COMPLICITY WITH THE GROUND

COMPLICITY WITH THE GROUND_miscellanea

COMPLICITY WITH THE GROUND-miscellanea- é un progetto di ricerca personale, organizzato sull’interazione di immagini e testi le cui fonti sono varie e multidisciplinari: oggetti fotografati, trovati, ritagliati, citazioni, manifesti, contributi autorizzati e non, nozioni scientifico-biologiche, analisi di architettura e antropo-geografiche, depositi/sotto-prodotti del ‘sapere’ contemporaneo.

Un assemblaggio analitico che si fonde in un amalgama di interrogativi sul significato e sull’idea contemporanea di natura.

La lettura di questi oggetti non é univoca o consequenziale; si articola piuttosto sulla giustapposizione dei significati, sui cortocircuiti concettuali che immagini adiacenti o argomenti anteposti alle citazioni possono provocare.

La forma stonata e incerta di Complicity With the Ground rimanda al suo contenuto: il rapporto conflittuale psicotico -nevrotico tra uomo-piante e uomo-animali nella civiltà occidentale.

L’uomo contemporaneo é qui identificato con il suo ambiente-prodotto, la città.

E se al cuore di questo paradigma urbano giace l’idea forse utopica di zoopolis,- di una città in cui esseri umani e non coesistono per il reciproco beneficio- le basi intorno alle quali si articola il discorso non sono illusorie o teoretiche, ma fatti di cronaca, dati tecnici, statistici, scientifici o pseudo–scientifici. Solo attraverso la loro decontestualizzazione il loro rapportarsi ad ambiti di studio allargati quale l’arte, la fotografia, il cinema -punti di vista soggettivi e personali– anch’essi traspireranno il simbolismo di cui la nostra cultura (e stile di vita) é permeata; in questa reazione indotta saranno quindi funzionali all’indagine del rapporto civiltà-natura a cui miro.

L’approccio alla materia che questa tesi maneggia non é di tipo intellettuale ma ‘parassitario’ una sorta di interessamento de-culturalizzato, colgo l’ambito, l’ambiente, la materia, le etichette di prodotti pesticida e le immagini dei manuali di biologia o di giardinaggio i disegni anatomici di insetti, ma sono esule dal contesto specifico da cui questo repertorio iconografico proviene, mi trovo, di fronte a questo immaginario, in uno stato di desiderio, di fascinazione profana.

Leggo in questi codici e simboli i miti della cultura che li produce, fraternizzo con loro ma senza crederci completamente. é su questi piccoli frammenti pescati dal grande cesto dell’immaginario comune (contemporaneo e non) che cade costantemente la mia attenzione. In questa estraniazione partecipe, in questo attaccamento diffidente, tento una ‘analisi della materia alla rovescia’ che arriva alla conoscenza prima di tutto -in un modo assolutamente extra accademico e anticonvenzionale- attraverso una serie di scelte estetiche.

Lo sviluppo di questo elaborato segue infatti anche un percorso fotografico-iconografico di documentazione del reale che ho eseguito negli ultimi mesi e che esemplificano la fascinazione di cui parlo e, nello specifico del dato reale, le manifestazioni spontanee residue o artificiali di ‘natura’ nella la città.

Si visualizzeranno cosi i ‘derivati’ di una cultura che, assecondata da una visione antropocentrica -dove la natura é intesa come oggetto inanimato, una ‘guarnizione’ che può essere presa, venduta e comprata sul mercato- continua nell’appropriazione degli ecosistemi e nell’eliminazione degli habitat degli esseri non umani.

Il paesaggio naturale si dissolve nel paesaggio economico-simbolico e questo mio intervento ha come fine ultimo quello di intaccare e minare le barriere culturali che conferiscono al senso comune di natura questo aspetto monolitico, uniforme, istituzionale.

Complicity With the Ground parla del legame presente, lontano, inesistente o latente tra gli abitanti e il loro territorio e dell’inarrestabile processo di simbolizazione che l’essere umano adotta per comprendere l’incomprensibile, controllare l’incontrollabile e descrivere l’indescrivibile che lo circonda.

I riferimenti alle tecniche e alle pratiche che gli umani adottano quotidianamente e quasi inconsciamente, per controllare il selvatico (in particolare, animali, insetti, parassiti, vegetazione spontanea e disastri naturali), dimostreranno però una verità univoca, inebriante: l’impossibilità del dominio assoluto.

-����������������������������������������������������������� Domesticating: i riferimenti alle tecniche e alle pratiche umane per il controllo del selvatico. Disturbo e dilemma.

PAG.4

-War on Weeds. L’impossibilità di dominio assoluto.

PAG.18

-Urban Nature: Los Angeles caso limite-esemplificativo. Alcuni effetti: I casi di animali urbani, estinti, in via d’estinzione, cacciati, o civilizzati. I “disastri naturali” nella città.

PAG.26 -Notes on wilderness. Il concetto di selvaggio: elaborazione-rifugio dal mondo civilizzato.

Ipotesi indotte.

PAG.42

-Points of view: alcuni abitanti del territorio urbano si esprimono.

Punti di vista e interpretazioni sul tema del rapporto natura-cultura.

PAG.50

Deanna Erdmann PAG.54 / Phel Steinmenez PAG.58 / Lorenzo Casali PAG.66 Louis Hock PAG.68 /Alex Bombardieri PAG.72 Francesca Cogni e Pietro LembiPAG 74 Byron Villacres PAG.76 / Nora Bertolotti e Stefano Massimello PAG. 78 Felipe Zuniga PAG.82 / Chiara Rippa PAG.84 Alan Lechuza PAG.88

DOMESTICATING

Il rapporto della città con la sua natura influenza la vita quotidiana degli abitanti e continua a modellare la forma di intere regioni oltre a determinarne quella futura. Nella maggior parte delle analisi urbane e di conseguenza nel vissuto dei cittadini –o vice versa- l’idea di natura é però limitata agli ambienti direttamente collegati a spazi ricreativi pubblici (aria urbana, canali, parchi, giardini, coltivazioni).

La natura é vista come un contenitore statico, trattata come un monolite, piuttosto che come elemento onnipresente, dinamico, attivo, soggetto a disturbo.

La profusione di animali, piante, rocce e acqua corrente, é per la maggior parte dei casi elemento di disturbo sul quale l’uomo

Immagine da “Common sense, pest control” di William Olkowski

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esercita le sue tecniche di controllo.

La differenza sostanziale tra gli organismi vegetali e animali é che questi ultimi hanno il potere della locomozione che permette loro di raccogliere nutrimento da uno spazio più ampio, ma in addizione alla capacità di movimento, l’animale uomo ha la capacità di distorcere e adattare l’ambiente ai suoi bisogni e necessità. In breve, la comunità umana é contraddistinta da due caratteristiche dominanti, una di mobilità sconfinata ed estrema e l’altra di determinazione; entrambe si traducono nel potere di selezione dell’habitat e nella capacità di esercitare controllo o modificare le condizioni iniziali.

La capacità tutta umana di modificare il paesaggio vivente in un trend regolato dai suoi interessi immediati, ha sviluppato in molti l’idea che l’uomo possa essere esonerato dalle leggi biologiche che governano la sua stessa esistenza e quella di altri due milioni di specie di piante e animali.

L’uomo é stato definito una Dominante ecologica -creatura capace di modellare secondo la sua volontà l’ambiente, da cui però resta comunque indipendente.

come dominante ecologica ma anche l ’esistenza di un universo parallelo di abitanti, la loro vicinanza all’uomo e la loro persistenza alla convivenza.

In generale, le cause per l’uso di pesticidi sono universalmente conosciute ed accettate. é chiaro come per esempio il successo nel controllo delle specie specifiche insieme ad altre applicazioni tecnologiche abbiano cambiato l’aspetto delle foreste, dei campi delle coltivazioni e della vita quotidiana in generale.

Si potrebbe affermare con tutta sicurezza che la crescita della quantità di coltivazioni, di cui i pesticidi sono i principali fautori, é aumentata a dismisura nel corso degli ultimi decenni.

Gli sforzi che gli uomini hanno compiuto per debellare le malerbe o gli insetti ‘dannosi’ hanno aumentato sensibilmente i profitti economici derivati dallo sfruttamento del territorio .

Le giurisdizioni politiche locali hanno di conseguenza appoggiato le campagne e le lotte di disinfestazione.

“ La specie umana non segue le regole di assegnazione a un bioma potenzialmente favorevole (per esempio: una zona climatica temperata).

Varca tutte le zone climatiche.

Il supporto di protesi artificiali (vestiti, case, mezzi di locomozione) aumenta l’ampiezza biologica naturale della specie umana. Permette alla specie umana di coprire il pianeta sotto ogni condizione di vita.”

“Giudico opportuno che le popolazioni di tutte le zone infestate: -Siano bene informate della necessita’ della lotta e della vigile attenzione che il Governo nazionale esercita su tutti i problemi dell’agricolura.

-Si sentano incoraggiate a concorrere alla difesa con senso di fiducia e disciplina, -Vi partecipino sia nelle applicazioni dei mezzi diretti, che quelli indiretti -Si persuadino ove occorre, a decidersi per una rotazione delle colture nelle zone più devastate.

A tale scopo io ritengo necessario che si faccia anche un’intensa propaganda non solo presso gli agricoltori, ma anche nelle scuole elementari, per preparare una eventuale mobilitazione dei Balilla o degli scolari in genere al fine di intensificare la caccia nell’anno del volo”

L’illusione di dominio ecologico può essere illustrata da una moltitudine di esempi di abusi ambientali –suoli depauperati, pratiche di allevamento iper-intensive, terreni lacerati da piante artificialmente alberate, letti fluviali deforestizzati non più in grado di contenere o convergere acqua, ruscelli originariamente puliti e produttivi che diventano scarichi di attività urbane e industriali, la grande minaccia della sperimentazione e pratica nucleare- ma nessuno di questi esempi illustra in maniera più chiara dell’uso di pesticidi chimici – agricoli o domestici- il bisogno umano di addomesticare, civilizzare, frammentare l’integrità del mondo naturale.

Gli strumenti di controllo delle specie specifiche sono oggi in gran parte chimici sintetici.

Questi prodotti chimici (pesticidi e diserbanti) sono designati per uccidere o in qualche modo disabilitare piante e animali competitori che interferiscono con la nostra salute, il nostro confort e soprattutto la produzione di cibo e fibre.

Più di 200 sono le sostanze di base comunemente impiegate in agricoltura le quali a loro volta vengono presentate sul mercato sotto forma di centinaia di formule diverse e sotto svariati nomi commerciali. Questi prodotti sono universalmente ordinati rispettivamente come insetticidi, rodenticidi fungicidi ed erbicidi, a seconda della loro composizione -e predisposto bersaglio.

Molti possono essere considerati biocidi-uccidono cioè le cose viventi in generale.

Oltre all’agricoltura, chimici simili o uguali sono usati in svariati campi: nella difesa della salute pubblica, nelle riserve forestali, negli allevamenti, nella gestione e nel mantenimento di luoghi pubblici, la protezione di terreni privati e ricreativi.

Il largo uso di queste sostanze non solo attesta l’essere umano

In combinazione a fattori naturali quali le siccità, l’erosione e le inondazioni , i diserbanti utilizzati in agricoltura hanno contribuito al problema dell’impoverimento dei terreni agricoli e, di conseguenza, alla cancellazione di habitat ed ecosistemi preesistenti per un numero di piante e animali.

La maggior parte sono ‘non selettivi’, uccidono cioè anche forme di vita non previste dal target e possono estendersi ad aree contigue, la ‘manutenzione’ di terreni o foreste determina la riduzione delle specie originariamente presenti e la

In America per esempio oggi le aree agricole sono pressoché le stesse di quelle utilizzate nel 1910 ma i costi di produzione sono inferiori perche’ soltanto una sola persona su cinque vive e lavora in una fattoria rispetto alle tre su cinque del 1910 dato da ‘The war on weed”

Gilles Clemet in “Manifesto del Terzo paesaggio”

��������������������������������������������������������� Rina Monti, manifesto“La lotta contro i maggiolini”, 1927

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“Las Vegas population doubling time in the greater metropolitan area was under ten years since the early 1970s and the Las Vegas metropolitan area now has a population of over two million people. This rapid population growth led to asignificant urbanization of desert lands into industrial and commercial areas, but, by and large, low-density, singlefamily tract homes . The Nevada Test Site, 65 miles (105 km) Northwest of the city, was founded on January 11, 1951 for the testing of nuclear weapons. The site is composed of approximately 1,350 square miles (3,500 km²) of desert and mountainous terrain. Nuclear testing at the Nevada Test Site began with a one-kiloton of TNT (4 terajoule) bomb dropped on Frenchman Flats on January 27, 1951. The last atmospheric test was conducted on July 17, 1962 and the underground testing of weapons continued until September 23, 1992. The location is known for the highest amount of concentrated nuclear detonated weapons in the U.S. ”

Las Vegas, dall’alto di un grattacielo, Dicembre 2006

http://en.wikipedia.org/wiki/Las_Vegas_metropolitan_area en.

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-INSETTICIDI Dato che la maggior parte dei pesti sono insetti, la classificazione é ampia. Per convenienza, molluschi crostacei e altri artropodi vengono considerati insetti. Per esempio alcuni granchi d’ acqua dolce in Africa Centrale vengono uccisi con l’insetticida DDT perché ospiti intermediari delle mosche nere (black fly) che causano oncocercosi. Il granchio é attaccato perché elemento più sensibile all’interno della catena.

creazione di condizioni favorevoli alla moltiplicazione eccessiva delle poche specie che sanno adattarsi al nuovo ambiente, si riduce così la diversità faunistica –controllo naturale - e si determina instabilità.

-ERBICIDI Gli agenti di controllo delle piante agiscono in diversi modi, ma tutti hanno l’effetto ultimo di uccidere. Gli erbicidi selettivi hanno effetto su un gruppo principale e non sugli altri. In generale gli erbicidi producono morte attraverso un avvelenamento diretto o attraverso l’acceleramento del tasso di crescita. “Morte parziale” risulta quando solamente parti di pianta sono affette.

-ACARICIDI E MITICIDI La maggior parte degli insetticidi non é in grado di uccidere zecche e acari, per questi si utilizzano sostanze specifiche. Negli anni del dopo guerra l’incremento esorbitante di acari nelle zone urbane ha determinato l’uso diffuso di insetticidi. Negli ultimi anni però il controllo degli acari é stato potenziato quasi fino alla completa eliminazione.

-FUNGHICIDI In assoluto il gruppo piante parassite piu distruttivo é il fungus.

Molti sono benefici, ma molti altri sono infestanti. Funghi sono spesso controllati da composti a base di rame o zolfo.

-RODENTICIDI Veleni tossici per tutte le specie mammarie, vengono solitamente usati contro roditori e carnivori. Lo stesso veleno viene anche occasionalmente usato per il controllo degli uccelli.

Rodenticidi sono prodoti chimici ad alta tossicità applicabili ad esche. Recentemente, gli anticoagulanti sono diventati i chimici piu usati nel controllo dei roditori e sono normalmente usati lontano dalle zone abitate.

Etichetta tipo da prodotto insetticida.

Immagine da “Common Sense Pest Control” W. Olkowski

Il mantenimento di una catena alimentare ininterrotta, libera da residui chimici, é essenziale per la salute della maggior parte delle specie animali, ma molte delle sostanze usate per il controllo sono chimicamente stabili, e la loro permanenza nei terreni, acque e tessuti viventi, anche nel corso degli anni, é assicurata.

I prodotti chimici tossici possono essere classificati in base al gruppo di piante o animali verso i quali vengono normalmente diretti o hanno maggior successo di controllo;

I diserbanti e i pesticidi chimici comportano altri effetti collaterali indesiderati quali tossicità ritardata, avvelenamento secondario, trasferimento, accumulo, concentramento lungo le catene alimentari di piante e animali e, in ultimo, effetti mutagenetici e cancerogeni. Ciononostante i favorevoli all’uso dei chimici tendono a sottovalutare l’importanza di queste conseguenze biologiche, manca ancora una deontologia a presidio delle applicazioni tecnologiche atte a soddisfare i desideri e i bisogni umani. L’uso dei prodotti chimici é troppo superficiale se ci si sofferma sui molteplici effetti che producono.

La difesa delle colture si puo’ affidare a tecniche ecologiche quali l’uso di specie e varietà resistenti alle malattie e la salvaguardia delle specie animali predatrici utili a tenere sotto controllo le popolazioni di insetti dannosi.

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Gennaio 2006, California, Freeway N5.

Esemplare strumento di controllo, la chimica presiede le regole di gestione quotidiana del rapporto uomo-natura.

A lato della strada immensi terreni agricoli chimicamente fertilizzati e controllati. L’odore impregnante e’ quasi visibile.

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La prevenzione contro l’accesso di specie animali o vegetali, ritenute dannose per le coltivazioni o le zone abitate, é normalmente effettuata con strumenti fisici quali la trinciatura, reti e sbarramenti intorno ai campi per intrappolare scarafaggi, pannelli riflettenti per allontanare i roditori o i ‘dissuasori d’appoggio’ posti sui cornicioni di palazzi per i volatili di città.

“Shall we take the path to achieve a state of harmony between man and land –a recognition of the concomitant place of man in living sistems? Or shall the path be toward the seeming dominance that chemically maintained, ecological simplification promises?”

Con l’abbandono del nomadismo in favore dell’agricoltura e della proprietà privata, l’uomo ha optato per il ‘progresso tecnologico’ qui la la manipolazione genetica lo sfruttamento illimitato delle risorse naturali sono protagoniste indiscusse.

Zerzan spiega in maniera efficace come l’agricoltura, oltre a segnare l’inizio di questo ‘progresso’, abbia determinato la nascita del simbolo natura.

Nella oggettificazione del mondo non umano si schiudono elaborazioni mentali, immagini concetti che indicano e reificano la divisione di un universo.

“The word culture derives from the latin word cultura, referrring to cultivation of the soil; that is, to the domestication of plants and animals- and of ourselves in the bargain. A rastless spirit of innovation and anxiety has largely been with us ever since, as continually changing symbolic modes seek to fix what we cannot be redressed without rejecting the symbolic and its estranged world”

Immagine da “Common Sense Pest Control” W. Olkowski

Un esempio invece di controllo indiretto delle specie sono gli attraenti chimici: esche di cibo o intensi aromi che attraggono l’animale per causarne distruzione. Un altro esempio é rappresentato da profumi sessuali o all’urina utilizzati in concomitanza di trappole meccaniche o elettriche.

Infine gli ormoni erbicida, che accelerano il processo di crescita delle piante e fino a determinarne la morte.

Gli effetti diretti sulle specie infestanti possono essere di due tipi: riduzione del numero e prevenzione di accesso.

La riduzione numerica é in genere l’obiettivo principale dei pesticidi. Lo sradicamento e lo sterminio sono concepiti come soluzione finale.

In questa lotta -tra esseri umani e non per il dominio del territorio- ogni soluzione, da quella più semplice a quella più tecnologicamente avanzata, é una forzatura, un attacco alla naturalità un’ invasione che presume supremazia.

In questo modo l’essere umano, di per sé non in grado di capire a fondo le dinamiche degli ambienti ecologici, li altera di continuo, precludendo cosi ogni possibilità di conoscenza in assoluto.

La comparsa di nuovi tipi di pesticida e le conseguenze procurate da quelli gia in uso ha, infatti, sorpassato i limiti investigabili.

Il dilemma e’ una scelta di direzione.

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La natura addomesticata. Foto di un terreno agricolo, sullo sfondo abitazioni villette monofamigliari. Paesaggio tipico della provincia milanese.

Robecchetto c/I, Gennaio 2008

Aldo Leopold, 1949. Cit. in “Pesticides and the Living Landscape” di Robert L. Rudd ������������������ John ������������������������������������� Zerzan in “Running on Emptiness”

Le parole di John Zerzan, estremista nel pensiero anti-civilizzazione infiammano gli animi : la società come noi la conosciamo nel mondo industrializzato é patologica, l’impulso ‘civilizzante’ di certi gruppi dominanti é in effetti da colpevolizzare.

Tutte le tecnologie successive alle tecniche di caccia e raccolta dell’ età della pietra sono sostanzialmente dannose per le relazioni sociali e determinano la fase di disastro ecologico che ora é portata avanti dal sistema tecno-industriale.

Le tendenze nel comunicare attraverso atti di rappresentazione simbolica hanno ostruito l’abilità umana di esperire socialmente, questo ci ha alienato dal resto del mondo naturale.

Dall’inizio del diciassettesimo secolo ai giorni nostri i conquistatori di ‘nuove terre’, aiutati da una dottrina cristiana di redenzione, dalla scienza, dalla tecnologia e dal capitalismo, hanno perseguito il sogno di trasformare la terra in un grande immenso giardino ordinato e coltivato. Lo spirito dell’uomo é stato incoraggiato allo sfruttamento della natura attraverso storie e simboli ricorrenti che ne auspicavano il dominio o il mantenimento-cura: il lavoro avrebbe assolto le anime di uomini e donne mentre la coltivazione, l’allevamento e l’addomesticamento avrebbe liberato la terra da tutto ciò che era selvaggio.

“When we remove ourselves from the direct experience of sensual world trough reification, time and language, we became less stimulated by our senses. As we immerse ourselves in the world of objectification and abstraction, we see the triumph of the symbols for reality over the reality of experience itself.”

Dagli albori dell’agricoltura ai giorni nostri un simbolo ricorrente é stato quello del giardino, e in particolare, se ci si vuole allacciare ad un’immagine veramente comune, quello dell’Eden.

Il giardino dell’Eden viene descritto nel libro della Genesi ma l’immagine originariamente biblica ha assunto varie sembianaze nel corso della storia sia nella letteratura (da Dante a Milton) che nella pittura.

Qui a confronto due Eden, uno del 1526, di Lucas Cranach, e una versione piu’ “contemporanea” trovata all’interno di una chiesa cattolica californiana .

Autore sconosciutto.

“Certain places exist only through the words that evoke them, and , in this sense they are non places , or rather, imaginary places: banal utopias, cliches”

John Zerzan “Running on Emptiness” Mark Auge, “Non places. Introduction to an anthropology of supermodernity”

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Beautiful fake flower on a grave recalls the idea of edenic nature.

Julian, CA, May 2007.

Non addomesticabili e abitanti incontrastati dell’oscurità del sottosuolo, gli insetti sono gli esclusi storici della natura edenica. (Le loro fattezze complesse, estrose e insolite, li hanno resi a tratti ripugnanti o demoniaci.) Ma nella realtà l’uomo, specie animale più diffusa e più invadente della terra, ha di continuo occasione di rapporti di convivenza, di concorrenza, spesso di conflitto con i loro rappresentanti. Di fatti questi esseri non umani sono largamente e profondamente diffusi nel territorio abitato, sono pochi gli ambienti dove non ci siano queste piccole presenze. Sono organismi semplici ma molto potenti se paragonati alle loro dimensioni, il loro aspetto sociale ed organizzativo e’ impeccabile.

Ciò invita e spesso sembra costringere l’essere umano a escogitare metodi di controllo specifici.

“Sono mirabili per l’ insuperabile eleganza della forma, per la grazia della movenza, per la vivacità e l’armonia dei colori di che si ornano, e dagli splendori metallici di che brillano, per le innumerevoli varietà con cui si presentano e per i singolari istinti.

Essi hanno una precisa conoscenza di se’, perché tutti costoro, quando sono larve, cioè tozzi, mal fatti, lenti, collo stigma del verme ancora impresso, sono anche mogi, balordi, torpidi, quasi consci del loro basso stato e rifuggono il grande occhio del sole.

Ma, più tardi, adulti, hanno tutt’altro ardimento.

Sentono precisa coscienza delle attrattive della loro magnifica veste, i maschi di molte specie, spesso molto più ornati per sculture, appendici varie e vistose, tinte e splendori delle rispettive femmine ed e’ col corredo di tutte queste lusinghe che ne invocano l’amore. Il grande numero di specie, il loro adattamento agli ambienti più vari, le singole diversità di abitudini, di forme, di colori ecc., in seno ai medesimi gruppi, dimostrano, negli insetti una straordinaria plasticità del loro organismo e questa congiunta a cio’ che chiamerei una ‘vis formativa’ per vero esuberante , moltiplica la specie le varietà e le condizioni di adattamento, le più disparate.

Con questi istinti variati, singolari, mirabiDDT immagine da Un uovo di Sternia Caspia, l’inquinamento di DDT ne ha debilitato il guscio. Di fianco, un manifesto pubblicizza la messa in commercio del DDT. Nel 1970 i danni procurati agli organismi e habitat selvatici determinarono la cessazione dell’uso di DDT soprattutto nei paesi piu’ industrializzati. In molti altri viene invece ancora usato.

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li, con cui ciascuna specie provvede a se’ nel miglior modo, ingannano gli insetti colle maniere di vita di gran parte degli altri organismi, ne profittano o le ostaggiano con molta sagacia e fortuna, con avvedutezze infinite e si creano la propria nicchia in seno alla vita comune. E tutti questi semoventi ne circondano e si intricano anche sulla nostra via, direttamente o indirettamente, con tale molteplicità di forme, di attitudini di mosse; con tale sfolgorio di vitalità e di sembianze, in tal numero e con tale esuberanza di energia, che la nostra stessa specie, al paragone si impicciolisce, in modo desolante nel concetto del filosofo naturale. Gli insetti hanno cosi’ larga fonte di energia specifica da non temere confronti nemmeno con la specie umana, che pure trova nelle sue alte facoltà mentali e nella associazione un cosi’ valido aiuto alla sua conservazione e diffusione.

Il paragone e` spesso a vantaggio degli insetti, particolarmente quelli sociali.

Sono povere le nostre città in confronto di quelle di taluni insetti, per cui ve ne hanno di cosi’ popolate che d’uomini non lo e’ altrettanto la Cina intera. Sono poveri i nostri mezzi di diffusione difronte ad ostacoli difficilmente superabili, quando essi volano liberamente e gagliardamente da secoli attraverso gli spazi e noi solo di recente abbiamo saputo (e molto male tuttavia) svincolarci da quella non bella forma di parassitismo per cui chiediamo ad altri esseri i mezzi di locomozione per nostro uso; quando noi raddoppiamo, teoricamente, di numero, in venticinque anni e questi piccoli conquistatori aumentano da uno ad un milione nel breve giro di un anno.

Son men che nulla i nostri eserciti quando alcune specie di insetti si presentano a miliardi per discacciare dinnanzi a se` tutto quanto vi ha di organizzato ed i nostri piu` insegni e venerati ammazzatori d’uomini non hanno mai saputo praticare cosi` efficacemente il loro glorioso mestiere di concorrenza come questi insettucoli sanno fare contr gli esseri d’altra specie.

Ne` le nostre repubbliche, anche ideali, sono cosi` provvidamente costituite come quelle degli insetti sociali, dove il capo e’ il solo e veramente necessario, dove la divisione del lavoro e` assoluta e gli operai fabbricati espressamente al loro ufficio.

Ne` le nostre armi, ne` astuzie, ne` gli artifici di adornamento per cui ci pare di

aggiungere attrattive alla nostra forma, ne`i nostri sensi, anche col soccorso di speciali strumenti, possono rivaleggiare con quanto di corrispondente dona agli insetti la creazione.

Potremo noi sostenere la lotta contro questo concorrenti cosi` formidabili!

Noi non saremmo ne` ora ne` mai esistiti se gli insetti non trovassero in seno al loro proprio gruppo, specie contro specie, il freno piu’ efficace alla incommensurabile invadenza di ciascuno di loro.

Tutto cio` e` degnissimo argomento di studio per la specie che, forse a ragione, certo con poca modestia qualifica se’ stessa per ‘sapiente.”10 Isabella Blow, “[...] the idiosyncratic British fashion stylist known for her garish hats and red lipstick, killed herself by taking 20 times the fatal dose of Paraquat weedkiller on May 6, 2007. The 48-yearold had previously tried to take her own life at least three times before — by jumping off a bridge, ramming her car into a lorry and overdosing on tablets, her sister, Lavinia Verney, told the hearing.”

Foto ritratto e citazione dal http://women.timesonline.co.uk Sotto, in transparenza, un gruppo di mosche: da millenni ormai convivono negli stessi ambienti dell’uomo, demonizzate e fastidiosissime sono tra i più comuni insetti urbani.

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Antonio Berlese, prefazione a “Gli insetti. Loro organizzazione,

sviluppo, abitudini e rapporti con l’uomo”

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In ogni interpreatazione, in ogni suggestione, sia che lo dipingano come un micro cosmo demoniaco o incantevole, il mondo non umano degli insetti é sempre adiacente, limitrofe, ancora una volta, altro e altrove.

Il video “Safari” é uno scorcio non convenzionale che indaga curioso le dinamiche fra un gruppo di insetti. La videocamera sorveglia il regno animale dal punto di vista di una blatta. Navigando attraverso un lussuoso set verde appositamente costruito filma una varietà di insetti, anfibi e rettili che assumono proporzioni gigantesche. Questa illusione di grandi dimensioni, specialmente quando i due scarafaggi-rinoceronte si scontrano in un aggressivo combattimento, puo evocare i B-movies americani dell’era della Guerra Fredda.

Il giornalista australiano Frank Crook elabora una critica dettagliata al genere ‘zoofobico”e fantastico:

“California is under attack by terrorists, six legged ones: glassywinged sharpshooters, which are leaf-hoping insects that are among the state’s most insidious agricultural pests” […] “they should be held accountable” 11

“[...] as hort overlook at the tradition of scores of movies about animals and insects that turn on people. Many early efforts were locked in their B-film origins: Attack Of The Crab Monsters, Attack Of The Giant Leeches, Killer Bees, Empire Of The Ants and The Swarm.

The modern cinema has produced a handful of classics, such as Moby Dick, Alfred Hitchcock’s The Birds and Jaws, the film that sealed Steven Spielberg’s reputation as one of Hollywood’s brightest new directors.

Among them are lesser efforts such as Anaconda, in which a giant snake eats most of the cast; Lake Placid, inhabited by a giant alligator; and Cujo, the tale of a rabid Saint Bernard dog.

The grandfather of all animal-attack films was King Kong, produced in 1933 and remade in 1976 and 2005. King Kong was taken from an original story by Edgar Wallace and written for the screen by Merian C. Cooper.

The black-and-white original was known for its pioneering special effects, using stop-motion models and animatronics.

The final scene, with the giant ape holding the heroine in the palm of its hand while clinging to the newly-erected Empire State Building, remains one of the screen’s great images. In April 1961, Alfred Hitchcock read a story in the Santa Cruz Sentinel in California about birds exhibitng strange and aggressive behaviour. It- led him to a story by Daphne du Maurier about birds massing together to attack a seaside village. Hitchcock shot “The Birds” in 1963, starring Tippi Hedren and Australian Rod Taylor.

Working with birds was no easy matter.

Hedren was originally told only mechani-

Due visioni si contrappongono: chi pensa e vede gli insetti come dei terroristi che minacciano la salute e le attività umane, chi invece ne avvalora la tenacia l’organizzazione e la complessità di fattura. Questa commistione di sensazioni si manifesta nell’immaginario umano: gli insetti non a caso venivano usati nei b-movies per rappresentare mostri o dinosauri che piccoli uomini super eroi dovevano combattere.

Sopra uno Still dal video “Safari” Catherine Chalmers, 2006. Più in basso locandina di “Them!”del 1954 uno dei primi film di mostri nucleari. Insceneggiava una battaglia tra uomini e formiche ingigantite otremisura a causa di ripetuti test nucleari.

Negli anni 50’e per tutto il periodo di Guerra Fredda l’ esercito americano si esercitava infatti nei territori desertici; habitat principali di questi insetti.

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Articolo apparso sul Sunday’s Chronical, “Biggest pests of all-

agricultural biotech opponents‘ cit. in “Endgame” di Derrick Jensen.

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cal birds would be used. But live birds were hurled at her for a week by studio prop men.

One nearly gouged one of her eyes and she collapsed, unable to continue filming for a week.

In the scene near the end of the film when she is ravaged by birds, the attacking birds were attached to her clothes by long nylon threads.

It was a long and terrifying shoot but worth it in the end.

The Birds was one of Hitchcock’s biggest hits.

Jaws, made in 1975, started the wave of killer-animal films of the late 1970s.

It was credited as one of the first films to use traditional B-grade elements — horror and gore — in a big-budget film.

The film was inspired by both Peter Benchley’s novel and a real-life spate of shark attacks on the Jersey Shore, which cost four lives in 1916.

Three mechanical sharks — all dubbed Bruce after director Steven Spielberg’s lawyer — were used in the filming, designed by production designer Joe Alves and special effects artist Bob Mattey.

Jaws, starring Roy Scheider, Richard Dreyfuss and Robert Shaw, was shot at Martha’s Vineyard in Massachusetts. Each of the Bruces was prone to malfunction, which actually helped the film, as Spielberg was forced to shoot scenes with the presence of the great white shark only hinted at.

This helped build suspense, along with a throbbing musical score by John Williams.

Jaws turned out to be the father of the summer blockbuster, leading to three sequels, Jaws 2 (1978), Jaws 3-D (1983) and Jaws: The Revenge (1987).

Spielberg had no connection with the sequels.

The film Piranha (1978) directed by Joe Dante, was a send-up of the genre. Films featuring homicidal wildlife had their origins in the science-fiction films rolled out in Hollywood in the 1950s, when the Cold War was a fact of life and the threat of communism ever present. Them! made in 1954 was an early example.

Japan had discovered the nuclear thriller about the same time. Godzilla, first seen on the screen in 1954, was spun off into a series of 28 films starring the giant dinosaur, transformed because of fall-out from hydrogen-bomb tests.

Godzilla was released in the US in 1956, with new footage for the American market, featuring Raymond Burr.

Attack Of The Giant Leeches (1959) also played on symbolism. The story concerned a colony of human-size, intelligent leeches in the Florida Everglades, which preyed on their victims from their underground nest.

The leeches were seen as a deadly threat to the

human race as anti-communist hysteria peaked. But it didn’t help when the giant leeches were obviously actors dressed in rubber suits.

Moby Dick, filmed in 1956 and based on the classic novel by Herman Melville, pitted a demented sea captain against a great white whale. It could have been a forerunner to Jaws, filmed nearly 20 years later.

Many of the villains in killer animal films were tragic figures misunderstood by humans. Others were victims of experiments gone horribly wrong. But most were just nasty and hungry.

Bug featured killer cockroaches; Squirm was about flesh-eating earthworms; The Swarm starred killer bees.

Crabs grew to an enormous size because of nuclear radiation in Roger Corman’s Attack Of The Crab Monsters (1957). Genetically-mutated giant rabbits terrorised a farmer played by Rory Calhoun in Night Of The Lepus. The film, all but forgotten today, has the line: “Attention! Attention!

Ladies and gentlemen, attention! There is a herd of killer rabbits headed this way and we desperately need your help.”Australia got into the act in 1983 with Razorback, the saga of a giant pig terrorising the Outback.

Directed by Russell Mulcahy, it starred the American actor Gregory Harrison with a solid Australian supporting cast, including Bill Kerr, Chris Haywood, Judy Morris and Arkie Whitely.

A full-sized animatronic model razorback cost the producers $250,000 and was seen on the screen for only a matter of seconds.

Giant Spiders. Practically every creature used in animal killer films appeals to our most basic instincts. Fear of spiders is exposed in Arachnophobia; rats brought about similar emotions in Willard, the 1971 story of a boy who sets his pet rats loose on his tormenters.

The film spawned a sequel and a recent remake.

There was also The Deadly Mantis, while a young Joan Collins was tormented by another nest of giant ants in Empire Of The Ants. Man’s best friend turned killer in Cujo and The Hound Of The Baskervilles, the Sherlock Homes adventure filmed in 1939 and again in 1959.

So Black Sheep is in good company .A good scare never did any harm at the box office”12 .

12 “Beastly old ways to scare your socks off” by Frank Crook, August 13, 2007, Australian News, cit in www.cryptomundo.com.

17

THE WAR ON WEEDS

nuovi territori.

Le odiose malerbe sono oggi esperte ‘ocean crossers’, perché non hanno risparmiato neanche le zavorre di navi e le stive di aerei per compiere i propri spostamenti.

Le città portuali e commerciali sono state le locations iniziali di quelle malerbe che oggi godono una fama internazionale, crescono rigogliose in diverse città e spesso in maniera incontrastata; le aree abbandonate o trascurate sono colonizzate da specie altamente competitive che sono in grado di adattarsi a condizioni di disturbo create dall’uomo, le piante endemiche diminuiscono perché non adattabili.

La formazione vegetale ha subito quindi nel corso della storia dell’uomo una forte specializzazione e riduzione e segue ancora oggi un calo che é direttamente proporzionale all’espansione urbana.

Le piante esotiche e infestanti sono un prodotto della nostra cultura, compagne del nostro stile di vita, un tema ricorrente.

L’interazione tra uomo e piante così dette “non desiderate’ non é però facile da analizzare.

L’ idea che le malerbe, le erbacce, le piante infestanti, siano nemici dell’uomo é una visione da secoli professata ma é un’ opinione assume e ha assunto, diversi aspetti nel corso del tempo: l’analisi di questo rapporto dovrebbe considerare fattori di tipo geografico, storico, biologico, sociologico, cognitivo: in pratica l’insieme degli elementi che contribuiscono a formare ciò che, in assenza di termini più adatti, si può chiamare cultura.

I botanici e gli studiosi di tassonomia hanno poco insistito sulla ricerca del significato della parola malerba consapevoli della pluralità di specie che il termine ‘weedy’15 descrive.

“Weeds are plants which interfere with the growth of crops, zower the profits of farming or mar the apperance of the landscape. In a sense farming is a continual warfare against these intruders, the contending forces being man and crops on the one side and weeds on the other, with nature a neutral onelooker, but one ever ready to lend her aid to the side showing the greatest persistence.”13 Per comprendere le dinamiche che intercorrono tra l’uomo e tutti gli altri elementi ‘naturali’, basterebbe a titolo esemplificativo osservare gli effetti del controllo su alcune piante specifiche. Nonostante l’ accanimento umano a sconfiggere le cosiddette ‘malerbe’, che crescono abbondanti in aree abbandonate e desertiche ma anche lungo i cigli stradali delle città, raramente esistono pascoli, campi e giardini completamente liberi dalla loro presenza.

Le malerbe, in breve, forniscono un esempio evidente di quello che sembra essere l’abilità della natura a prosperare e sopravvivere contro l’attività prevaricatrice dell’uomo.

Gran parte di questo successo può essere attribuito alla loro dote naturale: la competitività, il potere riproduttivo e l’adattabilità. é infatti interessante notare come le malerbe siano in grado di assumere dei comportamenti-riflesso, come la nascita di un numero determinato di specie resistenti agli erbicidi o come nel caso del Dandelions (Taraxacum Officinale), di ridurre la lunghezza dei propri steli in risposta a ripetitive mietiture.

La caratteristica più distintiva delle piante considerate malerbe é l’ abilità a tollerare molteplici condizioni ambientali14.

Anche la morfologia dei semi é alla base del loro successo.

Piumati, galleggianti o dotati di aculei, molti sfruttano il vento, l’acqua e i manti animali per la propria diffusione.

Tuttavia, la causa principale della diffusione delle piante infestanti, più che alla combinazione di agenti naturali, é dovuta all’azione dell’uomo.

L’attività agricola, il commercio e i mezzi di trasporto hanno incrementato il loro campo d’azione: abbarbicati agli animali da allevamento e agli attrezzi agricoli, i loro semi, trasportati da carri, vagoni-bestiame e automobili, hanno potuto colonizzare

15 Weed-definizione da dizionario di lingua inglese: “A weed in a general sense is a plant that is considered by the user of the term to be a nuisance, and normally applied to unwanted plants in human-made settings such as gardens, lawns or agricultural areas, but also in parks, woods and other natural areas. More specifically, the term is often used to describe native or nonnative plants that grow and reproduce aggressively. Weeds may be unwanted because they are unsightly, or they limit the growth of other plants by blocking light or using up nutrients from the soil. They also can harbor and spread plant pathogens that can infect and degrade the quality of crop or horticultural plants.

Weeds may be a nuisance because they have thorns or prickles, cause skin irritation when contacted, or parts of the plants might come off and attach to fur or clothes.

Weedy plants generally share similar adaptations that give them advantages and allow them to proliferate in disturbed environments whose soil or natural vegetative cover has been damaged. Naturally occurring disturbed environments include dunes and other windswept areas with shifting soils, alluvial flood plains, river banks and deltas, and areas that are often burned. Since human agricultural practices often mimic these natural environments where weedy species have evolved, weeds have adapted to grow and proliferate in human-disturbed areas such as agricultural fields, lawns, roadsides, and construction sites”.

13 W. Bracken, “Dry Farming in Western Canada”, 1921, cit. in “The war on weeds in the Prairie West” di Clinton L. Evanns 14 Alcune specie sono infatti geneticamente eterogenee, di conseguenza la popolazione ������������������������������������������������������� é morfologicamente, ����������������������������������������������������� fisiologicamente ed ecologicamente molto varia. Questo assicura che alcuni esemplari possano sopravvivere sottostando a specifiche o avverse condizioni ambientali.

Altre specie dipendono meno dalla variabilità genetica e piu dalla “plasticita” ( definita “variabilita’ del fenotipo”): ossia l’abilit��������������������������������� à�������������������������������� di un insieme di piante geneticamente identiche di differenziarsi in dimensione, produzione di semi e habtat a seconda di dove crescono.

19

va e infestante, a causa della sua rapida diffusione e adattabilità, nel diciottesimo secolo non solo era stimata come ingrediente delizioso da aggiungere all’insalata ma era una pianta ‘difficile’ tanto da richiedere particolari cure per poter essere coltivata con successo.

Ancora, intorno alla fine della prima Guerra Mondiale, il British Board of Agricolture, nello sforzo di colmare la carenze di beni di prima necessità, come medicine, foraggio per animali e alimenti per l’uomo, pubblicò un articolo per promuovere l’ uso di piante spontanee, incluse le malerbe. Un altro esempio é il Russian thistle (Salsola Pestifer). Temuta oggi in tutto il Nord America come una delle peggiori malerbe, fu trasformata in

“The term weed comprises a strongly subjective view of a plant or vegetation, which makes it difficult to find an objective and generally valid definition”16 le malerbe sono difficili da collocare all’interno di uno schema logico-biologico poiché i fattori fondamentali per la classificazione di una pianta come elemento di disturbo sono prima di tutto il luogo, il tempo (storico) e le circostanze. Questi esseri sono di conseguenza un anatema per gli scienziati. Molte specie considerate da coltivazione sono diventate per esempio, nel corso dei secoli e con l’aumentare dell’urbanizzazione del territorio, inutili e quindi malerbe.

Sopra: Taraxacum Officinale. Comunissimo in Italia si presenta nei prati, ai margini dei campi e alla base dei muri. Gli acheni, con i loro vistosi pioppi si spargono rapidamente al minimo tocco, vibrazione o soffio di vento, in questo modo hanno diffuso i propri semi, propagandosi dall’Europa e Asia verso altri continenti. Lontano dalle regioni native, in America, Australia e Nuova Zelanda, viene considerata una malerba invasiva.

Di fianco: immagine macroscopica dal web. Semi di Taraxacum officinale.- common dandelion TAOF, Steve Hurst. Provided by ARS Systematic Botany and Mycology Laboratory. China, Muli. Usage Requirements. http://plants.usda.gov/.

In basso a destra: “Removing weeds; pouring on weed killer” dal sito www.dkimages.com.

una pianta indispensabile per la sopravvivenza durante i periodi di carestia.

Sempre il Taraxacum officinale, che cresce spontaneamente tra la vegetazione con i primi caldi di luglio, é molto comune sia nelle zone rurali che in quelle urbane. Considerata oggi invasi16

“The late rains were beneficial in that by furnishing a rank growth of weeds –particularly Russian thistle- they helped out the supply of feed. When the ordinary feed crops are plentiful

W.Holzner ������������������������������������������������������������ cit. in “The ������������������������������������������ war on weeds in the Prairie West: an

environmental history”�

20

Russian thistle is not higly valued, but in years of scarcity it is not to be despised as it has been the means when cut at the proper time and well cured of pulling many a herd through the winter”17 Oggi il rapporto uomo-piante nei territori civilizzati e cementificati si é progressivamente raffinato, la discriminazione delle specie e l’uso di diserbanti o di metodi di controllo si evolve da motivazioni di tipo economico-agricolo a pure esigenze dettate dai gusti estetici comunemente condivisi. Parchi, giardini, riserve, balconi fioriti e piante d’appartamento sono gli insiemi verdi autorizzati.

Nella città gli habitat naturali sono inevitabilmente alterati ma eventi di natura spontanea si manifestano tuttavia si-lenziosi e imperterriti. Il paesaggio urbano, oggetto-prodotto di un’attività umana, presenta infatti un numero di spazi indecisi privi di funzione, difficili quindi da classificare. Questo insieme non appartiene né alla natura né alla città. Si inserisce ai margini, lungo le strade, i marciapiedi i canali, laddove i boschi si sfrangiano, i recessi sono abbandonati dalle coltivazioni, dove le macchine non passano, nelle zone industriali dismesse. Vaste e unitarie, come le torbiere, i cortili e certe aree urbane abbandonate coprono superfici di dimensione modeste, disperse, come gli angoli perduti di un campo. Tra questi frammenti di paesaggio, tra questi “residui” nessuna somiglianza di forma, un solo punto in comune: un territorio di rifugio per la diversità, solo in questi spazi isolati, in assenza di qualsiasi interesse umano si ri-crea una possibilità evolutiva per quegli esseri biologici che compongono il territorio; altrove, ovunque é scacciata.

“I residui riguardano tutti gli spazi abitanti dall’uomo poiché sono dirette conseguenze dell’organizzazione razionale del territorio; la città, l’industria, il turismo, l’agricoltura, la silvicoltura e l’allevamento producono residui. In ambiti rurali i residui occupano i rilievi accidentati, incompatibili con le macchine per lo sfruttamento agricolo, e tutti gli spazi avanzati dall’organizzazione del territorio. In città i residui sono rappresentati da tutti quei terreni in attesa di una destinazione o dell’esecuzione di progetti sospesi per ragioni finanziarie o di decisione politica. Gli sfasamenti temporali, spesso lunghi, permettono alle aree urbane abbandonate di coprirsi di un manto boschivo.”20 In rapporto alle osservazioni di Gilles Clement e ai dati raccolti sul comportamento-riflesso di alcuni esseri non umani diventa quasi inevitabile pensare alle grandi metropoli mondiali come a degli ‘erbari rarefatti’. Questi tesori cittadini sono richiami alla memoria del territorio, alle storie degli uomini che lo hanno abitato, sono un insieme variabile di reperti caduchi che ritornano instancabili non tanto a delineare un mondo vegetale a sé stante, quanto piuttosto a descrivere la civiltà che li ha così tanto determinati.

“They appear with amazing regularity in your lawn and garden. They mar the appearance of your herbaceous borders and seem to positively delight in pushing through driveways, squeezing between patio slabs, and twisting their way through the wire of chain-link fences. Weeds are time-consuming nuisance when you assault them by hand; they can cost a small fortune if you prefer to wage chemical warfare. Weeds are diverse, weeds”18 are persistent, weeds are unavoidable”19

�������������������������������������������������������������������������������������������� The district agriculturist for Medicine Hat, 1924, cit.in “The ������������ war on weeds in the Prairie West: an environmental history”�

18 Clinton L.Evans, prefazione a “The war on weeds in the Prairie West: an environmental history” 20

21

Gilles ����������������������������������������������� Clement ,“Manifesto del Terzo paesaggio”

population explosion of the following 150 years into the Los Angeles we know today resembles (from an imaginary aerial vantage point) an algal bloom, or bacterial inflorescence– the visible record of a natural imbalance Ambrotypes are negative images on glass plates which, when shown against a black backdrop, appear to be positive. The name comes from the Greek ambrotos, “ immortal”, a rather poetic way of evoking the power of photography to fix forever the fragile moment.

Plants, particularly flowers, have long been the favorite metaphor of poets, painters, and now photographers for the passage of time – they are our most consistent reminder of mortality, and yet our most frequent solace at times of bereavement.

Though the ambrotype predates early moving pictures, Campbell’s use of antique photography can’t help but remind viewers of its sister medium, film, and the attendant connection with Los Angeles as a national and global “ dream factory” (or, indeed, that these technologies played their part in swelling the population of the fledgling city).

Campbell’s humble backyard blooms become, in L.A. Botanical, stars. The silver nitrate of the photographic process is linked, chemically and etymologically, to the silver screens onto which early films were projected. Campbell’s botanical “ immortals” have been bequeathed eternal “ limelight” (another chemical process which, due to its use in theatrical lighting, is forever associated with fame).

Campbell’s ambrotypes are also ghostly (Haunted Hollywood?), a reminder of the early spiritualist nature of photography, in which an occult-hungry public happily believed in photographic truth twisting.

This willingness to be duped and a desire for belief relates to the state of mind of rootless masses, living in newly industrialised centres. For the urban expansion of a metropolis like Los Angeles meant a concurrent loss of lifeways, be they social and religious structures, or practical knowledge of folk medicine and subsistence agriculture.

Campbell’s insistent use of antiquated technology leads us to recall, not only the birth of Los Angeles, now infamous for its glob-

L’erbaio losangelino per esempio parla di una città ‘improvvisata’. Cittadine-riflesso sono rare le piante o gli alberi che gli appartengono, sono tutte arrivate, come i suoi abitanti, da posti lontani. Alcune più comuni, altre più esotiche, giunsero tutte alla ricerca ‘dell’ultima frontiera’, forse alla conquista di centinaia e centinaia di sogni da realizzare.

Joyce Campbell , “Atropine” From Sacred datura, devil’s weed Powerful hallucinogenic entheogen, a dilator of pupils, antidote to nerve gas and organophosphate poisoning, a cure for bedwetting and treatment for infant colic. Reduces pathological laughing and crying, moderates the symptoms of alcohol withdrawal, and relieves bronchial spasms related to asthma. Reduces saliva production during anesthesia and can mitigate the death rattle of a dying patient. Injection can reverse cardiac arrest while overdose can induce it.

“Joyce Campbell’s L.A. Botanical is a series of portraits. It is a poisoner’s handbook, a herbalist’s cure-all, a shaman’s bundle, a gardener’s guide, a botanist’s field manual, an artist’s scrapbook.

L.A. Botanical is, specifically, a series of ambrotypes, an early form of photography, invented in 1850, the same year that the City of Los Angeles was incorporated as a municipality.

At the time, the population comprised a mere 1,610 hardy souls. The 22

al status as a “ dysfunctional city”, but the burgeoning of philosophies critiquing the very social systems that made such dysfunction inevitable. In the 1840s, the young Karl Marx was developing his theory of alienation as a result of capitalism. The abstraction of commodities into fetishes and the reification of labour undermined traditional social relations, not to mention human relationships with the landscape. The industrial revolution ruptured forever humanity’s holistic, cyclic relationships with the natural world.

But while Marx’s theories seeded revolutions in Europe and Asia, Los Angeles, with its history of union-busting and McCarthyist witch38 hunts, has grown ever more unwieldy. Alienation is a literal status for many of the “ illegal” residents of this city – they remain an “ invisible” labour force without which Los Angeles would grind to a halt.

People came to this city from all regions of the globe, and the plants they brought with them reflect this multicultural diversity. Campbell’s floregium combines the indigenous with the exotic, tracing the migratory routes of various communities.

The botanical diversity expressed by Campbell’s photographs is a testimony to the stubbornness of human desire in the face of natural deterrents. Los Angeles is a semi-arid desert, which has been made superficially lush with the massive, artificial influx of water and labour, both of which have involved considerable levels of corruption (the politics behind the diversion of water from Owens Valley was immortalised in Polanski’s classic film Chinatown). Any sustained attempt at gardening in L.A. requires a significant investment in topsoil and sprinkler systems. Unlike the rainy, temperate country Campbell grew up in, rich in alluvial soil, L.A. gardens do not flourish untended. The awareness that life in this grandiose city hangs in a rather precarious balance, and that under the tendrils of convolvulus and nasturtium lie vast tracts of dry, restless sands, brings to mind Baudrillard’s “ desert of the real”. It also brings to mind the mythical Hanging Gardens of Babylon, which were supposedly constructed by Nebuchadnezzar II in what is

today contemporary Iraq.

The introduction of a lush garden into a desert environment was for the benefit of the King’s exotic courtesan, homesick for greener climes. Los Angeles’ constructed gardens are built for similar reasons, as virtually everyone in the city is a migrant to some degree.

But Los Angeles has also been a centre for agriculture, and one of its neighbouring cities bears the name of agricultural wizard Luther Burbank, who bred a startling array of fruits and vegetables, including a plum which supposedly tastes like a pineapple, with the arresting name “Climax.” Burbank worked intuitively, breeding a potato that takes his name, from the seed head rather than the tuber. The result was a large, creamy-white potato that has dominated the US market ever since, and made the rapid spread of fastfood chains possible, being the perfect shape for cutting into French fries.

Though Burbank himself saw plants as individuals, understanding the “peculiarity” in each, his skills with the plant world were coopted by the drive for standardisation and monoculture that so threatens biodiversity in the USA, and globally, today.

Jesús Sepúlveda puts it succinctly in his manifesto for greener living, The Garden of Peculiarities: “In the fifteenth century, Europeans knew only seventeen varieties of edible vegetables, while in the fourth century, the Hohokam – inhabitants of the region now encompassed by New Mexico, cultivated around two hundred varieties of vegetables. In South America, the Incas designed a system of terrace cultivation that extended the length of the Andes and took advantage of local microclimates and varying humus qualities, harvesting something like six hundred different varieties of potatoes.

This proves that horticulture has nothing to do with the standardising drive of civilisation.”21

21

Estratto da “A Garden of Peculiarities” by Tessa Laird,

www.joycecampbell.com

23

Così come Joyce Campbell elabora delle immagini che narrano una interazione oscura tra uomini e piante, così Gianni Celati, dai toni intimisti ed esistenziali, esprime compartecipazione ed interesse verso quegli esseri non umani che popolano gli asfalti della pianura padana.

que le vedesse crescere: l’ortica, la romice, lo stoppione, il cardo selvatico, la paperella, il centonchio comune, l’erba cali che viene dalle steppe, in colonie separate assieme ai cartoni da imballaggio, frammenti di mattoni, residuati metallici e altri rifiuti..

Quelle erbe secondo lui non si presentavano scodinzilando ai suoi occhi: stanziate nei terreni sconvolti di tutti i continenti, in luoghi dove il suolo e l’aria erano piu’ acidi e tutte le altre cose “oggetti” di qualcuno, gli davano sempre l’idea d’un altro mondo da cui si sentiva escluso. […]

La solitudine del suo corpo in quel punto, mentre gli permetteva di dimenticare le sue varie incapacita’ di cavarsela come si dovrebbe con gli altri uomini, gli consentiva di immaginare tutto quanto esisteva la’ fuori, cose, fenomeni, popolazioni, come collegato da ope razioni finemente intessute dal pensiero, da infinite minuzie, infinite storie scambiate e non scambiate, che gli sembrava tenessero in piedi una trama ininterrotta nel vuoto del pianeta.”22

“[…] Col sole alto e la luce che invadeva la casa, cio’ che studiava da anni ad un tratto appariva definitivo e scontato[…].

Diceva che non appena il sole entrava da una finestra, le piastrelle del pavimento e il tavolo della cucina diventavano nient’altro che “suoi oggetti”, e allora tutto gli appariva scontato e definitivo, insopportabile: insopportabili gli stivali di gomma sotto il portico, la macchina non sua parcheggiata davanti alla casa, e anche quegli alberi di fronte c he restavano immobili a deriderlo perche’ lui non era affatto un naturalista (come veniva considerato) e non sapeva neanche il loro nome.

Per questo, non appena il sole era alto doveva abbandonare i suoi studi, uscire di casa e avviarsi in una delle sue camminate da camminatore solitario per le campagne.

Ma prima di uscire, certi giorni faceva un discorso alle cose, soprattutto alle piastrelle del pavimento in cucina, che sembrava fossero li’ solo per confermare un’idea che lui aveva di se stesso.

Diceva a quelle piastrelle ‘Io non sono il vostro padrone, anche se sono i miei occhi che vi guardano. Ed e’ inutile che vi presentiate scodinzolando ogni mattina come oggetti fami liari, perche’ le nostre strade son ben diverse!’

Quasi fuggendo all’aria aperta lasciava dietro di se’ quella casa che era diventata il suo ambiente, non fatto di muri e confini ma di immagini che aveva di se stesso, le quali creavano un alone attorno alle cose e l’apparenza di una vita durevole; allora, il viottolo asfaltato e poi un terreno aperto, i campi coltivati, un cimitero di campagna in abbandono, erano subito altri luoghi di immagini, la varieta’ del mondo davanti a cui aveva sempre voglia di prendere appunti. E li’, in vista di un’autostrada che attraversava quelle terre piatte, ritrovava un terreno occupato da piante infestanti, che si imponevano sempre alla sua attenzione dovun

Dal Web, una azienda di pesticidi crea uno schema che illustra il meccanismo riproduttivo attraverso cui si originano nuove specie vegetali resistenti agli erbicidi.

Questo comportamento riflesso conferisce alta competitività, potere riproduttivo e adattabilità’ alle piante infestanti.

22 Gianni ������� Celati ������� “Dagli ������� aeroporti” ����������

24

“One person’s weed is another person’s flower”. Piccolo angolo residuo nel sistema metropolitano di Messico City. La natura, adattandosi, riesce a sopravvivere, lasciata a se stessa, crea diversità biologica.

25

URBAN NATURE

Caso limite - esemplificativo: Los Angeles, megalopoli contemporanea. L’insediamento Angelino e gli abitati limitrofi, ben si prestano all’analisi poiché, relativamente recenti, possono essere considerati frutto diretto della moderna civiltà occidentale.

(Non volendo generalizzare, le analisi e le conclusioni rimangono contestualizzate al territorio della California ma possono involontariamente alludere ad altri contesti e territori abitanti dall’uomo.) A partire dalla metà del 19’ secolo l’urbanizzazione della regione di L.A. si é basata sulla presunzione che la tecnologia e i metodi di controllo avrebbero potuto sormontare le barriere naturali ai fini dello sviluppo23.

L’urbanizzazione di un territorio determina e avveiene per sottrazione degli ecosistemi esistenti; questo processo limita progressivamente le possibilità di vita o di sopravvivenza di molte piante e animali. Le 744 città più grandi del mondo con il loro 20 per cento della popolazione mondiale, per esempio, hanno sottratto il 25 per cento dell’ecosistema produttivo marino. Negli immediati dintorni delle città si assiste ad una ‘de-naturalizzaione all’ingrosso’: habitat rurali o selvatici vengono designati per case, uffici, ditte e costruzioni di servizio. Nello specifico, la crescita urbana e l’intensificazione abitativa causa cambiamenti vasti e sfaccettati nel terreno, nell’idrologia, nel clima, nella qualità dell’aria, nell’acqua e nella vegetazione. Questo processo, porta al calo cospicuo delle specie se non all’estinzione delle piante native e della popolazione animale. Nonostante ciò, é sorprendente come la civiltà contemporanea e la cultura dominante -che scandisce le vite dei cittadini e presiede alle normative delle comunità locali, dei quartieri o delle strutture pubbliche- diano così poca importanza alla natura da cui sono avvolti e dalla quale inevitabilmente dipendono. Inoltre non solo l’urbanizzazione e la culturizzazione di un territorio producono profondi cambiamenti nell’ambiente fisico ma la natura é a sua volta un elemento attivo e potente, una forza onnipresente che modella la vita quotidiana, la percezione dei residenti urbani e l’urbanizzazione stessa. La storia di un insediamento urbano é in parte iscritta nella sua natura e le infrastrutture, i tipi di case, la ricreazione, i costi dell’assicurazione le zone industriali e la salute pubblica riflettono aspetti dell’ambiente naturale e della percezione della natura da parte dell’uomo.

Sopra: dei dati illustrano la scomparsa del territori “a stato naturale” nella California meridionale tra il 1769 e il 1995. A sinistra un immagine da “common sense pest control”. L’ambiente urbano secondo una visione antropcentrica. L’uomo e’ comunque circondato da un’insieme eterogeneo di esseri non umani.

23 Fu con l’arrivo degli yankees, e di un sistema di sfruttamento della terra piu’ efficace rispetto al solo allevamento praticato dalle comunita’ ispaniche, che la morfologia del territorio subi’ grandi trasformazioni. “Gli yankees si riversarono sulle coste del Pacifico con un’ondata di fiducia tecnologica e di slancio imprenditoriale […] La terra acquistata dai titolari di concessioni anche con mezzi non eccessivamente ortodossi, fu lottizzata, irrigata intensivamente coltivata ed infine posta in vendita sottoforma di lotti residenziali in un paesaggio che, a chiunque fosse giunto da Est doveva sembrare un Paradiso Terrestre.

Nonostante i danni successivi prodotti dall’uomo al clima e all’ambiente, la California meridionale rimane sempre una delle meraviglie ecologiche del mondo abitato. Se il suo suolo sabbioso, ed altrimenti quasi desertico, viene abbondantemente irrigato, e’ possibile realizzare una copia molto fedele del,Eden biblico.

Alcuni dei giardini piu’ fantastici del mondo sono proprio a Los Angeles, dove la palma, tipica dei climi caldi, cresce letteralmente accanto alle conifere, proprie del Settentrione; e fu proprio la promessa di un miracolo ecologico a rappresentare il primo prodotto vendibile dell’area: La terra della primavera senza fine”. Reyner Banham “Los Angeles. L’architettura delle quattro ecologie”

27

“Giardino tipo, front yard� California Giugno 2007

28

“Back yard” California, Giugno 2007.

29

Alla base dell’espansione urbanistica un grande intervento di de-naturalizzazione del territorio: la costruzione di un acquedotto in grado di portare acqua dalla distante Owens Valley alla città 24 .

Gli acquedotti e gli impianti di fognatura cittadini sono i primi elementi che, insieme alla costruzione di una rete ferroviaria grazie alla quale le comunità disperse vennero collegate in un’estesa supercomunità, determinarono l’assetto decisivo della città: un’ immensa e ininterrotta periferia. (Altri fattori economici, successivi anche in ordine temporale, furono l’industria petrolifera25 , il porto26 , e l’industria cinematografica27 ).

L’urbanizzazione e l’espansione erano catalizzate anche da una visione ironicamente anti-urbanistica della regione da parte dell’elite civica e della popolazione stessa: entrambi (al di là delle restrizioni e vincoli sulla costruzione in altezza) propensi ad un insediamento orizzontale giardino-tipo invece che ad uno intensivo, tipico delle citt à europee o dell’East Coast.

La nascita di un grande sistema di trasporti, in grado di collegare angoli remoti della regione al cuore della città e l’arrivo delle automobili insieme alle grandi maglie autostradali, hanno oltremodo contribuito alla sub-urbanizzazione e quindi ad un’ estesa frammentazione -a volte perdita- dei territori a stato naturale in

particolare nella corrispondenza di valli e colline.

Crescono così nuove possibili zone ad insediamento urbano e allo stesso tempo, interi corridori di movimento per piante e animali vengono tagliati di netto, intere tipologie di habitat eliminati o ridotti sull’ orlo d’estinzione. Queste barriere hanno interamente precluso la mobilità di alcune specie decimando le forme di vita vegetale e animale.

Conseguenza della frammentazione sono anche gli incidenti tra animali - strutture abitative, cittadini e i loro veicoli.

Ad oggi, in California il risultato é di 100 animali e specie vegetali da considerate rare o a rischio d’estinzione.

Nell’area di Los Angeles, le vie di congiunzione tra le montagne e l’oceano sono state interamente o quasi urbanizzate.

I Gufi Maculati per esempio a seguito di una tale perdita di spazi vitali e di consequenzialità di paesaggio, sono stati relegati a vivere in queste montagne-isole; circondati da un lato da macchie desertiche e dall’altro da un’estesa area urbana.

La crescente immobilità significa probabile estinzione per la popolazione poiché il gruppo genetico viene proporzionalmente ristretto. Questa situazione ad alto rischio é ulteriormente aggravata dalle trasformazioni che l’uomo determina nelle foreste-habitat: primi fra tutti i pescaggi d’acqua da parte delle citta’ a fondo valle, l’incapacità dei corpi forestali di ripristinare un regime naturale di incendi -evitando quelli catastrofici- e l’aumento dell’uso delle montagne a scopo ricreativo.

Altro elemento di disturbo é poi sicuramente l’inquinamento dell’aria che debilita gli alberi (indispensabili ai gufi) e aumenta la possibilità di incendi catastrofici.

24 “La politica idrologia defini anche i confini politici della citta’ che inglobo’ la San Fernando Valley, poi sotto William Mulholland, distrusse la Owens Valley durante la prima grande incursione verso le acque dell’entroterra ed attualmente ha fissato le sue frontiere idrologiche sul fiume Colorado” Reyner Banham “Los Angeles. L’architettura delle quattro ecologie” 25 [...] A cavallo del 1900, le basi economiche furono potenziate da una nuova importante industria primaria: il petrolio. Gia’ da tempo se ne conosceva l’esistenza, tuttavia la lavorazione commerciale non inizio’ prima della meta’ degli anni Novanta e lo sfruttamento su larga scala fu incrementato solo quando si scoprirono nuovi giacimenti. Oggi ci sono impianti di perforazione e pompe a bilanciere quasi ovunque, nelle pianure e lungo la costa, e vunque se ne puo’ avere la prova, non solo alla vista, ma anche all’olfatto” Reyner Banham “Los Angeles. L’architettura delle quattro ecologie”

26 “[…] Il secondario era costituitolo dal porto. Le attrezzature portuali sulla costa erano sempre esistite, ma fu la costruzione del frangiflutti di Point Fermin, a chiusura del porto di Wilmington-San Pedro dal 1899 in poi, a far decollarel’attivita’ portuale, appena in tempo per sostenere la grande espansione commerciale promossa dalla apertura della breve via d’acqua da costa a costa, lungo l Canale di Panama dopo il 1914. All’interno di questo frangiflutti ora esiste un’esteso complesso di isole e banchi artificiali che costituisce il piu’ grande porto artificiale del mondo, con un traffico annuale pari a tre miliardi di dollari . Reyner Banham “Los Angeles. L’architettura delle quattro ecologie” 27 “Nel 1910, con la prima pellicola cinematografica di Holliwood, prodotta in un granaio all’angolo tra Sunset e Gower, fu fondata l’industria terziaria che distingue L.A. persino dalle altre citta’ di produzione filmica. Il cinema e’ stato il grande imponderabile nella storia dell’area; le conseguenze economiche furono indubbiamente rilevanti, anche se si trattava di denaro indubbiamente “gonfiato”, in ogni caso attualmente appaiono piu’ significative le conseguenze culturali. Reyner Banham “Los Angeles. L’architettura delle quattro ecologie”

* 30

I corridori rivieraschi che rappresentano possibilità migratorie, sono ormai quasi scomparsi, cementati per prevenire erosioni e frane o per la costruzione di autostrade, campi da golf oppure completamente alterati a causa della deviazione dei corsi d’acqua per finalità urbane.

Per i gufi , la diminuzione dell’acqua nelle foreste ha significato anche mancanza di prede e quindi di cibo.

I roditori di cui i gufi si nutrono sono di fatti diminuiti drasticamente perché a loro volta dipendenti da organismi soggetti alla presenza di acqua. Il numero di gufi maculati é così sceso drasticamente, anche i pochi habitat ‘residui’ all’interno delle National Forest si sono inariditi e alterati con l’aumento dell’urbanizzazione generale del territorio.

I gufi sono soltanto una delle tante specie sulla via d’estinzione nella California del sud a causa della complessa mescolanza di cambiamenti ambientali causati dall’urbanizzazione.

Gli enti di salvaguardia del territorio naturale non sono mai stati in grado di contenere questo processo.

Intere aree geografiche, habitat per gli animali e piante selvatiche, sono purtroppo soggette a logiche di intervento e organizzazione del territorio disomogenee poiché dipendono da differenti giurisdizioni.

Per i gufi e le altre specie che seguono un ciclo vitale definito dai limiti naturali e non da quelli virtuali del governo federale, questa condizione e’ catastrofica.

Risultati concreti si potranno ottenere solo se le risorse naturali saranno valorizzate come bene da conservare al di la del profitto individuale dell’uomo.

*

Sopra: dal web una pubblicita’ di un impresa “pest-control” americana specializzata nella gestione di un’ampia gamma di specie di animali selvatici.

Sotto, un gufo maculato, un’orso bruno e un coyote tenuti in cattivita in uno zoo-probabilmente San Diego Zoo.

* 31

***Immagini estratte da filmini amatoriali, autore sconosciuto, formato 8mm.

Le vie dell’uomo, le vie della natura. Particolari di margini autostradali.

Los Angeles, Giugno 2007.

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“Un territorio dichiarato ‘riserva’ da un punto di vista amministrativo e’ oggetto di protezione, sorveglianza, sanzioni.

Un bordo di una strada, un residuo urbano non sono oggetto di alcuna protezione. Luoghi che si cerca di ridurre o di sopprimere. Eppure, tutti costituiscono riserve biologiche”28 La relazione dialettica tra natura e città é spesso invisibile anche se, come l’esempio del gufo maculato dimostra, l’invisibilità non coincide all’ inconsistenza.

Oggi si e’ operata una spartizione fittizia della natura.

Da un lato quella ‘selvaggia’, di pubblico dominio, gestita e ‘tutelata’ per l’ interesse collettivo; dall’altro quella domestica o urbana in cui considerazioni sulla salute della natura e sulla conservazione della biodiversita’ vengono posposte in favore dei diritti della proprietà privata.

Questa divisione é senza dubbio una finzione, visto che la natura é ovunque .

L’idea che nessun essere al di là di quello umano può considerarsi abitante della città é un’idea ingannevole e poco realistica.

Nel concreto, infatti un insieme di esseri non umani si manifesta quasi quotidianamente negli ambienti urbani.

Selvatici, domestici e commensali, animali e piante ostinatamente ritornano.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’espansione della metropoli di Los Algeles ha ricoperto le aree costiere di villette a suddivisione famigliare 29, giardini d’appartamento e strisce verdi di quartiere o di centri commerciali. Lo sviluppo residenziale si é allargato nei canyon e ai piedi delle montagne, espellendo molti animali dal loro habitat e portando le specie endemiche sull’orlo dell’estinzione.

L’espansione delle aree suburbane erano legittimate da una visione antropocentrica di territorio ad uso esclusivo umano.

Ovviamente, nessuno si é mai posto il problema della scomparsa degli animali selvatici.

Ogni tanto, casi ecclatanti di incontro tra uomo animali selvatici vengono riportati dai media come avvenimenti straordinari che sollevano l’opinione pubblica e dibattiti sui diritti degli animali. Nell’estate del ‘89 un orso bruno fu trovato rilassarsi in una piscina riscaldata in una villa nella zona di Monrovia. Tranquillizzato e rimosso dagli ufficiali della protezione civile, l’orso fu condannato all’eutanasia. Una forte protesta di residenti locali ha fatto si che i governatori locali ritirassero la sentenza e disponessero all’interno dello zoo una gabbia per l’animale. Un ulteriore protesta e manifestazioni dei cittadini hanno poi ottenuto la rapida costruzione di un recinto accogliente per l’orso chiamato Samson.

28

“Insetto bianco e nero si nutre di legno. Non esce mai dal termitaio perché l’aria troppo secca può ucciderla.

Nei paesi caldi le termiti costruiscono con la terra e saliva dei termitai che possono essere talvolta più grandi di un’uomo. All’interno migliaia di gallerie conducono in grandi camere che contengono le provviste: rametti, foglie, legno vecchio…Al centro si trova la camera reale: qui l’enorme regina, distesa vicino al piccolo re, depone le uova.

Le termiti provocano danni terribili possono distruggere case.

In Europa le termiti vivono negli alberi o nelle travi delle case, divorano il legno e scavano numerose gallerie per costruire il termitaio. Nemmeno il cemento li frena”

Gilles Clement, “Manifesto del Terzo paesaggio”

29 “Persino a Sud dei terreni inceneriti e dei servizi urbani di emergenza della Centotreesima Strada, devastata durante i famosi disordini, possiamo imbatterci in schiere di case piccole e graziose, circondate da giardini ben curati, e cio’ dimostra che sempre puo’ essere realizzato il sogno[…] di vivere in case urbane immerse nel verde” Reyner Banham, “Los Angeles. L’Architettura delle quattro ecologie”.

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Marie Farre’ in “Insetti in societa”.

Anche i coyote sono stati cause di conflitti e dibattiti tra ambientalisti animalisti e abitanti dei sobborghi spaventati e arrabbiati per la mancanza di controllo verso la razza canina. Nonostante le ripetute campagne di sterminio, i coyote sono rimasti numerosi non solo lungo i bordi della città ma anche in aree relativamente piu urbanizzate. Leggi pubbliche per il controllo degli invasori diventarono piu rigide nella fine degli anni ‘80 inizio ‘90, quando in seguito alla lunga siccità i coyote furono indotti a cercare acqua nella città. Gli abitanti dei quartieri invasi chiesero soccorsi verso questa minaccia di predatori. Nella zona residenziale del distretto di San Fernando Valley, residenti arrabbiati richiesero l’intervento delle forze dell’ordine per debellare gli animali i quali “non avevano nessuna ragione di vivere”. Allo stesso tempo però, gli avvocati per i diritti umani acquistarono una progressiva posizione contro le pratiche di controllo, lottarono contro l’uso di trappole ‘leg-hold’ e le pratiche di sterminio o tortura: era infatti evidente che, a seguito di periodi di sterminio, l’incremento della disponibilità di cibo per i coyote superstiti aumentava, determinando una nuova ondata di incremento demografico della specie.

Il pericolo degli ‘attacchi’ fu minimizzato anche dall’educazione

alla ‘pet-and-garbage ecology’: semplici accorgimenti quotidiani come contenere la spazzatura in appositi contenitori sigillati e la custodia degli animali domestici e del loro cibo all’interno delle mura abitative, sono abitudini che scoraggiano i coyote a frequentare le aree residenziali. In ultimo, la città di L.A. decise che la rimozione dei coyote a scopo privato non rientra nei diritti legittimi dei cittadini le pratiche ‘zoofobiche’ quindi si placarono.

Nel ‘94 un altro caso di “ribellione” uomo-animale animaleuomo avvenne ai piedi delle colline della Seierra Nevada, dove una donna fu assalita e uccisa da una femmina di leone di montagna (Puma Concolor). La leonessa fu in seguito cacciata dalla guardia forestale e uccisa a sua volta onde evitare che il fatto si ripetesse. La donna lasciò due figli piccoli, la leonessa un cucciolo di sette settimane. Indubbiamente il fatto di cronaca dice molto sulla relatività dell’idea di “natura”: dopo lunghi processi di accusa infatti i difensori di questi orfani reclamarono un risarcimento di 9.000 dollari per i due bambini e di 21.000 per il cucciolo. Il fatto fu dunque recepito come una manifestazione della spontaneità e incontrollabilità di una natura vittima innocente degli esseri umani. Questi ultimi, nello sforzo di vivere

nelle zone più ‘incontaminate’, invadono, senza pensarci, la casa di altri esseri viventi.

La relazione uomo-animale può diventare anche profondamente politicizzata all’interno di città cosmopolite.

Alcuni animali come i primati e quelli domestici vengono ‘culturalmente’ posizionati all’interno della sfera umana e vengono trattati come tali, queste specie sono le più osannate; la loro idolatria arriva a eccessi di feticismo manierista.

Carey Mc.Williams nella sua dettagliata analisi urbana dal titolo Southern California, an island on the land, descrive le innumerevoli strutture, attività e servizi a sostegno di cani o gatti cittadini: “[...]Los Angeles has the larges number and the best equipped dog-and-cat hospitals of any city in America. It boasts dog training schools, dog rest homes, special dog-food stores, dog equipment shops, dog resorts in the mountain to which pets can be sent for a vacation, and magnificent dog-and-cat cemeteries.

The Hollywood Pet Cemetery might well be regarded as a monument to the lack of industry in Los Angeles prior to 1940.

In this thirthy-acre, elegantly kept cemetery lie the remains of

Dion ha disposto una serie di macchine fotografiche termosensibili lungo la sua propriet�������������������������������������������� à������������������������������������������� in Pennsylvania. Il via vai degli animali della foresta é stato così raccolto sottoforma di un insieme di “dati” prodotti da un ipotetico ufficio di sorveglianza della guardia forestale. L’installazione parla delle istituzioni, spesso così ossessionate dalla sorveglianza da diffondere tra i cittadini l’idea che il nemico possa essere chiunque, -anche un circospetto cerbiatto- e ovunque. I lavori di Dion discutono sempre, in ultima analisi, il rapporto tra esseri umani e non.

La sua ricerca si affida ad un universo di immagini particolari; quelle elaborate dascenziati e studiosi dei musei di storia naturale. Queste istituzioni in quanto prodotto di una cultura di un determinato periodo storico, riflettono i costumi, le usanze le abitudini e i modi di pensiero di un’ epoca specifica. Secondo Dion infatti “I musei di storia naturale sono uno dei più importanti punti di partenza per l’analisi delle modalità con cui una cultura dominante costruisce e dimostra le proprie tesi sulla natura […} Una qualsiasi attenta analisi dei cambiamenti verificatisi nelle metodologie museali evidenzia le tappe dell processo di costruzione del concetto culturale di natura e di come questo concetto sia stato utilizzato nella razionalizzazione dell’ordine sociale dominante”.

countless dogs, cats, canaries, parrots, horses, and pet turtles.

BillBounce,the horse,lies buried here in a $2.000 metal basket, side by side with Kabar, a Doberman Pinscher owned by the late Rodolph Valentino; Puzzums, Mack Sennett’s talented cat; John Gilbert’s Topsy; Miriam Hopkings’Jerry; Corinne Griffith’s Bozo; Dolores Del Rio,s Da Da; and Dumpsie who once acted with Eddie Cantor.

A Hollywood concern specializes in manufacturing askets for animals.

Some years ago, a Dog’s Beauty Shop was opened, ‘a service that has been seriously and thoughtfully undertaken for the export and skilful treatment of your pet’s coat and condition’.

A short while later, the Foxie Dog Restaurant was opened as a “deluxe canine cafe”.

The Tailwaggers Foundation, founded to protect the rights of dogs and dog-owners, its an important Southern California institution. In addition to dog service trades, there are concerns in Hollywood that rents moths, flies, butterflies, and more service occupations are represented in Los Angeles than in any city in America”

Il tema del rapporto uomo/natura/urbanizzazione é qui racchiuso in un accumulo indefinito di siluette di volatili sulla superficie a giorno della galleria. I pittogrammi sono segnali dissuasivi massificamente prodotti che, applicati su finestre o strutture trasparenti, tengono lontani gli uccelli dalle zone abitate.

L’intervento dell’artista sposta il segnale d’avvertimento, invertendolo verso l’interno della stanza, verso lo spettatore. La distanza rassicurante tra l’interno e l’esterno, tra l’osservatore e il paesaggio é così sospesa; un’ imminente minaccia, sono gli esseri naturali non umani questa volta ad invaderci.

Di fianco Mark Dion, “White-Tailed Deer” (Odocoileus virginianus) (detail), 2006. Sotto, Ceal Floyer, “Warning Birds”, Installation, 2002

L’installazione “Warnig Birds” di Ceal Floyer é un operazione concettuale -duchampiana- che altera i codici visivi culturalmente condivisi assegnando agli oggetti comuni, nuovi significati paralleli.

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Mentre pratiche crudeli e violente, dirette o indirette, verso alcune specie sono normalizzate e legittimizzate, nonostante la sofferenza e il dolore che tali pratiche comportino, coloro che violano tali tradizioni di trattamento ‘culture-specific’, per esempio cibandosi di quegli animali considerati ‘d’appartamento’, vengono assiomaticamente chiamati cannibali, barbari o malvagi.

La violazione degli ‘standard di comportamento’ viene quindi spesso punita ma in realtà i codici e le pratiche animali oltre che alla definizione del rapporto uomo-animale, sono lontani dall’essere universali. Le differenze culturali interne ad una città possono segnare la definizione di ‘uomo e natura’ nonché abbattere credenze diffuse e profondamente radicate nel sistema.

Nelle città di LA questa dipendenza è evidente: la progressiva globalizzazione e l’ ‘etero-culturizzazione’30 ha infatti scosso in varie occasioni l’opinione pubblica e suscitato scandali e variazioni di prospettiva. Per esempio nel 1989 due uomini di Long Beach furono accusati di crudeltà contro gli animali per aver deliberatamente ucciso un cucciolo di pastore tedesco mangiandolo poi per cena. Un giudice della zona sostenne che, non essendoci leggi che vietino di mangiare i cani e, non avendolo ucciso con pratiche particolarmente crudeli e feroci, i due uomini non potevano essere accusati di reato. Le accuse furono quindi ritirate perché inconsistenti. Il caso tuttavia non morì e determinò in fine la stesura di leggi nuove che vietarono l’uccisione degli animali domestici a scopo alimentare.

Sembra che in molte città mangiare un cane o un gatto sia una pratica troppo vicina al cannibalismo poiché a questi esseri viene conferito uno stato quasi umano. In realtà i due cannibali di Long Beach non erano statunitensi bensì rifugiati cambogiani.

(E’ risaputo che diverse popolazioni asiatiche considerano la carne di cane o di gatto una prelibatezza culinaria).

A Los Angeles le leggi per le pratiche animali seguono o assecondano la cultura alimentare dei nativi anglosassoni ma con l’aumentare dell’immigrazione internazionale e della globalizzazione economica, questi dettami culturali diventano stretti e in alcune occasioni sono motivo di conflitti sociali.

Questo sottolinea come una città eteropolita e culturalmente frammentata allarga le pratiche urbane convenzionalmente legate ad una razza o ad un luogo geografico determinando e rifondando la concezione comune di natura.

Fotogrammi dal film diretto da Nikolaus Geyrhalter “Unsere tagliche brot” Sopra: un’ operaia viene filmata nei momenti di pause pranzo solitarie.

La telecamera é fissa, le inquadrature impeccabilmente frontali.

Non si avverte una voce, nessuno disturba o arresta il processo ineluttabile di produzione e consumo. Affianco due operai con caschi e tute spaziali; siamo in un orto industriale che sembra ripetersi all’infinito.

Sotto: un esercito di polli decapitati.

30 “Los Angeles has become a multiethnic/racially diverse city, with major new groups of Latino and Asian immigrants in recent decades. The racial makeup of the city was 46.9% White (29.7% White/non-Hispanic), 11.24% African American, 10.0% Asian, 0.8% Native American, 0.16% Pacific Islander, 25.9% from other races, and 5.2% from two or more races. 46.5% of the population were Hispanic or Latino (of any race).42.2% spoke English, 41.7% Spanish, 2.4% Korean, 2.3% Tagalog, 1.7% Armenian, 1.5% Chinese (including Cantonese and Mandarin) and 1.3% Persian as their first language. Since the mid-1980s, Los Angeles has been a minority-majority city.” http://en.wikipedia.org/wiki/Los_Angeles#Demographics

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Mentre l’uccisione di un cucciolo presunto innocente per un pasto per la sopravvivenza é considerata scandalosa, la maggioranza degli abitanti non nota nulla di male nel nutrirsi di determinate specie animali (cuccioli inclusi) massificamente sottoposte a costrizioni e violenze.

Il film spietato “Il nostro pane quotidiano”, di Nikolaus Geyrhalter, è per esempio una galleria di orrori made in Europe -e non è necessario in questo caso avere un background culturale extra occidentale per restare scioccati-.

L’occhio dello spettatore irrompe nel ciclo produttivo dell’industria alimentare, rivelando i più sofisticati meccanismi per la rapida trasformazione di animali e piante in cibo.

Lunghe sequenze, dalle inquadrature gelide e dal sonoro crudo dei macchinari, scorrono uno dopo l’altra, seriali e inarrestabili; una rassegna di paeesaggi surreali, plastificati, ottimizzati per il passaggio di trattori e l’utilizzo di macchinari agricoli, stanze sterili all’interno di edifici industriali progettati per assicurare efficienza logistica.

Uno sguardo insistente, che mescola fascinazione e orrore racconta ciò che potrebbe sembrare fantascienza, ma che invece è realtà, metafora spietata dei valori della società odierna e della sottomissione della natura alla volontà umana.

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Attori protagonisti migliaia di pulcini che buttati vivi su un nastro mobile, finiscono in un contenitore che ‘li sputa’ come palline, maiali macellati a cui l’impiegata tronca gli zamponi con una tenaglia; porcellini che incastrati a pancia in su vengono evirati con una serialità chirurgica da un’operaia.

Una catena di montaggio dell’horror dove nemmeno le verdure si salvano, martoriate ed avvelenate in capannoni asettici, megaserre dove si coltiva solo con luce artificiale, da contadini-infermieri e astronauti con tuta e caschi spaziali.

“Di solito faccio film come quelli che vorrei vedere. Io sono affascinato dai posti che la gente normalmente non conosce.

La produzione del cibo avviene in un sistema chiuso, del quale le persone hanno solo un’idea molto vaga. Le immagini utilizzate dalla pu blicità, con la zangola per il burro e la piccola fattoria, non hanno nulla a che vedere con i luoghi da cui proviene realmente il nostro cibo. C’è una sorta di ritrosia a mostrare questi posti e i lavori che vi si svolgono, ma è necessario farlo”.

Nikolaus Geyrhalter

I ‘disastri naturali’ sono le manifestazioni più evidenti, tangibili, rumorose e dolorose di cosa succede quando le persone si dimenticano i limiti imposti dall’ ambiente naturale circostante e quando governanti di vario livello convergono nella divulgazione dell’idea di una natura che può essere controllata con sofisticate soluzioni d’ ingegneria. Sobborghi dopo sobborghi, la città di Los Angeles, per esempio, si allarga coprendo ampi tratti dei piani fluviali, fino ai piedi delle San Gabriel Mountains.

Lì, confrontati con disastri naturali mortali quali slavine e frane, gli abitanti hanno persuaso i governanti locali a costruire delle fortificazioni che avessero potuto ‘difendere gli uomini dalle

LET

montagne’. Questa logica diffusa tra abitanti, atta a naturalizzare i disastri naturali prodotti in realtà dallo sviluppo delle aree suburbane, porta ad enormi investimenti pubblici per la protezione di quelle proprietà private interfacciate con ambienti naturali nonché per la protezione delle vite dei cittadini. Gli abitanti benestanti di ville limitrofe a zone naturali e selvagge, dovrebbero accettare e sottostare ai rischi associati ad un tale privilegio anziché competere contro una forza inesauribile. Gli incendi sono le calamità naturali più intense della California del Sud: infliggono danni diffusi a persone, proprietà, e all’ambiente naturale. Nei decenni la U.S. Forest Service ha affrontato il problema attraver-

MALIBU

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BURN!

so una la soppressione dei roghi, il monitoraggio e la prevenzione (usando i ‘ fire lookouts’ per esempio ) . Nel corso del tempo però diversi ecologisti hanno realizzato come la soppressione va contro il regime naturale dei roghi causandone, quando si originano, di molti più severi. Infatti l’eliminazione totale determina l’accumulo di materiale potenzialmente combustibile. Ultimamente sono stati reintrodotti gli incendi nell’ecosistema, ma i roghi nelle vicinanze delle aree urbane e in zone dove le case si alternano a zone selvagge sono ora difficili da controllare . Un rapporto recente ha stimato che a partire dal 1985, il governo Americano ha speso $300 milioni per la protezione di queste zone di interfaccia tra natura e civiltà.

I nativi della California (i Chumas e Gabrielinos) appiccavano incendi ogni anno aumentando gli effetti procurati dagli incendi spontanei per mantenere i cespugli bassi e una vegetazione fiorente. Nel corso del diciannovesimo secolo, i governi messicospagnoli hanno imposto restrizioni alle pratiche piromane determinando così delle tempeste di fuoco lungo la costa . Malibu é diventata la capitale degli incendi naturali del Nord America e forse del mondo, qui gli incendi estesi e devastanti (più di 100 acre) si ripetono ogni due anni e mezzo. La tendenza alla ‘Total Fire Suppression’ garantisce che nel caso di giuste condizioni atmosferiche, qualsiasi fuoco si generi nella vegetazione diventi una deflagrazione.

In particolare i canyons di Malibu, protetti dagli incendi per anni, collezionano fino a 40 tonnellate di combustibile per acre (sottoforma di rifiuti e residui vegetali come foglie morte etc..)

Sempre a causa della soppressione dei roghi, la macchia che ricopre il canyon invecchia e quindi si secca diventando molto più infiammabile di quella nuova. Una tempesta di fuoco a Malibu può determinare un equivalente di tre milioni di barili di petrolio che bruciano a 2000 gradi. La zona e’ diventata a ‘regime d’incendio’ o ‘da incendio ecologico’, caratterizzata da un mix letale di case, ville e accumuli di cespugli e materiale facilmente infiammabile. Gli incendi catastrofici vengono purtroppo considerati pericoli naturali invece che fenomeni determinati dall’espansione urbana. Questa divisione dolorosa, artificiale e ottusa tra natura e città e il perpetuare dell’idea di uno stato naturale addomesticabile o gestibile ai fini umani e umano-abitativi rende la confittualità uomo-ambiente naturale senza soluzione di continuità.

La conclusione che si potrebbe trarre da questi piccoli episodi di cronaca é che qualsiasi disastro ambientale, (surriscaldamento del pianeta incluso), é un potenziale indicatore dell’ azione umana che, ingnorante o colpevole, ha contribuito a determinarlo.

That’s why you can’t understand our language anymore”31

Dal web tre immagini che documentano dei disastri naturali. A sinistra il rovo che ha incendiato le aree merdionali della California lo scorso autunno. In alto a destra “Santa Ana wind damage to an oil derrick.

Parts lie on the ground.” su cortesia dela Santa Ana Public Library.

Sotto una foto d’archivio del “Los Angeles Country Flood Control District”documenta la frana che nel 1967 ha danneggiato la diga di San Gabriel ostacolando la viabilita’ dei cittadini. http://content.cdlib.org.

“Years ago, I was in northen California, and saw a huge bird on a fence. I heard the bird say, “we all used to speak the same language, but you’ve forgotten that we really are all one being.”

31 Jane ����������������������������������������������������������� Caputi, cit. in “Endgame. resistance, ���������������������������� seven stories”,� Derrick Jensen

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You know where you are at? Il test pubblicato da William Cronon nel suo libro “Uncommnon Ground” e’ una verifica non plus ultra sul grado di ignoranza , e indifferenza nei confronti del territorio che abitiamo. Il processo di urbanizzazione amplifica senza dubbio questo distacco.

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NOTES ON WILDERNESS IPOTESI INDOTTE

Le speranze e gli appelli di un mondo che sembra ormai essere inghiottito da un arrestabile processo di civilizzazione distruttiva sono stati posti da molti nei ‘luoghi dalla natura incontaminata’. L’immersione nei luoghi selvatici e il rifiuto di ogni forma di vita civilizzata é una scappatoia, l’ancora di salvezza alla quale, abientalisti e praticanti del pensiero anti-civilizzazione, approdano zoppicando.

their way with the Journal and went to bed.

Before I was asleep, I felt a light, shivery weight on my legs.

It was ticklish, the way the little feet quivered with energy, the creature so high on life, on curiosity, on the will to survive, to fly from tree to giant tree in its nightly forage for food.”33 Conquistarono un senso di pace e una profonda connessione con tutti gli esseri viventi. L’intera protesta non era supportata da argomentazioni politiche o scientifico-razionali, ma da vere necessità: abbattere il dualismo natura/cultura, rifiutare la civilizzazione e ri-definire l’essere umano come elemento parziale all’interno della globalità degli esseri viventi.

“The fullness of civilization would mean universal neurotic unhappiness, anti civilization currents are growing in response to the physic immiseration that envelopes us. Thus symbolic life, essense of civilization, now comes under fire.””32 Nel 1998 in California, durante la campagna di protesta contro l’abbattimento degli alberi nella Warner Creek Forest, molti giovani lasciarono le proprie case cittadine per intraprendere un’esistenza sospesa a cento metri sopra il suolo.

I manifestanti diedero origine a veri e propri villaggi. Passarono giorni e notti senza mai toccare terra, proteggendo con il proprio corpo gli alberi centenari destinati a diventare legname da costruzione. Una volta auto-scomunicati dalla civilizzazione, e presa residenza all’interno della foresta, i gruppi sociali si identificarono completamente con il paesaggio circostante.

Il loro desiderio di rifiutare la società industriale fu assolutamente autentico, sentito e spirituale.

Deliberatamente si rinselvatichirono.

Molti, gia famigliari con i gli elementi del discorso ambientalista, passarono dalla vaga idea di ecologia alla pratica concreta di ‘esistenza ecologica’ -rinunciando alla politica, al riformismo, perdendo fede nella possibilità di protezione del potere legale e in ultimo interrogandosi sulle basi della società industriale in generale.

Inizialmente eterogenei dal punto di vista culturale e sociale, gli abitanti degli alberi si trovarono accomunati da sensazioni di profonda affinità verso la natura selvatica e a condividere la voglia di immergersi nel sistema della natura fino ad arrivare ad un grado di comprensione che in un ambiente industriale affollato non sarebbe mai stato raggiunto, né leggendo libri né attraverso qualsiasi altra forma di istruzione.

The life in a 200 ft. tree!

With water jugs and sleeping bags, trees and platforms, holes to dig, no more log truck drivers, those fat pigs!

No more government or anything alike, don’t drive a car ride a bike!

No more NASA, la critical mass’a. The camp is small strong and bright, you better not fall from that great height!34

“Last night, briefly and tentatively, a northern flying squirrel sat on my face. I was snug in my sleeping bag in this hanging hut in the canopy. My comrades and I had been watching a pair of these wing-flapped rodents as they sat on our porch checking out us and our food. Our food secured in buckets, they settled on gnawing on an Earth First! Journal. They looked at us bravely with black eyes that said, “Okay, you can stay.” There is no question who is a guest in who’s home here.We let them have

Sopra: Christopher La marca, “Forest Defenser”, 2002/2005

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Creek ������������������������������������������������������������� Forest Eco-anarchist, dal sito http://www.eugeneweekly.

com �������������������������������������������������������������������� Fire, age 11, dal sito http://www.eugeneweekly.com

32 John Zerzan, “Running on emptiness”

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All’interno di questi territori –anche concettuali- ‘di frontiera’ tra umano e inumano, civilizzazione e natura selvaggia, cultura e squilibrio, dove le azioni e le intenzioni umane diventano poco definibili, é inevitabile pensare al lavoro di Werner Herzog.

In particolare il suo film documentario Grizzly Man é uno sguardo che affronta il tema dei limiti del selvaggio e dell’ inclinazione tutta umana a tentarne il controllo e superamento.

Nell’estate del 1990 Timothy Treadwell si avventura in Alaska per vivere insieme agli orsi Grizzly. Da allora fa ritorno ogni anno in questa zona ‘selvaggia’ per documentarne da vicino le abitudini: questa sua operazione -anche propagandistica- raggiunge una discreta popolarità. Timothy sembra riconoscere l’habitat degli orsi come la sua vera casa e i loro abitanti come la sua vera famiglia. Al culmine di questa storia d’amore, alla fine della spedizione del 2003, trova la morte proprio ad opera di una di quelle creature che credeva amiche. Timothy, protagonista indiscusso del film, filma scenari di stupefacente bellezza in piena solitudine, nell’habitat degli orsi. Il girato, montato e presentato dalla voce narrante di Herzog é una permanenza, a tratti inquietante, in quel territorio fisico e mentale. Timothy sfida la natura, soccombe, la sua figura si cristallizza e gli spettatori rimangono immersi nel dubbio: un eroe folle e delirante o un guru illuminante?

“In wilderness is the preservation of the world”35 Da dizionario la parola ‘wilderness’ descrive un ambiente naturale del pianeta terra che non é stato modificato dall’attività umana. Le aree selvatiche sono considerate importanti per gli studi ecologici, salvaguardia, solitudine e ricreazione.

I luoghi selvatici sono profondamente apprezzati per le pratiche culturali, morali ed estetiche; alcuni autori ed intellettuali credono che il selvaggio sia vitale per lo spirito umano e la sua creatività. Siamo nel bel mezzo di un’astrazione. Anche il concetto di selvaggio –così come quello di natura- é ricco di contraddizioni, punti di vista che ne determinano sfumature o forme del tutto eterogenee. L’esperienza dell’isolamento e immersione umana nei territori selvaggi e incontaminati é un azione difficilmente integra o comunque poco indicativa: non solo rimbalza tra possibili varie categorie interpretative “rischiose” quali protagonismo, primitivismo, esaltazione, estremismo ambientalista, pura follia, ecc… ma la stessa ‘natura selvaggia’, così come la intendiamo oggi -o da sempre-, nasconde un alto grado di artificiosità. Il ‘wild’, questa idea o immagine imbastita da fattori storici e socio-culturali, nasconde stratificazioni simboliche secolari dietro una maschera che é difficile da svelare perché apparentemente naturale.

Inquadrature e momenti della spedizione. Frammenti dal video-diario di Timothy Treadwell, Estratti dal film “The Grizzly Man”.

La natura selvaggia e l’isolamento, comune a questi due casi documentati, possono essere viste come drastiche e indispensabili soluzioni, vie di uscita per la cessazione sia delle contraddizioni che degli squilibri interni ad una civiltà autolesionista; ipotesi sperimentali per l’abbattimento della societa’ tecnologica e capitalista come messa a fine del dualismo uomo-natura.

La visione di Tomothy Treadwell, pura e assoluta, le case albero della Creek Forest nascondono a loro volta un lato simbolico.

Ci troviamo -si trovano- ancora una volta al punto di partenza, comunque sempre troppo lontani dalla realtà.

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Henry Thoreau, ���������������������������������������������������� cit. in William Cronon’s “Uncommon Ground”

Nel corso della storia dalla cultura occidentale i concetti –anche i più stralunati- legati alla visione della natura hanno determinato e influenzato l’immaginario legato al mondo del naturale non umano. Idee ‘fertili’, che producendo un insieme articolato di immagini, rappresentazioni, racconti, testi e simboli hanno suggestionato intere generazioni. 250 anni fa non potevamo immaginare persone disperse agli angoli remoti della terra alla ricerca di ciò che noi oggi chiamiamo ‘natura incontaminata’ o ‘luoghi selvaggi’. Nel corso del diciottesimo secolo l’aggettivo inglese ‘wild’ si riferiva a paesaggi comunemente associati ad altrettanti aggettivi non particolarmente attraenti invece nel contesto contemporaneo: ‘wilderness’ era usato per descrivere un territorio nemico desolato, infertile, non accogliente da contrapporre all’immmagine-concetto del giardino dell’Eden . Il primo aveva connotazioni del tutto negative, l’ emozione che un tale ambiente suscitava era quella di terrore o turbamento, l’Eden invece veniva associato alla verginità pura e leggera terra che, incontaminata o primordiale, ha le potenzialità per essere sviluppata e abitata dall’uomo. Le prime descrizioni di natura selvaggia sono state bibliche. Quando Adamo ed Eva furono scacciati dal Giardino dell’Eden, entrarono in un luogo selvaggio dove solo attraverso il lavoro e la sofferenza avrebbero potuto redimersi. Natura selvaggia era dove Mosè vagò per 40 giorni e dove il suo popolo stre

I posti selvaggi erano in poche parole luoghi in cui un’anima vi si trovava solo contro la sua volontà, in uno stato di angoscia e terrore. “wilderness” era quindi una volta all’antitesi di tutto cio’ che era buono, regolato e controllato. Al suo stato grezzo e originale, il termine ha però poco o niente da offrire agli uomini e donne civilizzate di oggi. Qualsiasi tipo di valore abbia assunto nella storia, il termine é stato via via reclamizzato, il suo significato invertito e smussato per un uso meno inquietante, più allettante e ‘redditizio’. Se solo pochi secoli fa Wilderness era il lato oscuro, l’angolo più lontano del giardino, ora, con la nascita delle città e delle metropoli i luoghi selvaggi diventano meta di un’ elite di turisti facoltosi. La risignificazione é totale e stravolgente: da luoghi dannati a luoghi di ricreazione. I pacchetti vacanze, i film, i reality a sfondo “wilderness” rappresentano l’alternativa alla orrenda artificiosità della civilizzazione contemporanea, un’isola altrettanto artificiale nella quale i cittadini cercano o immaginano la fuga dalla civilizzazione, dimenticando che per assurdo senza civilizzazione non esisterebbe l’idea stessa di natura incontaminata.

“Mi sono arrampicata, ho parlato con un albero. Mi piace tanto stare sola in mezzo alla natura” esclama la show girl italiana Antonella Elia nel reality show ‘L’isola dei Famosi’.

Rappresentazione di Mosè nel film “The Ten Commandments” del 1956, alle sue spalle i luoghi selvaggi e apocalittici descritti nella bibbia. Di fianco, Dal web, Antonella Elia in un frame dal reality “L’isola dei famosi”

Più si analizza la sua storia peculiare e più é chiaro che la ‘natura’ selvaggia é lontano dall’essere un luogo della terra non collegato all’umanità, é piuttosto una creazione umana, e ancor di più di una cultura specifica in un particolare momento storico .

La civiltà attuale si espande generando i no stri habitat urbanoindustriali e contemporaneamente ci convinciamo che la nostra vera casa é un’altra: la natura.

Ne siamo tutti persuasi e poi convinti.

mato, quasi abbandonò la fede verso il proprio dio per idolatrare una divinità d’oro. Selvaggio era il posto dove Cristo soffrì e lottò contro le tentazioni del diavolo.

“And immediately the spirit driveth to him into the wilderness.

And he was there in the wilderness for forty days tempted of Satan; and was with the wild beasts; and the angels ministered unto him”.36 36

Vangelo secondo Marco 1:12-13

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Birds stand on a San Diego Freeway bill board, freeway n.5, June 2007.

“It is in vain to dream of wilderness distant from ourselves. There is none such. It is the bog in our brain and bowels, the primitive vigor of Nature in us, that inspires that dream.”

Eden’s hotel, Las Vegas, Dicembre 2006.

Henry David Thoreau

Sui grandi schermi è apparso nei mesi scorsi una produzione hollywoodiana, interpretazione del testo “Into the wild” 37 il film racconta la storia del giovane benestante che rinuncia ai suoi soldi e abbandona la sua identità per cercare il vero significato della libertà e della natura selvaggia, scomparendo all’interno di una terra estrema da cui non farà più ritorno. L’avventura da super eroe che lo spettatore degusta é drastica e ancora una volta troppo estrema, distaccata dalla realtà. Una parentesi nella quale condividiamo appieno lo spirito protagonista, ci pensiamo, ci sentiamo colpevoli impotenti. In questo viaggio edenico di quasi tre ore siamo convinti delle assurdità della civilizzazione, l’inutilità del progresso tecnologico é evidente e in questo gioco simbolico e sentimentale di rimandi ingenui ad un’ immaginario collettivo -vecchio di secoli- inconsciamente evadiamo dalle responsabilità legate allo stile di vita che nel mondo reale pratichiamo. Il wild é distante, una dimensione terrena parallela, noi abitanti della città, corrotti, ci pensiamo agli antipodi della natura. In un mondo costruito teniamo pezzi di noi stessi –e in genere la parte più preziosa – lontani dalla sua corruzione.

Lavoriamo nelle sue istituzioni, mangiamo il suo cibo, guidiamo le sue macchine (non solo per raggiungere i luoghi selvaggi) beneficiamo dell’intricato e troppo invisibile sistema organizzato che ci accoglie pretendendo pero’ che queste cose non siano una parte essenziale di noi stessi. Continuando solo ad immaginare che la natura sia la nostra vera casa, ci ‘auto-assolviamo’ da quella che invece realmente viviamo.

Nel suo lungo volo nella storia dell’uomo, nelle sue immagini- trappola per la fuga illusoria e nella sua riproduzione di un pericoloso dualismo che mette l’essere umano fuori da tutto ciò che lo circonda, il concetto di selvaggio possiede una seria minaccia non solo per l’uomo ma per tutto il resto. Sarebbe forse utile pensare ad un’alternativa di pensiero, nuove interpretazioni o addirittura tentare l’abbattimento totale dei simboli per svincolaci dal concetto di ‘natura a guscio’.

E’ il 1975, il film “Gray Garden” dei fratelli Maysles si apre con un close up di una testata giornalistica; le condizioni di vita della signora Jaqueline Bouvier-Kennedy e di sua figlia Edie avevano sollevato l’attenzione di giornali, riviste e abitanti di Lon Island.

“Jaqueline Bouvier-Kennedy, Onassis’s aunt and cousin on Long Island are living in a garbage-ridden filthy 28 room house with eight cats, fleas, cobwebs and no running water. Unsanitary conditions so the health department has ordered them to clean up or face eviction. This is the Gray house in West Hampton” Una fitta foresta di rovi e malerbe avvolge la grande casa: Jaqueline e Edie vi si nascondono, scompaiono dalla vista di vicini, giornalisti, curiosi, distaccandosi contemporaneamente da una società che incute terrore ed elargisce giudizi, tensioni, insuccesso, depressione nevrotica 38. La Gray House é un isola nel deserto, enorme ‘nuisance’ -elemento di disturbo- in contrasto con l’ordine e la pulizia dei giardini limitrofi; animali e piante ritornano ad abitare il territoio, seguono il proprio corso biologico -liberi dalle costrizioni estetiche e dalle norme comportamentali “Oh, it’s a sea of leaves. If you lose something you can’t find it again. It drops to the bottom [...] .

“Raccoons and cats become a little bit boring…I mean for too long a time.”39

38 Il film dei fratelli Maysles documenta la vita delle due protagoniste con un approccio che e’ un misto di “direct cinema e Cinema verite’. Non c’e’ racconto, climax o colpo di scena, sono i piccoli cambiamenti di umore di Edie, i discorsi da ex-dive o dive mancate, i pranzi a base di cibo confezionato, a scandire le lunghe giornate tra le stanze colorate e fatiscenti della Gray House. Sono gli esseri non-umani gli unici conviviali compagni delle due donne: animali e piante, silenziosi co-protagonisti del film, diventano spettatori delle esibizioni pantomimiche di Miss. Edie –e in questa foresta-palcoscenico lei, e’ una star incontrastata.

Sopra: un’immagine di apertura del film “Gray Garden”, a fianco, Edie si esibisce tra le fronde del suo giardino incolto.

A destra, Edie di fronte alla Gray House, le malerbe dominano la scena.

37 la storia è tratta dal libro “Nelle terre estreme” di Jon Krakauer, e racconta la vicenda reale di Christopher McCandless morto in Alaska dopo un viaggio erratico nei territori piu’estremi del continente nord americano .

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Edith “Little Edie” citatazione dal film.

imposte dalla cultura dominante: é caos . Il controllo dell’uomo ai danni della natura si é placato, la ‘natura’ -quella brutta e cattiva- prende il sopravvento: é scandalo. Un tale grado di selvaticita’, che smuove la monotonia del verde istituzionalizzato e che si rende protagonista o compartecipe della vita sociale di un luogo urbano, rappresenta una vera via di fuga. ‘landscaping backward’, anarchia per gli occhi, sollievo per la mente; un ‘ritorno alle origini’ e al contatto con il mondo non-umano nella quotidianità. Gray Garden può essere considerato un documentario sul debutto del selvaggio nella città. Se casi simil-Gray Garden riuscissero a moltiplicarsi –nelle forme più disparate e singolari- estendendosi all’ennesima potenza, i valori associati al mondo selvaggio coinciderebbero con il nostro ambiente reale.

Se siamo ormai nel campo delle ipotesi, lasciare che piante insetti animali invadano il territorio abitato, la nostra quotidianità, i nostri giardini, i nostri spazi non é un progetto di architettura utopista; é una predisposizione alla eterogeneità. Piccoli cambiamenti autonomi e disorganizzati potrebbero sradicare dal basso le convenzioni estetico-abitative per una ri-conformazio

vede quindi la messa a fine di un atteggiamento conflittuale e di controllo da parte dell’ uomo: il tracollo delle abitudini abitative sarebbe l’inevitabile conseguenza . Il ‘giardino grigio’ potrebbe espandersi e dilagare di città in città come un’epidemia cicatrizzante.

Se il mondo non umano potesse smettere di essere semplicemente la fuori e iniziasse ad essere anche qui dentro, se potesse iniziare ad essere tanto naturale quanto umano, potremmo andare avanti a vivere coerentemente nel mondo, e non solo nel nostro giardino, non solo nei luoghi selvaggi ma in una casa che comprende entrambi.

Mentre l’unica soluzione all’ arroganza umana rimane l’indipendenza totale del mondo non umano queste ipotesi rappresentano per lo meno un possibile passo verso la caduta del simbolo natura. Una ‘eco-utopia’ visione ‘post-human’ per il terzo millennio: la mia visione presume una relazione etica tra uomini e natura non umana.

Mentre la civiltà occidentale ha progressivamente guadagnato un grande potere sulla natura attraverso le forze collegate di scienza, tecnologia capitalismo, politica e religione un nuovo rapporto etico porterebbe gli umani ad una relazione dinamica ed equiparata con il territorio e i suoi elementi naturali. Gli umani, in quanto latori dell’etica, riconoscerebbero la natura non umana come un’ entità autonoma che non può essere prevista o controllata ad eccezione di ristrette circostanze.

Noi uomini riconosceremmo di avere le potenzialità per distruggere la vita attraverso il potere nucleare, pesticidi, chimici tossici, e un illimitato sviluppo economico ed eserciteremmo di conseguenza specifiche restrizioni queste nostre dannose abilità.

Un rapporto etico implicherebbe una relazione -tra umani e non - in un posto particolare , un posto che riconosce le sue connessioni con un mondo più vasto attraverso scambi economici ma soprattutto ecologici. Sarebbe un’etica in cui gli umani agiscono per soddisfare sia i propri bisogni che quelli del mondo non umano, limitando la quindi la propria insolenza.

Un’etica di relazione implica ammettere e non negare il declino dei miti obsoleti e dannosi legati alla natura, una ‘ri-miticizzazione’ della narrazione edenica in una nuova che consideri tutti gli esseri naturali come protagonisti. Il nuovo mito e le nuove icone non accetterebbero l’idea di assoggettare la terra o di tenere un giardino poiché entrambi implicano il dominio da parte dell’uomo. Al contrario, qualsiasi posto della terra verrebbe considerato casa o una comunità di esseri con cui co-abitare. Le necessità degli umani e dei non umani saranno dinamicamente bilanciate. Se questa storia potesse essere esperita sarebbe il prodotto di tante nuove voci e registi, sarebbe un covo per un nuovo immenso immaginario collettivo, questo film avrebbe una sceneggiatura complessa, possibili numerosi colpi di scena e infinite varianti di finale. Questo remake non avverrà però se continuiamo a leggere e rileggere la storia in cui siamo nati.

Questo film potrà essere riscritto solo attraverso le azioni.

Miss. Edie di fronte alla Gray House. Le malerbe dominano la scena.

ne ‘bio-diversa’ del territorio abitato. Si ipotizza prima di tutto uno slittamento di significato rispetto il termine natura condiviso dagli abitanti -motore di questo passaggio potrebbe essere la multiculturalità in atto e in espansione in molte metropoli- e poi una civiltà che riconosca e onori la natura non umana come un mondo che non é stato da lei creata ma che ha una sua propria indipendenza. Ragioni non umane per essere come é.

Lasciare che le nostre città diventino un tutt’uno con il resto pre49

POINTS OF VIEW

I contributi che seguono sono immagini ed elaborazioni commissionate a -abitanti della Lombardia e della California meridionale - persone che ho incontrato durante gli ultimi mesi della ricerca. Interrogati ad interpretare il tema del rapporto natura-cultura, l’ intervento allargato si introduce, spero coerentemente, all’interno del percorso di ricerca scavalcando il mio punto di vista –che rimane inevitabilmente soggettivo- e mirando ad una visione se non universale, quanto meno complessa/molteplice. L’insieme di sfumature attraenti, spaventevoli e acute che attraversano le interpretazioni, forzano -di più di come gli argomenti trattati fin ora hanno cercato di fare- la visione monolitica del mondo naturale. Il simbolo natura é visto ora sia come entità in crisi sia come soggetto comunicativoespressivo. Questi intenti vogliono anche esplorare il paradosso che giace alla base della complessa relazione uomo-natura: da una parte la parola ‘natura’ é usata per descrivere una realtà universale che si presuppone debba essere comune a tutti, dall’altra, scarichiamo in essa anche tutti i nostri valori più personali e specifici, le nostre convinzioni, l’essenza di quello che pensiamo di essere, come e dove dovremmo vivere, che cosa crediamo sia giusto e bello, la giustificazione ai nostri comportamenti . Le interpretazioni che ho raccolto sono quindi omogenee, ‘delle variazioni sul tema’ molto simili ma allo stesso tempo esclusive, perché provenienti da un’insieme di abitanti dispersi in ambiti geografici e socio-culturali specifici.

Esemplare é l’analisi delle ‘atmosfere artificiali’ dei grandi treilers americani di Deanna Erdman. Il suo sguardo parla di una natura assente e irraggiungibile perché inscindibile dal confort della sedentarietà. Viaggiatori poco arditi esplorano la vastità del territorio americano senza rinunciare alle poltrone imbottite, ad una cucina climatizzata ben attrezzata, all’intrattenimento degli spettacoli televisivi e alle piante ornamentali in plastica.40 Queste immagini fanno pensare ai gusti culturali specifici di un popolo che sulle tracce dello spirito dell’ ‘On the Road”, elabora oggi stralunati e affascinanti concetti di natura.

40 Le comodità tecnologiche incluse nei trailers americani.

A mid-range, modern travel trailer may contain the following features: Gas/electric powered refrigerator. Gas/electric powered stove, oven and grill. Microwave cooker. Gas/electric powered water heater. Warm air heating.

Beds, some of which double-up as daytime seating. Electricity supplied by battery or external hookup. Toilet with removable disposal tank and flush-water tank. Shower. Radio/CD/DVD/MP3 player Television aerial/satellite dish. Travel trailers (especially American ones) may also contain the following: Air conditioning-External barbecue points-Tow hitch stabilizers-Separate wastewater tanks for “gray water” (wash water) and “black water” (sewage)-CD players-Awning or screen room-Clothes washer and dryer-Microwave-Slide-out rooms (such as a 4 x 7 ft dinette or bedroom extension)

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Eccentriche e barocche esperienze del selvaggio, questi baracconi ambulanti sono una realtà diffusa e largamente condivisa, forme intriganti di un –seppur sottile- legame con il territorio; gli effetti attuali di un lontano e originale istinto nomade.

Le fotografie di Phel Steinmenez sono una selezione della ricerca fotografica che porta avanti da anni: una raccolta di fotografie, testimonianze in bianco e nero custodite sottoforma di due grossi libri -in attesa di essere pubblicati- che descriverei ‘antologie visive della natura urbana’. Protagonista assoluto e -grande figura assente- di questo ciclo fotografico é l’uomo contemporaneo che abita, organizza e gestisce il territorio naturale. I richiami alla civiltà sono costanti e veicolati dagli unici spectrum41 di queste immagini: gli elementi naturali del paesaggio. Il loro inevitabile interagire con gli oggetti/concetti umani determina quindi un’ invisibilità che non é assenza, ma assoluta presenza antropica. Le piante, gli animali e gli spazi desolati diventano le testimonianze dirette, i referenti più efficaci della pratica ordinatrice umana che inscatola, gestisce il selvatico per controllarlo, conservarlo -come trofeo, sotto una teca- demonizzarlo e addomesticarlo a seconda di un insieme di regole sociali. La ragione umana impera sul mondo naturale che non ha altra scelta se non quella di diventare puro artificio, di auto distruggersi per trovare una via di uscita .

Il senso di questa ricerca é convogliato anche da una composizione dell’immagine rigorosamente pulita dove i pochi elementi descritti producono un corto circuito concettuale e culturale estremamente potente-evidente.

Il trittico fotografico di Lorenzo Casali dall’assetto compositivo alla Bernd e Hilla e Becher, é un rilievo fotografico di un delirio architettonico industriale: l’architettura in cemento armato si staglia austera ad occupare l’intero spazio dell’inquadratura tra le tracce recondite di un territorio agreste. I due elementi si fondono e rimandano ad un lungo, lento e forse interrotto processo di industrializzazione del territorio. Sotto queste pesanti biforcazioni strutturali si logora pero’ un asino dall’aria schizoide che non solo esprime nelle sue distorsioni corporee insofferenza ma evoca con la sua stessa presenza la storica sottomissione della sua specie all’uomo.

L’intervento di Louis Hock si pone come testimonianza degli aspetti geopolitici di un territorio. Gli scatti, sono stati effettuati lungo il ‘Cammino del Diavolo’42; un sentiero che attraver41 da Roland Barthes in “La camera chiara” 42 El Camino Del Diablo, Spanish for ‘the devil’s highway’, is a one hundred plus miles of sandy, single track trail that winds through the Sonoran desert zone of Arizona. Along its length, it travels through a National Wildlife Refuge, a National Park, within a mile of the international border with Mexico, and through the middle of a military live bombing range.

URL http://bushducks.com/tripreps/camino.htm

sa l’area desertica di confine tra California e Messico. Questo luogo, usato in origine per motivi prettamente commerciali, é attualmente lo scenario nel quale emigranti sud-americani, aspiranti intrepidi per raggiungere gli Stati Uniti, si trovano a camminare per giorni sopportando una temperatura che nei mesi estivi si aggira intorno ai 50-60 C°. Una pianta dal tronco contorto da anni e anni di lenta crescita rinsecchisce sotto il sole accecante mentre un arbusto giovane irrompe nel terreno bianco e arido. In uno scenario di agonia, speranza e paure umane la loro immagine sprigiona un senso di pace misto ad angoscia.

Nervose e tenaci, segnano il percorso clandestino, la storia di un popolo, e rimandano costantemente all’artificiosità dei confini politici e allo strazio che ne deriva.

Il collage amatoriale di Byron Villacres é un elaborazione visivo-narrativa ricavata dall’accostamento di due immagini-ritagli di giornale. La prima, dal San Diego Union-Tribune, fissa un momento dell’incendio che ha interessato, nell’Ottobre 2007, l’area a nord e sud est di San Diego43. La seconda é invece Poway, cittadina miracolosamente scampata alle fiamme. Byron e la sua famiglia abitano in questa zona suburbana anch’essa a Nord Est di San Diego. La villa con piscina ai piedi di una serie di colline, fu consegnata a Mr.Bayron dall’esercito militare americano per cui lavorava, -su un dollaro di caparra- durante gli anni ’70. Allora il circondario era ancora poco urbanizzato ed, essendo l’area molto inesplorata, Byron decretò i nomi delle colline circostanti: Madeline, Estelle, Robert, Dorothy, Jeorge Villacres, Jens Fromm –che sono anche i nomi dei componenti della sua famiglia. In occasione dell’ultimo grande incendio, secondo Byron furono questi colli a divergere il fuoco e a dirottarne il fumo a Nord e a Sud della sua casa. L’immagine del San Diego-Tribune é stata manipolata: Byron ricostruisce le dinamiche del fatto di cronaca adattandole alla sua visione topografica-fantastica del territorio; si origina cosi’ una versione pseudo giornalistica dell’evento quanto mai inconsueta.

Natura come memoria di un luogo abitato e della sua storia.

Natura come promemoria della fragilità umana. Il luogo 278 di Alex Bombardieri é un scenografia ‘postnuclear’ altrettanto inospitale che si sviluppa in una reiterazione ritmica di cubi in cemento armato e superfici rocciose. Nonostante le note fantascientifiche siamo difrone ad luogo reale in cui si é consumata una vera battaglia tra la natura e i suoi abitanti.

“Sotto i miei piedi ci sono 4 paesi sepolti, persone case e storie cancellate dalla frana del 28 luglio 1987. Dove venti anni fa scorreva un fiume è stato costruito un immenso sarcofago di cemento e pietra, l’ordine che l’uomo ha cercato di imporre dopo il disastro, si unisce al caos della natura che si riappropria lentamente di ciò che le è stato sottratto”.

Altrettanto insolita ed interessante é la pratica di un gruppo di abitanti che agisce su tutto il territorio milanese e in particolare -di recente- nella zona Isola Garibaldi. Nel quartiere, rimasto intatto per piu’ di 50 anni, é in corso una grande opera di ampliamento urbano: oltre che ad un parco urbano, si costruiranno in futuro degli edifici destinati ad uffici e molte residenze. Il progetto prevede la costruzione di “torri verdi” quasi completamente rivestite di bosco. In sintesi un vero e proprio sistema di boschi verticali.

“L’idea di bosco verticale porta a pensare a degli elementi alti, il cui perimetro, e’ completamente rivestito da alberi. Si e’ calcolato che sulle due torri in progetto ne possano essere piantati 900 circa, che equivalgono a 7.000 mq di bosco su un territorio pianeggiante. Pensando al consumo di suolo, un sistema di appartamenti circondati dal verde equivalente a quello progettato nel bosco verticale nell’isola, equivarrebbe a circa 50.000 mq. di villette residenziali. Abbiamo ragionato anche sulla straordina-

Testimone di una vita piu spensierata é invece l’acqua che scorre sotto il suolo Milanese. “Ephemeroptera” il video realizzato da Francesca Cogni e Pietro Lembi esplora la topografia cittadina e la vita quotidiana dei suoi abitanti da un punto di vista assai insolito, quello dell’acqua. La osserviamo scorrere, accumularsi, stagnarsi, solidificarsi sottoforma di ghiaccio, umile e riservata, al servizio del suo padrone. La telecamera ne segue il flusso scorrendo tra i luoghi più disparati del territorio milanese e raccontando lo stile di vita e le abitudini della città. L’industria alimentare, lo svago, la pratiche religiose, lo sport, le fontane, la pesca; il documentario ci rivela che la città é “alimentata ad acqua” e che solo pochi abitanti insieme ai pesci, le rane e gli efemerotteri ne sono veramente consapevoli.

“Ephemeroptera, dal greco epheméra: effimera, di breve durata. Gli efemerotteri sono un ordine di piccoli insetti terrestri che abitano gli ambienti acquatici. Nei loro primi stati di sviluppo, detti “preimmaginali”, gli efemerotteri vivono sui fondali dei corsi d’acqua dolce con l’inizio della fase adulta, chiamata “immagine”, emergono volteggiando nelle vicinanze dello specchio d’acqua. Le “immagini” vivono per un solo giorno. Gli efemerotteri sono ottimi indicatori della presenza di acqua.”

43 At approximately 01:00 on 23 October, fire broke out near Wildcat Canyon to the south of Barona, where many houses were destroyed and lives lost in the Cedar Fire. Residents of Wildcat Canyon and Muth Valley were ordered to evacuate, and the road was closed. The evacuations of Del Mar, Chula Vista, Poway, Del Mar Heights and Scripps Ranch were lifted for many residents on Tuesday October 23 in the late afternoon.. At 9:50 p.m. PDT October 23, 2007, the town of Julian, California was ordered to evacuate. Due to the fires, there was no power or phone service in the town. Evacuation sites included Qualcomm Stadium, Escondido High School, Mission Hills High School, Poway High School, Mira Mesa Senior High School, and the Del Mar Fairgrounds. http://en.wikipedia.org/wiki/California_wildfires_of_October_2007

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ria importanza che potrebbe avere un sistema di boschi verticali posizionato vicino ai grandi nodi della mobilita’ pubblica, per esempio lungo le linee della linea metropolitana, in modo da evitare la congestione di autovetture private che un grattacielo può creare in un centro urbano. Il bosco verticale puo’ essere interessante anche sotto il profilo della qualità della percezione urbana, dato che piante diverse, posizionate con angolazioni diverse nelle diverse facciate delle torri, possono generare effetti cromatici straordinari” 44 In contrapposizione alla logica pianificatrice e innovativo-distruttrice, adottata dal comune di Milano, un gruppo di abitanti si presta al soccorso organizzato in favore della salvaguardia del verde esistente. Travolte dai caterpillars, inaridite e destinate ad una morte precoce, le piante -spontanee e non- del quartiere Isola-garibaldi sono ricoverate e ripiantate in angoli più tranquilli della città. L’operazione di gardening pubblico autogestito, evidenzia le contraddizioni di un piano di intervento dall’alto, poco in contatto con la realtà locale e noncurante di intaccare gli equilibri di un ambiente cittadino-naturale. é infatti paradossale che gli habitat e angoli di rifugio per la diversità attuali vengano distrutti in favore di un intervento di ‘landscape design’ che si propone di valorizzare gli aspetti eco-compatibili della città. L’azione di guerriglia gardening é una performance da strade all’aperto a cui tutti gli abitanti sono invitati a partecipare per rivendicare il diritto alla terra e familiarizzare con i pochi elementi naturali residui. Nora Bertolotti e Stefano Massimello sono due personaggi di spicco all’interno di questi gruppi d’ azione; cosi’ spiegano i loro interventi sparsi in vari punti del territorio milanese.

“Si può dire che pratichiamo “il giardinaggio urbano” la nostra è una rivendicazione non solo di ‘’decoro urbano’’ o make-up dell’aiuola, ma ha anche un aspetto sociale forte (per questo amiamo il giorno per lavorare). l’idea è quella di un hortus diffusus nella città, un giardino diffuso, disseminato, contro la nozione storica di giardino come spazio chiuso e per lo più privato. la possibilità di una pratica del giardinaggio anche senza possedere un giardino, ovvero possedendo quegli spazi che sono pubblici. una pratica nel tempo, di cura continuativa, ragion per cui non amiamo tanto le azioni simboliche, se non sono seguite da un radicamento nel tessuto urbano.”

Restiamo sulle tracce degli esseri vegetali nella città, ma questa volta a Città del Messico. La capitale del Messico é attualmente la città più popolata al mondo, con una popolazione tra i diciotto e i ventidue milioni di abitanti. La città é un groviglio di persone, automobili, mezzi pubblici, abitazioni fatiscenti mescolate a rovine pre-ispaniche e a palazzi coloniali neri da micro-polveri.

44 Stefano Boeri, docente presso il Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano.

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“Ogni giorno gli abitanti esprimono il loro stupore circa il fatto che la città comunque funzioni: sembra un miracolo che aprendo il rubinetto l’acqua esca, che la metropolitana trasporti senza intoppi sei milioni di persone al giorno, che gli abitanti della metropoli più inquinata al mondo non siano tutti morti d’asfissia e che i camion passino tutte le mattine a raccogliere la spazzatura.

Le statistiche, quando vengono pubblicate, sono apocalittiche: a questo ritmo l’acqua potabile sara’ esaurita nel 2100; in certi mesi una banca al giorno viene assaltata in modo violento; e il Messico sta per strappare alla Colombia il primato di capitale mondiale dei sequestri di persona”. 45 Alma Guillermoprieto, una reporter messicana, poco tempo fa ha scritto che Città del Messico “sembra il giorno dell’apocalisse […]”.

Nei giorni in cui l’inquinamento offre una breve tregua, dalle strade della città si possono vedere le montagne e i vulcani che circondano la valle che ai tempi della colonia era nota come ‘la regione dell’aria trasparente’. I rilievi fotografici di Felipe Zuniga sono dei ritratti ravvicinati di alcune piante trasformate e sfigurate dalla città. Anche loro, abitanti di Mexico City, testimoniano questo scenario paradossale di ordine nel caos, sofisticazione nella miseria, anche la cura, nel quotidiano della metropoli, segue la linea dell’assurdo.

Il racconto di Chiara Rippa apre uno scenario urbano post-industriale: il paesaggio é quello tipico della periferia di Milanese siamo in una fabbrica dimessa prima e in un parco incastrato tra un centro commerciale e una super strada poi. La storia di Dalì e Samir é uno ‘shot’ di realismo amaro non diluito. Il mondo non umano é avvolgente a tratti edenico, a tratti inquietante; sullo sfondo le malerbe e gli animali da città lavorano imperterriti inghiottendosi lentamente le aree disabitate dalla gente ‘per bene’. Riconosciamo i luoghi del degrado urbano, i non luoghi della città nelle ore più desertiche, i parchi-gioco frequentati solo da lepri e conigli; immaginiamo storie invisibili di anime clandestine e selvatiche ai margini indefiniti tra natura e città.

La serie degli interventi si conclude con il contributo elettroacustico di Alan Lechuza. La composizione sonora “Green space” é un accavallamento incostante di oggetti sonori contrastanti al limite tra naturalità e artificio, sperimentazione e tradizione. Messi a contatto gli antipodi articolano ‘un discorso d’estremi’ in uno spazio critico che abbatte le categorie fittizie e umane in avore di una totalità di espressione e significato incondizionata.

45 Ruben Gallo, “Sei visioni di Mexico City” in “Atmosfere metropolitane”

Deanna Erdmann

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“Untitled” 2007

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“Untitled” 2007

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“Untitled” 2007 57

Phel Steinmenez

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”Yosemities buttons”

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“Chains”

“Graffeti”

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“Hoof prints”

Tables & Vines”

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“Snalls”

”Openings”

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“Dog & cat”

“Coyote & Hawk”

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“Porpoise”

”Relay palm”

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”Ear”

”Fly”

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Lorenzo Casali

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“Città ��������������������� continua” 2006

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Louis Hock

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“Wash tree”

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The Camino del Diablo, begins in Mexico near the east side of the Sea of Cortez and runs west and north until it hits the Colorado River at the border. Native peoples used the route for trade, exchanging turquoise for sea shells; the Conquistadors and missionaries saw it as the beginning of their treasure map; California-bound “gold-rushers� avoided the threat of Apache attacks by using its southerly course through the hostile desert; the U.S. and Mexican surveyors trekked along it to mark and map the border; and now undocumented immigrants coming north looking for work are joining the legacy of dry white skeletons that never found water.

The most common deception is seen in the heat of the day, when beautiful, quiet lakes and timber-fringed ponds lie in tantalizing attractiveness, apparently but a few hundred yards away, the details so perfect that the reflection of every object on the bank is faithfully reproduced, and it is little wonder that thirsty travelers unaccustomed to this mirage are lured from the road to procure this water, which ever appears but a little distance ahead, yet is never reached. --- published log of J.W. Barlow, surveyor, 1893 International Boundary Commission Report

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”Whitedesertimage” 71

Alex Bombardieri

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“Luogo 278” 2004, Val Pola (Alta Valtellina) “Sotto i miei piedi ci sono 4 paesi sepolti, persone case e storie cancellate dalla frana del 28 luglio 1987. Dove ventanni fa scorreva un fiume è stato costruito un immenso sarcofago di cemento e pietra, dove l’ordine che l’uomo ha cercato di imporre dopo il disastro, si unisce al caos della natura che si riappropria lentamente di ciò che le è stato sotratto.”

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Francesca Cogni e Pietro Lembi

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“Ephemeroptera”, stills da video, 2007

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Byron Villacres

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“Untitled”, Poway, October 2007

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Nora Bertolotti e Stefano Massimello

Spirea japonica

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Spirea japonica

Gaillardia grandiflora

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Un lombrico milanese e dei piccoli settembrini (ovvero Aster) poco dopo la divisione in attesa di trovare una nuova collocazione nel suolo cittadino.

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I mezzi utilizzati per trasportare le piante ricoverate sono semplici ma efficienti.Nel vaso a sinistra: Carpinella (ovvero Ostrya Carpinifolia Scop.) nel secchio bianco nel mezzo: Lunaria annua, anche detta medaglia o moneta o occhiali di papa . Nel mastello nero: Spirea japonica, nel secchio arancio: una piccola Escolzia.

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Felipe Zuniga

At Disneylandia, Ecatepec, Mexico, 2007

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Entropic architectures, Ecatepec, Mexico, 2007

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Chiara Rippa

“Minet, Minet minet.... tu viens ici... petit chat...Minet” Dalì tentò di convincere il gattino a tornare accanto a lui dopo che il fragore di un grosso camion a rimorchio lo aveva spinto a lanciarsi nel folto di un cespuglio. Incorniciati dal verde delle foglie due occhi gialli lo guardavano soppesando le sue mosse. “Tu viens ici beau chat” ripetè agitando alcune foglie sul cemento, il piccolo gatto grigio cominciò ad allungare verso le foglie una zampina poi, sempre più coinvolto, decise di uscire dal suo nascondiglio fino a che non ricominciò a giocare con i fili della manica del ragazzo. Dopo aver tranquillizzato il gatto Dalì torno a sdraiarsi sul pavimento di cemento appoggiando la testa contro le radici di un olmo che erano riuscite con pazienza decennale a crearsi un varco tra l’asfalto.

Il cortile interno della vecchia fabbrica tessile era una silenziosa isola persa nelle dodici del mattino. Il sole, tra le vecchie finestre spaccate, sembrava creare liquidi giochi di luce sull’asfalto delle pedane. I pochi alberi che avevano trovato tra le radici la forza di ergersi, simili a colonne, onirici e fuoriluogo come le rovine dei vecchi fori, creavano intorno a loro macchie di verdi prati raramente più grandi di un metro, fili d’erba che umilmente si erano aggregati a quei ben più forti fratelli. Al contrasto del luminoso cortile la vecchia fabbrica pareva una silenziosa cattedrale, con la sua penombra fredda, con i suoi vuoti echi, i vecchi macchinari tessili abbandonati erano tabernacoli di un operosità incessante terminata più di 40 anni fa, l’avvenire di allora pareva giacere coperto dalla polvere e dalla ruggine, quel luogo rumoroso di vita umana e meccanica, era ora riempito dal silenzio dell’edera. Ma Dalì non vedeva ne l’edera, ne il sole, ne l’olmo, non vedeva nemmeno il gattino con il quale giocava. Dalì teneva gli occhi semichiusi, con le ciglia nere appena calate sul’iride tutto diventava sfumato e lontano, sentiva sotto la sua schiena il cemento scaldato dal sole. A casa amava starsene sdraiato sul cemento caldo della terrazza, giocherellando con il gatto di zia Nassarà. Su madre spesso lo rimproverava per la sua pigrizia e la sorella lo chiamava lucertola. Non c’era nulla che piacesse tanto a Dalì quanto stare al sole.

Da più di un’ora Samir gironzolava tra le vie del parco-pineta. Nonostante girasse con noncuranza tra le viette sterrate in realtà Samir si trovava li per un preciso motivo. Ogni tanto la sua attenzione era attirata da cumuli di ciottoli e rametti che cominciava ad ispezionare smottando con la scarpa il terriccio intorno. Lavorava con Rachid da un mese e ormai aveva la certezza che lui tentava di fregarlo. Peggio: tentava di fregare Michel. Cominciò a setacciare il limite del parco accanto al parcheggio del centro commerciale inoltrandosi pian pieno verso l’interno. Alle cinque aveva un appuntamento con Nourdine allo scivolo dei bambini, Probabilmente voleva parlagli della situazione di Rachid, chiedergli di metterlo in guardia. Probabilmente Michel si era accorto delle sue piccole estorsioni. Samir era certo che la sera prima Rachid avesse di nuovo trafugato un pezzo di hascisc. Probabilmente lo aveva nascosto nel parco, ora lui stava tentando di ritrovarlo per ingraziarsi Nourdine ma non era certo facile cercare una cosa così piccola, una cosa da nulla nell’immenso parco.

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Mentre Dalì navigava nel mare del suo torpore il gattino continuava il suo accurato lavoro di unghiette sul bordo della manica. Il ragazzo decise di fermarlo prima che trasformasse il suo maglione in un gilet e ciondolando si diresse all’interno della vecchia fabbrica: un’industria tessile benché abbandonata offriva più di uno svago per un gatto, infatti poco dopo ne uscì con una spoletta di cotone: un piccolo omaggio che sperava servisse a distrarre il micio dalla sua caparbia opera di distruzione. Ma il gatto continuava a trovare il suo maglione molto più interessante e non gli rimase altro da fare che sedarlo con le carezze finche non si acciambellò facendo lunghe effusa. Sotto la mano sentiva il fragile scheletro dell’animale, il ritmico sollevarsi della cassa toracica. Era magro, troppo magro per un gattino. Non ancora abbastanza adulto per riuscire a cacciare topi e passeri. Fino a poche settimane prima Dalì vedeva spesso aggirarsi per il cortile la madre, una grossa gatta selvatica poco incline a lasciarsi avvicinare e che tollerava a malapena la curiosità del gattino per quel ragazzo dal volto lungo e smagrito. Era da molto che Dalì non vedeva più la gatta e si era occupato del micio ogni volta che ne aveva la possibilità. Ora però non poteva farlo. Ora aveva una fame tremenda anche lui. Non aveva un soldo in tasca, era Samir ad occuparsi di lui nello stesso modo in cui lui si occupava del gattino. Ma Samir ora non c’era, non sarebbe tornato prima delle otto e il pranzo non sarebbe di certo arrivato prima di lui. Digiuno dalla pomeriggio precedente non gli restava che bere continuamente l’acqua raccolta in una grossa tanica per sentirsi lo stomaco pieno. A casa sua essere magri era sinonimo di malessere e ogni volta che lo vedeva dimagrito sua madre cominciava a pensare che stesse per venirgli la febbre. Ma non era facile dimagrire a casa sua: la sorella minore aveva tentato più volte di farlo, attratta dalle longilinee creature che popolavano le pagine levigate delle riviste francesi ma non aveva potuto nulla contro la cucina satura d’olio d’oliva della zia Nassarà. Sarebbe stato bellissimo ora sentire l’odore del pollo al limone e olive ma l’aria del cortile non portava con se che il lieve profumo dell’erba d’aprile. Presto tutto sarebbe cambiato. Presto avrebbe trovato un lavoro e allora con un po’ di risparmi sarebbe riuscito a tornare in visita a casa, prima però doveva recuperare tutti i chili persi in modo che la zia non pensasse che non era ancora in grado di badare a se stesso. Di certo a casa erano già giunte notizie non buone sul suo conto. Di certo monsieur Faruk si era già occupato di informare suo padre. Se fosse stato a casa probabilmente papà lo avrebbe preso a schiaffi con le sue enormi mani da carpentiere e nonostante la fame il ricordo di quegli schiaffi che da bambino lo facevano piangere per ore allontanò per un poco da lui la nostalgia di casa. Faruk era il miglior amico di suo padre da quando erano bambini, viveva in Italia da più di 15 anni, sposato con una donna egiziana, ogni volta che tornava in Algeria passava lunghe ore nella loro casa raccontando della sua vita a Milano e portando i regali più svariati e curiosità per i bambini della famiglia. Una volta addirittura si era presentato con un albero di Natale che danzava e cantava quando si battevano forte le mani. L’albero, odiato da sua madre, finì presto nel pattume ma i racconti di Faruk no, quelli rimasero sedimentati nella testa di Dalì per anni fino a che non decise di partire, monsieur Faruk si sarebbe occupato di lui. Ma la nuova vita non si era rivelata facile. La casa di Faruk era troppo piccola per lui, la moglie e i tre figli piccoli. La donna aveva preso subito in antipatia quel ragazzo goffo “ che toglieva aria alla casa” e l’uomo dal canto suo era ossessionato dall’incapacità di Dalì verso qualsiasi lavoro e lo rimproverava continuamente convinto che il ragazzo si stesse adagiando su una comoda situazione senza fare nessun tentativo per integrarsi. La “tragedia” scoppio il giorno in cui Faruk scoprì che aveva abbandonato il lavoro in cantiere procuratogli tramite un amico. A nulla valsero le spiegazioni del ragazzo che con i suoi 60 chili scarsi era completamente inadatto a trasportare sacchi di cemento. Quel giorno Dalì decise che se ne sarebbe andato. Solo una vaga lettera di spiegazioni e buoni propositi dietro di lui. Prima si trasferì a casa di una famiglia egiziana conosciuta tramite un collega al cantiere. Ma era durato poco, il padre di famiglia era un fervente islamico che lo accusava di voler rinnegare le sue radici culturali solo perché non amava partecipare alle funzioni religiose. Quando se ne andò dalla seconda sistemazione era completamente rassegnato, l’unica cosa che desiderava era trovare il modo di tornare a casa e per due settimane girò per le stazioni ferroviarie della provincia che utilizzava come ricovero per la notte. Fu in una di quelle stazioni che conobbe Samir. Era un uomo sulla trentina che si dimostrò gentile con Dalì offrendogli un pacchetto di sigarette e una buona conversazione. Samir aveva in Marocco una moglie e un figlio di 14 anni che non vedeva da quando il bambino ne aveva sei. Un bimbo che portava il suo stesso nome: Maommed Ali, Dalì. Dopo due ore di chicchere lui lo prese con se portandolo per la prima volta nella vecchia fabbrica abbandonata.

Samir se ne stava disteso sul fianco tentando di trovare una comoda posizione tra le aste di legno della panchina. Il sole aveva già iniziato il suo lento declino tra le cime dei pini, simili a sagome di cartoncino nero tra il rosso aranciato del cielo. A giudicare dal buio che cominciava a scendere e dal freddo che saliva dalla terra dovevano essere all’incirca le sette della sera. Da ormai due ore stava aspettando accanto all’area bambini. Ma nessuno si era presentato e i pochi ciclisti, le nonne con i nipotini, signori con cane al seguito e coppiette di ragazzini avevano ormai abbandonato il parco. Samir era completamente solo.

Dalì afferrò una vecchia sedia di laminato. La impugnò stretta tenendola per le gambe, declinò il busto all’indietro per prendere slancio e la infranse contro il muro di mattoni della fabbrica. Ripetè l’operazione una, due, tre volte, finchè l’intelaiatura di metallo non si sformò liberando lo schienale e il sedile in compensato. Era strano distruggere una sedia in quel modo: senza rabbia ma solo con calcolata precisione. Fino alla settimana scorsa avevano potuto utilizzare per legna una scorta di vecchi bancali, bruciavano bene e riuscivano a tenere vivo un bel fuoco anche per ore. Ora rimanevano solo vecchie sedie che producevano un fuoco fumoso e breve. Gettò dell’ alcool su dei rametti utilizzati per far brace e in breve riuscì ad accendere il falò. Il grande ventre della fabbrica si riempì di un acre odore di cellulosa bruciata mentre il riverbero del fuoco creava lunghe ombre tra i macchinari tessili. La fame non faceva che aumentare ma Samir non era ancora tornato. Da ore Dalì elencava nella sua mente tutto ciò che sarebbe potuto accadere all’amico, cose orribili come essere investito da un auto oppure arrestato dalla polizia, magari ora Samir si trovava in questura e lui sarebbe rimasto inutilmente ad attenderlo per giorni. Sarebbe di nuovo tornato completamente solo.

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Un vago senso di paura si impadronì di lui, la fabbrica gli apparve allora un posto freddo e angosciante con il suo enorme vuoto.

Un luogo dove lui sarebbe potuto sparire senza lasciare tracce, dove nessuno si sarebbe accorto della sua scomparsa. Ad un tratto un forte rumore tra le arcate deserte lo fece trasalire e il suo cuore cadde come in un vuoto prima di accorgersi che si trattava solo di un piccione. L’animale probabilmente era riuscito ad entrare da una delle finestre spaccate ma ora non era più in grado di uscirne. Volava a cinquanta centimetri scarsi dal pavimento sbattendo qua e la tra le colonne di cemento. Senza essere completamente cosciente di ciò che stava facendo il ragazzo agguantò una delle coperte di Samir, un vecchio panno di lana scura e a passi lenti si avvicinò al piccione. Era la voce dello stomaco a suggerirglielo, la voce del sangue. Prendere quella bestia, tenerla ancora viva tra le mani, ucciderla, mangiarla. L’animale sembrava non curarsi delle manovre compiute intorno a lui ma quando Dalì tentò di intrappolarlo con la coperta riuscì a scansarla con facilità. Dopo un breve volo si posò di nuovo su un davanzale a due metri scarsi da terra. Pur essendo in quella posizione non particolarmente sicura il piccione sembrava guardare il ragazzo con una sorta di scherno negli occhi vitrei. Di nuovo tentò di avvicinarsi silenziosamente e di nuovo appena fu vicino gli gettò addosso il panno ma quello riprese velocemente il volo per poi posarsi su una vecchia cardatrice meccanica. “Animal horrible. Créature obscène” ancora una volta gli parve che il piccione lo fissasse con i suoi occhiacci vuoti, lo schernisse con quel suo ritmico sussulto della testa. Tentò allora di batterlo in velocità ma prima ancora che gli fosse vicino quello con un breve volo raggiunse la sommità di una colonna rendendosi irraggiungibile. Frustrato Dalì lanciò contro all’animale la pesante coperta. Non aveva più nessuna speranza di prenderlo ma gli sarebbe almeno piaciuto colpirlo. Guardandolo dall’alto il piccione non gli toglieva gli occhi di dosso.

Nelle ore che seguirono il buio il parcò riprese vita sotto gli occhi di Samir. Ora erano lepri e conigli ad aggirarsi tra le altalene e le giostre deserte. Steso sulla panchina snocciolava sigarette da ore accumulando una piccola montagna di mozziconi fra i piedi. Ormai non sapeva nemmeno più perché stesse aspettando e tutto prendeva senso unicamente nell’attesa fine a se stessa. Ma c’era un motivo per cui era ancora in quel luogo sempre più umido e buio. Il motivo ad un tratto si manifestò tra i cespugli con i suoi 90 chili. Nourdine era arrivato. Incespicando tra le radici degli alberi l’uomo si avvicino alla panchina sulla quale si lasciò cadere con un breve sospiro poi, senza dire una parola, cominciò ad arrotolarsi una sigaretta di tabacco nero. Samir lo conosceva bene, lo conosceva talmente bene da sapere che in quelle occasioni non bisognava iniziare il discorso finchè Nourdine non avesse terminato i suoi rituali, quasi un modo per predisporsi alle complicate questioni da decifrare. “Samir desideri dirmi qualcosa?” la domanda lo investì all’improvviso.

Era uscita dalla bocca di Nourdine insieme ad una nuvola di fumo e un vago odor di vodka. “Nourdine…” tentò di organizzare in fretta i propri pensieri, perché non lo aveva fatto prima durante la lunga attesa? “io penso che tu voglia parlarmi di Rachid” l’uomo lo guardò per un attimo con aria interdetta “Rachid? Cosa sai tu di Rachid?” la domanda spiazzò di nuovo Samir, forse stava rischiando di accusare inutilmente il povero diavolo, forse Michel non sapeva ancora niente del hascisc sottratto. “ sai una cosa Samir? È strano che tu voglia parlare di Rachid perché proprio ieri lui è venuto da me a parlarmi di te” Nourdine avvicinò il volto a quello di Samir, aveva il naso gocciolante e occhi rossi per il freddo. “ Lui dice che tu non ti stai comportando per niente bene. E’ vero?” Una vertigine salì dai piedi di Samir fino allo stomaco, improvvisamente sentì il desiderio di vomitare. Conosceva bene quella sensazione, la provava sempre da bambino ogni volta che incrociava lo sguardo del maestro alla scuola coranica ma li era tutto diverso: li il maestro era più cattivo della morte e lui, da parte sua, era un pessimo alunno. Cosa succedeva ora? A lui?Lui che era sempre stato fedele a Michel più di un bue? “ Nourdine, amico mio, io non ne so nulla. Io penso che Rachid ruba l’hascisc di Michel e ora vuole incolpare me.” Di nuovo Nourdine si avvicinò un poco di più al suo volto, in una altra situazione Samir avrebbe temuto che il bestione volesse tentare di baciarlo “ Il mese scorso non hai riportato 15 grammi” si scostò un poco all’indietro “Ti ho già spiegato quella storia. C’era la polizia. Sono dovuto scappare poi mi stavano prendendo e ho buttato tutto.” “Ma poi non ti hanno preso” di nuovo Nourdine strisciò sulla panchina verso di lui. “ Sono stato fortunato! Ma in quella retata hanno preso Alì. Ho buttato tutto in un cespuglio ma non sono riuscito a ritrovarlo. Ho cercato per ore quel giorno tu lo sai! Tutti lo sanno! Anche oggi per ore ho cercato il pezzo che ha rubato Rachid!” Nourdine con uno scatto si alzò in piedi, anche Samir tentò di sollevarsi ma lui lo trattenne sulla panca afferrandogli la spalla sinistra. “Samir, caro amico, questo è quello che dici tu!” Nourdine si curvò su di lui, tutto il suo campo visivo era occupato da quella grande faccia con il naso gocciolante e gli occhi piccoli e rossi “ sai che ti dico Samir? Io sono stufo di te come di Rachid. Stufo di voi imbecilli che combinate solo stronzate e poi venite da me a piangere. Ma alla fine con Michel ci parlo io. E sono solo mentre lo faccio, capisci? Il fottutissimo Nourdine è sempre da solo! Il fottutissimo Nourdine non si fida più di voi stronzi!” Di nuovo l’alito di Nourdine lo investì con il suo vago sentore di vodka. Fu allora che Samir capì. Capì ed ebbe paura. Nourdine era completamente ubriaco.

“Nourdine, fratello mio” tentò di rabbonirlo “ tu hai molte responsabilità e noi ti diamo mille problemi ma tu sai che io non ho mai tentato di fregarti, mai!” l’altro lo fece sollevare dalla panca con uno strattone. Sembrava fosse la grande mano di Nourdine a trattenere i piedi di Samir per terra altrimenti quello sarebbe volato via come i semi di pioppo. “non dovevi tentare di fregarmi!” “fratello!

Ti prego ragiona! Tu sei ubriaco!” “Ubriaco?” l’uomo allentò per un attimo la presa sulla sua spalla “Ubriaco? Ora mi dici anche che sono ubriaco? Ma certo! Tu sei un buon mussulmano, lo sei sempre stato. Tu non bevi come Nourdine. Tu spacci ma non usi hascisc come Nourdine. Invece io bevo e mi ubriaco. Uso hascisc e cocaina e mi drogo. Ma tu sei diverso da me? Tu sei buono?” mentre parlava si era allontanato un poco da Samir, saltellava continuamente spostando il proprio peso da una gamba all’altra, sarebbe stato buffo se le sue mani, all’interno delle tasche della giacca, non stessero giocherellando con qualcosa al loro interno. Samir sapeva perfettamente con che cosa giocava Nourdine e di nuovo il terrore lo prese. Ebbe paura della mole dell’uomo che gli stava davanti, dei suoi occhi rossi di freddo, del naso gocciolante, dell’ alcol nel suo stomaco, del coltello nella sua tasca. La paura divenne un nodo

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nelle sue gambe, il nodo divenne prurito e il prurito si trasformò in un balzo proteso verso il buio, gli alberi, l’immenso parco. Iniziò a correre. Sempre più veloce. Ma i passi di Nourdine erano ancora dietro di lui, pesanti sul terreno coperto dagli aghi di pino. E i passi erano accompagnati dalla sua voce ansimante per la corsa “Pensi di essere buono tu? Tu che ti sei preso un ragazzino tutto per te? Pensi che sia stupido io? Io so perché mantieni con te quel ragazzino! Maledetto frocio! Sei tu che fai schifo, hai capito? Frocio!”

Per la terza volta il fuoco si spense lasciando dietro di se solo odor di fumo e braci che brillavano rossastre nel buio. Dalì afferrò uno legnetto bruciato per metà e con il lapillo ancora vivo su una delle estremità si mise a disegnare cerchi d’orati nell’buio poi una volta che si spense cominciò a rosicchiare piccole schegge di legno. Quando a casa rifiutava del cibo a lui non gradito la mamma gli diceva sempre che chi a fame mangia anche il tavolo. Aveva sempre pensato si trattasse di uno scherzo. Ora aveva un po’ più fame ogni minuto che passava e di Samir non c’era traccia. Pensò per un attimo di uscire dalla fabbrica per cercare del cibo ma sapeva che intorno a lui non si trovavano che chilometri di capannoni edili, deserti ed inutili. Nel grande edificio era arrivata la notte, solo una goccia d’acqua che cadeva ritmicamente dalle tubature riempiva con la sua voce lo spazio intorno che nell’ oscurità perdeva qualsiasi dimensione. Angusto ed enorme nello stesso tempo. La sua gamba venne colpita da una spoletta di cotone che rotolava sul pavimento, poco dopo apparve il gattino che a pancia all’aria si mise a sfilacciare a brandelli il filo di cotone. Dalì lo afferrò per la collottola e lo strinse tra le braccia. Era così diverso da Marcell, il gatto della zia, quello era un grosso bestione grasso e pigro mentre questo sembrava sempre sul punto di spezzarsi ogni volta che lo stringeva tra le mani. Pauvre chat. Pauvre petit chat. Sotto la pelliccia grigia le leggere ossa dell’animale parevano cedere sotto le sue carezze. Cosa sarebbe successo se non avesse più potuto nutrirlo? Se Samir non fosse tornato? Cosa ne sarebbe stato di lui, di Dalì, se Samir lo avesse lasciato solo? Cominciò a tastare la pancia del gatto. Era veramente troppo magro per un gattino? Poteva morire di fame? Era forse un gatto destinato a morire di fame nonostante i suoi sforzi per accudirlo? Lo prese di nuovo per la collottola, sentendosi sollevato bruscamente l’animale tentò di ribellarsi soffiando ma Dalì lo tenne stretto e con sguardo analitico lo soppesò. Quanta carne si poteva trarre da una bestia come quella?

I rami intorno a lui si impigliavano nei suoi vestiti, graffiavano la sua pelle mentre continuava la sua corsa all’interno di una macchia di folti e bassi cespugli. Correva a scatti, cercando di far perdere le sue tracce, ogni tanto era costretto a continuare a carponi per inoltrarsi nel folto del parco. Da alcuni minuti non sentiva più Nourdine dietro di se e decise di fermarsi a riprendere fiato nascosto tra la vegetazione. Si appoggiò ad un tronco e rimase sdraiato, tenendo premuta con una mano la milza che lanciava lunghe fitte di dolore. Sopra di lui le fronde si aprivano in un piccolo squarcio di cielo. Era una notte nera, buia, fredda ma che già portava con se gli odori vellutati della primavera nascente: il profumo dolciastro del trifoglio mischiato a quello fresco e pungente dell’erba. Era una bella notte. Il vento che lievemente accarezzava i vecchi pini portava con se la promessa delle dolcezze della stagione calda, morbido e voluttuoso. La nebbiolina che saliva dalla terra umida ammantava il sottobosco riempiendolo di fumose luminescenze. Era una bella notte per le volpi che nel parco silenzioso si aggiravano alla ricerca di cibo, era bella per l’usignolo che appena giunto dal nord africa approfittava del buio per lanciarsi nelle sue canore dichiarazioni d’amore. Anche per Samir sarebbe stata una bella notte. Se solo avesse potuto chiudere gli occhi, riposare, dormire, lasciarsi cullare da quel mondo brulicante di vite che si schiudeva attorno a lui, per lui. Se solo avesse potuto farsi trasportare sulle piccole ali di quel ben più felice connazionale dal lungo becco, sulle vie del ricordo e del sonno. Ad un tratto uno schianto di rami spezzati fece vibrare ogni foglia d’albero, l’usignolo ammutolì ed un grosso coniglio raggiunse con un balzo la sua tana. Per la prima volta in vita sua Samir provò simpatia per quel piccolo animale, capì il suo terrore, il cuore che ti esplode nel petto. Si risollevò e ricominciò a correre. Il rumore di passi e rami spezzati dietro di lui gli confermarono che Nourdine era ancora sulle sue tracce. Ad un tratto udì nuovi rumori davanti a se, rumori completamente diversi dai fruscii e palpiti del parco. Rumori di automobili, la strada era davanti a lui. Iniziò a correre in quella direzione, deciso ad abbandonare il buio degli alberi, il silenzio, l’odore di selvatico, la paura di essere solo. Di nuovo tra la gente e con la gente. Perchè quando sei nel tuo branco non hai più paura. Quando sei nel branco non ti si può più far del male. Perdersi nel rassicurante rombo del mondo. Nourdine era sempre dietro di lui, poteva sentire i suoi passi che si avvicinavano, le maledizioni che la sua bocca srotolava per lui. Si girò e vide a mezzo metro da se il volto di Nourdine, rosso per corsa, gli parve un viso sfigurato come quello dei mostri nelle favole dei bambini. Raccolse tutte le energie che gli erano rimaste e fece un ultimo disperato balzo verso la strada. Fuori dal buio, nella luce elettrica dei lampioni.

Nell’accecante riverbero di due enormi fari che si gettarono contro di lui. I fari di un auto che illuminavano il volto di Samir mentre si facevano sempre più vicini. Dal parco giunse la voce di Nourdine ma lui non fece in tempo a sentirla. Fuori dalla luce fu di nuovo buio.

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Alan Lechuza

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Green Spaces #1 and #2 An original Composition by ARCANUM Alan Lechusza – Woodwinds Ori Barel – Electronics c/p 2007 Performed/Recorded: June 2007 Newport Coast/Los Angeles, CA

Green Spaces tackles the fictitious line of demarcation between electronic and acoustic music acting as a commentary on the ever changing landscape of our times.

As humans, we are surrounded by both acoustic (natural) and electronic (synthesized/artificial) elements on a regular and daily basis.

Our 21st century post-modern lives are dictated by how we encompass, understand, balance and relate to the overarching presentation of electro-acoustic elements in our lives.

The more compressed time and space are becoming, the more of a desire we are placing upon our relationship to our natural world. The blooming of a flower can follow a clock just as equally as it can now be realized through the time elapse of a camera.

A single day can last for years or a few fleeting seconds depending upon how we desire to understand, and ultimately relate, to this phenomological concept.

We are in the midst of a cycle which we could have only imagined previously; that time and space are entering our constructive control, yet they retain their cognitive sovereignty and act without our control. Try as we may to capture these natural elements artificially, they still dictate who we are echoing that we are stil natural beings.

Green Spaces is a composition that, through the active engagement of composition and improvisation, details this phenomological realization. Pure seconds of sound are captured and held, which are then able to expand beyond their “natural” state of existence. Sounds that are synthetically created find equal company with acoustic sounds and vice versa. There is a true balance between these different textures (acoustic and electronic) that allow each other the liberty of time through the expression of a moment re-presented in an artistic medium. The sonic landscape of our times maintains not a singular direction, but rather is invested within many different “voices” from different landsapces. Green Spaces is a sonic metaphor for the way in which we live and co-exist in a challenging time continually on the edge of critical self and ecological inquiry.

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BIBLIOGRAFIA E FONTI delle IMMAGINI : -Antonio Berlese “Gli insetti. Loro organizzazione e sviluppo, abitudini e rapporti con l’uomo”, Società’ libraria, Milano, 1909.

-Carey Mc. Williams “Southern California, an island on the land”, Gibbs Smith, Layton, 1973.

-Clinton L.Evans “The war on weeds in the Prairie West: an environmental history”, University of Calgary Press, 2002.

-Derrick Jensen “Endgame. Resistance”, Seven Stories, New York, 2006.

-Gianni Celati “Narratori delle pianure”, Feltrinelli, Milano, 1985.

-Ian Grant “The Handy Gardener”, The Litery Press Printed in Great Britain, General Editor, 1958.

- International Center of Photography, “Ecotopia”, Catalogo della mostra, New York 2006.

- John Zerzan “Running on emptiness. The Pathology of Civilization”, Feral House, Los Angeles, 2002.

-Gilles Clement “Manifesto del terzo paesaggio”, Qodilibert, 2004.

-Marc Auge` “Non places. Introduction to an anthropology of supermodernity”, Verso, New York 1995.

-Marie Fare’“Insetti in società”, E. Elle, 1986.

- Reyner Banham “Los Angeles. The Architecture of Four Ecologies”, Allen Lane Penguin Press, 1971.

- Roberto Pinto, a cura di “Landscape in motion. La generazione delle immagini”, Milano 2001.

-Roberto Pinto, a cura di “Atmosfere Metropolitane”, Milano, 2000.

- Robert L. Rudd “Pesticides and the Living Landscape” , U of Wisconsin Press, 1964.

-Roderick Mc.Kenzie “The ecolgical Approach to the Study of the Human Community” from “The City”, Chicago university Press, 1967.

-Roland Barthes “La camera chiara, note sulla fotografia”, Einaudi, 2003.

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-William Cronon “Uncommon ground. Toward reinventing nature”, Norton, New York, 1995.

- William Olkowski, Sheila Daar, Helga Olkowski “The Gardener’s Guide to Common- Sense. Pest Control”. Ed.Tauton, Newtown, 1991.

WEB: www.criticalgarden.netsons.org www.cryptomundo.com www.earthfirst.org www.es.flinders.edu www.eugea.it www.filmmakerfest.org www.geology.csupomona.edu www.greygardens.com www.guerrillagardening.it www.heavypetal.ca www.insects.org www.joycecampbell.com www.jungle-fever.info www.nature.nps.gov www.polywog.wordpress.com www.resalliance.org www.rali.boku.ac.at

FILM: -Gray Garden, fratelli Maysles, 1975 -Into the Wild, Sean Penn, 2007 -The Grizzly Man, Werner Herzog, 2005 -Them! , Gordon Douglas, 1954 -Unsere Tagliche Brot, Nikolaus Geyrhalter, 2006

FOTOGRAFIE (Serena Porrati) Pag.7, Las Vegas, veduta dall’alto di un grattacielo, Dicembre 2007 Pag.9 Gennaio 2006, California, Freeway N5.

Pag.10 Paesaggio tipico della provincia milanese. Robecchetto c/I, Gennaio 2008 Pag.12 Fiore di stoffa su una tomba del cimitero di Julian, California, Maggio 2007 Pag.20 Taraxacum Officinale, “er b’ still da video, 2007 Pag.25 Angolo residuo di Mexico City, Aprile 2007 Pag.28 “Giardino tipo, front yard” San Diego, California, Giugno 2007 Pag.29 “Back yard” San Diego, California, Giugno 2007 Pag.32 “Le vie dell’uomo, le vie della natura, particolari di margini autostradali” Los Angeles, Giugno 2007 Pag.42 “Eden’s Hotel” Las Vegas, Dicembre 2006.

POINTS OF VIEW

I contributi che seguono sono immagini ed elaborazioni commissionate a -abitanti della Lombardia e della California meridionale - persone che ho incontrato durante gli ultimi mesi della ricerca. Interrogati ad interpretare il tema del rapporto natura-cultura, l’ intervento allargato si introduce, spero coerentemente, all’interno del percorso di ricerca scavalcando il mio punto di vista –che rimane inevitabilmente soggettivo- e mirando ad una visione se non universale, quanto meno complessa/molteplice. L’insieme di sfumature attraenti, spaventevoli e acute che attraversano le interpretazioni, forzano -di più di come gli argomenti trattati fin ora hanno cercato di fare- la visione monolitica del mondo naturale. Il simbolo natura é visto ora sia come entità in crisi sia come soggetto comunicativoespressivo. Questi intenti vogliono anche esplorare il paradosso che giace alla base della complessa relazione uomo-natura: da una parte la parola ‘natura’ é usata per descrivere una realtà universale che si presuppone debba essere comune a tutti, dall’altra, scarichiamo in essa anche tutti i nostri valori più personali e specifici, le nostre convinzioni, l’essenza di quello che pensiamo di essere, come e dove dovremmo vivere, che cosa crediamo sia giusto e bello, la giustificazione ai nostri comportamenti . Le interpretazioni che ho raccolto sono quindi omogenee, ‘delle variazioni sul tema’ molto simili ma allo stesso tempo esclusive, perché provenienti da un insieme di abitanti dispersi in ambiti geografici e socio-culturali specifici.

Esemplare é l’analisi delle ‘atmosfere artificiali’ dei grandi treilers americani di Deanna Erdman. Il suo sguardo parla di una natura assente e irraggiungibile perché inscindibile dal confort della sedentarietà. Viaggiatori poco arditi esplorano la vastità del territorio americano senza rinunciare alle poltrone imbottite, ad una cucina climatizzata ben attrezzata, all’intrattenimento degli spettacoli televisivi e alle piante ornamentali in plastica.40 Queste immagini fanno pensare ai gusti culturali specifici di un popolo che sulle tracce dello spirito dell’ ‘On the Road’, elabora oggi stralunati e affascinanti concetti di natura.

40 Le comodità tecnologiche incluse nei trailers americani.

A mid-range, modern travel trailer may contain the following features: Gas/electric powered refrigerator. Gas/electric powered stove, oven and grill. Microwave cooker. Gas/electric powered water heater. Warm air heating.

Beds, some of which double-up as daytime seating. Electricity supplied by battery or external hookup. Toilet with removable disposal tank and flush-water tank. Shower. Radio/CD/DVD/MP3 player Television aerial/satellite dish. Travel trailers (especially American ones) may also contain the following: Air conditioning-External barbecue points-Tow hitch stabilizers-Separate wastewater tanks for “gray water” (wash water) and “black water” (sewage)-CD players-Awning or screen room-Clothes washer and dryer-Microwave-Slide-out rooms (such as a 4 x 7 ft dinette or bedroom extension)

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Eccentriche e barocche esperienze del selvaggio, questi baracconi ambulanti sono una realtà diffusa e largamente condivisa, forme intriganti di un –seppur sottile- legame con il territorio; gli effetti attuali di un lontano e originale istinto nomade.

Le fotografie di Phel Steinmenez sono una selezione della ricerca fotografica che porta avanti da anni: una raccolta di fotografie, testimonianze in bianco e nero custodite sottoforma di due grossi libri -in attesa di essere pubblicati- che descriverei ‘antologie visive della natura urbana’. Protagonista assoluto e -grande figura assente- di questo ciclo fotografico é l’ uomo contemporaneo che abita, organizza e gestisce il territorio naturale. I richiami alla civiltà sono costanti e veicolati dagli unici spectrum41 di queste immagini: gli elementi naturali del paesaggio. Il loro inevitabile interagire con gli oggetti/concetti umani determina quindi un’ invisibilità che non é assenza, ma assoluta presenza antropica. Le piante, gli animali e gli spazi desolati diventano le testimonianze dirette, i referenti più efficaci della pratica ordinatrice umana che inscatola, gestisce il selvatico per controllarlo, conservarlo -come trofeo, sotto una teca- demonizzarlo e addomesticarlo a seconda di un insieme di regole sociali. La ragione umana impera sul mondo naturale che non ha altra scelta se non quella di diventare puro artificio, di auto distruggersi per trovare una via di uscita .

Il senso di questa ricerca é convogliato anche da una composizione dell’immagine rigorosamente pulita dove i pochi elementi descritti producono un corto circuito concettuale e culturale estremamente potente-evidente.

Il trittico fotografico di Lorenzo Casali dall’assetto compositivo alla Bernd e Hilla e Becher, é un rilievo fotografico di un delirio architettonico industriale: l’architettura in cemento armato si staglia austera ad occupare l’intero spazio dell’inquadratura tra le tracce recondite di un territorio agreste. I due elementi si fondono e rimandano ad un lungo, lento e forse interrotto processo di industrializzazione del territorio. Sotto queste pesanti biforcazioni strutturali si logora pero’ un asino dall’aria schizoide che non solo esprime nelle sue distorsioni corporee insofferenza ma evoca la storica sottomissione della sua specie all’uomo.

L’intervento di Louis Hock si pone come testimonianza degli aspetti geopolitici di un territorio. Gli scatti, sono stati effettuati lungo il ‘Cammino del Diavolo’42; un sentiero che attraver41 da Roland Barthes in “La camera chiara” 42 El Camino Del Diablo, Spanish for ‘the devil’s highway’, is a one hundred plus miles of sandy, single track trail that winds through the Sonoran desert zone of Arizona. Along its length, it travels through a National Wildlife Refuge, a National Park, within a mile of the international border with Mexico, and through the middle of a military live bombing range.

URL http://bushducks.com/tripreps/camino.htm

sa l’area desertica di confine tra California e Messico. Questo luogo, usato in origine per motivi prettamente commerciali, é attualmente lo scenario nel quale emigranti sud-americani, aspiranti intrepidi per raggiungere gli Stati Uniti, si trovano a camminare per giorni sopportando una temperatura che nei mesi estivi si aggira intorno ai 50-60 C°. Una pianta dal tronco contorto da anni e anni di lenta crescita rinsecchisce sotto il sole accecante mentre un arbusto giovane irrompe nel terreno bianco e arido. In uno scenario di agonia, speranza e paure umane la loro immagine sprigiona un senso di pace misto ad angoscia.

Nervose e tenaci, segnano il percorso clandestino, la storia di un popolo, e rimandano costantemente all’artificiosità dei confini politici e allo strazio che ne deriva.

Il collage amatoriale di Byron Villacres é un’ elaborazione visivo-narrativa ricavata dall’accostamento di due immagini-ritagli di giornale. La prima, dal San Diego Union-Tribune, fissa un momento dell’incendio che ha interessato, nell’Ottobre 2007, l’area a nord e sud est di San Diego43. La seconda é invece Poway, cittadina miracolosamente scampata alle fiamme. Byron e la sua famiglia abitano in questa zona suburbana anch’essa a Nord Est di San Diego. La villa con piscina ai piedi di una serie di colline, fu consegnata a Mr.Bayron dall’esercito militare americano per cui lavorava, -su un dollaro di caparra- durante gli anni ’70. Allora il circondario era ancora poco urbanizzato ed, essendo l’area molto inesplorata, Byron decretò i nomi delle colline circostanti: Madeline, Estelle, Robert, Dorothy, Jeorge Villacres, Jens Fromm –che sono anche i nomi dei componenti della sua famiglia. In occasione dell’ultimo grande incendio, secondo Byron furono questi colli a divergere il fuoco e a dirottarne il fumo a Nord e a Sud della sua casa. L’immagine del San Diego-Tribune é stata manipolata: Byron ricostruisce le dinamiche del fatto di cronaca adattandole alla sua visione topografica-fantastica del territorio; si origina cosi’ una versione pseudo giornalistica dell’evento quanto mai inconsueta.

Natura come memoria di un luogo abitato e della sua storia.

Natura come promemoria della fragilità umana. Il luogo 278 di Alex Bombardieri é un scenografia ‘postnuclear’ altrettanto inospitale che si sviluppa in una reiterazione ritmica di cubi in cemento armato e superfici rocciose. Nonostante le note fantascientifiche siamo difrone ad luogo reale in cui si é consumata una vera battaglia tra la natura e i suoi abitanti.

“Sotto i miei piedi ci sono 4 paesi sepolti, persone case e storie cancellate dalla frana del 28 luglio 1987. Dove venti anni fa scorreva un fiume è stato costruito un immenso sarcofago di cemento e pietra, l’ordine che l’uomo ha cercato di imporre dopo il disastro, si unisce al caos della natura che si riappropria lentamente di ciò che le è stato sottratto”.

Altrettanto insolita ed interessante é la pratica di un gruppo di abitanti che agisce su tutto il territorio milanese e in particolare -di recente- nella zona Isola Garibaldi. Nel quartiere, rimasto intatto per piu’ di 50 anni, é in corso una grande opera di ampliamento urbano: oltre che ad un parco urbano, si costruiranno in futuro degli edifici destinati ad uffici e molte residenze. Il progetto prevede la costruzione di “torri verdi” quasi completamente rivestite di bosco. In sintesi un vero e proprio sistema di boschi verticali.

“L’idea di bosco verticale porta a pensare a degli elementi alti, il cui perimetro, e’ completamente rivestito da alberi. Si e’ calcolato che sulle due torri in progetto ne possano essere piantati 900 circa, che equivalgono a 7.000 mq di bosco su un territorio pianeggiante. Pensando al consumo di suolo, un sistema di appartamenti circondati dal verde equivalente a quello progettato nel bosco verticale nell’isola, equivarrebbe a circa 50.000 mq. di villette residenziali. Abbiamo ragionato anche sulla straordina-

Testimone di una vita piu spensierata é invece l’acqua che scorre sotto il suolo Milanese. “Ephemeroptera” il video realizzato da Francesca Cogni e Pietro Lembi esplora la topografia cittadina e la vita quotidiana dei suoi abitanti da un punto di vista assai insolito, quello dell’acqua. La osserviamo scorrere, accumularsi, stagnarsi, solidificarsi sottoforma di ghiaccio, umile e riservata, al servizio del suo padrone. La telecamera ne segue il flusso scorrendo tra i luoghi più disparati del territorio milanese e raccontando lo stile di vita e le abitudini della città. L’industria alimentare, lo svago, la pratiche religiose, lo sport, le fontane, la pesca; il documentario ci rivela che la città é ‘alimentata ad acqua’ e che solo pochi abitanti insieme ai pesci, le rane e gli efemerotteri ne sono veramente consapevoli.

“Ephemeroptera, dal greco epheméra: effimera, di breve durata. Gli efemerotteri sono un ordine di piccoli insetti terrestri che abitano gli ambienti acquatici. Nei loro primi stati di sviluppo, detti “preimmaginali”, gli efemerotteri vivono sui fondali dei corsi d’acqua dolce con l’inizio della fase adulta, chiamata “immagine”, emergono volteggiando nelle vicinanze dello specchio d’acqua. Le “immagini” vivono per un solo giorno. Gli efemerotteri sono ottimi indicatori della presenza di acqua.”

43 At approximately 01:00 on 23 October, fire broke out near Wildcat Canyon to the south of Barona, where many houses were destroyed and lives lost in the Cedar Fire. Residents of Wildcat Canyon and Muth Valley were ordered to evacuate, and the road was closed. The evacuations of Del Mar, Chula Vista, Poway, Del Mar Heights and Scripps Ranch were lifted for many residents on Tuesday October 23 in the late afternoon.. At 9:50 p.m. PDT October 23, 2007, the town of Julian, California was ordered to evacuate. Due to the fires, there was no power or phone service in the town. Evacuation sites included Qualcomm Stadium, Escondido High School, Mission Hills High School, Poway High School, Mira Mesa Senior High School, and the Del Mar Fairgrounds. http://en.wikipedia.org/wiki/California_wildfires_of_October_2007

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ria importanza che potrebbe avere un sistema di boschi verticali posizionato vicino ai grandi nodi della mobilita’ pubblica, per esempio lungo le linee della linea metropolitana, in modo da evitare la congestione di autovetture private che un grattacielo può creare in un centro urbano. Il bosco verticale puo’ essere interessante anche sotto il profilo della qualità della percezione urbana, dato che piante diverse, posizionate con angolazioni diverse nelle diverse facciate delle torri, possono generare effetti cromatici straordinari” 44 In contrapposizione alla logica pianificatrice e innovativo-distruttrice, adottata dal comune di Milano, un gruppo di abitanti si presta al soccorso organizzato in favore della salvaguardia del verde esistente. Travolte dai caterpillars, inaridite e destinate ad una morte precoce, le piante -spontanee e non- del quartiere Isola-garibaldi sono ricoverate e ripiantate in angoli più tranquilli della città. L’operazione di gardening pubblico autogestito, evidenzia le contraddizioni di un piano di intervento dall’alto, poco in contatto con la realtà locale e noncurante di intaccare gli equilibri di un ambiente cittadino-naturale. é infatti paradossale che gli habitat e angoli di rifugio per la diversità attuali vengano distrutti in favore di un intervento di ‘landscape design’ che si propone di valorizzare gli aspetti eco-compatibili della città. L’azione di guerriglia gardening é una performance da strade all’aperto a cui tutti gli abitanti sono invitati a partecipare per rivendicare il diritto alla terra e familiarizzare con i pochi elementi naturali residui. Nora Bertolotti e Stefano Massimello sono due personaggi di spicco all’interno di questi gruppi d’ azione; così spiegano i loro interventi sparsi in vari punti del territorio milanese.

“Si può dire che pratichiamo “il giardinaggio urbano” la nostra è una rivendicazione non solo di ‘’decoro urbano’’ o make-up dell’aiuola, ma ha anche un aspetto sociale forte (per questo amiamo il giorno per lavorare). l’idea è quella di un hortus diffusus nella città, un giardino diffuso, disseminato, contro la nozione storica di giardino come spazio chiuso e per lo più privato. la possibilità di una pratica del giardinaggio anche senza possedere un giardino, ovvero possedendo quegli spazi che sono pubblici. una pratica nel tempo, di cura continuativa, ragion per cui non amiamo tanto le azioni simboliche, se non sono seguite da un radicamento nel tessuto urbano.”

Restiamo sulle tracce degli esseri vegetali nella città, ma questa volta a Città del Messico. La capitale del Messico é attualmente la città più popolata al mondo, con una popolazione tra i diciotto e i ventidue milioni di abitanti. La città é un groviglio di persone, automobili, mezzi pubblici, abitazioni fatiscenti mescolate a rovine pre-ispaniche e a palazzi coloniali neri da micro-polveri.

44 Stefano Boeri, docente presso il Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano.

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“Ogni giorno gli abitanti esprimono il loro stupore circa il fatto che la città comunque funzioni: sembra un miracolo che aprendo il rubinetto l’acqua esca, che la metropolitana trasporti senza intoppi sei milioni di persone al giorno, che gli abitanti della metropoli più inquinata al mondo non siano tutti morti d’asfissia e che i camion passino tutte le mattine a raccogliere la spazzatura.

Le statistiche, quando vengono pubblicate, sono apocalittiche: a questo ritmo l’acqua potabile sara’ esaurita nel 2100; in certi mesi una banca al giorno viene assaltata in modo violento; e il Messico sta per strappare alla Colombia il primato di capitale mondiale dei sequestri di persona”. 45 Alma Guillermoprieto, una reporter messicana, poco tempo fa ha scritto che Città del Messico “sembra il giorno dell’apocalisse […]”.

Nei giorni in cui l’inquinamento offre una breve tregua, dalle strade della città si possono vedere le montagne e i vulcani che circondano la valle che ai tempi della colonia era nota come ‘la regione dell’aria trasparente’. I rilievi fotografici di Felipe Zuniga sono dei ritratti ravvicinati di alcune piante trasformate e sfigurate dalla città. Anche loro, abitanti di Mexico City, testimoniano questo scenario paradossale di ordine nel caos, sofisticazione nella miseria, anche la cura, nel quotidiano della metropoli, segue la linea dell’assurdo.

Il racconto di Chiara Rippa apre uno scenario urbano post-industriale: il paesaggio é quello tipico della periferia di Milanese siamo in una fabbrica dimessa prima e in un parco incastrato tra un centro commerciale e una super strada poi. La storia di Dalì e Samir é uno ‘shot’ di realismo amaro non diluito. Il mondo non umano é avvolgente a tratti edenico, a tratti inquietante; sullo sfondo le malerbe e gli animali da città lavorano imperterriti inghiottendosi lentamente le aree disabitate dalla gente ‘per bene’. Riconosciamo i luoghi del degrado urbano, i non luoghi della città nelle ore più desertiche, i parchi-gioco frequentati solo da lepri e conigli; immaginiamo storie invisibili di anime clandestine e selvatiche ai margini indefiniti tra natura e città.

La serie degli interventi si conclude con il contributo elettroacustico di Alan Lechuza. La composizione sonora “Green space” é un accavallamento incostante di oggetti sonori contrastanti al limite tra naturalità e artificio, sperimentazione e tradizione. Messi a contatto gli antipodi articolano ‘un discorso d’estremi’ in uno spazio critico che abbatte le categorie fittizie e umane in favore di una totalità di espressione e significato incondizionata.

45 Ruben Gallo, “Sei visioni di Mexico City” in “Atmosfere metropolitane”

Deanna Erdmann

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“Untitled” 2007

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“Untitled” 2007

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“Untitled” 2007 57

Phel Steinmenez

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”Yosemities buttons”

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“Chains”

“Graffeti”

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“Hoof prints”

Tables & Vines”

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“Snalls”

”Openings”

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“Dog & cat”

“Coyote & Hawk”

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“Porpoise”

”Relay palm”

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”Ear”

”Fly”

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Lorenzo Casali

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“Città continua” 2006

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Louis Hock

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“Wash tree”

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The Camino del Diablo, begins in Mexico near the east side of the Sea of Cortez and runs west and north until it hits the Colorado River at the border. Native peoples used the route for trade, exchanging turquoise for sea shells; the Conquistadors and missionaries saw it as the beginning of their treasure map; California-bound “gold-rushers� avoided the threat of Apache attacks by using its southerly course through the hostile desert; the U.S. and Mexican surveyors trekked along it to mark and map the border; and now undocumented immigrants coming north looking for work are joining the legacy of dry white skeletons that never found water.

The most common deception is seen in the heat of the day, when beautiful, quiet lakes and timber-fringed ponds lie in tantalizing attractiveness, apparently but a few hundred yards away, the details so perfect that the reflection of every object on the bank is faithfully reproduced, and it is little wonder that thirsty travelers unaccustomed to this mirage are lured from the road to procure this water, which ever appears but a little distance ahead, yet is never reached. --- published log of J.W. Barlow, surveyor, 1893 International Boundary Commission Report

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”Whitedesertimage” 71

Alex Bombardieri

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“Luogo 278” 2004, Val Pola (Alta Valtellina) “Sotto i miei piedi ci sono 4 paesi sepolti, persone case e storie cancellate dalla frana del 28 luglio 1987. Dove ventanni fa scorreva un fiume è stato costruito un immenso sarcofago di cemento e pietra, dove l’ordine che l’uomo ha cercato di imporre dopo il disastro, si unisce al caos della natura che si riappropria lentamente di ciò che le è stato sotratto.”

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Francesca Cogni e Pietro Lembi

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“Ephemeroptera”, stills da video, 2007

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Byron Villacres

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“Untitled”, Poway, October 2007

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Nora Bertolotti e Stefano Massimello

Spirea japonica

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Spirea japonica

Gaillardia grandiflora

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Un lombrico milanese e dei piccoli settembrini (ovvero Aster) poco dopo la divisione in attesa di trovare una nuova collocazione nel suolo cittadino.

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I mezzi utilizzati per trasportare le piante ricoverate sono semplici ma efficienti.Nel vaso a sinistra: Carpinella (ovvero Ostrya Carpinifolia Scop.) nel secchio bianco nel mezzo: Lunaria annua, anche detta medaglia o moneta o occhiali di papa . Nel mastello nero: Spirea japonica, nel secchio arancio: una piccola Escolzia.

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Felipe Zuniga

At Disneylandia, Ecatepec, Mexico, 2007

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Entropic architectures, Ecatepec, Mexico, 2007

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Chiara Rippa

“Minet, Minet minet.... tu viens ici... petit chat...Minet” Dalì tentò di convincere il gattino a tornare accanto a lui dopo che il fragore di un grosso camion a rimorchio lo aveva spinto a lanciarsi nel folto di un cespuglio. Incorniciati dal verde delle foglie due occhi gialli lo guardavano soppesando le sue mosse. “Tu viens ici beau chat” ripetè agitando alcune foglie sul cemento, il piccolo gatto grigio cominciò ad allungare verso le foglie una zampina poi, sempre più coinvolto, decise di uscire dal suo nascondiglio fino a che non ricominciò a giocare con i fili della manica del ragazzo. Dopo aver tranquillizzato il gatto Dalì torno a sdraiarsi sul pavimento di cemento appoggiando la testa contro le radici di un olmo che erano riuscite con pazienza decennale a crearsi un varco tra l’asfalto.

Il cortile interno della vecchia fabbrica tessile era una silenziosa isola persa nelle dodici del mattino. Il sole, tra le vecchie finestre spaccate, sembrava creare liquidi giochi di luce sull’asfalto delle pedane. I pochi alberi che avevano trovato tra le radici la forza di ergersi, simili a colonne, onirici e fuoriluogo come le rovine dei vecchi fori, creavano intorno a loro macchie di verdi prati raramente più grandi di un metro, fili d’erba che umilmente si erano aggregati a quei ben più forti fratelli. Al contrasto del luminoso cortile la vecchia fabbrica pareva una silenziosa cattedrale, con la sua penombra fredda, con i suoi vuoti echi, i vecchi macchinari tessili abbandonati erano tabernacoli di un operosità incessante terminata più di 40 anni fa, l’avvenire di allora pareva giacere coperto dalla polvere e dalla ruggine, quel luogo rumoroso di vita umana e meccanica, era ora riempito dal silenzio dell’edera. Ma Dalì non vedeva ne l’edera, ne il sole, ne l’olmo, non vedeva nemmeno il gattino con il quale giocava. Dalì teneva gli occhi semichiusi, con le ciglia nere appena calate sul’iride tutto diventava sfumato e lontano, sentiva sotto la sua schiena il cemento scaldato dal sole. A casa amava starsene sdraiato sul cemento caldo della terrazza, giocherellando con il gatto di zia Nassarà. Su madre spesso lo rimproverava per la sua pigrizia e la sorella lo chiamava lucertola. Non c’era nulla che piacesse tanto a Dalì quanto stare al sole.

Da più di un’ora Samir gironzolava tra le vie del parco-pineta. Nonostante girasse con noncuranza tra le viette sterrate in realtà Samir si trovava li per un preciso motivo. Ogni tanto la sua attenzione era attirata da cumuli di ciottoli e rametti che cominciava ad ispezionare smottando con la scarpa il terriccio intorno. Lavorava con Rachid da un mese e ormai aveva la certezza che lui tentava di fregarlo. Peggio: tentava di fregare Michel. Cominciò a setacciare il limite del parco accanto al parcheggio del centro commerciale inoltrandosi pian pieno verso l’interno. Alle cinque aveva un appuntamento con Nourdine allo scivolo dei bambini, Probabilmente voleva parlagli della situazione di Rachid, chiedergli di metterlo in guardia. Probabilmente Michel si era accorto delle sue piccole estorsioni. Samir era certo che la sera prima Rachid avesse di nuovo trafugato un pezzo di hascisc. Probabilmente lo aveva nascosto nel parco, ora lui stava tentando di ritrovarlo per ingraziarsi Nourdine ma non era certo facile cercare una cosa così piccola, una cosa da nulla nell’immenso parco.

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Mentre Dalì navigava nel mare del suo torpore il gattino continuava il suo accurato lavoro di unghiette sul bordo della manica. Il ragazzo decise di fermarlo prima che trasformasse il suo maglione in un gilet e ciondolando si diresse all’interno della vecchia fabbrica: un’industria tessile benché abbandonata offriva più di uno svago per un gatto, infatti poco dopo ne uscì con una spoletta di cotone: un piccolo omaggio che sperava servisse a distrarre il micio dalla sua caparbia opera di distruzione. Ma il gatto continuava a trovare il suo maglione molto più interessante e non gli rimase altro da fare che sedarlo con le carezze finche non si acciambellò facendo lunghe effusa. Sotto la mano sentiva il fragile scheletro dell’animale, il ritmico sollevarsi della cassa toracica. Era magro, troppo magro per un gattino. Non ancora abbastanza adulto per riuscire a cacciare topi e passeri. Fino a poche settimane prima Dalì vedeva spesso aggirarsi per il cortile la madre, una grossa gatta selvatica poco incline a lasciarsi avvicinare e che tollerava a malapena la curiosità del gattino per quel ragazzo dal volto lungo e smagrito. Era da molto che Dalì non vedeva più la gatta e si era occupato del micio ogni volta che ne aveva la possibilità. Ora però non poteva farlo. Ora aveva una fame tremenda anche lui. Non aveva un soldo in tasca, era Samir ad occuparsi di lui nello stesso modo in cui lui si occupava del gattino. Ma Samir ora non c’era, non sarebbe tornato prima delle otto e il pranzo non sarebbe di certo arrivato prima di lui. Digiuno dalla pomeriggio precedente non gli restava che bere continuamente l’acqua raccolta in una grossa tanica per sentirsi lo stomaco pieno. A casa sua essere magri era sinonimo di malessere e ogni volta che lo vedeva dimagrito sua madre cominciava a pensare che stesse per venirgli la febbre. Ma non era facile dimagrire a casa sua: la sorella minore aveva tentato più volte di farlo, attratta dalle longilinee creature che popolavano le pagine levigate delle riviste francesi ma non aveva potuto nulla contro la cucina satura d’olio d’oliva della zia Nassarà. Sarebbe stato bellissimo ora sentire l’odore del pollo al limone e olive ma l’aria del cortile non portava con se che il lieve profumo dell’erba d’aprile. Presto tutto sarebbe cambiato. Presto avrebbe trovato un lavoro e allora con un po’ di risparmi sarebbe riuscito a tornare in visita a casa, prima però doveva recuperare tutti i chili persi in modo che la zia non pensasse che non era ancora in grado di badare a se stesso. Di certo a casa erano già giunte notizie non buone sul suo conto. Di certo monsieur Faruk si era già occupato di informare suo padre. Se fosse stato a casa probabilmente papà lo avrebbe preso a schiaffi con le sue enormi mani da carpentiere e nonostante la fame il ricordo di quegli schiaffi che da bambino lo facevano piangere per ore allontanò per un poco da lui la nostalgia di casa. Faruk era il miglior amico di suo padre da quando erano bambini, viveva in Italia da più di 15 anni, sposato con una donna egiziana, ogni volta che tornava in Algeria passava lunghe ore nella loro casa raccontando della sua vita a Milano e portando i regali più svariati e curiosità per i bambini della famiglia. Una volta addirittura si era presentato con un albero di Natale che danzava e cantava quando si battevano forte le mani. L’albero, odiato da sua madre, finì presto nel pattume ma i racconti di Faruk no, quelli rimasero sedimentati nella testa di Dalì per anni fino a che non decise di partire, monsieur Faruk si sarebbe occupato di lui. Ma la nuova vita non si era rivelata facile. La casa di Faruk era troppo piccola per lui, la moglie e i tre figli piccoli. La donna aveva preso subito in antipatia quel ragazzo goffo “ che toglieva aria alla casa” e l’uomo dal canto suo era ossessionato dall’incapacità di Dalì verso qualsiasi lavoro e lo rimproverava continuamente convinto che il ragazzo si stesse adagiando su una comoda situazione senza fare nessun tentativo per integrarsi. La “tragedia” scoppio il giorno in cui Faruk scoprì che aveva abbandonato il lavoro in cantiere procuratogli tramite un amico. A nulla valsero le spiegazioni del ragazzo che con i suoi 60 chili scarsi era completamente inadatto a trasportare sacchi di cemento. Quel giorno Dalì decise che se ne sarebbe andato. Solo una vaga lettera di spiegazioni e buoni propositi dietro di lui. Prima si trasferì a casa di una famiglia egiziana conosciuta tramite un collega al cantiere. Ma era durato poco, il padre di famiglia era un fervente islamico che lo accusava di voler rinnegare le sue radici culturali solo perché non amava partecipare alle funzioni religiose. Quando se ne andò dalla seconda sistemazione era completamente rassegnato, l’unica cosa che desiderava era trovare il modo di tornare a casa e per due settimane girò per le stazioni ferroviarie della provincia che utilizzava come ricovero per la notte. Fu in una di quelle stazioni che conobbe Samir. Era un uomo sulla trentina che si dimostrò gentile con Dalì offrendogli un pacchetto di sigarette e una buona conversazione. Samir aveva in Marocco una moglie e un figlio di 14 anni che non vedeva da quando il bambino ne aveva sei. Un bimbo che portava il suo stesso nome: Maommed Ali, Dalì. Dopo due ore di chicchere lui lo prese con se portandolo per la prima volta nella vecchia fabbrica abbandonata.

Samir se ne stava disteso sul fianco tentando di trovare una comoda posizione tra le aste di legno della panchina. Il sole aveva già iniziato il suo lento declino tra le cime dei pini, simili a sagome di cartoncino nero tra il rosso aranciato del cielo. A giudicare dal buio che cominciava a scendere e dal freddo che saliva dalla terra dovevano essere all’incirca le sette della sera. Da ormai due ore stava aspettando accanto all’area bambini. Ma nessuno si era presentato e i pochi ciclisti, le nonne con i nipotini, signori con cane al seguito e coppiette di ragazzini avevano ormai abbandonato il parco. Samir era completamente solo.

Dalì afferrò una vecchia sedia di laminato. La impugnò stretta tenendola per le gambe, declinò il busto all’indietro per prendere slancio e la infranse contro il muro di mattoni della fabbrica. Ripetè l’operazione una, due, tre volte, finchè l’intelaiatura di metallo non si sformò liberando lo schienale e il sedile in compensato. Era strano distruggere una sedia in quel modo: senza rabbia ma solo con calcolata precisione. Fino alla settimana scorsa avevano potuto utilizzare per legna una scorta di vecchi bancali, bruciavano bene e riuscivano a tenere vivo un bel fuoco anche per ore. Ora rimanevano solo vecchie sedie che producevano un fuoco fumoso e breve. Gettò dell’ alcool su dei rametti utilizzati per far brace e in breve riuscì ad accendere il falò. Il grande ventre della fabbrica si riempì di un acre odore di cellulosa bruciata mentre il riverbero del fuoco creava lunghe ombre tra i macchinari tessili. La fame non faceva che aumentare ma Samir non era ancora tornato. Da ore Dalì elencava nella sua mente tutto ciò che sarebbe potuto accadere all’amico, cose orribili come essere investito da un auto oppure arrestato dalla polizia, magari ora Samir si trovava in questura e lui sarebbe rimasto inutilmente ad attenderlo per giorni. Sarebbe di nuovo tornato completamente solo.

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Un vago senso di paura si impadronì di lui, la fabbrica gli apparve allora un posto freddo e angosciante con il suo enorme vuoto.

Un luogo dove lui sarebbe potuto sparire senza lasciare tracce, dove nessuno si sarebbe accorto della sua scomparsa. Ad un tratto un forte rumore tra le arcate deserte lo fece trasalire e il suo cuore cadde come in un vuoto prima di accorgersi che si trattava solo di un piccione. L’animale probabilmente era riuscito ad entrare da una delle finestre spaccate ma ora non era più in grado di uscirne. Volava a cinquanta centimetri scarsi dal pavimento sbattendo qua e la tra le colonne di cemento. Senza essere completamente cosciente di ciò che stava facendo il ragazzo agguantò una delle coperte di Samir, un vecchio panno di lana scura e a passi lenti si avvicinò al piccione. Era la voce dello stomaco a suggerirglielo, la voce del sangue. Prendere quella bestia, tenerla ancora viva tra le mani, ucciderla, mangiarla. L’animale sembrava non curarsi delle manovre compiute intorno a lui ma quando Dalì tentò di intrappolarlo con la coperta riuscì a scansarla con facilità. Dopo un breve volo si posò di nuovo su un davanzale a due metri scarsi da terra. Pur essendo in quella posizione non particolarmente sicura il piccione sembrava guardare il ragazzo con una sorta di scherno negli occhi vitrei. Di nuovo tentò di avvicinarsi silenziosamente e di nuovo appena fu vicino gli gettò addosso il panno ma quello riprese velocemente il volo per poi posarsi su una vecchia cardatrice meccanica. “Animal horrible. Créature obscène” ancora una volta gli parve che il piccione lo fissasse con i suoi occhiacci vuoti, lo schernisse con quel suo ritmico sussulto della testa. Tentò allora di batterlo in velocità ma prima ancora che gli fosse vicino quello con un breve volo raggiunse la sommità di una colonna rendendosi irraggiungibile. Frustrato Dalì lanciò contro all’animale la pesante coperta. Non aveva più nessuna speranza di prenderlo ma gli sarebbe almeno piaciuto colpirlo. Guardandolo dall’alto il piccione non gli toglieva gli occhi di dosso.

Nelle ore che seguirono il buio il parcò riprese vita sotto gli occhi di Samir. Ora erano lepri e conigli ad aggirarsi tra le altalene e le giostre deserte. Steso sulla panchina snocciolava sigarette da ore accumulando una piccola montagna di mozziconi fra i piedi. Ormai non sapeva nemmeno più perché stesse aspettando e tutto prendeva senso unicamente nell’attesa fine a se stessa. Ma c’era un motivo per cui era ancora in quel luogo sempre più umido e buio. Il motivo ad un tratto si manifestò tra i cespugli con i suoi 90 chili. Nourdine era arrivato. Incespicando tra le radici degli alberi l’uomo si avvicino alla panchina sulla quale si lasciò cadere con un breve sospiro poi, senza dire una parola, cominciò ad arrotolarsi una sigaretta di tabacco nero. Samir lo conosceva bene, lo conosceva talmente bene da sapere che in quelle occasioni non bisognava iniziare il discorso finchè Nourdine non avesse terminato i suoi rituali, quasi un modo per predisporsi alle complicate questioni da decifrare. “Samir desideri dirmi qualcosa?” la domanda lo investì all’improvviso.

Era uscita dalla bocca di Nourdine insieme ad una nuvola di fumo e un vago odor di vodka. “Nourdine…” tentò di organizzare in fretta i propri pensieri, perché non lo aveva fatto prima durante la lunga attesa? “io penso che tu voglia parlarmi di Rachid” l’uomo lo guardò per un attimo con aria interdetta “Rachid? Cosa sai tu di Rachid?” la domanda spiazzò di nuovo Samir, forse stava rischiando di accusare inutilmente il povero diavolo, forse Michel non sapeva ancora niente del hascisc sottratto. “ sai una cosa Samir? È strano che tu voglia parlare di Rachid perché proprio ieri lui è venuto da me a parlarmi di te” Nourdine avvicinò il volto a quello di Samir, aveva il naso gocciolante e occhi rossi per il freddo. “ Lui dice che tu non ti stai comportando per niente bene. E’ vero?” Una vertigine salì dai piedi di Samir fino allo stomaco, improvvisamente sentì il desiderio di vomitare. Conosceva bene quella sensazione, la provava sempre da bambino ogni volta che incrociava lo sguardo del maestro alla scuola coranica ma li era tutto diverso: li il maestro era più cattivo della morte e lui, da parte sua, era un pessimo alunno. Cosa succedeva ora? A lui?Lui che era sempre stato fedele a Michel più di un bue? “ Nourdine, amico mio, io non ne so nulla. Io penso che Rachid ruba l’hascisc di Michel e ora vuole incolpare me.” Di nuovo Nourdine si avvicinò un poco di più al suo volto, in una altra situazione Samir avrebbe temuto che il bestione volesse tentare di baciarlo “ Il mese scorso non hai riportato 15 grammi” si scostò un poco all’indietro “Ti ho già spiegato quella storia. C’era la polizia. Sono dovuto scappare poi mi stavano prendendo e ho buttato tutto.” “Ma poi non ti hanno preso” di nuovo Nourdine strisciò sulla panchina verso di lui. “ Sono stato fortunato! Ma in quella retata hanno preso Alì. Ho buttato tutto in un cespuglio ma non sono riuscito a ritrovarlo. Ho cercato per ore quel giorno tu lo sai! Tutti lo sanno! Anche oggi per ore ho cercato il pezzo che ha rubato Rachid!” Nourdine con uno scatto si alzò in piedi, anche Samir tentò di sollevarsi ma lui lo trattenne sulla panca afferrandogli la spalla sinistra. “Samir, caro amico, questo è quello che dici tu!” Nourdine si curvò su di lui, tutto il suo campo visivo era occupato da quella grande faccia con il naso gocciolante e gli occhi piccoli e rossi “ sai che ti dico Samir? Io sono stufo di te come di Rachid. Stufo di voi imbecilli che combinate solo stronzate e poi venite da me a piangere. Ma alla fine con Michel ci parlo io. E sono solo mentre lo faccio, capisci? Il fottutissimo Nourdine è sempre da solo! Il fottutissimo Nourdine non si fida più di voi stronzi!” Di nuovo l’alito di Nourdine lo investì con il suo vago sentore di vodka. Fu allora che Samir capì. Capì ed ebbe paura. Nourdine era completamente ubriaco.

“Nourdine, fratello mio” tentò di rabbonirlo “ tu hai molte responsabilità e noi ti diamo mille problemi ma tu sai che io non ho mai tentato di fregarti, mai!” l’altro lo fece sollevare dalla panca con uno strattone. Sembrava fosse la grande mano di Nourdine a trattenere i piedi di Samir per terra altrimenti quello sarebbe volato via come i semi di pioppo. “non dovevi tentare di fregarmi!” “fratello!

Ti prego ragiona! Tu sei ubriaco!” “Ubriaco?” l’uomo allentò per un attimo la presa sulla sua spalla “Ubriaco? Ora mi dici anche che sono ubriaco? Ma certo! Tu sei un buon mussulmano, lo sei sempre stato. Tu non bevi come Nourdine. Tu spacci ma non usi hascisc come Nourdine. Invece io bevo e mi ubriaco. Uso hascisc e cocaina e mi drogo. Ma tu sei diverso da me? Tu sei buono?” mentre parlava si era allontanato un poco da Samir, saltellava continuamente spostando il proprio peso da una gamba all’altra, sarebbe stato buffo se le sue mani, all’interno delle tasche della giacca, non stessero giocherellando con qualcosa al loro interno. Samir sapeva perfettamente con che cosa giocava Nourdine e di nuovo il terrore lo prese. Ebbe paura della mole dell’uomo che gli stava davanti, dei suoi occhi rossi di freddo, del naso gocciolante, dell’ alcol nel suo stomaco, del coltello nella sua tasca. La paura divenne un nodo

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nelle sue gambe, il nodo divenne prurito e il prurito si trasformò in un balzo proteso verso il buio, gli alberi, l’immenso parco. Iniziò a correre. Sempre più veloce. Ma i passi di Nourdine erano ancora dietro di lui, pesanti sul terreno coperto dagli aghi di pino. E i passi erano accompagnati dalla sua voce ansimante per la corsa “Pensi di essere buono tu? Tu che ti sei preso un ragazzino tutto per te? Pensi che sia stupido io? Io so perché mantieni con te quel ragazzino! Maledetto frocio! Sei tu che fai schifo, hai capito? Frocio!”

Per la terza volta il fuoco si spense lasciando dietro di se solo odor di fumo e braci che brillavano rossastre nel buio. Dalì afferrò uno legnetto bruciato per metà e con il lapillo ancora vivo su una delle estremità si mise a disegnare cerchi d’orati nell’buio poi una volta che si spense cominciò a rosicchiare piccole schegge di legno. Quando a casa rifiutava del cibo a lui non gradito la mamma gli diceva sempre che chi a fame mangia anche il tavolo. Aveva sempre pensato si trattasse di uno scherzo. Ora aveva un po’ più fame ogni minuto che passava e di Samir non c’era traccia. Pensò per un attimo di uscire dalla fabbrica per cercare del cibo ma sapeva che intorno a lui non si trovavano che chilometri di capannoni edili, deserti ed inutili. Nel grande edificio era arrivata la notte, solo una goccia d’acqua che cadeva ritmicamente dalle tubature riempiva con la sua voce lo spazio intorno che nell’ oscurità perdeva qualsiasi dimensione. Angusto ed enorme nello stesso tempo. La sua gamba venne colpita da una spoletta di cotone che rotolava sul pavimento, poco dopo apparve il gattino che a pancia all’aria si mise a sfilacciare a brandelli il filo di cotone. Dalì lo afferrò per la collottola e lo strinse tra le braccia. Era così diverso da Marcell, il gatto della zia, quello era un grosso bestione grasso e pigro mentre questo sembrava sempre sul punto di spezzarsi ogni volta che lo stringeva tra le mani. Pauvre chat. Pauvre petit chat. Sotto la pelliccia grigia le leggere ossa dell’animale parevano cedere sotto le sue carezze. Cosa sarebbe successo se non avesse più potuto nutrirlo? Se Samir non fosse tornato? Cosa ne sarebbe stato di lui, di Dalì, se Samir lo avesse lasciato solo? Cominciò a tastare la pancia del gatto. Era veramente troppo magro per un gattino? Poteva morire di fame? Era forse un gatto destinato a morire di fame nonostante i suoi sforzi per accudirlo? Lo prese di nuovo per la collottola, sentendosi sollevato bruscamente l’animale tentò di ribellarsi soffiando ma Dalì lo tenne stretto e con sguardo analitico lo soppesò. Quanta carne si poteva trarre da una bestia come quella?

I rami intorno a lui si impigliavano nei suoi vestiti, graffiavano la sua pelle mentre continuava la sua corsa all’interno di una macchia di folti e bassi cespugli. Correva a scatti, cercando di far perdere le sue tracce, ogni tanto era costretto a continuare a carponi per inoltrarsi nel folto del parco. Da alcuni minuti non sentiva più Nourdine dietro di se e decise di fermarsi a riprendere fiato nascosto tra la vegetazione. Si appoggiò ad un tronco e rimase sdraiato, tenendo premuta con una mano la milza che lanciava lunghe fitte di dolore. Sopra di lui le fronde si aprivano in un piccolo squarcio di cielo. Era una notte nera, buia, fredda ma che già portava con se gli odori vellutati della primavera nascente: il profumo dolciastro del trifoglio mischiato a quello fresco e pungente dell’erba. Era una bella notte. Il vento che lievemente accarezzava i vecchi pini portava con se la promessa delle dolcezze della stagione calda, morbido e voluttuoso. La nebbiolina che saliva dalla terra umida ammantava il sottobosco riempiendolo di fumose luminescenze. Era una bella notte per le volpi che nel parco silenzioso si aggiravano alla ricerca di cibo, era bella per l’usignolo che appena giunto dal nord africa approfittava del buio per lanciarsi nelle sue canore dichiarazioni d’amore. Anche per Samir sarebbe stata una bella notte. Se solo avesse potuto chiudere gli occhi, riposare, dormire, lasciarsi cullare da quel mondo brulicante di vite che si schiudeva attorno a lui, per lui. Se solo avesse potuto farsi trasportare sulle piccole ali di quel ben più felice connazionale dal lungo becco, sulle vie del ricordo e del sonno. Ad un tratto uno schianto di rami spezzati fece vibrare ogni foglia d’albero, l’usignolo ammutolì ed un grosso coniglio raggiunse con un balzo la sua tana. Per la prima volta in vita sua Samir provò simpatia per quel piccolo animale, capì il suo terrore, il cuore che ti esplode nel petto. Si risollevò e ricominciò a correre. Il rumore di passi e rami spezzati dietro di lui gli confermarono che Nourdine era ancora sulle sue tracce. Ad un tratto udì nuovi rumori davanti a se, rumori completamente diversi dai fruscii e palpiti del parco. Rumori di automobili, la strada era davanti a lui. Iniziò a correre in quella direzione, deciso ad abbandonare il buio degli alberi, il silenzio, l’odore di selvatico, la paura di essere solo. Di nuovo tra la gente e con la gente. Perchè quando sei nel tuo branco non hai più paura. Quando sei nel branco non ti si può più far del male. Perdersi nel rassicurante rombo del mondo. Nourdine era sempre dietro di lui, poteva sentire i suoi passi che si avvicinavano, le maledizioni che la sua bocca srotolava per lui. Si girò e vide a mezzo metro da se il volto di Nourdine, rosso per corsa, gli parve un viso sfigurato come quello dei mostri nelle favole dei bambini. Raccolse tutte le energie che gli erano rimaste e fece un ultimo disperato balzo verso la strada. Fuori dal buio, nella luce elettrica dei lampioni.

Nell’accecante riverbero di due enormi fari che si gettarono contro di lui. I fari di un auto che illuminavano il volto di Samir mentre si facevano sempre più vicini. Dal parco giunse la voce di Nourdine ma lui non fece in tempo a sentirla. Fuori dalla luce fu di nuovo buio.

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Alan Lechuza

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Green Spaces #1 and #2 An original Composition by ARCANUM Alan Lechusza – Woodwinds Ori Barel – Electronics c/p 2007 Performed/Recorded: June 2007 Newport Coast/Los Angeles, CA

Green Spaces tackles the fictitious line of demarcation between electronic and acoustic music acting as a commentary on the ever changing landscape of our times.

As humans, we are surrounded by both acoustic (natural) and electronic (synthesized/artificial) elements on a regular and daily basis.

Our 21st century post-modern lives are dictated by how we encompass, understand, balance and relate to the overarching presentation of electro-acoustic elements in our lives.

The more compressed time and space are becoming, the more of a desire we are placing upon our relationship to our natural world. The blooming of a flower can follow a clock just as equally as it can now be realized through the time elapse of a camera.

A single day can last for years or a few fleeting seconds depending upon how we desire to understand, and ultimately relate, to this phenomological concept.

We are in the midst of a cycle which we could have only imagined previously; that time and space are entering our constructive control, yet they retain their cognitive sovereignty and act without our control. Try as we may to capture these natural elements artificially, they still dictate who we are echoing that we are stil natural beings.

Green Spaces is a composition that, through the active engagement of composition and improvisation, details this phenomological realization. Pure seconds of sound are captured and held, which are then able to expand beyond their “natural” state of existence. Sounds that are synthetically created find equal company with acoustic sounds and vice versa. There is a true balance between these different textures (acoustic and electronic) that allow each other the liberty of time through the expression of a moment re-presented in an artistic medium. The sonic landscape of our times maintains not a singular direction, but rather is invested within many different “voices” from different landsapces. Green Spaces is a sonic metaphor for the way in which we live and co-exist in a challenging time continually on the edge of critical self and ecological inquiry.

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