie narici. Era una forma vestita di seta, schiacciata a terra sotto agli scarponi dei poliziotti? Il volto che mi sovrastava si raddrizzò, con un ruggito, ed esplose all’impatto di un singolo colpo di pistola in mezzo a quegli occhi alieni. “Si muova, idiota!” Tentai di correre via ma Pinky mi tratteneva. I suoi lineamenti si stavano sciogliendo in una cascata di poltiglia giallastra. La sua bocca bofonchiò qualcosa, riempiendosi di denti affilati. Gli sparai. Una due tre volte, nel pieno di ciò che restava della sua faccia, ed al petto. Le pallottole entrarono in lui con un suono umido e lui parve non badarci. Allora io sparai ancora ed ancora. L’uomo del CID mi afferrò e mi trascinò via che ancora premevo inutilmente il grilletto. Ebbi l’impressione di un corpo femminile decapitato che si allungava in una forma serpentina, di un ampio addome che si espandeva in segmenti simili alle elitre di un coleottero, di un numero di spire che si dibattevano scomparendo nelle tenebre dell’edificio ormai in fiamme. Poi i poliziotti sopraffecero la creatura con le mazze e le accette e cominciarono a versare ancora benzina sui tatami. La luce mi investì come un pugno chiuso, l’aria fresca parve soffocarmi e mi trovai fuori. Rotolai nell’erba e respirai e tossii per alcuni secondi. Piedi in corsa intorno a me mentre i ragazzi in uniforme nera abbandonavano l’edificio. Mi voltai. C’erano fumo, legno e benzina nell’aria.


E grida acute, insistenti e terrorizzate, come se qualcuno stesse soffocando una lettiera di maialini. L’ispettore giapponese si accosciò al mio fianco, ancora stringendo la propria arma. “Tutto bene?” Io annuii, tossendo. Rimasi seduto a terra, a guardare la casa che andava a fuoco. Le fiamme ruggivano attorno ai pilastri di sostegno ed attraverso le porte spalancate. Il tetto scricchiolava, insaccandosi lentamente. Una figura infuocata emerse dalla casa, agitando delle appendici fiammeggianti che avrebbero potuto essere braccia. Gridava bestemmie in Inglese e Giapponese ed in qualcosa che sembrava Urdu, ed agitava i propri pugni deformi verso il cielo, rilasciando con ogni gesto sbuffi di fumo nero ed oleoso. Mi chiesi quanto del mio amico fosse intrappolato in quella cosa. Una mano mi offrì silenziosamente una pistola. Lasciai cadere la mia, scarica, sollevai la .45 con poca dimestichezza e piantai sette pallottole nel manichino infuocato, spingendolo nuovamente nella sua tomba di braci col resto della famiglia. Poi il tetto finalmente crollò. Sbuffi di fumo nero e denso si alzarono verso il cielo come un ultimo sospiro. Fine della partita. “Checcazzo era quell’affare?” Gli restituii la pistola. Lui fece spallucce. “Qui è lei il cowboy, mister.” Ci guardammo negli occhi per un lungo secondo. “E’ lei a conoscere i nomi di quelle cose,” disse, rinfoderando il pezzo. “Io mi limito ad ammazzarle.”


Oltre la parete di vetro uomini in tuta grigia e guanti bianchi stavano caricando la bara di Pinky nella stiva del volo PanAm. Riflessa nel vetro, Haneda era affollata come sempre. L’uomo del CID mi accompagnò al cancello ed allontanò con un gesto il poliziotto in uniforme che portava la mia valigia. “Darà seguito personalmente a questa faccenda, una volta a casa?” mi domandò. “Probabilmente,” annuii. “Alla fine era un matrimonio combinato. Omiai,” annuì a sua volta. Altre rovine da esplorare, altre case da bruciare. Spinse le mani a fondo nelle tasche dell’impermeabile. “Lei farà la stessa cosa qui.” Lui scosse la testa. “I miei superiori non credono saggio esporre due volte gli stessi uomini.” Tirò fuori una busta e me la mostrò. “Il mio incarico con l’INTERPOL è arrivato ieri.” “Parte per la Ville Lumiere?” “Così sembra. Mansione più tranquilla, paga migliore, posti eleganti,” sollevò il mignolo della sinistra. “Donne, anche.” Esplose in quella sua strana risata a bocca aperta, ed io provai all’improvviso pietà per qui poveri ladri che avrebbero dovuto vedersela con lui. “Ho una cosa per lei,” disse. Tirò fuori un rotolo di carta e me lo diede, con un mezzo inchino. “Un regalo di buon viaggio. In amicizia.” Era un dipinto. Uno strano disegno di una lucertola di un verde molto scuro, quasi nera, sistemata su una pietra vicino ad una pozza d’acqua, all’ombra di poche foglie


stilizzate. Vecchio. Antico. Aveva un che di estivo, di caldo e pacifico. C’erano degli ideogrammi angolosi tracciati su un lato. “Per buona fortuna,” aggiunse. Arrotolai il dipinto e lo misi nella mia borsa. Era tempo di stringersi la mano. Immaginai ci fossero un sacco di cose che non ci eravamo detti, ma questo era il nostro lavoro, o lo era stato per un po’. Si inchinò rigidamente. Io lo salutai alzando una mano. E non ci vedemmo mai più.

“Le illusioni ingannano. I colori circoscrivono. Anche i divisibili sono indivisibili.” [manoscritto del Kashmir, 2000 a.C.]


Postilla: Una Storia di Cowboy I wanna be the guy who wears the white hat Then rides across the plain I'm gonna be your enigmatic stranger Honey you are lookin' at your Shane (Cowboy Dreams – Prefab Sprout)

Questa storia nasce dall'aver sfregato insieme due idee ed averne ricavata una scintilla. La prima idea è in realtà un'immagine, ed è l'immagine attorno alla quale è stata costruita la scena dell'obitorio. Un corpo indiscutibilmente morto che urla. la seconda idea è un po' più complicata. Quando scrissi questa storia, avevo un'amica che impazziva per l'opera lirica, e non riusciva a leggere neanche le più blande storie dell'orrore. Com'era possibile, le domandai, che avesse gli incubi a leggere certe blande faccende lovecraftiane, mentre poi gongolava tutta all'idea delle morti inutili, delle torture fisiche e psicologiche e degli ammazzamenti all'ingrosso della lirica. Gente che muore di sete alle foci del Mississipi. Opere liriche in cui tutti i protagonisti muoiono, ma solo dopo essersi traditi vicendevolmente. E poi la Butterfly, maledizione! Se c'è un'opera lirica che sintetizza in tutto e per tutto lo spirito lovecraftiano, deve essere assolutamente la Butterfly: le antiche tradizioni, l'oriente misterioso, il pericolo dei rapporti sessuali fra razze diverse, il finale di morte. Che poi, diciamocelo, è anche possibile che una donna giapponese commetta


seppuku scoprendosi tradita da un gaijin fedifrago – ma al seppuku di indignazione, farebbe seguito una vendetta trasversale da far impallidire Chushingura... Click! Perché non provare a scrivere una versione horror della Butterfly?, mi dissi.

Il resto fu abbastanza semplice. L'orrore della contaminazione, la vendetta della donna tradita, il disprezzo per i gaijin... ci misi tutto. E poi un bel po' dei miei soliti giochini – che pochi colsero, e probabilmente meno ancora coglieranno oggi, dopo quindici anni, poiché certi elementi che all'epoca mi parevano ubiqui e universalmente noti, oggi sono diventati memorie futili di una sottocultura morente. Non che sia importante, ma ora che ci penso è molto lovecraftiano e mi fornisce una buona idea per una storia che potrei anche scrivere un giorno o l'altro. Per il giapponese mi feci dare una mano da mio fratello – e sì, lo so, c'è un errore nel giapponese, ma è voluto, ed è mia responsabilità.

Quindici anni. Quanto tempo...

Questa storia venne scritta una quindicina di anni or sono, in inglese, e col titolo di A Whisp of Smoke, Rising, venne prima distribuita come testo grezzo sulla mailing list del gruppo Delta Green e poi, convertita in pdf, rilasciata come ebook gratuito su un sito ormai morto e sepolto. Già, me ne rendo conto solo ora, scrivendo queste righe, ma io quindici anni fa


pubblicavo ebook gratuiti. Che strano. sarà che all'epoca la grande diatriba cartaceo/elettronico non esisteva, e quindi distribuire una storia in pdf via web era... boh, una cosa normale, no? Quella prima versione del racconto era leggermente diversa - soprattutto perché usava Delta Green come cornice. Da cui il sottotitolo - A Story of the Cowboy Years.

Qualche anno dopo, quando la CoopStudi di Torino decise di produrre il primo, arrischiatissimo e sperimentale volume di Alia, questa storia mi parve la migliore del mio catalogo, e fui ben felice di regalarla ai miei amici e complici. Per quell'edizione, per ovvi motivi di copyright, tutti i riferimenti a Delta Green vennero rimossi - non un gran cambiamento, in effetti, in quanto fu sufficiente rimuovere due paragrafi e cambiarne un terzo. Ne approfittai anche per dare una ripulita minima al testo. La storia uscì col titolo di Un Fil di Fumo - Una Storia di Cowboy. Fatto che causò la perplessità ed il disorientamento di alcuni lettori - che si lamentarono del fatto che di cowboy, nel film, non ce ne sia la minima traccia. In compenso la storia piacque - l'amico Vittorio Catani ne parlò benissimo, Danilo Arona ne disse molto bene, e ricevetti un feedback ampiamente positivo. Non c'era naturalmente, all'epoca (parliamo del 2003?), una fiera compagine di esperti online pronti a crivellare il mio racconto di colpi – certe cose accadono solo oggi, ed ho aspettative molto alte in questo senso. Ci fu chi lodò il fatto che la mia storia fosse molto "giapponese" – e ci fu immediatamente chi si fece un punto d'onore di far notare che la mia storia con la narrativa orrifica giapponese non c'entrava nulla. Né d'altra parte io mi proponevo di scrivere una storia giapponese, o di rifarmi allo stile di questo o quell'autore giapponese.


Né avevo l'intenzione di cavalcare l'onda del successo di certi film al fine di spacciare al pubblico i miei lavori. Certe cose le lascio ai professionisti.

E così arriviamo a questa nuova versione – perché naturalmente non ho resistito alla tentazione di dare un'ultima ripulita al testo, andando a metter mano a quei dettagli sciocchi che, già nel 2003, avrei dovuto sistemare. In più c'è questa postfazione/making of, che riprende la postfazione che accompagnava l'originale pdf in inglese, ampliandolo. La pubblico il 29 di maggio del 2012, in occasione del mio quarantacinquesimo compleanno – un regalo da me stesso quand'ero un trentenne. Non ho più in corpo neanche una cellula di quella persona che era quindici anni or sono, ma condividiamo ancora le stesse storie.

E così, txt, pdf, cartaceo, ed ora epub e pdf di nuovo. Quindici anni. Regge ancora, la mia storia di cowboy? Questo tocca ai lettori deciderlo, naturalmente. A me non pare malaccio ma capirete, io sono abbastanza di parte.

Davide Mana Asti 27 Maggio 2012


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