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Poste Italiane Spa - Spedizione in Abbonamento Postale 70% NE/TN - anno III - numero 5 - luglio 2011 - € 10,00

Urbani Sentieri LA RIVISTA DELLA SEZIONE TRENTINO DELL’ISTITUTO NAZIONALE DI URBANISTICA Issn: 2036-3109

In questo numero

Il Piano Territoriale della Comunità



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SentieriUrbani LA RIVISTA DELLA SEZIONE TRENTINO DELL’ISTITUTO NAZIONALE DI URBANISTICA

Sentieri Urbani rivista quadrimestrale della Sezione Trentino dell’Istituto Nazionale di Urbanistica nuova serie anno III - numero 5 luglio 2011

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Editoriale di Alessandro Franceschini

06 Urbanistica, Territorio, Comunità. Un'intervista a Giuseppe Campos Venuti di Giovanna Ulrici 12

Dossier: il Piano Territoriale della Comunità a cura di Bruno Zanon e Alessandro Franceschini

Issn 2036-3109

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Alle radici della pianificazione sovracomunale in Trentino di Bruno Zanon

direttore responsabile Alessandro Franceschini direttore@sentieri-urbani.eu

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La nascita dei Comprensori/1 - Intervista a Giampaolo Andreatta

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La nascita dei Comprensori/2 - Intervista a Sergio Giovanazzi

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La nascita dei Comprensori/3 - Intervista ad Antonio Scaglia

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La riforma istituzionale – Intervista a Lorenzo Dellai

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Prospettive della Pianificazione Territoriale delle Comunità. Aspetti metodologici ed operativi di Bruno Zanon

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Le sfide che attendono le Comunità – Intervista a Corrado Diamantini

registrazione presso il Tribunale di Trento n. 1376 del 10.12.2008

redazione Elisa Coletti, Fulvio Forrer, Paola Ischia, Giovanna Ulrici, Bruno Zanon redazione@sentieri-urbani.eu hanno collaborato a questo numero Giampaolo Andreatta, Giorgio Antoniacomi, Angelo Besana, Chiara Bragagnolo, Corrado Diamantini, Sergio Giovanazzi, Francesco Minora, Cristina Orsatti, Antonio Scaglia progetto grafico Progetto & Immagine s.r.l. - Trento

Gli aspetti della pianificazione

concessionaria di pubblicità Publimedia snc via Filippo Serafini, 10 38122 Trento 0461.238913 © Tutti i Diritti sono riservati prezzo di copertina e abbonamenti Una copia € 10 - Abbonamento a 3 numeri € 25 Per ricevere Sentieri urbani è sufficiente inviare una e_mail con gli estremi del bonifico bancario (sul conto corrente intestato all’Inu Trentino presso la Cassa Rurale di Trento IBAN IT63M0830401813000013330319) ed indicando i dati postali di chi desidera abbonarsi alla rivista: diffusione@sentieri-urbani.eu

contatti www.sentieri-urbani.eu 328.0198754 editore Bi Quattro Editrice via F. Serafini, 10 38122 Trento

direttivo 2010/2012 Giovanna Ulrici (presidente) Fulvio Forrer (vicepresidente) Elisa Coletti (segretario) Alessandro Franceschini (tesoriere) Davide Geneletti (consigliere) Marco Giovanazzi (consigliere) Paola Ischia (consigliere)

Comunità e pianificazione: la nuova governance territoriale del Trentino di Luca Paolazzi

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Comunità e sviluppo locale: un binomio non scontato di Angelo Besana

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Identità e cultura per la costruzione dei Piani Territoriale di Comunità di Cristina Orsatti I temi di progetto

I testi e le proposte di pubblicazione che pervengono in redazione sono sottoposti a valutazione secondo competenze specifiche e interpellando lettori esterni

Istituto Nazionale di Urbanistica Sezione Trentino Via Oss Mazzurana, 54 38122 Trento

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L'enigma del paesaggio nel Piano Territoriale della Comunità di Alessandro Franceschini

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La dotazione di aree produttive alla scalasovra comunale di Paola Ischia

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Il sistema dei servizi, gli elementi della Comunità di Giorgio Antoniacomi

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Il ruolo della Valutazione Ambientale Strategica nella pianificazione territoriale d'area vasta di Chiara Bragagnolo

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La prequazione come strumento nella pianificazione sovracomunale di Elisa Coletti

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Città oltre la crisi: risorse, governo, welfare Note dal XXVII Congresso nazionale Inu. di Giovanna Ulrici

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Abitare l'Italia: territori, economie, disuguaglianze. Note a margine della XI conferenza SIU. di Francesco Minora

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Chi siamo, cosa vogliamo, come partecipare

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“Trento Under Construction”

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Biblioteca dell'urbanista


Massimo D’Azeglio (1798 - 1866)

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Editoriale

...siamo trepidanti e disincantati come il patriota

«Fatta l'Italia, bisogna fare gli italiani» sentenziava Massimo D'Azeglio centocinquant'anni fa, all'indomani dell'unità d'Italia. «Fatta la Riforma, bisogna fare le Comunità» potremmo parafrasare noi, oggi, nel pieno dell'attuazione della Riforma istituzionale che ha suddiviso il Trentino in sedici nuove comunità locali dotate di competenza anche nelle materie della pianificazione urbanistica. Anche noi, quindi, siamo trepidanti e disincantati come il patriota. Fatte ovviamente le debite proporzioni. E sperando, al contempo, di avere maggiore fortuna. Non sappiamo bene nemmeno come si chiamano. Per tutti sono le «Comunità di Valle» ma si dovrebbero chiamare, almeno secondo la legge, solo «Comunità». Le confondiamo spesso con i Comprensori. Non riusciamo ad intendere il bisogno di questa nuova suddivisione del territorio dopo che, qualche decennio fa, era miseramente implosa quella comprensoriale. Abbiamo il sospetto che questa riforma possa essere un appesantimento dell'apparato amministrativo. Cogliamo la dissonanza tra l'enfatizzazione del tema dell'identità comunitaria e le sfide della globalizzazione sempre più impellenti. E poi c'è il Piano territoriale della Comunità: questo nuovo piano urbanistico che rischia di essere schiacciato tra un soverchio Piano urbanistico provinciale e una grande varietà di piani regolatori sempre purtroppo tesi a soddisfare più le necessità edilizie che il futuro delle società locali. Eppure, nonostante tutte queste incognite, siamo convinti che quella che si sta aprendo abbia tutte le carte in regola per essere una nuova ed importante stagione di pianificazione urbanistica. Una sfida strategica che disegnerà il Trentino dei prossimi anni in un rinnovato equilibrio tra il centro e la periferia. La scommessa sottesa alla costruzione delle Comunità, infatti, non è solo quella di spostare a «livello intermedio» le responsabilità della pianificazione; non è solo quella di razionalizzare i servizi attualmente frammentati nei singoli comuni; non è solo quella, infine, di rendere più efficiente l'autonomia gestionale. La vera sfida è quella di rendere i territori periferici sempre più protagonisti del loro valore, delle loro specificità, del loro progetto di comunità. Anche per Sentieri Urbani è giunto il tempo di ripensare la sua struttura e la sua funzione. Per questo la rivista si propone, da questo numero, con una nuova grafica e con un nuovo progetto editoriale. La Sezione Trentino dell'Istituto Nazionale di Urbanistica, forte del successo che la rivista ha avuto presso i professionisti e presso gli amministratori del nostro territorio, ha deciso di rilanciare questo mezzo di cultura urbanistica, aumentandone la periodicità delle sue uscite (da semestrale a quadrimestrale), ampliandone la tiratura, facendone crescere la qualità grafica e tipografica (passando dalla stampa digitale a quella offset), ma soprattutto cercando di diventare ancora di più un supporto pratico per chi opera nell'urbanistica e nella pianificazione. Ogni numero della rivista focalizzerà gran parte delle sue pagine su di un tema monografico. Inizieremo con un'analisi del Piano Territoriale della Comunità di cui affronteremo la storia, le sfide e la vocazione. Sentieri Urbani si propone così di essere uno strumento di lavoro, utile per la gestione corretta e socialmente utile delle risorse più preziose che abbiamo: il territorio, l'ambiente, il paesaggio. Anche per noi, quindi, si tratta di una grande scommessa. Alessandro Franceschini

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Urbanistica, Territorio, Comunità Un’intervista a Giuseppe Campos Venuti a cura di Giovanna Ulrici

Giuseppe Campos Venuti nato a Roma nel 1926 è presidente onorario dell’Istituto Nazionale di Urbanistica dal 1990. Autore di numerosi piani urbanistici e di pubblicazioni scientifiche è stato docente al Politecnico di Milano fino al 2001. Il suo ultimo libro è “Un bolognese con accento trasteverino”

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Ulrici: Professore, voglio innanzitutto ringraziarla per avere accettato questa intervista improvvisata ai margini del Congresso nazionale di INU… Campos Venuti: Sono contento per l'intervista, ma vorrei sapere come la utilizzerai. U: Mi piacerebbe condividere la nostra conversazione con la sezione Trentino di INU e con chi legge la nostra rivista, Sentieri Urbani (SU). C: Conosco e ricevo la rivista Atlas da Bolzano fin dai tempi di Silvano Bassetti, che è stato mio allievo a Milano. La tua no e quindi… U: …al più presto le sarà inviata. La nostra è una piccola sezione, ci stiamo impegnando per crescere, SU fino ad ora ha ospitato temi prevalentemente locali. Ora, anche grazie al fatto che forse è risolto il problema del finanziamento... C: La Provincia vi finanzia? U: Diciamo non ancora… per ora la pubblicità. C: Capisco, però siccome la provincia di Bolzano è all'avanguardia e finanzia... sarebbe bello che anche la Provincia di Trento facesse altrettanto. U: Il rapporto di INU con la Provincia di Trento è in effetti da coltivare e rafforzare, so che dipende anche da noi. Ma – entrando nei temi dell'intervista – si tratta anche di confrontarsi e presidiare l'avvio della grande riforma istituzionale e urbanistica che ha interessato la nostra provincia negli ultimi anni, con la nuova legge urbanistica, il nuovo piano urbanistico provinciale. Dal punto di vista amministrativo sono state istituite e si avviano all'operatività le Comunità di Valle, Enti a cui la Provincia ha stabilito il trasferimento delle competenze anche in materia di pianificazione. C: Si tratta di realtà istituzionali che nella vostra provincia sono più importanti di quanto non siano in Emilia Romagna o nel resto del Paese; infatti le Comunità Montane hanno avuto nella realtà nazionale un ruolo meno importante di quanto non abbiano nell'arco alpino. U: Ritiene che questi enti locali possano


generare il rischio di rafforzare l'isolamento e la separatezza territoriale? C: Dipende da come sono gestite le Comunità di Valle, tutto può essere gestito in maniera isolata o in maniera complementare con il contesto territoriale. Nel vostro caso provinciale, dal di fuori non posso dirlo, non esiste un giudizio necessariamente negativo o positivo, dipende da come le userete; il coltello serve per tagliare il pane e anche per ammazzare la gente. Per la mia conoscenza del territorio alpino, anche del Trentino Alto Adige, credo che Enti quali le Comunità di Valle possano svolgere, se usate bene, un ruolo più importante di quanto non avviene in aree dove l'integrazione con il territorio regionale è molto più forte. Anche l'INU deve cercare di operare per farle usare non separando valle da valle, ma cercando di sfruttare le identità e le problematiche di valle in senso positivo, mettendo in risalto quelle che sono le singole specificità. U: Un altro carattere strutturale del sistema amministrativo trentino è dato dalla dispersione delle realtà comunali: 217 Comuni su un territorio di circa 6.200Kmq. C: Questo è un problema italiano; alcune regioni, Piemonte e Lombardia e le due province di Trento e di Bolzano sono particolarmente suddivise in Comuni. In Piemonte ci sono 1200 Comuni, in Lombardia 1500, ma in Emilia Romagna i Comuni oggi sono circa 350 e in Toscana meno di 300. Però nel caso delle Alpi la suddivisione in Comuni è più comprensibile che altrove, se in pianura le suddivisioni sono eccessive, da voi sono più motivate. Comunque, la problematica dell'uso integrato del territorio e dell'ambiente, si pone anche nelle zone alpine. L'identità di valle non deve mai diventare uno strumento di separatezza del territorio. Voglio citare l'esempio del sistema Alpe Adria, che opera per integrare il territorio alpino, senza negarne le specificità. Come vedi sono interessato ai vostri problemi, una volta ero “un montanaro”, frequentavo le Dolomiti, fino a quando mi sono stancato del turismo di moda italiano e sono finito per vent'anni in Val d'Isère, dove c'erano sistemi sciistici moderni e sportivi. I francesi hanno saputo sviluppare lo sport della montagna a livello di massa, facendone anche una funzione economica socialmente molto più intelligente, di quanto hanno fatto per i miei gusti alcune nostre stazioni sciistiche. U: Quest'anno le amministrazioni comunali trentine affrontano gli effetti del rispetto del patto di stabilità... C: Cominciate anche voi ad avere le difficoltà degli altri, ma passeranno anni prima che diventino gravi. U: Gli aspetti economici dell'autonomia stanno condizionando il dibattito e il giudizio sulle provincie autonome. Quale è il suo punto di vista? C: Tendo a non drammatizzare mai, capisco benissimo che la vostra regione abbia avuto per ragioni storiche sacrosante un privilegio

oggettivo, un riconoscimento di specificità cominciato nella provincia di Bolzano che ha coinvolto anche quella di Trento. La cosa non ha inciso negativamente nel governo delle amministrazioni che sono state sempre abbastanza buone, quale che fosse l'appartenenza politica. Oggi il cambiamento sia globale sia del Paese pongono con urgenza il passaggio al federalismo; ma attenzione che non sia quello fasullo proposto da un Governo che sta centralizzando come non mai le scelte fondamentali. Questo, sia chiaro, io lo ribadisco anche come dirigente di INU. Al di là di ciò, resta il fatto che un federalismo diffuso comporta una perequazione maggiore di quella del dopoguerra che ha toccato poche regioni, in alcune delle quali non sono stati distribuiti i vantaggi acquisiti. U: Il tema della crisi affrontato in questo Congresso ha riportato l'attenzione sulla capacità, del pubblico e del privato, di avere spirito di iniziativa e innovazione. Crede che il benessere e la disponibilità di risorse locali abbiano rallentato la crescita di imprenditorialità? C: Questo io non lo so, da lontano non si ha l'impressione che l'imprenditorialità nelle zone alpine sia in un momento di scarsa crescita, …non oso dare consigli o giudizi su una situazione che non conosco, mi scuso. U: Ci mancherebbe. Un tema centrale nella nuova fase di pianificazione in Trentino è senza dubbio rappresentato dal paesaggio. Comincia a diffondersi dal punto di vista culturale oltre che disciplinare una revisione del concetto di paesaggio, in particolare quando – in coerenza con la definizione della Convenzione europea – si incoraggia il superamento dell'approccio di mera tutela a vantaggio di un ripensamento delle forme di trasformazione del territorio. Approccio che a volte implica una critica all'urbanistica cui viene imputata una visione gerarchica della città rispetto al sistema territorio. C: Su questo posso rispondere. L'Inu è partita nei lontani decenni con una urbanistica che nasceva urbana, poi ha sempre piu fatto crescere la propria riflessione culturale con un allargamento dalla città al territorio. Da lungo tempo l'Inu ha espresso una concezione di città e territorio che includesse gli aspetti più storicamente urbanistici con quelli ambientali, paesaggistici, ecologici ed energetici. Si è cercato di abbracciare in questa visione di città e territorio tutti gli aspetti della gestione del sistema, in modo che nessuno fosse separato o privilegiato rispetto agli altri. Bisogna fare attenzione; in questo momento la problematica del paesaggio è diventata una moda, di cui vogliamo cogliere l'aspetto positivo, perché si è capita l'importanza del tema. A condizione che non sia un paesaggio da cartolina, come quella del paesaggio toscano fatto solo di viti e olivi, che però si è trasformato perché le forme colturali non sono più le stesse di cinquecento anni fa. Ritengo che in Trentino ci sia una continuità

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L'identità di valle non deve mai diventare uno strumento di separatezza del territorio


La visione della tutela va mantenuta unita, ma lo Stato deve dare i mezzi che oggi non dà...

più forte nelle forme del paesaggio, non so se forte come in Alto Adige, che ha gestito l'unità di paesaggio politica e sociale nella pratica del maso chiuso. La politica del maso chiuso aveva una ripercussione sociale forte, perché stabilendo un solo figlio come erede del maso, implicava l'immissione nella società degli altri figli, per fare mestieri necessari: commerciante, fabbro, medico, farmacista, parroco, arricchendo di professioni plurali una società che restava prevalentemente contadina. Maso chiuso significava, però, anche mantenimento del paesaggio alpino, prato e bosco e manutenzione dell'uno e dell'altro, assetto idrogeologico sempre protetto, insomma una gestione del territorio che nasceva da un costume che diventava legge. Questo vale di più per l'Alto Adige. U: Il Trentino ha gli usi civici… C: Che però non ci stanno solo in Trentino, ci stanno anche nel resto d'Italia, forse in Trentino sono più forti. Il legnatico si faceva anche nell'Appennino… certo, gli usi civici sono ancora una volta un costume che diventa legge, sono uno strumento sociale ed economico. Tutto questo per dire che il paesaggio si deve conservare non come qualcosa di statico, ma come un pezzo della convivenza dell'uomo sul territorio. Oggi a livello nazionale purtroppo emerge quasi soltanto l'aspetto delle competenze. La Costituzione stabilisce la tutela del paesaggio, ma la tutela è affidata ad un vecchio strumento di epoca fascista, la legge Bottai sulle bellezze artistiche e naturali, che si deve secondo me interpretare in maniera evolutiva. C'è una vecchia polemica che sostiene l'utilità di sottrarre al governo locale la tutela del paesaggio affidandolo esclusivamente ad una gestione sovra locale, ai Sovrintendenti; a me gli uomini “sovra” non sono mai piaciuti, io sono per la persona, il cittadino, i sistemi democratici, i Comuni. E se i Comuni e le Province fanno sciocchezze, vanno combattute le sciocchezze non i Comuni. Io la salvaguardia dei Centri Storici nel 1960, la feci partire come assessore comunale a Bologna, contro il Sovrintendente. Se viene interpretata nel modo migliore, è l'intera società che si deve appropriare del paesaggio come di un bene comune e deve conservarlo, tutelarlo, salvaguardarlo, affidandolo ai suoi eletti dal popolo; eletti in quanto più capaci saranno nella gestione anche del paesaggio, che non è l'unico bene a loro affidato. La visione della tutela va mantenuta unita, cercando di usare tutte le presenze, anche quelle preziose dei Sovrintendenti, ma lo Stato deve dare i mezzi che oggi non dà, cercando una collaborazione tra Enti elettivi ed Enti istituzionali nominati dall'alto, per il raggiungimento dello stesso obiettivo, in questo caso la cura del paesaggio, che non deve restare isolata. L'Inu a riguardo ha sempre deprecato quelle che ha chiamato le “gestioni separate”. In Italia abbiamo ancora pezzi di territorio separati per legge; con il buon senso e la volontà politica, questo problema si può ancora superare.

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U: Il Trentino ha conosciuto in epoca recente un cambiamento demografico dovuto all' accesso di popolazione straniera in percentuali significative: ora è il 10%, ma in alcuni quartieri del capoluogo la percentuale è superiore alla metà. Mi limito ad osservare gli effetti nell'uso degli spazi pubblici collettivi, come i giardini pubblici, che sono luoghi di convivenza ma anche di espressione di nuovi bisogni, in particolare di socialità e di aggregazione. C: L'Italia ha mandato in giro per il mondo 29 milioni di cittadini - anche trentini, venivano da tutta la penisola -, che hanno popolato Sud America e Nord America; dovremmo essere consapevoli che da terra di emigranti, siamo diventati terra di emigrati. Questa è la prima cosa. La seconda cosa da ricordare, è che nei Paesi dove la mescolanza etnica ha funzionato bene, la ricchezza umana ha proliferato, ci sono Paesi a cominciare dagli Stati Uniti che negli ultimi decenni…. U: Io 15 anni fa in Texas vedevo i ghetti per le persone di colore… C: D'accordo, io insegnavo a Berkeley e a San Francisco gli autobus erano guidati solo da neri. Però gli Stati Uniti hanno fatto del modello wasp un ricordo antico, la realtà è la convivenza di neri, latinos e italiani, portoricani cinesi, giapponesi (solo maltrattati durante la guerra e non mandati nelle camere a gas). È un paese che ha approfittato di questa iniezione di culture, ovviamente ci vuole tempo. Inventarsi che deve cambiare l'urbanistica per ricevere gli immigrati fa un pò ridere, la città deve fornire spazi decenti per chi ci vive in quel momento e se in quel momento ci stanno più immigrati di una etnia, la società si deve organizzare, ma indipendentemente dalla etnia. Non so quanto il Trentino abbia sofferto come l'Alto Adige del compromesso; in Provincia di Bolzano le scuole separate ancora esistono e questa non è la cosa migliore. O il fatto che i deputati della stessa Provincia abbiano votato il Governo che prima osteggiavano in cambio della spartizione del Parco dello Stelvio. U: Anche il Trentino si è espresso a favore dello smembramento amministrativo… C. Questa regione che ammiravo per la gestione di una delle cose migliori che aveva fatto il Paese...; perchè mai, non bastavano gli impianti di risalita del Tonale? Le regioni che hanno storici meriti, non li devono ridurre, ma accrescere. E' un cattivo insegnamento verso altre regioni alle quali abbiamo additato l'esempio. La leva della responsabilità va sempre utilizzata. Quando mi sono accorto che il Presidente dell'Emilia Romagna aveva cancellato l'Assessorato all'Urbanistica dalla sua Giunta, l'ho criticato seriamente sulla stampa e anche grazie al mio intervento le cose sono rientrate; come poteva accadere una cosa del genere in una regione che ha insegnato l'urbanistica a mezza Italia? Certo, quello dell'urbanistica è un assessorato scomodo, perché è costretto spesso a dire no. Ma avere cancellato le competenze suddivise in più assessorati e reintrodotto


l'urbanistica, non basta; vanno aumentate le competenze, per affrontare le difficoltà che con il federalismo demaniale aumentano. E i pessimi esempi non vanno copiati. U: La sua coerenza e forza vorrei fossero un messaggio che raggiunga i giovani appassionati di pianificazione. E' difficile coinvolgerli, sento molto disorientamento e disillusione, debolezza e difficoltà ad esporsi perché molto vulnerabili anche a causa dei meccanismi del lavoro. Sono scuse? C: No, no, è un fatto che riguarda l'Italia, non il Trentino. I giovani attraversano una fase di precarietà ed incertezza. Prima era facile pensare al futuro; focalizzato l'obiettivo, piano, piano si vedeva la scala da salire. Ora, invece, dov'è la strada? Uno scalino no, uno si, poi un ostacolo. In tutta Italia, a Bologna come a Napoli o Potenza. È un problema che io non ho avuto; a 17 anni ho partecipato alla guerra di liberazione e ho portato la pelle a casa. Dopo di che la mia battaglia è stata sempre in una direzione visibile, ho fatto l'urbanista, il mestiere che avevo scelto, sgobbando duro, ma si poteva. Ai miei studenti quando insegnavo non ho esitato a dire; questo è stato il mio percorso, oggi mi vergognerei a dirlo, perché direbbero che sono stato privilegiato, loro non hanno la stessa opportunità. Il mio messaggio ai giovani è, però, un altro: sappiate che comunque il vostro avvenire dipenderà fondamentalmente dai vostri sforzi personali e la natura umana è capace di sprigionare risorse impensabili, che vi permetteranno di superare i momenti peggiori. Tentate sempre di cercare in voi stessi il desiderio e il piacere di affrontare una strada difficile, provando e riprovando. Questa è stata la mia esperienza e tutte le volte che ho fatto quello sforzo, mi è andata bene. Ciò che hai realizzato, te lo sei guadagnato, non sei stato coperto di doni dal cielo; perché non dirlo ai giovani? U: Rabbia però: queste difficoltà vent'anni fa si potevano prevedere, dieci anni fa già c'erano ma non se ne parlava (anzi, era colpa dei giovani)... C: Dobbiamo però ricordare che per anni dal mondo giovanile - comprensibilmente - è venuta una domanda contraria ad una vita troppo prefissata su un percorso in salita; la flessibilità, che oggi chiamiamo precarietà, venti anni fa era ambita. Poi ci si è resi conto che troppa flessibilità produceva insicurezza; anche in questo siamo figli degli errori che noi stessi abbiamo richiesto alla vita. U: Potremo averla in Trentino per parlare, magari del suo ultimo libro? C: Mi muovo con difficoltà ho bisogno di supporto, ma non dico di no, vedremo. L'ultimo libro l'ho scritto come terapia dopo una ischemia che alla fine dello scorso anno, mi ha ridotto la parola e la scrittura. Ho dovuto imparare di nuovo a scrivere e a parlare alla meno peggio. Non posso quasi uscire di casa, ma mi sono trovato mille cose da fare, sto lavorando a quattro piani, due li ho avuti per concorso… Per la verità, per essere un ottantacinquenne lavoro molto, i miei maestri alla mia età o erano morti o

stavano in pensione, io se non lavoro non so che fare. U: Mai farsi guidare dai condizionamenti… C: Ti dico pure che mi sono anche un po' stancato di vivere in un Paese che non riesce a sbarazzarsi di questo personaggio che abbiamo eletto. C'è' una crisi del Paese. Siamo diventati ricchi in ritardo, siamo dei parvenues, arricchiti troppo in fretta, usiamo il benessere con superficialità. Invece le nazioni che hanno conquistato un benessere con più lunghi passaggi generazionali, lo usano con più parsimonia. Lo spiegavo ai miei studenti: “Nel 1951 le case che abitava vostro padre, su dieci una sola aveva il bagno, quattro avevano il gabinetto e cinque avevano il gabinetto fuori di casa, sulla ringhiera o nell'aia. Adesso se ci non sono due bagni in casa, vi sentite poveri”. Questo ha generato un investimento che è andato a scapito di altre cose; siamo in 60 milioni di persone, con piu di 120 milioni di stanze, abbiamo un patrimonio edilizio messo insieme quando la famiglia era numerosa, comprando o ricevendo dallo stato appartamenti grandi, di quattro o cinque stanze. Queste abitazioni, ora che la famiglia media è di 2,05 membri, sono sovrabbondanti. Allora piuttosto che fare case nuove, riduciamo gli appartamenti esistenti, per assicurare abitazioni ai giovani; e gli anziani si adattino in alloggi meno ampi, senza stanze vuote che nessuno usa. Questa politica dovrebbe essere gestita da un programma nazionale - altro che “piano casa” -, sostenuto a cominciare dalle banche. U: Il problema è psicologico o culturale... C: Di questi fatti reali e diffusi si deve occupare un urbanista. In Italia solo ora è cosa frequente la mobilità delle nuove generazioni; perché la casa deve condizionare pesantemente la nostra vita? Paesi che hanno vissuto prima del nostro lo sviluppo, hanno organizzato il loro patrimonio edilizio meglio del nostro. Da noi si comincia ora, finalmente la realtà della famiglia che raccoglieva insieme tutte le generazioni, non è più la regola. E allora il patrimonio edilizio deve essere adeguato a questa nuova condizione. Tu cara amica hai cambiato regione, i miei figli han cambiato nazione. L'Italia è il Paese che comincia a provare adesso queste cose; la prima volta che sono andato a Londra nel 1947 come rappresentante dell'associazione studenti, cominciai a farmi amici i colleghi inglesi, ebbene quasi tutti avevano i genitori a Londra, ma tutti vivevano fuori di casa… Ma le sessioni di lavoro del Congresso riprendono, e la conversazione si deve interrompere. Grazie prof. Campos Venuti!

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Il mio messaggio ai giovani è: sappiate che comunque il vostro avvenire dipenderà fondamentalmente dai vostri sforzi personali e la natura umana è capace di sprigionare risorse impensabili, che vi permetteranno di superare i momenti peggiori


Dossier: il Piano Territoriale della ComunitĂ a cura di Bruno Zanon e Alessandro Franceschini

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Il Trentino si sta apprestando a vivere una nuova e impegnativa stagione di pianificazione. Concluso da poco il processo di revisione del Piano Urbanistico Provinciale, strumento ormai giunto alla terza generazione, le neo costituite Comunità di valle previste dalla riforma istituzionale si avviano ad elaborare strategie di sviluppo appropriate agli specifici quadri territoriali. Questi percorsi di pianificazione riprendono, a distanza di due decenni, le esperienze dei piani comprensoriali e dei piani dei centri storici, che avevano richiesto estese indagini urbane e territoriali ed avevano istituito connessioni con la programmazione dello sviluppo socio-economico. Questo numero di Sentieri Urbani intende offrire materiali e riflessioni per affrontare la sfida di oggi, partendo da un quadro di tali esperienze. Si tratta, in particolare, di sottolineare le motivazioni dei piani comprensoriali - strumenti finalizzati a dare concretezza alle intuizioni del primo Piano Urbanistico Provinciale -, e di cogliere la ricchezza dei processi attivati. Al di là dei contenuti normativi propri di strumenti con forte natura regolativa, i piani comprensoriali miravano infatti ad una comprensione della complessità territoriale, combinando gli aspetti insediativi con quelli sociali ed economici. La stagione che si apre ora presenta molte differenze con quella degli anni '70 e '80, ma non deve essere meno qualificata. È necessario quindi dare un senso profondo alla pianificazione, quale processo di analisi dei caratteri specifici dei singoli territori, di individuazione delle problematiche emergenti – innovando le immagini consolidate -, di integrazione delle conoscenze, di selezione delle priorità, di condivisione delle soluzioni. Non può certo essere un impegno da affrontare in un'ottica di semplice adempimento ad obblighi di legge, dovendo in molti casi reinventare il rapporto tra le comunità locali e risorse del territorio che si presentano – in un contesto segnato da cambiamenti sociali ed economici e da processi di integrazione a scala sovralocale – con valori e caratteri molto diversi da quelli tradizionali. In questo percorso devono essere coinvolte molte competenze diverse e, soprattutto, deve essere attivato un processo di apprendimento che integri gli aspetti tecnici con la maturazione delle decisioni e la crescita della leadership politica locale. Una concezione processuale della pianificazione consente di trarre vantaggio da ogni passo del percorso, sia di tipo analitico sia progettuale, e di valorizzare le azioni di raccordo tra i diversi attori. La pianificazione può quindi contribuire al rafforzamento della “capacità istituzionale”, vale a dire il consolidamento della abilità di gestire i processi di decisione pubblica in modo appropriato, costruendo reti di attori, pubblici e privati. Le Comunità non possono però affrontare tale sfida ciascuna per proprio conto ed è quindi importante costruire un momento specifico di confronto, di dialogo, di apprendimento. Le modalità possono essere diverse, quali ad esempio un Forum della pianificazione, vale a dire una struttura leggera che consenta di fare interagire i processi di costruzione dei piani delle Comunità per qualificarli come momenti di apprendimento e di sviluppo delle capacità tecniche e politiche. Su questo la Sezione Trentino dell'Istituto Nazionale di Urbanistica offre la propria disponibilità a collaborare condividendo il proprio patrimonio di esperienze e di relazioni locali e nazionali. In questo numero di Sentieri Urbani vengono affrontati temi diversi ma strettamente connessi. In primo luogo viene ripercorsa la vicenda della pianificazione comprensoriale, collocandola nel quadro del primo PUP. Dopo un testo introduttivo, alcune interviste danno voce a protagonisti di primo piano, facendo emergere la complessità della sfida di allora, assieme agli inevitabili limiti di tali esperienze. Dopo l'illustrazione della riforma istituzionale da parte del Presidente della Provincia autonoma di Trento due contributi focalizzano le sfide che si profilano per le Comunità. Seguono degli articoli che approfondiscono gli aspetti ed i temi che dovranno essere affrontati dai processi di pianificazione territoriale. Si tratta di questioni cruciali sia dal punto di vista metodologico sia da quello operativo, comportando un profondo rinnovamento della pianificazione: le innovazioni della governance territoriale, il senso dello sviluppo, l'identità locale, quindi il paesaggio, le aree produttive di livello sovralocale, i servizi, i metodi e le procedure per la valutazione ed infine la scommessa della perequazione.

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Alle radici della pianificazione sovracomunale in Trentino di Bruno Zanon

Le stagioni della pianificazione del “laboratorio Trentino” L'istituzione delle Comunità di valle, in Trentino, è saldamente connessa all'esperienza dei Comprensori e la prospettiva della pianificazione territoriale delle Comunità richiama la vivace stagione di pianificazione comprensoriale sviluppatasi nel corso degli anni '70 e '80. I Comprensori vennero proposti dal Piano Urbanistico Provinciale del 1967 per dare una risposta alla frammentazione delle amministrazioni comunali e per affrontare la debolezza strutturale di un territorio montano rimasto ai margini delle dinamiche dello sviluppo del dopoguerra. Rispetto ai Comprensori, il cui ruolo ha oscillato nel corso dei decenni, le Comunità rappresentano senza dubbio una svolta significativa sia per quanto riguarda la definizione dei territori sia, soprattutto, in merito alle competenze. La responsabilità della pianificazione emerge però in modo netto, ponendosi in stretto raccordo con i compiti di elaborazione di strategie appropriate alle specifiche condizioni ambientali, sociali ed economiche. Tale impegno richiama le esperienze dei Piani Urbanistici Comprensoriali (PUC), che costituirono una sfida tecnica e politica volta a elaborare strumenti di regolazione del territorio alla scala sovracomunale in connessione con la programmazione socio-economica e con le tematiche che stavano emergendo in quel periodo, in particolare la tutela e la valorizzazione dei centri storici. Il quadro istituzionale e le sfide per la pianificazione sono però oggi assai diversi e sarebbe quindi

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rischioso delineare la prospettiva dei Piani Territoriali delle Comunità (PTC) sulla base dei piani comprensoriali. Appare quindi particolarmente utile sviluppare una riflessione sui caratteri e gli esiti di quella stagione, cogliendo analogie e differenze. Le condizioni attuali del territorio provinciale – quanto a sviluppo economico, sistema infrastrutturale, dotazioni di servizi e attrezzature collettive, ma anche capacità istituzionali e capitale sociale - rappresentano l'esito di un lungo processo di sviluppo locale, attivato e in gran parte governato proprio mediante la pianificazione territoriale (Diamantini, Zanon, 1994; Diamantini, 1996). Tale strumento venne individuato negli anni '60 – nell'ambito del programma di rinnovamento di Bruno Kessler - come ripiego rispetto alla mancata disponibilità di strumenti di intervento nel campo dello sviluppo economico, in quanto la Provincia non aveva ancora tali competenze, allora affidate alla Regione (Zanon, 1993; 2005). Partire dal territorio si è però rivelato particolarmente fertile, perché questo consentì di elaborare una visione integrata dello sviluppo evitando una concezione strumentale del territorio come semplice fattore di produzione. Il processo di piano giunto a compimento nel 1967 aveva visto il coinvolgimento di prestigiosi consulenti (quali Beniamino Andreatta, Romano Prodi, Bernardo Secchi), coordinati da Giuseppe Samonà, e si era basato su una accurata ricognizione delle risorse locali, potendo così cogliere le debolezze del sistema insediativo e infrastrutturale e di elaborare proposte calibrate al delicato e fragile ambiente trentino


Dossier: La storia

(Provincia Autonoma di Trento, 1968). Da allora si sono succedute tre generazioni di piani urbanistici provinciali (1967; 1987; 2008) e si sono avviate esperienze che per molti aspetti hanno definito la Provincia di Trento come un vero e proprio laboratorio di governo del territorio, affrontando non solo temi nuovi quali la pianificazione sovracomunale (i Piani Urbanistici Comprensoriali), il recupero dei centri storici, la tutela del paesaggio, la salvaguardia dei valori ambientali, ma innovando anche gli approcci e i metodi. La pianificazione provinciale nell'arco di quattro decenni ha attraversato infatti fasi diverse: quella dello sviluppo socio-economico negli anni '60; la successiva fase orientata al controllo della qualità delle trasformazioni, alla sicurezza del territorio, alla difesa dell'ambiente; quella attuale incentrata su una visione strategica e valutativa della pianificazione, orientata a sostenere la progettualità locale, partendo da una concezione strutturale e identitaria del territorio e dalla individuazione delle “invarianti” (i beni e i valori non negoziabili) ed affermando il ruolo del paesaggio. Queste fasi hanno visto differenti modalità di governo dei processi (gerarchia istituzionale e dei piani, coordinamento degli attori e degli strumenti, azioni di indirizzo) e forme diverse dello strumento (disegno territoriale cogente, linee di indirizzo, visioni e strategie). In questo quadro le Comunità devono sapere cogliere il ruolo della pianificazione come uno strumento cruciale nella elaborazione di strategie di sviluppo appropriate alle peculiarità locali e al coordinamento delle azioni. Le differenze tra i Piani Territoriali delle Comunità (PTC) e i Piani Urbanistici Comprensoriali (PUC) sono quindi notevoli. La mancanza di compiti di regolazione in termini urbanistico-edilizi e l'assenza di poteri autoritativi da parte delle Comunità comporta l'abbandono del riferimento diretto ai PUC per proiettarsi verso nuovi modelli di pianificazione fondati sulla conoscenza, sulla elaborazione di strategie, sulla concertazione, sulla valutazione. Si tratta di una sfida tecnica e politica di grande rilievo. Territorio, società e istituzioni nella fase dello sviluppo La proposta della costituzione di un ente intermedio erano state avanzate in Italia a cavallo degli anni '60 nell'ambito della disciplina urbanistica, rilevando l'inadeguatezza dello strumento del Piano Regolatore Generale – peraltro utilizzato in modo limitato e inadeguato – per affrontare dinamiche che esulavano dai ristretti confini comunali. In tutto il paese erano ancora pochi i comuni dotati di PRG e in Trentino solo nel corso degli anni '60 entrarono in vigore i primi piani. In quello stesso periodo si stavano però avviando delle dinamiche sociali ed economiche particolarmente vivaci, che andavano trasformando le relazioni consolidate tra comunità e territorio, mentre emergevano nuove esigenze di infrastrutture, servizi, opportunità di lavoro e di vita. Le dinamiche in atto producevano fenomeni migratori, crescita edilizia, collocazione

di attività i cui effetti travalicavano i confini comunali. Non erano solo i grandi centri a essere interessati da tali problematiche ma anche i piccoli comuni, che soffrivano per la rottura del rapporto tradizionale tra le comunità e le risorse del territorio e per la inadeguatezza dell'apparato amministrativo e la impreparazione del personale politico. Si paventava la formazione di un sistema di centri urbani forti e di periferie deboli, interpretati in termini di aree metropolitane e di città-regione. A scala provinciale tali sfide erano state affrontate dalla pianificazione provinciale, la quale definiva un progetto ambizioso di territorio ripensato nei suoi valori e nella sua organizzazione infrastrutturale, nella dotazione di spazi per la produzione industriale e di attrezzature sociali. Il PUP si poneva inoltre intenti importanti di protezione dei valori ambientali e paesaggistici ma anche di uso innovativo di tali risorse come base per nuove prospettive di sviluppo turistico e come difesa di valori identitari. Si tracciava, in breve, un nuovo rapporto tra un territorio che per ampi brani stava perdendo senso insediativo e comunità locali che, in molti casi, si affacciavano per la prima volta alla modernità. Il piano provinciale era quindi orientato allo sviluppo e si collocava entro una concezione di “modernizzazione” ma sosteneva, attraverso la strumentazione tecnica, una prospettiva innovativa, che allora appariva una sfida: definire le vallate trentine, che avevano visto flussi poderosi di emigrazione a partire dalla seconda metà dell'800, come un luogo di vita appropriato per comunità pienamente inserite in una condizione moderna. Il valore del piano non risiedeva solo nella strutturazione di un nuovo territorio della produzione con previsioni di strade e attrezzature – in questo si potrebbero anzi rilevare molte ingenuità ed errori di dimensionamento –, quanto nell'avere saputo accettare la sfida della trasformazione dei contadini di montagna in operai, della modificazione delle condizioni insediative della periferia garantendo eguali opportunità alle vallate rispetto alla città, della individuazione dei caratteri dell'ambiente montano quali risorse per nuove attività economiche. Si è trattato del processo di “urbanizzazione della campagna”, che oggi appare pienamente conseguito e che ci fa riconoscere i residenti delle valli trentine come abitanti di una città estesa. Questo naturalmente non è stato solamente l'esito dell'azione pubblica o della semplice attuazione delle previsioni di piano, ma della diffusione anche al contesto montano trentino delle condizioni insediative proprie di vaste aree dell'Italia del nord e di molti paesi europei. Tali esiti non sono stati peraltro indolori, specie in termini ambientali, e su questo il PUP del 1987 è intervenuto con decisione ponendo limiti e indicando nuove prospettive di qualità (Mancuso, 1991).

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La pubblicazione che raccoglie il Piano urbanistico provinciale del 1967.


Nel quadro del primo PUP, l'istituzione dei comprensori diede vita ad un'esperienza di particolare importanza sia perché innovò l'assetto istituzionale, con la conseguente modificazione del sistema delle competenze e, in parte, dei poteri, sia perché avviò modalità nuove di pianificazione e di gestione di competenze in campo territoriale, della programmazione socioeconomica, della casa, della sanità e di numerose altre materie. Pur con delle zone d'ombra, i comprensori sono riusciti a costruire una identità territoriale creando un senso di appartenenza e di identificazione delle comunità in un nuovo ambito di vita e di amministrazione fatto di uno spazio in cui i centri abitati, i servizi, le attrezzature vengono vissuti ed operano a livello sovracomunale. Del resto, questa è la condizione definita dalla estesa mobilità delle persone e da dinamiche socioeconomiche che travalicano confini amministrativi che da tempo non corrispondono allo spazio vitale delle singole comunità locali.

La pubblicazione che raccoglie gli studi effettuati da Giovanni Astengo per il Piano urbanistico del Comprensorio della Valle dell’Adige.

La pianificazione comprensoriale Tra le competenze obbligatorie dei Comprensori, fino al 1991, si poneva la pianificazione urbanistica, intesa come sostitutiva dei piani comunali. Si trattava di una concezione forte della pianificazione sovralocale, finalizzata sia a trattare le questioni di livello territoriale sia a coprire un vuoto di pianificazione alla scala comunale. Nei primi anni '60 solo due comuni erano dotati di PRG (Tesero e Rovereto) mentre nelle altre situazioni si operava in assenza di regole di piano. Nonostante sollecitazioni e incentivi (ma anche la nomina di commissari), solo dopo la metà degli anni '60 iniziarono a entrare in vigore i primi strumenti, soprattutto sotto forma di Programmi di Fabbricazione (Zanon, 1993). Dopo la legge n. 53 del 1975, che formulava precisamente i contenuti dei piani comprensoriali, si avviò una fase intensa di pianificazione che perdurò per tutti gli anni '80 e si concluse nei primi anni '90. In tale periodo vennero redatti, adottati e approvati i PUC del Primiero, della valle di Sole, Alto Garda e Ledro, Alta Valsugana, Valle dell'Adige, Vallagarina (ma a Trento e Rovereto nel frattempo era stata assicurata autonomia di pianificazione, potendo così conservare il PRG), Bassa Valsugana e Tesino (alcuni documenti in proposito sono citati in bibliografia). Tale lungo processo si intrecciò con innovazioni normative importanti, in particolare la legge sui centri storici - che assegnava ai Comprensori anche la redazione del piano relativo ai piccoli centri -, nonché il nuovo PUP del 1987, che comportò un adeguamento degli strumenti in vigore. Alcuni piani non riuscirono a giungere all'approvazione nonostante lunghe fasi di analisi e di elaborazione, mentre quasi tutti i comprensori (9 su 11) si dotarono del Piano dei centri storici minori anche in assenza di PUC, quale stralcio di questo. Il quadro della pianificazione comprensoriale, nei primi anni '90, vedeva quindi un buon livello di completamento e la decisione di riassegnare ai

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singoli comuni la competenza urbanistica significò in molti casi il lento “ritaglio” del documento comprensoriale per normare con dei PRG i territori dei singoli comuni. La stagione della pianificazione comprensoriale ha visto il coinvolgimento di urbanisti prestigiosi (Giovanni Astengo, Franco Mancuso, Alberto Mioni, Marcello Balbo, Armando Barp, Daniele Pini, Maria Rosa Vittadini, tra gli altri) e di professionisti locali (Sergio Giovanazzi, Bruno Bronzini, Roberto Ferrari, per ricordarne solo alcuni). L'elaborazione dei piani coinvolgeva inoltre una pluralità di tematiche, in particolare relative ad aspetti di settore e alle questioni dello sviluppo socio-economico. Su tali aspetti diedero il loro contributo economisti e sociologi, tra i quali va ricordato Antonio Scaglia. La pianificazione dei centri storici, sulla base della impostazione data da Leonardo Benevolo, approfondita da diversi studi condotti da funzionari della Provincia (Provincia Autonoma di Trento, 1981; Ferrari et al. 1980, 1981; D'Agostino et al., 1984), si incentrava su una attenta indagine tipologica e vedeva sempre connessioni con gli aspetti sociali e d'uso degli edifici (Padovani, Zanon, 1992). Naturalmente la natura urbanistica dei piani comprensoriali e dei piani dei centri storici tendeva a ridurre tale complessità alla norma urbanistico-edilizia di assegnazione dei diritti di uso del suolo o di trasformabilità degli edifici. Quali sono state le ragioni della rinuncia a proseguire lungo la strada della pianificazione comprensoriale? Da un lato si può cogliere la crescita delle capacità amministrative e del protagonismo politico dei comuni periferici anche grazie al ruolo dei comprensori, dall'altro la forma del piano comprensoriale – urbanistica e sostitutiva dei piani comunali - non aiutò certo a definire un sistema equilibrato di funzioni e di responsabilità tra il livello comprensoriale e quello locale. Le esperienze dei PUC testimoniano infatti della difficoltà a trattare contemporaneamente questioni di coordinamento territoriale e di ordinamento dell'uso dei suoli, lasciando trasparire una logica di mediazione tra le parti in gioco. In particolare, le diverse amministrazioni comunali miravano più ad una vantaggiosa distribuzione delle previsioni anziché ad un coerente e razionale assetto del territorio a scala sovracomunale. Tra i risultati positivi va ricordata la capacità di organizzare nei vari comprensori degli uffici tecnici che hanno saputo gestire la redazione e l'attuazione dei piani urbanistici e le successive fasi di aggiornamento, nonché la stesura dei piani per gli insediamenti storici e la predisposizione di altri materiali integrativi. Le sfide attuali Quali sono oggi le sfide per la pianificazione territoriale a scala sovracomunale? Certamente le Comunità appaiono i soggetti privilegiati nella ricostruzione del rapporto tra le società locali e il territorio, tenendo conto del cambiamento di senso delle risorse ambientali entro l'attuale quadro socio-economico, assai distante da quello delle immagini dominanti, in particolare quelle


Dossier: La storia

Comprensorio della Vallagarina. Piano generale degli insediamenti storici (1982-85), Comune di Brentonico. Particolare dell’abitato di Fontechel.

stereotipate del territorio alpino. Si tratta di governare in modo nuovo fenomeni complessi partendo dalla piena consapevolezza che il territorio è un “patrimonio”, allo stesso tempo economico (capitale territoriale), ambientale (capitale naturale) ed è sede di specifiche relazioni locali (capitale sociale). E' necessario quindi stabilire un nuovo patto tra comunità e luoghi, costruendo una identità che non sia solo memoria ma anche progetto, visione di un futuro coerente con le specificità locali. Le Comunità si trovano inoltre a confrontarsi con la crescente competizione tra luoghi, città e regioni. Il territorio europeo appare sempre più interconnesso, mettendo in relazione diretta contesti, attività e opportunità che prima erano separati da frontiere e protetti da specifici sistemi normativi. Un altro fattore di cambiamento è costituito dalla ricollocazione delle competenze e dei poteri rispetto alla tradizionale configurazione della pubblica amministrazione e al cambiamento di scala della costruzione di attrezzature e infrastrutture nonché di gestione di molti servizi di interesse collettivo. I processi di esternalizzazione e di privatizzazione comportano il coinvolgimento di nuovi attori – sia istituzionali che non istituzionali -, modificando il consueto rapporto diretto tra amministrazioni locali, dimensioni territoriali e cittadini ai quali fornire i servizi. Infine, la domanda di partecipazione dei cittadini alle decisioni appare come un dato consolidato. La semplice affermazione della gerarchia non appare più da tempo sufficiente a conseguire esiti soddisfacenti, sollecitando la diffusione della informazione e nuove modalità di coinvolgimento

e di concertazione, facendo uso di metodi e procedure di valutazione degli effetti attesi delle azioni. In questo quadro, la pianificazione – intesa come processo - può emergere come uno strumento chiave per dominare la complessità. La scala territoriale appare quella privilegiata per delineare visioni, costruire strategie condivise, definire assetti territoriali tenendo conto della pluralità degli attori in campo in una prospettiva di sostenibilità e di responsabilità.

Riferimenti bibliografici “Piano urbanistico dell'Alta Valsugana”, Parametro n.148, luglio 1986, n.6. Astengo G., (coord.) 1984, Per il piano comprensoriale, schema strutturale, Comprensorio Valle dell'Adige, Provincia Autonoma di Trento, a cura del Dipartimento Territorio del comprensorio, volume primo, Edizioni Pezzini, Villalagarnia (TN). Comprensorio di Primiero, 1981, Piano Urbanistico Comprensoriale, progettisti: arch. M. Balbo, A. Barp, D. Pini, M.R. Vittadini, stampa Gastaldi, Feltre, 2 voll. (1. relazione, 2. cartografia). Comprensorio Valle di Sole, Piano Urbanistico Comprensoriale, s.d., s.l. (Andreis, Malé) D'Agostino R, Ferrari E., Sembianti F., Tomasi M., Zampedri G., 1984, “Gli insediamenti storici del Trentino: le politiche e gli strumenti di intervento”, Parametro, anno 15, n.130, ottobre 1984, pp.13-17. Diamantini C., 1996 (a cura di), Gli ambienti insediativi del Trentino e dell'Alto Adige, Quaderni del Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale, Università degli Studi di Trento. Diamantini C., Zanon B., (a cura di), 1999, Le Alpi, Immagini e percorsi di un territorio in trasformazione, Temi Editrice, Trento. Ferrari, E., Sembianti F., Tomasi M., Zampedri G., 1980, I centri storici del Trentino, una proposta di lettura degli antichi aggregati minori, Temi, Trento, 1980 - con interventi di R. D'Agostino, A. Gorfer . Ferrari, E., Sembianti F., Tomasi M., Zampedri G., 1981, I centri storici del Trentino, Silvana Editoriale, Milano. Mancuso F., (a cura di), 1991, L'urbanistica del territorio, Venezia, Marsilio. Provincia autonoma di Trento, 1968, Il Piano Urbanistico del Trentino, Padova, Marsilio. Padovani L., Zanon B. (a cura di), 1992, La norma non normata. Nuovi strumenti per il recupero degli insediamenti storici, Quaderni del Dipartimento di Ingegneria Civile ed Ambientale, Università degli Studi di Trento, URB 2/1991. Provincia Autonoma di Trento, 1968, Piano Urbanistico del Trentino, Marsilio Editori, Venezia. Provincia Autonoma di Trento, 1981, Servizi dell'Urbanistica, Il ricupero degli insediamenti storici come alternativa allo spreco delle risorse, Pezzini, Villalagarina (TN). Zanon B., 1993, Pianificazione territoriale e gestione dell'ambiente in Trentino, Città Studi, Milano. Zanon B., 2005, “Territorio, urbanistica, ambiente: l'organizzazione del paesaggio umano”, in: A. Leonardi, P. Pombeni, Storia del Trentino, vol. VI, L'età Contemporanea. Il Novecento, ITC – Il Mulino, Bologna, pp. 601-652.

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LA NASCITA DEI COMPRENSORI/1

Giampaolo Andreatta «Il Trentino degli anni Sessanta fu una rivoluzione. Il Pup del ‘67? Un’utopia tecnicamente fondata» Dottor Andreatta, iniziamo con una domanda di carattere generale: in quale clima politico e culturale matura l'idea di dar vita ad un Piano urbanistico su tutta la provincia? Il clima politico e culturale a cavallo tra gli Anni Cinquanta e gli Anni Sessanta era caratterizzato da un forte dibattito sul ruolo della partecipazione tecnica alla gestione della cosa pubblica e della politica. C'era chi iniziava a sostenere che la politica necessitasse di un supporto scientifico per rendere le decisioni più efficaci. Questo avveniva in controtendenza rispetto alla politica di impianto «tradizionale» che invece affidava al carisma del singolo politico la responsabilità delle scelte: la politica era la madre di tutte le battaglie e la parte scientifica legata alla politica non era molto considerata. Si riteneva che la tecnica avesse il ruolo di riordino e gestione delle scelte politiche e non di compartecipazione alla concezione delle strategie. Si tratta di un aspetto interessante di quel momento storico perché l'idea della politica, che veniva prima di ogni altra cosa, ci testimonia un'idea “alta” di politica. Che però ha avuto delle applicazioni deleterie, soprattutto per mano della parte dorotea dei grandi partiti della Prima Repubblica: ovvero di quella deriva delle idee nobili della politica applicate per fini modesti. Per usare un'immagine: il prologo delle intenzioni era in cielo ma le conclusioni erano in terra. Nel doroteismo non c'era l'applicazione di un principio sbagliato in sé, ma l'applicazione sbagliata di un principio.

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Dossier: La storia

L'utopia lascia sempre qualcosa di autentico: a ben guardare le due zone delle Alpi che si sono salvate meglio di altre sono l'Alto Adige e il Trentino Però qualcosa si muoveva anche in senso contrario… Rispetto a questo tipo di politica è nato un movimento, che ha avuto qui a Trento una esperienza particolare, che riconosceva al linguaggio e alle modalità di espressione della tecnica, un modo di fare politica. Non c'era più così l'idea dell'uomo “mandato dalla provvidenza”, ma la politica doveva essere supportata da un fondamento scientifico e tecnico. La prima origine di questo modo di operare la possiamo trovare in un Convegno promosso dalla Cisl alla fine degli anni Cinquanta e che riguardava il bisogno di occupazione e di sviluppo del Trentino alla luce di due fatti nuovi: la fine dei grandi lavori degli impianti idroelettrici (che avevano impegnato molta manodopera locale) e una emigrazione che si faceva sempre più complicata. Questo convegno nasce e muore bruciato dai dorotei di Tullio Odorizzi, nonostante un tentativo di ripresa di Paolo Bernardi, ma, come spesso accade, un seme era stato gettato e avrebbe presto dato alcuni frutti. Come s’inserisce in questo contesto l'attività di Bruno Kessler? Bruno Kessler era molto legato al Beniamino Andreatta che, a sua volta, era vicino all'ambiente milanese della new economy. Appena eletto presidente della Provincia di Trento, Bruno Kessler presenta un documento elaborato con Andreatta e redatto da me e che, nella sostanza, è un piano quadriennale di sviluppo consapevole della comunità come istituzione autonoma. Dentro quel gruppo di menti vulcaniche, come Kessler e Andreatta, io avevo il ruolo di mettere nero su bianco quello che emergeva dalle riunioni che si facevano. Non era un lavoro di pura verbalizzazione, ovviamente, ma di sistematizzazione e di coordinamento delle intuizioni che nascevano durante le discussioni. Questo documento, con una copertina “brechtiana” di Guido Polo,

contiene l'ipotesi dell'Università, del Piano urbanistico e teorizza anche l'idea della provincia “autonoma”. Il problema di allora era, infatti, la Regione e il “Los von Trient”: rivendicare una autonomia alla provincia di Trento non contro Bolzano e proprio nel momento in cui in Alto Adige si faceva la stessa cosa contro Trento, significava da un parte dare ragione ai sudtirolesi, dall'altra affermare una specificità pure per la nostra provincia. Quello di allora fu un gesto rischioso e forte, ma l'autonomia nasce proprio da quel coraggio quasi incosciente. Arriva poi il momento dell'urbanistica… In questo contesto coinvolgente e per certi aspetti perfino rivoluzionario, Beniamino Andreatta propone gli urbanisti Giovanni Astengo e Leonardo Benevolo. Nasce così l'idea di predisporre il Piano urbanistico provinciale. E viene messo insieme uno staff di progettazione il cui coordinamento viene affidato a Giuseppe Samonà, che allora dirigeva l'Istituto Universitario di Architettura di Venezia. Astengo partecipa alle prime riunioni dell'equipe, ma ben presto si scopre una certa incompatibilità con Samonà. I due avevano una concezione molto diversa dell'urbanistica. Astengo aveva un approccio scientifico al progetto urbanistico e credeva che il piano dovesse emergere dall'analisi attenta del luogo, mentre Samonà aveva una visione più intuitiva della disciplina. Ci ha fatto fare tantissimi studi analitici, ma poi si è fidato soprattutto del suo istinto. Avevate previsto delle forme di partecipazione? Come venivano coinvolte la popolazione e le amministrazioni periferiche? Si facevano riunioni a non finire. Con tutte le difficoltà del caso: allora, andare in Primiero o in Val di Sole era quasi un'avventura. Comunque ricordo una grande voglia di partecipazione da parte dei sindaci, dei tecnici

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di paese, degli amministratori di periferia. E anche un grande slancio da parte dei progettisti e dello stesso Kessler, che parteciparono con entusiasmo a tutti gli incontri. Su quali basi teoriche si fondava il Piano urbanistico? Samonà aveva sviluppato, nel suo percorso di studioso, una teoria sull'articolazione territoriale e degli insediamenti che si fondava su un rapporto dialettico tra la città e la campagna. Supera questa diade nelle sue espressioni conflittuali, introducendo il concetto di “campagna urbanizzata”: un luogo che non è né città né campagna e che si riconosce, appunto, nel “comprensorio”. Quest'idea di Samonà ci portò a riflettere con più forza sul concetto di comprensorio nel contesto trentino per scoprire che in realtà c'erano già stati. Era un istituto amministrativo introdotto dall'amministrazione asburgica. Si chiamavano «Bezirk» e sono ancora esistenti. Così io vado in Austria per studiare questo modello di urbanizzazione. È stata una esperienza molto interessante: fui sorpreso soprattutto dalla naturalezza civile con la quale di affrontano i problemi della gestione del territorio. Sotto la finestra del mio albergo un contadino confinante depositava ogni mattina il letame prodotto dalla sua stalla. La cosa mi lasciò lì per lì molto stupito tant'è che al momento del congedo, dopo aver ringraziato molto il sindaco e il presidente del Bezirk per l'ospitalità e l'accoglienza, feci notare agli amministratori questo episodio che mi sembrava curioso. Il presidente del Comprensorio mi rispose gentilmente con una frase che non ho più dimenticato: “il contadino è libero nella nostra terra”. In questo, il Tirolo è stato più lungimirante e se avessimo seguito la stessa strada forse non avremmo tante campagne abbandonate in Trentino. Comunque, letame a parte, abbiamo scoperto che in Trentino il Bezirk è sempre esistito. Si trattava solo di ripercorrerne le origini

e le caratteristiche. Che genesi avevano avuto questi istituti amministrativi in Tirolo? In seguito alla spinta dei moti liberali che percorsero l'Europa nella prima metà dell'Ottocento, anche l'Austria appontò nel 1849 ad una «carta costituzionale» e ad una conseguente «ripartizione dei poteri». Con questo atto vennero create, accanto ai «giudizi distrettuali» nei quali un tempo si concentrava tutta l'autorità periferica dello stato, nuove «autorità distrettuali», chiamate appunto Bezirk, separate ed autonome, con compiti amministrativi e di governo. Perché poi i comprensori non hanno avuto la forza di imporsi e sono ben presto implosi? Leonardo Benevolo aveva dato una definizione del Piano urbanistico provinciale del 1968 estremamente eloquente: «il Pup è un'utopia tecnicamente fondata». I Comprensori sono naufragati perché l'utopia ha in se stessa la fortuna di non essere realizzata. Se l'utopia fosse realizzata non sarebbe una cosa positiva. L'utopia lascia sempre qualcosa di autentico: a ben guardare le due zone delle Alpi che si sono salvate meglio di altre sono l'Alto Adige e il Trentino. Il primo per l'istituto del “maso chiuso”, ovvero quella modalità ereditaria per cui il maso è indivisibile e viene ereditato solo dal primo figlio maschio, il secondo per il Piano urbanistico che ha arginato la frana dell'emigrazione e l'esodo della montagna ed ha introdotto dei vincoli di salvaguardia del territorio e del paesaggio. Quindi è rimasta la sostanza: il valore dell'ambiente, anche qualora non sia densamente abitato, e l'implementazione di una cultura di tutela che, sommata a qualche vincolo urbanistico, hanno fatto sì che il territorio non si degradasse. (a.f.)

Giampaolo Andreatta è stato dirigente della Provincia autonoma di Trento. In quella veste ha collaborato con Bruno Kessler nella redazione del primo Piano urbanistico provinciale.

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Dossier: La storia

LA NASCITA DEI COMPRENSORI/2

Sergio Giovanazzi «Quello di Kessler e Samonà fu un piano per salvare il Trentino dalla fame e dal freddo. La sfida delle Comunità? La qualità» Architetto Giovanazzi, come è iniziata la sua collaborazione con Giuseppe Samonà al Piano urbanistico provinciale del Trentino? In quel periodo, era la fine luglio del 1961, mi stavo laureando presso l'Istituto Universitario di Architettura di Venezia quando vengo contattato da Giuseppe Samonà – allora eravamo in pochi e fra docenti e studenti ci si conosceva bene – che mi chiede di diventare il suo collaboratore per la realizzazione del Piano urbanistico del Trentino di cui stava per essere incaricato della realizzazione. Naturalmente io accettai, anche se dovetti rinunciare a perfezionarmi presso il Neues Bauhaus a cui mi ero già iscritto e che, a quel tempo, sembrava una risposta convincente alla domanda di nuova architettura. Comunque tre giorni dopo la laurea ero già al lavoro in Trentino. Ricordo la prima riunione che abbiamo fatto con Samonà qui a Trento il 29 luglio del 1961, esattamente cinquant’anni fa. Andammo a pranzo al ristorante sul belvedere di Sardagna, sopra il capoluogo, con Giampaolo Andreatta. Poi nel pomeriggio incontrammo Bruno Kessler. A quei tempi, tanto per dare le proporzioni,

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Avevo acquistato una vettura, una Cinquecento usata, e con quel mezzo, assieme a Samonà, abbiamo girato tutti i paesi e le valli della provincia. Lì è maturata l'idea di trovare un equilibrio tra città e compagna

l'amministrazione provinciale aveva 250-300 dipendenti, gran parte dei quali erano operatori sulle strade. Tutto l'apparato era invece dipendente della Regione Trentino – Alto Adige. Da chi era composto il primo gruppo di lavoro? La prima equipe di lavoro era composta dal sottoscritto, dal geometra Attilio Solari (a part-time) dipendente della Provincia, e dai due docenti veneziani, Giuseppe Samonà e Giovanni Astengo. Successivamente venne coinvolto anche Sandro Boato, mio compagno di studi e con cui mi ero laureato. Abbiamo subito iniziato a fare degli studi specifici già all'inverno 1961/62 dedicati all'edilizia e alle preesistenze ambientali. Allora Samonà stava lavorando molto sui centri storici e anche in Trentino volle partire con la pianificazione con lo studio e la conoscenza del sistema dei nuclei originari. Abbiamo così iniziato (io, Boato e il collega Renzo Moro) un censimento paese per paese, casa per casa (ad esclusione delle città di Trento e Rovereto per cui esisteva già un rudimentale piano per il centro storico) arrivando alla catalogazione di oltre cinquantamila edifici e della schedatura dei servizi pubblici presenti in ogni aggregato. Per quale ragione Kessler coinvolse due urbanisti così diversi come Samonà e Astengo? Tra Giovanni Astengo e Giuseppe Samonà c'era sì una diversa maniera di vedere l'urbanistica ma c'era molta stima reciproca. Samonà, in particolare, aveva aiutato molto Astengo, chiamandolo da insegnare a Venezia in un periodo non facile della sua vita. Non dobbiamo dimenticare che la mente di tutta l'operazione era Beniamino Andreatta che allora era l'assistente di Pasquale Saraceno, grande padre della pianificazione economica. Andreatta aveva conosciuto Astengo in occasione del suo Piano di Assisi e della sua

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attività dentro l'Istituto Nazionale di Urbanistica. In quel periodo l'Inu era molto presente sulla scena pubblica perché l'urbanistica era considerata una delle questioni importanti. La partecipazione era altissima: ricordo che al Convegno di Cagliari o a quello di Milano (dove abbiamo presentato il Pup) c'erano duemila persone a seguire i lavori. C'era un bisogno diffuso di pianificazione urbanistica, perché erano i primi anni della Ricostruzione dopo la Seconda Guerra mondiale. A questo proposito, per rendere l'idea di quello che stava accadendo allora nel Paese, basta ricordare lo sforzo di politici socialdemocratici, socialisti e della sinistra democristiana (tra gli altri ricordo Fanfani, La Pira, Dossetti), per trovare strumenti per regolare la ricostruzione italiana. Fra tutti, Fiorentino Sullo (che tra l'atro era molto vicino sia a Bruno Kessler che a Nino Andreatta) riuscì nel febbraio del 1962 a definire un disegno di legge (che sarà chiamato poi “Legge Sullo”) in cui fece convergere il meglio del dibatto in atto. Come avete iniziato a lavorare? È iniziato dapprima un lavoro di indagine del territorio con numerosi sopralluoghi. Avevo acquistato una vettura, una Cinquecento usata, e con quel mezzo, assieme a Samonà, abbiamo girato tutti i paesi e le valli della provincia. Lì era maturata l'idea di trovare un equilibrio tra città e compagna. Bruno Kessler ci aveva lasciato carta bianca e ci aveva chiesto cosa era opportuno fare: se seguire quella scuola di pensiero che voleva che tutto venisse condensato lungo l'asse dell'Adige creando una “città lineare” da Rovereto a Bolzano, lasciando le valli solo al turismo, oppure se era più opportuno pensare ad uno sviluppo diffuso su tutto il territorio. L'equilibrio territoriale si doveva caratterizzare con la presenza, nelle valli, non


Dossier: La storia

solo del turismo ma anche dell'industria. Il grande dibattito si svolse al “Convegno di Torbole”, dell'aprile del 1962, presieduto proprio da Bruno Kessler, dove parteciparono gli economisti (che proponevano una concentrazione nella Valle dell'Adige dei poli industriali) e gli urbanisti (che invece proponevano il concetto di “campagna urbanizzata”). Il dibattito fu acceso e durò tre giorni ma alla fine gli economisti si convinsero che l'equilibrio territoriale poteva esser la soluzione ideale per il Trentino. L'idea era molto ardita. Politicamente questo significò uno scontro feroce con la Regione che aveva predisposto un Piano di industrializzazione, realizzato dalla società Tèkne, che aveva tra i suoi consulenti l'urbanista Bernardo Secchi, e che prevedeva una zona di concentrazione industriale, urbana e di servizi lungo l'asta Rovereto-Bolzano. Quali furono i risultati concreti di quel convegno? Il convegno di Torbole ebbe il merito di dare impulso all'operazione di pianificazione in atto. L'equìpe di progettazione si ampliò coinvolgendo Giambosco Janes, come capo dell'ufficio urbanistica, il sociologo Franco Demarchi, Ercole Calcaterra, Pietro Nervi, Giulio Menato, un demografo che iniziò a lavorare con un calcolatore a schede perforate, molto all'avanguardia per l'epoca che ci ha permesso di eseguire, in poco più di un anno, un grosso lavoro interdisciplinare di analisi della provincia. Che idee c'erano sul tema del turismo? Il turismo era già allora considerato una delle dimensioni fondamentali dell'economia trentina. Non a caso fui mandato nel 1963 in Francia a studiare le più moderne stazioni sciistiche che allora stavano sorgendo. Sulla base di quelle esperienze abbiamo così inserito delle proposte, nel Piano urbanistico, di stazioni invernali. L'idea base delle stazioni francesi era quello di considerare lo scii come il terzo livello di traffico. L'insediamento era così pensato che il turista poteva arrivare dovunque con gli scii ai piedi. Marilleva è stato un tentativo di introdurre questo livello di fruizione turistica. Le piste e gli impianti lambiscono le residenze, gli alberghi e gli impianti di risalita. E sulla questione industriale? La questione industriale era stata affrontata progettando dei piccoli insediamenti industriali in tutte le valli: Ossana, Malé, Tione, Borgo, Riva del Garda… I poli industriali non andavano però solo progettati ma dovevano essere cercate anche le industrie, e per questo si muovevano degli appositi uffici della Provincia. Questi poli industriali avevano lo scopo di portare lavoro nelle valli: quelle che oggi possono sembrarci delle emergenze ambientali, allora erano sinonimo di emancipazione. C'erano due paure in quegli anni, immediatamente dopo la guerra: la fame e il freddo. I dati delle emigrazioni erano allarmanti. Basti pensare alla sola Val di Sole: aveva 15000 abitanti di cui 3000 emigranti stagionali, che finivano per stare sempre all'estero. L'unica soluzione fino ad allora

implementata era la grande emigrazione in Cile organizzate dalla Regione… quella era la soluzione che la maggior parte delle persone proponeva! Il Trentino era visto come una terra povera che non aveva spazio vitale sufficiente e da cui era meglio emigrare. Bruno Kessler si oppose a questa visione della nostra provincia e provò ad invertire la rotta. Altri temi importanti? Un'altra grande intuizione del piano fu quella dei parchi attrezzati e dei parchi naturali: un modo per inserire il turismo dentro la struttura delle valli. Se i parchi naturali vennero riconosciuti ed istituzionalizzati (il Parco Adamello-Brenta e il Parco Paneveggio Pale di San Martino), diversa fortuna ebbero i parchi attrezzati. Peccato, perché rappresentavano un buon compromesso tra la protezione dell'ambiente e la sua antropizzazione. Qual'era il metodo di lavoro di Bruno Kessler? Kessler aveva un atteggiamento particolare con i consulenti con cui collaborava. Faceva spesso delle riunioni in cui lui dettava il tema, sia di carattere generale che particolare. Dagli esperti voleva sapere il quadro del problema e le argomentazioni a sostegno della soluzione proposta. Poi si riservava di decidere, perché affiancava a questi scenari delle riflessioni di natura politica. La decisione finale l'ha sempre presa da solo, in piena autonomia. Il grande pericolo, allora, era quello dello spopolamento della montagna che Kessler voleva assolutamente contrastare. E la mancanza di servizi nei territori periferici. Mancavano scuole, ad esempio. E una delle prime sfide del piano fu proprio l'implementazione di poli scolastici, soprattutto poli di scuole professionali che, allora, erano sotto la regia della Provincia. Altra sfida fu quella di promuovere una agricoltura di qualità e la rinascita dell'Istituto agrario di San Michele all'Adige si inserisce nel solco di questa intuizione. Come si colloca in questo scenario l'esperienza dei piano comprensoriali? Una delle sfide che il Pup aveva individuato è stata quella dell’istituzionalizzazione di un livello intermedio amministrativo, collocato tra il comune e la provincia, che fu chiamato Comprensorio. L'idea di comprensorio non era nuova: Giuseppe Samonà l'aveva elaborata dentro il suo volume L'urbanistica e l'avvenire delle città, e una proposta di riorganizzazione del territorio in comprensori era presente anche dentro il disegno di legge Sullo. In Trentino essi vennero scelti in funzione della promozione di programmi urbanistici. Certamente si trattava di territori omogenei, ma la priorità di quei raggruppamenti comunali era la loro pianificazione unitaria sia urbanistica, sia economica che sociale. A sua volta il Comprensorio era articolato in sotto unità che avevamo chiamate “unità insediative” che nascevano da una riorganizzazione dei servizi di base. Entrambi erano costituiti da consorzi di comuni, e quindi il “comune” era la cellula fondativa di tutto il sistema territoriale. Il comprensorio fu preso come un elemento di

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grande novità dai comuni che vedevano in questo strumento istituzionale la possibilità di avere servizi e risorse fino ad allora insperati. Inoltre i Comprensori rafforzavano l'autonomia delle singole valli che diventavano così più forti nei confronti del potere centralistico della Provincia. Sull'ampiezza dei Comprensori, ricordo, si discusse molto. Si partì da 18-20 unità, per ridurle ad 8 e per arrivare, infine, a 10. Questo numero venne raggiunto quando riuscimmo a rendere i Comprensori coerenti con le unità insediative. Quali furono le fasi di lavoro successive? Iniziò così la fase di pianificazione vera e propria, ma la tensione, intorno all'idea di una pianificazione unitaria ed ordinata cominciò lentamente a indebolirsi. Vennero così attuati dei piani di fabbrica veloci per rispondere ad esigenze urgenti e i tempi per la pianificazione comprensoriale si allungarono. Il primo piano comprensoriale, quello della Val di Sole, venne approvato ben dieci anni più tardi, predisposto da me e da Antonio Scaglia. Quali innovazioni portava questo piano? Fra le idee innovative v'era quella delle stazioni sciistiche in quota: il concetto base era quello di lasciare libero il fondovalle e spostare tutti gli impianti turistici “industriali” al “limite delle levi”, in quota. Nacquero così le stazioni di Folgarida e di Marilleva. L'esperienza dei comprensori si avvia velocemente ad una fase di crisi. Per quali ragioni? A metà degli anni Settanta inizia una fase di recupero del potere “centralista” della Provincia. Negli anni immediatamente precedenti le responsabilità dei comprensori

aumentarono rapidamente inglobando anche deleghe che prima non erano contemplate. Tant'è vero che ad un certo punto venero trasformati da consorzi di comuni ad enti veri e propri. Questo paradossalmente è stato quello che ha affossato i comprensori perché hanno perso così il rapporto con l'identità locale. All'inizio era uno strumento a disposizione dei comuni, mentre col tempo sono diventati qualcosa di antagonista. Vede questi pericoli anche per i prossimi Piani delle Comunità? A mio parere la sfida dei piani delle Comunità di Valle non è tanto quello della “tutela” che è già prerogativa del Piano urbanistico, quanto quello di promuovere una “qualità” degli interventi. Se è mancato qualcosa, infatti in questi cinquant'anni di pianificazione, è stato non tanto un discorso, ma un'azione verso la qualità architettonica. Faccio un esempio: se guardiamo la Valle di Non da lontano essa non può che apparirci in ottimo stato: c'è una chiarezza dell'impianto insediativo e un equilibrio tra spazi aperti e nuclei abitati. Ma se entriamo nei singoli paesi ci possiamo accorgere come l'architettura sia di livello mediocre. In Alto Adige invece si è riflettuto molto su questo aspetto: non tanto in termini tradizionali ma in termini contemporanei. La sfida delle Comunità di valle è promuovere una qualità dell'architettura aperta al mondo, concretizzando la dialettica globale-locale nel recupero degli edifici e nella ridefinizione degli spazi urbani. (a.f.)

Sergio Giovanazzi, architetto, ha firmato, con Giuseppe Samonà, la stesura del Piano urbanistico provinciale del 1967 ed ha guidato la redazione del piano comprensoriale della Valle di Sole.

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Dossier: La storia

LA NASCITA DEI COMPRENSORI/3

Antonio Scaglia «I Comprensori furono l’apice della nostra Autonomia. Oggi? Occorre un progetto di comunità» Professor Scaglia, come ha iniziato ad interessarsi di comprensori? Appena laureato sono entrato a far parte della commissione urbanistica provinciale. Allora, infatti, la legge prevedeva che in questa commissione fosse presente un sociologo. In quella sede ho conosciuto Sergio Giovanazzi che mi ha coinvolto nella realizzazione del Piano comprensoriale della Val di Sole: il primo piano comprensoriale arrivato all'approvazione. La metodologia seguita nella realizzazione di quel piano era fortemente legata a quella applicata nel Piano urbanistico provinciale. Era evidente l'influsso di Giuseppe Samonà e quel primo piano aveva lo scopo di costruire una metodologia per la realizzazione dei piani sovracomunali. Io ero interessato sia a questi aspetti metodologici sia all'aspetto sociologico. Ma la cosa che mi interessava maggiormente era l'individuazione della personalità sociale e culturale delle comunità e della valle. Emergeva l'idea che ogni valle fosse caratterizzata da un'identità propria e con uno specifico modo di rapportarsi al proprio territorio. Le modalità di gestione del territorio, quindi, dovevano essere rispondenti ai reali bisogno delle singole comunità che andavano a formare i comprensori. La mia partecipazione al Piano urbanistico provinciale risale invece al 1974, quando ho collaborato

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con Samonà e Giovanazzi alla sua prima revisione. Come valuta la scelta di suddividere il territorio provinciale in comprensori? La scelta di suddividere il territorio in quei comprensori ha sempre lasciato aperti degli interrogativi. Su alcuni comprensori non c'era dubbio sulla conformazione e sull' identità, mentre per altri le incognite erano evidenti. Per alcuni, ad esempio, era chiara l'identità ma c'erano problemi di funzionalità nel tener assieme un numero molto alto di comuni, come nel caso delle valli Giudicarie. L'area che invece poneva dei problemi era quella che faceva riferimento a Trento. La difficoltà di far emergere l'identità delle aree contigue al capoluogo non è dovuta alla mancanza di peculiarità di queste aree, ma è dovuta al prepotere di Trento che ha una forza centripeta talmente forte da creare inevitabilmente problemi ai territori limitrofi (Valle dei laghi, la Valle di Cembra, la Rotaliana e l'altopiano della Paganella…) e a far convergere le loro identità specifiche entro un quadro comune. La città di Trento non ha mai saputo svolgere il ruolo di coordinamento rispettoso e attivo rispetto alle diverse identità. Perché l'esperienza dei comprensori è fallita? Si tratta di un'esperienza che è fallita perché il problema del Trentino è che la sua pur importante e storica autonomia ha dimostrato di essere incapace di favorire e sviluppare le autonomie locali. E oggi questo problema permane. Anche la legge che ha istituito e creato le Comunità di Valle ha avuto questo stesso peccato originale. Perché l'Amministrazione provinciale ha esercitato un ruolo soverchiante rispetto alle esigenze e alle necessità dei territori. Tenere poi i comprensori in una sorta di limbo in cui essi avevano la funzione di essere rappresentati solo in maniera formale, non governando, portò a indebolire e svuotare la loro autorevolezza politica, a indebolire il ruolo di coordinamento dei Comuni e così anche gli organi comprensoriali furono svuotati dalle responsabilità di governo e dalla rispettabilità.

Bruno Kessler non decideva dopo aver avuto un'illuminazione. Si poneva sempre il problema di “capire” la storia, le comunità, la gente

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Ad esempio: una leggenda metropolitana che va sfatata è che i Comuni fossero i nemici dei Comprensori. Questa convinzione certamente faceva comodo alla Provincia. Ma in realtà tutti i rappresentanti nei Comprensori erano sindaci e ricordo il grande lavoro che gli stessi svolgevano dentro al Comprensorio. Negli anni Settanta e Ottanta, ho avuto modo di seguire la Conferenza dei Presidenti dei Comprensori. Si trattava di un sodalizio molto coeso che premeva nei confronti della Provincia per avere delle autonomie reali decentrate e non solo la competenza urbanistica. Alla lunga, queste attese deluse segnarono il tramonto della grande idea primigenia e i detrattori ebbero partita vinta. Storicamente cosa era successo? Dal 1973 Bruno Kessler non è più presidente della Provincia di Trento. Flavio Mengoni, in un primo tempo, cerca di proseguire nel solco tracciato dal suo predecessore. Ma fin da subito avverte di non essere appoggiato politicamente dalla maggioranza di governo per portare a compimento il disegno comprensoriale. Così l'amministrazione provinciale, se in un primo tempo cedette alcune competenze ai Comprensori (in particolare l'edilizia sociale ed agevolata, compresa la gestione delle risorse finanziarie e poi la sanità e i servizi socioassistenziali), in un secondo tempo cominciò a ritirarle. I comprensori erano molto veloci ed efficienti nel gestire le pratiche urbanistiche,di sostegno dell'edilizia, della scuola inizialmente delegate.. I Comprensori raggiunsero l'apice dell'autonomia con la legge sulle Comunità montane, la 1102, che qui in Trentino vennero fatte combaciare con i Comprensori. L'idea di un disegno unitario, teso a rendere più forti e autonomi i Comprensori, la si perseguì per molto tempo. Ma, a un certo punto, la provincia iniziò a ritirare le competenze. Io ho sempre sostenuto – e lo sostengo anche oggi – che la difficoltà di funzionamento dei comprensori non era dovuta a difficoltà identitarie o di funzionamento, ma al semplice fatto che l'amministrazione provinciale non credeva fino


Dossier: La storia

in fondo a quest'idea istituzionale. E questo alla lunga ha dato esiti pesantissimi. La Provincia ha perso una grande occasione per trasformare il Trentino in un territorio equilibrato che evitasse l'elefantiasi burocratica, tecnico amministrativa e demografica del capoluogo, che ancor oggi è uno dei principali handicap del nostro territorio. Cosa ha portato di positivo quell'esperienza? Alcune cose importanti sono state fatte: come la creazione periferica dei poli industriali, l'istituzione dei parchi Naturali e degli Enti parco, la costruzione di una struttura territoriale dell'istruzione scolastica. Sono state azioni importanti, ma è mancato il coraggio di perseguire, fino in fondo, un disegno unitario. La mia impressione è che oggi, con le Comunità di Valle, siamo tornati “punto e a capo”. Spero ci sia la capacità di imparare dagli errori fatti in passato per evitare di ripeterli anche in futuro nella costruzione di questo nuovo assetto istituzionale. Come era il Trentino su cui ha cominciato a fare le sue osservazioni sociologiche? Negli anni Settanta si era nel pieno dell'evoluzione delle previsioni del Pup. Alcune strategie avviate da quello strumento urbanistico stavano cominciando a dare i primi frutti. Penso ad esempio alle aree turistiche intensive, o, anche se in maniera minore, alle aree artigianali e industriali. Il flusso migratorio dei trentini che lasciavano il loro paese per andare all'esterno venne ridotto progressivamente fino a esaurirsi. Ovviamente con delle differenziazioni da zona a zona. Possiamo dire che il Trentino di oggi è figlio della visione del Piano urbanistico provinciale? Il Trentino si è sviluppato sulla spinta delle strategie del Pup, ma è anche vero che, nel frattempo, il nostro territorio è cambiato in maniera radicale. Oggi le strategie del Pup di Samonà andrebbero per alcuni aspetti radicalmenete riviste. Se pensiamo, ad esempio, alla strategia turistica ci accorgiamo che è cambiata totalmente, ed è giunta a uno sviluppo che necessita di avviare processi di selettività qualitativa. Il Pup aveva alle spalle una visione di territorio e un progetto poderoso di sviluppo. Qualcuno potrebbe ribattere che era facile, allora, avere un progetto essendo il Trentino degli anni Sessanta una sorta di tabula rasa in una condizione di sottosviluppo molto accentuata. Oggi invece ho l'impressione che il

nuovo Pup non abbia degli obiettivi chiari di sviluppo. Oppure ne ha troppi, che significa farli coincidere con gli interessi dei singoli e delle lobby e disperdere le energie. Invece bisognerebbe chiedersi: che tipo di personalità sociale vogliamo dare al Trentino? Cosa vogliamo che diventi questa nostra provincia? Un tempo il termine di paragone era l'asse industriale MilanoTorino. Oggi il punto di riferimento deve essere invece l'Europa. Questo riguarda le generazioni, le professionalità, lo sviluppo dell'istruzione, la cultura e il territorio. E ancora: le comunità debbono essere protagoniste o solo al traino di un progetto centralizzato? In ultima istanza: l'Autonomia ha un'anima centrale dominante o è un'autonomia che si nutre e cresce con il contributo responsabile delle identità plurime di cui è ricco questo territorio provinciale e regionale? Bruno Kessler è stato il padre politico del piano. Con quale metodologia affrontava i problemi di natura urbanistica? Kessler non decideva dopo aver avuto un'illuminazione. Si poneva sempre il problema di “capire” la storia, le comunità, la gente. E per questo consultava e si faceva continuamente aiutare sia da esperti sia da persone comuni, senza guardare il colore politico, purché avessero testa e idee. Poi arrivava il momento della decisione in cui era completamente solo – come dev'essere per il politico vero – e non permetteva a nessuno di “tirarlo per la giacchetta”. Non faceva la dichiarazione d'effetto né viveva di annunci. Le sue decisioni arrivavano dopo un iter molto sofferto, durante il quale chiedeva molto ai suoi collaboratori. Ma una volta individuato l'obiettivo, il Presidente era disposto a tutto pur di perseguirlo. Non a caso le proposte del Pup, alcune delle quali potevano essere anche discutibili, avevano una potenza motivazionale enorme. Certo, oggi la situazione è più complessa ma la metodologia rimane sempre la stessa: occorre individuare gli obiettivi e trovare le energie e le risorse. Kessler mi ha insegnato che prima di agire bisogna capire. E una volta capito occorre avere l'idea di dove portare la gente, la gent, come la chiamava affettuosamente lui stesso. (a.f.)

Antonio Scaglia è sociologo ed insegna presso l’Università di Trento. Ha collaborato alla redazione della Variante 1974 e della Revisione 1987 del Pup e alla stesura di vari piani comprensoriali e Piani regolatori generali comunali

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Intervista al Presidente della Provincia autonoma di Trento

Lorenzo Dellai

Le ComunitĂ per dare ad ogni trentino gli stessi diritti e le stesse opportunitĂ

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Dossier: La riforma

Presidente Dellai, il Trentino si appresta ad entrare nel vivo della riforma istituzionale. Come s'inserisce questa nuova architettura istituzionale nella storia dell'Autonomia del Trentino? La storia delle istituzioni è storia di percorsi e di processi ed è dunque fatta non di rotture, ma di evoluzioni. I prossimi anni ci porteranno alla costruzione "dal basso" di un nuovo scenario, in particolare per quel che riguarda la messa in discussione del centralismo provinciale, il forte investimento sui poteri locali e l'introduzione di alcuni principi di autogoverno dei territori. Lo si fa con l'auspicio che crescano i processi di aggregazione e nascano abitudini, anche culturali, a lavorare insieme per far fronte a problemi di interesse comune, all'insegna della sussidiarietà. La nuova stagione dell'Autonomia – l'orgoglio per quello che è stato fatto, ha senso solo se si accompagna al necessario rinnovamento – ha nella riforma istituzionale uno dei suoi pilastri. Ma le nuove costruzioni hanno bisogno tanto di architetti quanto di muratori. E il tratto distintivo dev'essere accompagnare il tutto con la sobrietà e l'efficienza. Dove trova il suo senso questa riforma? Questa riforma punta a dare snellezza, efficienza e modernità alle nostre istituzioni e al contempo ad attribuire poteri e responsabilità ai soggetti più vicini ai cittadini, i Comuni, e alle loro aggregazioni, le Comunità di valle. Parliamo di una riforma che punta a riallacciare legami di identità e di appartenenza ai nostri territori. Non si può banalizzarla come se fosse una rivisitazione burocratica di qualche ufficio o qualcosa del genere. Questa riforma è una grande scommessa che impegnerà il Trentino per molto tempo. A regime avremo una Provincia al tempo stesso snella ed efficiente, che assomiglierà – tanto per rendere l'idea – più ad un piccolo Stato che ad un grande Comune, e che si occuperà finalmente delle grandi questioni. Avremo una rete di municipi, e mi riferisco soprattutto a quelli piccoli e piccolissimi, finalmente liberata dalla pesantezza di funzioni e di servizi che mai saranno in grado di erogare. Ma continueranno ad esistere perché tutto vogliamo fuorché un territorio privato di una sua municipalità. Che territorio disegna la riforma? Vogliamo un Trentino più forte, dove il senso di appartenenza – e qui davvero non contano gli schieramenti politici – attinga alle radici stesse del nostro percorso autonomistico. Lo si fa per innovare, per affrontare i tempi nuovi,

assumendosi ognuno le proprie responsabilità. Certo, la strada è in salita, ma è nel dna della nostra gente il saper affrontare le difficoltà. Non ci hanno mai spaventato. In questo senso il viaggio che le Comunità hanno già iniziato ci dice chiaro che non si tratta di siglare un contratto di servizio, come qualcuno forse pensa, sbagliando grandemente. Le nuove Comunità sono nate come atto politico che segna la qualità stessa della nostra democrazia. Quali sono le sfide che attendono le Comunità? Le Comunità sono chiamate ad esercitare competenze importanti, non più deleghe. E i territori – quelli che sono stati chiamati con un termine che è efficace sintesi di quello che il Trentino ha saputo esprimere lungo tutta la sua storia: storia di Comunità, appunto – sono di fronte ad un passaggio importante. Devono assumersi le necessarie responsabilità per esercitare quelle competenze che la legge ha trasferito loro. Così come c'è la responsabilità della Provincia per trasferire le competenze e per verificarne l'applicazione uniforme. Uguale per tutti è l'obiettivo: fornire servizi migliori ai cittadini. Altrettanto chiaramente va detto che il ruolo dei Comuni non cambia: le loro competenze sono mantenute, ma per quelle trasferite dalla Provincia autonoma aumenta necessariamente il livello di collaborazione negli ambiti della Comunità. I Comuni potranno soffrire la forza istituzionale delle Comunità? I municipi continueranno ad esistere, se lo vorranno, come presidio di democrazia di base. Saranno una cellula vicina alla Comunità e un presidio di un'idea di territorio che non può "spopolarsi" nemmeno dal punto di vista della democrazia. Il parametro dei numeri va mediato con l'intelligenza, la sensibilità e la cultura autonomistica. Però i numeri contano per i costi. Alla fine della Riforma, quindi, avremo una rete istituzionale con una Provincia che si concentra sulle grandi questioni, una rete di Comuni che continueranno ad esistere e le Comunità di valle che avranno funzione di “service” e di supporto alle azioni dei Comuni. A regime i costi di questa struttura istituzionale saranno molto inferiori a quelli che abbiamo oggi. Qual è la missione della riforma? Ogni cittadino trentino deve poter beneficiare degli stessi diritti e delle stesse opportunità, senza essere penalizzato dal fatto di trovarsi più o meno distante dal capoluogo. (a.f.)

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Prospettive della Pianificazione Territoriale delle Comunità. Aspetti metodologici e operativi di Bruno Zanon

Alle comunità si chiede di cogliere le specifiche condizioni ambientali e territoriali e di elaborare strategie appropriate di sviluppo, conquistando via via nuove competenze

Senso e motivazioni della pianificazione territoriale delle Comunità di valle La costituzione delle Comunità di valle in Trentino rappresenta una scommessa di decentramento istituzionale che assegna un ruolo centrale alla pianificazione territoriale. Le Comunità devono però superare l'esperienza dei Comprensori per proiettarsi verso una effettiva ricollocazione delle competenze istituzionali e la definizione di nuovi quadri territoriali al fine di garantire a tutti i cittadini, qualsiasi sia il loro luogo di residenza, condizioni di vita ed opportunità adeguate. Il processo non è semplice e riflette i fenomeni di estesa riorganizzazione istituzionale in corso in molte regioni e in molti paesi, non solo europei, entro un quadro segnato dalla globalizzazione, dalla integrazione internazionale e dai processi di privatizzazione. Si tratta di quanto viene definito “rescaling della governance territoriale”, intendendo con questo il processo di ricollocazione delle competenze e delle responsabilità da un livello istituzionale ad un altro. Altri contributi, in questo stesso numero, affrontano da diverse angolature tale questione. Non si tratta peraltro solo della attuazione della sussidiarietà o della progressiva devoluzione dei poteri in vista del federalismo, in quanto diversi attori e istituzioni, operanti per singoli settori, intervengono a governare processi e a gestire servizi che tradizionalmente facevano capo all'apparato pubblico. Di qui l'uso del termine governance, che intende segnare un distacco dal modello del government - azione autoritativa per interventi di “comando e controllo” -, verso un sistema che fa ampio uso di strumenti informali al fine di raccordare i diversi livelli di competenza e i diversi settori di azione. La complessità brevemente descritta richiede quindi processi efficaci di pianificazione multi-livello e multi-settoriale che sappiano, al di là delle competenze istituzionali dell'attore, delineare prospettive di

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intervento in grado di coagulare gli interessi e coordinare le azioni. Questa appare la prospettiva della pianificazione territoriale delle Comunità. A tali istituzioni si chiede infatti di cogliere le specifiche condizioni ambientali e territoriali e di elaborare strategie appropriate di sviluppo, conquistando via via nuove competenze. Il Piano territoriale della Comunità (PTC), in questo, assume un ruolo chiave, essendo definito dalla normativa provinciale (L.P. 1/2008) come lo strumento per definire, “sotto il profilo urbanistico e paesaggistico, le strategie per uno sviluppo sostenibile del rispettivo ambito territoriale” al fine di “conseguire un elevato livello di competitività del sistema territoriale, di riequilibrio e di coesione sociale e di valorizzazione delle identità locali…”. Anche le norme di attuazione del Piano Urbanistico Provinciale (PUP) sottolineano tali compiti, affermando che il PTC “specifica e integra le strategie locali di sviluppo, comprendendo previsioni e opere attuabili da soggetti pubblici e privati, al fine di favorire lo sviluppo sostenibile delle comunità locali”. Il quadro normativo definisce quindi degli obiettivi impegnativi ma indica anche un percorso stretto e tortuoso. I PTC sono infatti condizionati da spazi di intervento ben tracciati dai contenuti del PUP, dalle procedure valutative e di approvazione nonché da un sistema di pianificazione comunale comunque operativo, che difficilmente potrà essere scalzato. Le motivazioni e le finalità del PTC riguardano pertanto sia l'organizzazione del sistema insediativo sia questioni di natura economica e sociale, ma questa del resto è la natura della pianificazione di area vasta e le vicende trentine, in proposito, ci ricordano tale commistione di prospettive. La pianificazione territoriale non può consistere, infatti, nel semplice inquadramento delle azioni locali


Dossier: La riforma

entro un sistema funzionale spazialmente esteso e gerarchicamente sovraordinato ma riguardano le ragioni dell'abitare un territorio e la responsabilità di assicurare anche alle prossime generazioni un futuro in tali luoghi. Le Comunità acquisteranno quindi l'autorevolezza per agire se sapranno sviluppare la capacità di comprendere le problematiche, di proporre soluzioni innovative e di connettere i diversi attori. Non tutte le questioni aperte sono di natura strettamente territoriale - nel senso di organizzazione fisica - e non tutte le soluzioni devono per forza trovare una descrizione cartografica ed essere definite contemporaneamente, secondo la tradizione del piano urbanistico che rappresenta il futuro desiderato mediante un disegno. La memoria dei Piani Urbanistici Comprensoriali deve lasciare quindi spazio a nuove forme di pianificazione territoriale. I PUC erano, a tutti gli effetti, dei Piani Regolatori Generali a scala comprensoriale, sostituendo i piani dei singoli comuni. I Piani territoriali delle Comunità o sono intesi in tutt'altro modo o non vedranno mai la luce. La scommessa della pianificazione territoriale delle Comunità consiste nel sapere dare risposte efficaci ad una domanda crescente di pianificazione - intesa come esigenza di costruire quadri conoscitivi, di definire strategie condivise, di valutare e di raccordare i numerosi attori in campo – evitando di percorrere la strada dell'adempimento burocratico ad un obbligo di legge. In questo, un alleggerimento del quadro normativo, quanto a indicazione dei contenuti e delle procedure della pianificazione territoriale della Comunità, sarebbe certamente di grande aiuto. Le domande di pianificazione territoriale Il Piano Territoriale della Comunità si colloca tra il livello provinciale e quello comunale. Il primo livello vede un quadro programmatico e di regole complesso, formato non solo dal Piano Urbanistico Provinciale ma anche da altri piani che definiscono strategie e obiettivi e forniscono regole ed indirizzi – in molti casi particolarmente puntuali - agli attori di livello locale. Oltre al PUP vanno ricordati il Programma di Sviluppo Provinciale, il Piano Generale di Utilizzazione delle Acque Pubbliche –PGUAP -, i previsti piani forestali e montani, diversi piani di settore riguardanti la mobilità, l'uso di risorse, ecc. Le politiche e le azioni ambientali, paesaggistiche e territoriali appaiono quindi fortemente orientate e vincolate da tale quadro provinciale. Per quanto riguarda il livello comunale, esso è segnato dal Piano Regolatore Generale, che traccia un quadro di assetto dell'intero territorio comunale e assegna i diritti di uso del suolo, conformando quindi la proprietà privata. Tra questi due livelli, qual è la specificità della pianificazione di Comunità? Il quadro normativo non assegna al PTC quel ruolo di piano

strutturale che diverse leggi regionali individuano come una delle componenti dei piani regolatori. Non toglie ai comuni, pertanto, l'obbligo di coprire con previsioni di uso del suolo tutto il territorio comunale, lasciando loro il compito di concentrarsi sulle azioni di governo delle trasformazioni urbane ed edilizie. Il modello di PTC proposto dalla normativa provinciale e dal PUP prevede di considerare interamente il territorio della Comunità affrontando, con un dettaglio maggiore rispetto a quello del piano provinciale, campi estremamente diversi che vanno dagli aspetti strutturali a quelli paesaggistici, ecosistemici, insediativi, relativi ad attività economiche, ecc. Appare evidente la complessità della elaborazione di tale tipo di strumento, sia dal punto di vista tecnico sia da quello politico-programmatico, e si profila il rischio di tempi estremamente lunghi o addirittura l'eventualità della rinuncia alla pianificazione. Certamente non è facile trovare le motivazioni alla elaborazione del PTC se esso appare come un momento burocratico di trasposizione di contenuti e prescrizioni dal PUP a una scala solo apparentemente di maggiore dettaglio. Analogamente, appare estremamente complesso fornire risposte alla pluralità di esigenze di natura diversa entro un unico documento. Nella terminologia disciplinare un tale tipo di piano sarebbe infatti definito “razional-comprensivo”, vale a dire uno strumento con il quale si presume di applicare un approccio razionale (sequenza di analisi, indicazione degli obiettivi, formulazione di alternative, scelta e applicazione delle decisioni) e riguardante tutte le problematiche di un territorio vasto. Non è però possibile adottare tale modello di piano se si vuole dare un senso appropriato al PTC. Inoltre, la Comunità troverà legittimazione solo se saprà dimostrare in tempi accettabili di possedere capacità analitiche, di elaborazione di proposte, di creazione di consenso attorno a delle soluzioni, anche se queste troveranno applicazione mediante strumenti e azioni di livello comunale. Emergono infatti delle domande di pianificazione di livello sovracomunale che possono essere brevemente elencate nel modo seguente: - esigenza di conoscenza a supporto della pianificazione locale, agli interventi di settore e alla gestione del territorio, ai processi di valutazione; - esigenza di costruire strategie appropriate ai diversi territori, in grado di connettere il locale con le dinamiche sovralocali; - esigenza di assicurare coerenza alle diverse decisioni e azioni intraprese a livello comunale; - esigenza di trattare in modo appropriato le emergenze e le peculiarità ambientali e le sfide di organizzazione territoriale.

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Appare evidente la complessità della elaborazione di tale tipo di strumento, sia dal punto di vista tecnico sia da quello politicoprogrammatico, e si profila il rischio di tempi estremamente lunghi o addirittura l'eventualità della rinuncia alla pianificazione


Prospettive della Pianificazione Territoriale delle Comunità. Aspetti metodologici e operativi

Quanto al livello politico, la Comunità gioca il proprio ruolo sulla base della capacità di elaborare strategie, di creare reti di cooperazione, di affrontare problemi complessi. Tutto questo può accadere solo se interviene per singoli settori o per specifiche questioni territoriali

Territorio e pianificazione Prima di formulare proposte specifiche, è bene chiarire cosa va inteso con territorio e con pianificazione territoriale. Territorio non può significare un semplice supporto fisico alle azioni umane, ma un sistema complesso, che integra aspetti materiali e immateriali, valori diversi e azioni differenti a opera di una pluralità di attori. In breve, si tratta dell'esito della interazione tra il capitale naturale (l'ambiente), quello territoriale (il sistema insediativo, le infrastrutture) e quello sociale (la capacità delle comunità locali di utilizzare le proprie conoscenze e di formare reti di cooperazione). Il paesaggio va inteso come la sintesi coerente di tali dimensioni. Pianificazione significa soprattutto un processo decisionale basato su conoscenze adeguate e in grado di elaborare soluzioni condivise. E' un processo inevitabilmente sia tecnico sia politico, che non può prescindere da analisi che facciano uso delle tecnologie più avanzate e da abilità progettuali in grado di definire soluzioni appropriate, ma che richiede una forte leadership politico-amministrativa. Una visione processuale della pianificazione attenua l'ansia di giungere rapidamente al prodotto finale: il piano. Sottolinea, invece, l'esigenza di valutare. E questo inevitabilmente trasforma la concezione tradizionale del pianodisegno in un processo che, per fasi e passi successivi, sia in grado di elaborare soluzioni coerenti e condivise perché validate tecnicamente e partecipate. Una visione processuale della pianificazione può quindi procedere per singoli “atti di pianificazione”, che diano risposte concrete e appropriate alle specifiche problematiche. Tale condizione è del resto quella consueta quando gli esiti riguardano aspetti non strettamente di uso del suolo (accordi, definizione di priorità, coordinamento di azioni, ecc.) ma è anche quanto accade correntemente nella gestione del PRG, la cui funzionalità è assicurata da continue varianti. Un approccio processuale deve basarsi su un quadro informativo aggiornato e deve sapere formulare proposte settoriali e/o puntuali per parti di territorio, nonché definire accordi tra gli attori coinvolti su singole questioni. Va quindi attivata una “macchina di pianificazione” in grado di fare interagire il livello tecnico con quello politico. Entrambi gli aspetti appaiono cruciali per il ruolo della Comunità, ma entrambi devono ottenere credibilità sulla base di risultati concreti. Si tratta di sviluppare quella che è stata definita “capacità istituzionale”. Ciascuna Comunità deve quindi dotarsi di un apparato tecnico-operativo agile ma efficiente, in grado di gestire dati e informazioni territoriali (mediante un sistema informativo territoriale integrato con il SIAT – Sistema Informativo dell'Ambiente e del Territorio-

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della Provincia) e in grado di utilizzare nuovi strumenti valutativi quali l'Infrastruttura Economica Territoriale. Deve inoltre sapere interagire con i diversi settori tecnici della PAT e delle altre istituzioni, nonché sapere collaborare con esperti e consulenti esterni. Quanto al livello politico, la Comunità gioca il proprio ruolo sulla base della capacità di elaborare strategie, di creare reti di cooperazione, di affrontare problemi complessi. Tutto questo può accadere solo se interviene per singoli settori o per specifiche questioni territoriali. Gli amministratori devono trovare una forte motivazione ad agire sapendo che il loro operato può conseguire degli effetti indipendentemente dalle decisioni relative ad aspetti e settori lontani dallo specifico problema affrontato. Ad esempio, molte delle problematiche del territorio agricolo sono indipendenti da questioni quali l'assetto infrastrutturale o la collocazione di attrezzature e servizi sovracomunali. Per contro, una ristretta visione urbanistica, limitata agli aspetti dell'uso del suolo e finalizzata ad imporre vincoli alla trasformazione, non conseguirebbe l'esito di rilanciare attività agricole in crisi o di introdurre nuove modalità produttive. Per tali finalità è necessario, invece, definire strategie, costruire reti di cooperazione, formare nuove competenze. Il territorio, come si è detto, non è concetto che riguarda il solo uso del suolo, ma interazione tra la dimensione ambientale, quella spaziale e quella sociale. Una nuova forma di piano La pianificazione a livello di Comunità (processuale e per singoli atti, come si è detto) in molti casi non richiede l'assegnazione di diritti di uso del suolo e spesso questi possono essere specificati, entro un quadro di coordinamento, dai singoli comuni. Si può prevedere quindi una forma di piano che assuma a pieno un carattere processuale e incrementale, orientato agli aspetti strategici della comunità e agli aspetti strutturali del territorio. Quanto ai contenuti del PTC, vi sono tematiche che richiedono elaborati di tipo cartografico, altre che riguardano soprattutto contenuti programmatici e decisionali. In particolare, gli aspetti strategici, ma anche le decisioni in merito al dimensionamento della residenza, alla riorganizzazione del sistema dei servizi, alle azioni riguardanti il settore produttivo o quello del commercio possono – almeno in parte prescindere dalla collocazione delle attività su specifici suoli ed alle regole del loro utilizzo. Per contro, appaiono molto impegnative le azioni di concertazione tra le diverse prospettive in campo. Altre questioni richiedono, all'opposto, indagini accurate e pertinenti, che diano un senso alle competenze della Comunità. Ma anche tali contenuti possono assumere un rilievo proprio, in base all'apporto conoscitivo fornito. Su tali


Dossier: La riforma

Fotografia di Gabriele Basilico. Fonte: Provincia autonoma di Trento

premesse può essere attivata la “macchina di pianificazione”, nelle sue componenti tecnica e politica. Naturalmente l'obiettivo di medio termine consiste nella costruzione organica del piano territoriale. Una rivisitazione dei contenuti del PUC elencati dall'art. 21 della L.P. 1/2008 e dalle Norme di Attuazione del PUP può essere formulata nei termini seguenti, sottolineando come non è detto che ad ogni contenuto debba corrispondere uno specifico elaborato di piano. Temi che richiedono rappresentazioni cartografiche Sono previsioni relative a specifici aspetti o a singole porzioni di territorio e che possono avere efficacia anche se elaborate e approvate singolarmente. Carta di regola del territorio: Definisce lo “statuto condiviso delle istituzioni e della comunità locale” rispetto all'identità dei luoghi, al paesaggio e alle invarianti territoriali. Tale documento deve essere fondato quindi sull'inquadramento strutturale e sulla interpretazione della carta del paesaggio del PUP. Richiede un lavoro impegnativo dal punto di vista analitico e per quanto riguarda l'espressione delle strategie della comunità. In assenza di queste, infatti, svanisce il senso del paesaggio, delle invarianti, delle “regole generali d'insediamento e trasformazione del territorio”. L'elaborazione della carta di regola appare quindi come un processo di medio periodo, che

deve basarsi sul lavoro di un gruppo di progettazione e su una serie di risultati intermedi. I temi dell'ambiente: Si tratta di questioni particolarmente complesse sulle quali le Comunità riusciranno a sviluppare con difficoltà analisi di maggiore dettaglio rispetto ai documenti provinciali. Si tratta di intervenire sul tema delle invarianti, delle reti ecologiche e delle fasce di protezione fluviale, sui Siti di Interesse Comunitario e sulle Zone di Protezione Speciale (rete Natura 2000 dell'Unione Europea). Su tale ultimo aspetto le Comunità possono peraltro giocare un ruolo di rilievo, ma anche qui non si tratta di definire tanto delle soluzioni cartografiche quanto di costruire reti di cooperazione tra istituzioni e attori locali per tutelare e valorizzare il patrimonio naturalistico. I temi del territorio agricolo, forestale e montano Riguardano l'approfondimento della perimetrazione e dell'uso del suolo agricolo, delle aree boscate e dei pascoli. Sono necessarie indagini specifiche e l'interazione con i documenti di piano di livello provinciale. Anche in questo caso si richiede l'elaborazione di strategie e di azioni in merito a tali settori, le dinamiche dei quali non possono essere governate solo dalla definizione cartografica di aree con determinate caratteristiche. Il sistema delle infrastrutture In alcuni territori vi sono dei problemi aperti in

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Prospettive della Pianificazione Territoriale delle Comunità. Aspetti metodologici e operativi

Si devono però evitare modalità organizzative generiche, definendo un percorso, individuando gli interlocutori e fissando delle scadenze, riprendendo ad esempio talune esperienze di pianificazione strategica

merito alla precisazione di tracciati infrastrutturali o di localizzazione di attrezzature di livello sovralocale. Particolarmente problematica appare l'interazione con la progettualità di livello provinciale per la natura complessa di tali opere e per gli effetti territoriali attesi. Altro tema di rilievo, che richiede forti interazioni con le strategie di sviluppo locale e con le dinamiche del settore turistico, è quello delle aree sciabili. Molte infrastrutture che tradizionalmente non fanno parte delle carte di piano strutturano in realtà il territorio: le reti energetiche, idriche, delle telecomunicazioni, ecc., rappresentano fattori di vincolo od opportunità particolarmente importanti ai fini dello sviluppo insediativo e delle attività. Le Comunità non possono limitarsi, peraltro, a prendere atto di quanto sta accadendo ad opera di attori diversi. Numerosi altri campi di intervento possibili – non espressamente citati dalla normativa riguardano tematiche che richiedono elaborazioni di particolare complessità ad un livello sovralocale, quali ad esempio la regolamentazione del Patrimonio Edilizio Montano e dei centri storici e altri settori analoghi. Gli esiti possono sfociare in documenti con propria autonomia, in quanto accolti all'interno dei singoli piani comunali. Documenti programmatici che possono non richiedere elaborazioni cartografiche, o con elaborazioni cartografiche da precisare a livello comunale: Dimensionamento residenziale. Si tratta di sviluppare indagini sul tema della casa e di formulare previsioni non solo quantitative ma anche in merito alle modalità per soddisfare i diversi bisogni abitativi. Il controllo delle dinamiche insediative (spostamenti di residenza da un centro all'altro, immigrazione, uso non stabile degli alloggi) richiede una visione sovralocale che assegna alla Comunità compiti di rilievo. Dimensionamento ed organizzazione del sistema dei servizi di livello sovra comunale. La realizzazione delle attrezzature e la gestione dei servizi non riguarda più la dimensione dei singoli comuni. Anche molti servizi a rete e la manutenzione degli spazi urbani richiedono modelli di gestione a scala sovralocale. La individuazione cartografica appare però la conclusione ultima di un lungo processo di interazione tra i diversi attori, eventualmente da consolidarsi con un accordo di programma e l'inclusione delle decisioni nei documenti comunali. Dimensionamento e localizzazione delle grandi

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strutture di vendita al dettaglio e delle aree produttive. Anche in questo caso il ruolo delle Comunità appare cruciale, ma è necessario il raccordo con le politiche provinciali. La localizzazione delle strutture commerciali appare controversa, in quanto è allo stesso tempo temuta e ricercata dagli amministratori locali. Di sicuro si tratta di un settore in rapida evoluzione, che richiede realismo (il successo dei grandi punti vendita è innegabile) senza rinunciare a obiettivi di disegno territoriale ed urbano. Non è detto, insomma, che a ogni svincolo di strada di grande scorrimento debba corrispondere un grande punto vendita. Per contro, è necessario servire il territorio, sperimentando forme innovative per garantire che anche le fasce deboli della popolazione possano accedere a livelli minimi di servizio commerciale. Le procedure del piano Come attivare una “macchina di pianificazione” efficiente? Come si è detto, da un lato si pone l'esigenza di un apparato tecnico snello, ma che sappia gestire le tecnologie attuali e che sappia operare in rete con i servizi provinciali, i singoli comuni, le altre comunità; dall'altro la parte politica deve avviare un processo di selezione dei temi di lavoro prioritari e di costruzione di strategie locali. Il metodo di lavoro, in proposito, può essere basato su commissioni, tavoli di lavoro, forum. Si devono però evitare modalità organizzative generiche, definendo un percorso, individuando gli interlocutori e fissando delle scadenze, riprendendo ad esempio talune esperienze di pianificazione strategica. Per quanto riguarda gli strumenti per assicurare efficacia ad un processo decisionale basato su passi successivi, essi possono essere: - su singoli aspetti, accordi informali o formali, quali l'accordo di programma previsto dalla legge 142/1990, che consente di vincolare le amministrazioni ed i soggetti coinvolti al rispetto delle decisioni anche mediante la modifica dei singoli piani comunali; - sul piano nel suo complesso, l'accordo di programma quadro definito dalla L.P. 1/2008 come solida base di partenza del processo di pianificazione. Infine, il processo di autovalutazione dei piani consente di assegnare a singoli atti della Comunità un ruolo decisivo. Ad esempio, le varianti ai piani comunali dovranno rispettare criteri, elementi di dimensionamento, atti di individuazione di localizzazioni di strutture ma anche documenti complessi quali la Carta di Regola –, se sanciti da accordi di programma o se costituiscono atti di pianificazione della Comunità.


Dossier: La riforma

Piano Territoriale della Comunità Quadro di sintesi delle prescrizioni normative L.P. 1/2008 - Art. 21

Norme di Attuazione del PUP

Inquadra mento strutturale Approfondi mento e interpretazione della carta del paesaggio PUP

art. 9: I piani territoriali delle comunità approfondiscono e interpretano la carta del Paes aggio… art. 10: …facoltà di esclu dere da lle aree di tutela ambientale le zone destinate a insediamenti omogenei, nell’ambito dei centri abitati…

Carta di regola del territorio Tipologie d’intervento edilizio Disciplina d’uso delle invarianti e loro integrazione

art. 8 : I PTC possono implementare la disciplina d’uso delle invarianti…

Approfondi mento reti ecologiche e ambientali PUP

art. 19: I PTC approfondiscono le indi cazioni del PUP per le reti ecologiche e ambientali… sulla base di accordi di progra mma, può essere attivata la rete di riserve… art. 28: I PTC precisano i perimetri delle a ree a elev ata integrità …

Delimitazione delle aree di protezione fluviale

art. 23: I PTC delimitano le aree di protezione fluviale…

Linee d’indiri zzo per la determinazione, da p arte dei piani regolatori genera li, del dimensiona mento dell’edilizia pubblica e agev olata

art. 30: Definizione delle… linee d’indirizzo in merito al dimensiona mento dell’edilizia pubblica e agevolata…

Dimensi onamento localizzazione delle attrezza ture, dei servizi, delle infrastrutture

art. 42: Le indicazioni cartog rafiche dei tracciati (delle reti energetiche e telema tiche)… possono essere integrate e modificate nei PTC …

Specificazione programmazione urbanistica commercio

art. 32: La previsione di ev entuali nuov e grandi strutture di vendi ta al detta glio con superficie superiore a 10.000 metri quadri è subordin ata alla loro preventiva localizzazione di massima da parte della Giunta p rov inciale, sentiti la comunità e il comune o i comuni interessati.

art. 43: I piani territoriali delle comunità possono individuare ulteriori aree interportuali, aeroportuali e portuali di carattere strategico in conformità ad appositi atti d’indirizzo della Giunta provinciale.

I piani territoriali delle comunità sp ecificano e integrano i criteri di progra mmazione … e provvedono: a) alla localizzazione d elle grandi strutture commerciali di vendi ta al dettaglio, compresi i centri commerciali, e del commercio all’ingrosso, anche in relazione alle infrastrutture di collegamento e ai servizi complementari richiesti; b) alla promozione di misure di carattere urbanistico a tte a migliorare la competitività della distribuzione commerciale negli insediamenti storici; c) a fav orire modalità di connessione fra attività commerciali e offerta turistica. Delimitazione aree produttive

art. 33: I piani territoriali delle comunità delimitano le aree indicate dal PUP… Il dimensionamento delle nuove aree … deve essere supportato da specifiche indagini… art. 48: I piani territoriali delle comunità possono ricla ssificare le aree produttive di livello prov inciale… in aree produttive di liv ello locale

Precisazione aree a gricole PUP

art. 37: I piani territoriali delle comunità possono p recisare i perimetri delle aree agricole sul la bas e di ulteriori analisi e valutazioni della quali tà e della potenziali tà dei suoli, tenendo conto delle indicazioni della carta d el pa esaggio… I piani territoriali delle comunità p ossono ridu rre in via eccezionale le aree agricole… art. 38: I piani territoriali delle comunità possono p recisare i perimetri delle aree agricole di pregio. art. 39: I piani territoriali delle comunità possono s tabilire criteri per l’individuazione da parte dei piani regolatori generali di ulteriori aree a pas colo…

Modificazione aree sciistiche

art. 35: I PTC possono modificare, anche in maniera s ostanziale, i perimetri delle aree sciabili previsti dal PUP, nel rispetto delle seguenti condi zioni…

Viabilità sovralocale

art. 41: All’infuori degli interventi demandati alla Provincia… i PTC individuano la viabilità di valenza sov racomunale e i piani regola tori generali individuano la viabilità di valenza locale.

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LE SFIDE CHE ATTENDONO LE COMUNITÀ

Corrado Diamantini

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Dossier: La pianificazione

Questa nuova stagione ha bisogno di progettualità e di partecipazione. La politica? Sia visionaria Professore, quali sono gli elementi di continuità e quali quelli di discontinuità tra piani territoriali di comunità e i piani comprensoriali? Vedo un solo elemento di continuità. Là dove si insiste sul protagonismo delle società locali come elemento costitutivo dell'autonomia, con riferimento ad ambiti territoriali sufficientemente ampi da richiedere una visione diversa da quella meramente municipalistica. Alla base dei comprensori c'era l'intento di far concorrere gli abitanti alle scelte di sviluppo. Uno sviluppo che doveva rinsaldare il rapporto con il territorio e garantire il benessere di tutti in sinergia con il carattere peculiare dei luoghi. C'era certamente una sorta di identificazione delle comunità locali con i contesti territoriali, ma parlerei a questo proposito più di un processo di costruzione identitaria che non di identità come elemento dato. Analogamente, con riferimento ai piani di comunità, parlerei di costruzione di senso del rapporto tra abitanti e luoghi. E questo tenendo conto delle profonde trasformazioni sociali che hanno conosciuto le diverse parti di territorio. E le discontinuità? I piani comprensoriali erano piani urbanistici in senso tradizionale, ossia piani di destinazione d'uso del suolo. Se si pensa che lo stesso Piano urbanistico provinciale, che pure esprimeva contenuti strategici di grande portata, dal punto di vista formale non si discostava molto da un piano regolatore generale possiamo avere un'idea di come sono stati redatti, appunto tradizionalmente, i piani comprensoriali. Che si risolvevano soprattutto nella localizzazione di quantità date di infrastrutture e servizi. I piani di comunità si collocano in una dimensione diversa, anche perché nel frattempo è cambiata l'urbanistica. Parlerei, per esprimere questa discontinuità, di “capacità di progetto”. E' la costruzione di una strategia di comunità, oggi, il valore aggiunto di un piano territoriale. Una strategia capace di fare interagire il raggiungimento di ulteriori soglie di benessere con la valorizzazione dell'ambiente. In senso etimologico. Per cui non si tratta di fare solo scelte di sviluppo, ma di farle misurandosi con la loro sostenibilità. E questa è un'esperienza del tutto nuova per comunità che da poco hanno ripreso a esprimersi in quanto tali. Il riferimento è a un approccio di tipo strategico? Parlando di sviluppo sostenibile l'approccio strategico è l'unico possibile, anche perché

suggerisce di partire dalla costruzione di una immagine di futuro della comunità alla quale vanno ricondotte coerentemente tutte le altre scelte. Una immagine molteplice, che sarà diversa da comunità a comunità: ci sono comunità soddisfatte dei traguardi raggiunti che vogliono attrezzarsi per consolidarli, oppure ci sono idee nuove per far leva in modo non invasivo sulle risorse, oppure ancora si tratta di rimediare a errori senza perdere di competitività… E' un esercizio di riflessione collettiva al quale devono essere chiamati il maggior numero possibile di abitanti, secondo tecniche partecipative oramai collaudate. Va da sé che è anche un esercizio di costruzione comunitaria oltre che di assunzione di responsabilità. L'unico esercizio possibile se si vuole perseguire uno sviluppo sostenibile che non appaia calato dall'alto e quindi finisca con il risultare estraneo. Aggiungo che per ragioni di credibilità questo esercizio dovrebbe concludersi con l'individuazione di un numero ristretto di obiettivi ancorati ad attori, procedure e finanziamenti certi. Gli obiettivi devono tradursi subito in progetti che diventano a mio avviso la sostanza del piano di comunità. Il valore aggiunto, come accennavo poc'anzi, rispetto alla pianificazione tradizionale. Volendo fare un esempio, c'è oggi una rincorsa individuale al risparmio energetico e all'uso di fonti energetiche rinnovabili che va certamente incoraggiata. Ma una comunità di valle potrebbe adottare una diversa razionalità, collettiva e non individuale, tesa al raggiungimento di un'efficacia maggiore a risparmio di costi. Ci sono diversi esempi in tal senso, in Francia come in Svizzera… Non c'è il rischio, insistendo su progetti di sviluppo, di perdere di vista il territorio? Capisco il senso della domanda, che rimanda ai contenuti urbanistici del piano di comunità. Voglio ritornarci dopo, anche perché vorrei chiarire meglio il senso di quanto ho detto. Il Trentino ha conosciuto negli ultimi cinquant'anni uno sviluppo intenso, che si è avvalso di tanti percorsi di sviluppo locale tra loro molto differenziati, cui il primo Piano urbanistico ha dato un forte impulso. Percorsi di sviluppo legati a vocazioni territoriali che sono state assecondate efficacemente, come ha messo in evidenza lo studio redatto all'interno della ricerca ITATEN. Percorsi di sviluppo legati quindi ai luoghi, alle risorse naturali o comunque all'indole degli abitanti, anch'essa in

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La trasformazione deve essere l'esito di scelte consapevoli, che scaturiscono da un’idea di società che si rispecchia coerentemente nel suo territorio. qualche misura, come mi si dice, legata ai luoghi. La redazione dei piani di comunità offre l'occasione di una lettura a distanza dell'esito di questi percorsi di sviluppo, per dare loro nuovo impulso oppure per correggerli con riferimento se non altro alle sopravvenute esternalità. Non è un compito che travalica le competenze di un piano di comunità? No. E' l'unico senso che può avere se si vuole che anche il resto, le operazioni più legate all'urbanistica, non diventino esercizi obbligati e male digeriti. In tal caso avrebbero ragione quei sindaci che dicono che il piano di comunità potrebbe risolversi in un mosaico dei piani regolatori vigenti. Non si può pensare a un territorio disgiunto dalla comunità locale e dalle modalità prescelte ai fini dello sviluppo. Il territorio è il prodotto di queste modalità, consapevole o inconsapevole. La cosa peggiore è che prevalga l'inconsapevolezza, per cui la trasformazione del territorio diventa l'esito di tanti piccoli cambiamenti che finiscono con lo snaturarlo. La sfida è quella che la trasformazione sia l'esito di scelte consapevoli, che scaturiscono da una idea di società che si rispecchia coerentemente nel suo territorio. Come si configurano in questo quadro le operazioni urbanistiche? Ci può dire come è possibile operare, in prospettiva, una saldatura virtuosa tra l'evoluzione di una comunità e il suo territorio? La normativa provinciale richiede un'operazione forte, ossia la redazione della carta di regola del territorio. Nella costruzione territoriale tracciata da un piano di comunità devono starci dei punti fermi, a presidio di beni comuni e di identità dei luoghi. E poi dei punti flessibili, che però non vanno intesi come buchi neri che si ingoiano qualsiasi cosa. Il senso della carta di regola è allora quello di stabilire questi punti fissi e di definire, aggiungo, le modalità delle trasformazioni desiderate. Si tratta di costruire un quadro condiviso, che rappresenti innanzitutto, come dice la normativa, gli elementi cardine dell'identità dei luoghi e stabilisca le regole da rispettare nelle trasformazioni d'uso del suolo. La normativa aggiunge che quest'ultime sono a presidio della sostenibilità dello sviluppo, ma sinceramente non relegherei la sostenibilità a un esercizio di pura tutela. Quindi questo dispositivo è adeguato? Dipende da come verrà costruito e dal senso che vi verrà attribuito. Se si risolverà nell'ennesima costruzione cartografica basata su presupposti puramente tecnici – mi riferisco al fatto di

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riportarvi passivamente delle campiture o di inventarsene a tavolino - sarà un fallimento. Il senso che gli verrà attribuito sarà esclusivamente quello di un esercizio disciplinare, dovuto. Se invece si tenterà un'altra strada, molto più difficile ma coerente con l'approccio strategico cui ho fatto riferimento, ossia quella del coinvolgimento degli abitanti ai fini di dare un senso collettivo all'immagine di territorio che viene costruita, allora potrà essere efficace. E il senso che gli verrà attribuito sarà quello di un codice di autodisciplina dal quale traspare anche il valore contenuto talvolta nel sottrarsi dal fare. D'altro canto, come si costruisce la consapevolezza del valore della dotazione ambientale e paesaggistica, della soglia accettabile di uso e alterazione delle risorse, dell'invarianza e del mutamento se non attraverso il concorso alla stesura delle regole? Ma anche in questo caso mancherebbe qualcosa. Ossia una riflessione, che deve trovare una trascrizione nel dispositivo, dalla quale fare scaturire azioni che vanno a modificare il territorio quando questa scelta appare necessaria per dare una coerenza ai luoghi e quindi al paesaggio. Ecco appunto, il paesaggio. Qual è la sua rilevanza nel piano territoriale della comunità? Il paesaggio è l'immagine del territorio. Parlerei di uno specchio nel quale si riflettono nel bene e nel male le relazioni che si instaurano tra una comunità e i luoghi in cui opera. Da questo punto di vista il paesaggio può essere considerato un buon indicatore, anche se non l'unico, della qualità di queste relazioni. Nel piano territoriale della comunità la redazione di una carta del paesaggio sulla base delle indicazioni contenute nel Piano urbanistico provinciale rappresenta un passaggio obbligato, concorrendo in modo decisivo alla costruzione della carta di regola. E come vede la redazione di questa carta del paesaggio? Allo stesso modo della costruzione della carta di regola. Ossia utilizzando procedure partecipative. Questo del paesaggio, tra l'altro, a me sembra un punto chiave. Tutti andiamo ripetendo che nella Convenzione europea il paesaggio è definito come una parte del territorio così come è percepita dalle popolazioni. Ma chi le ha mai interpellate le popolazioni? Nel nostro paese, ma non solo, le carte del paesaggio vengono spesso redatte in modo scolastico, sulla base di schemi mutuati dai piani paesaggistici introdotti dalla Legge Galasso. Vi appaiono campiture policrome che sottendono tutele che poi si risolvono in ennesimi vincoli


Dossier: La pianificazione

autorizzativi. Sono carte redatte da tecnici in totale solitudine. Nel migliore dei casi si adottano punti di osservazione o subentrano regole formali che però non vengono mai esplicitate. Nel caso del piano territoriale della comunità c'è un riferimento esplicito, ripeto, alle tavole del Piano urbanistico provinciale che vanno però interpretate. Parlerei, ai fini di questa interpretazione, di una costruzione di senso da dare a percezioni collettive, al fine di pervenire anche a giudizi di valore. E questo può essere fatto solo sulla base di un ampio coinvolgimento. Non è un giudizio troppo drastico su quanto si è fatto un po' dappertutto? Voglio solo dire che quel modo di operare derivava – e tuttora deriva – da una radicata concezione della disciplina urbanistica come tecnica autoreferenziale oltre che dalla consapevolezza della fatica insita nel lavoro partecipativo, che può anche risolversi, se male condotto, in un nulla di fatto. Da questo punto di vista può essere utile un lavoro parallelo, insieme tecnico e partecipativo. Abbiamo del resto, proprio qui in Trentino, un approccio tecnico esemplare. Mi riferisco al tentativo di Samonà di affrontare, nel primo Piano urbanistico provinciale, il tema del paesaggio a partire dalle unità insediative, di cui ha provato a descrivere i caratteri formali per richiamare la progettazione architettonica a un esercizio di coerenza con l'immagine dei luoghi. Purtroppo è una indicazione del Piano urbanistico, l'unica forse tra quelle di un certo spessore, che è stata disattesa. Ricorre sempre più spesso il concetto di paesaggio identitario… Il riferimento al concetto di paesaggio identitario può aiutare molto nello svolgimento del lavoro cui ho accennato. Prima ho parlato di beni comuni, con riferimento alla carta di regola. Ebbene, il paesaggio è avvertito come un bene comune soprattutto quando rappresenta – e parlo di rappresentazione teatrale – la grande dotazione ambientale di un luogo oppure il risultato di pratiche secolari - pensiamo all'agricoltura di montagna - che hanno interagito in modo ingegnoso, ma allo stesso tempo virtuoso, con la natura. La stessa cosa dovrebbe accadere quando il paesaggio rappresenta i luoghi della quotidianità, quello che si coglie con lo sguardo quando si percorre un territorio intensamente antropizzato o quando ci si imbatte nei segni della casualità delle trasformazioni territoriali. Ci sono certo degli abitanti che si rispecchiano in questo paesaggio nel quale intravedono una rappresentazione della vita di ogni giorno alla quale concorrono il lavoro, i luoghi dell'abitare e quant'altro. Ma ce ne sono certo molti altri che questo paesaggio quotidiano lo rimuovono per rifugiarsi quando possibile nell'altro, che però è esito di un'altra costruzione se non di un'altra civilizzazione. Voglio dire che il paesaggio

quotidiano è altrettanto identitario del primo, nel senso che l'identificazione con i luoghi dovrebbe essere analoga, dato che si è contribuito a costruirli. Questo per dire che il paesaggio, che è carta di identità dei luoghi, rimane sempre tale con riferimento a ognuno di essi e la cura che vi viene dedicata dovrebbe essere la stessa in un passo dolomitico e in una zona industriale. Naturalmente cambiano gli effetti scenici, le emozioni e le riflessioni suscitate da ciascun luogo, ma rimane un'unica costruzione territoriale nella quale una comunità si rispecchia e alla quale sente di appartenere. Lei ha molto insistito sul coinvolgimento del pubblico. Ma come vede il ruolo dell'urbanista e dell'amministratore? Parlerei invece del tipo di relazione augurabile tra tecnico e amministrazione. Tra le condizioni di successo di un piano metterei al primo posto l'esistenza di una visione chiara, da parte dell'amministrazione, sulle cose da farsi. Faccio un esempio: quando Kessler chiamò Samonà, negli anni sessanta del secolo scorso, aveva chiaro in mente dove voleva condurre il Trentino. Samonà ha assecondato efficacemente quel disegno perché vi ha riconosciuto la possibilità di sperimentare soluzioni urbanistiche in cui credeva. Voglio dire che una visione chiara, naturalmente sostenuta da un serio approccio disciplinare, finisce col garantire coesione ed efficacia all'esperienza di piano. Agli antipodi ci sta un'assenza di idee da parte dell'amministrazione cui si associa una scarsa conoscenza del mestiere. In mezzo ci stanno tutte le altre combinazioni possibili, da cui possono anche scaturire operazioni di successo, di cui vedo un presupposto in una effettiva capacità di dialogo tra l'amministrazione e l'urbanista rivolta a fornire alle diverse questioni le risposte che mancano. Un amministratore e un urbanista, come li vedrebbe? Prendo dalla letteratura: il primo visionario, il secondo riflessivo. (a.f.)

Corrado Diamantini è professore ordinario di Tecnica e Pianificazione Urbanistica presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università di Trento dove è presidente dell’Area Didattica di Ingegneria per l’Ambiente e il Territorio

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Comunità e pianificazione: la nuova governance territoriale della Provincia autonoma di Trento di Luca Paolazzi*

La peculiarità amministrativoistituzionale del Trentino è quella di mancare sostanzialmente di uno dei tre livelli di governo previsti dalla Costituzione, cioè quello regionale

Globalizzazione e governance territoriale Il fenomeno comunemente conosciuto con il termine globalizzazione, cioè il processo di riorganizzazione delle relazioni politiche ed economiche su scala globale, ha determinato la diffusione spaziale di un potere politico accentrato, cioè il potere statale, in enti sovrastatali (l'Unione Europea in particolare) e l'allungamento in senso globale dei rapporti di scambio e produzione. Ha cioè apparentemente determinato una de-territorializzazione della sovranità statale e dell'economia di stampo fordista. Allo stesso tempo si è però assistito in tutta Europa ad un vettore di cambiamento apparentemente opposto, cioè la richiesta da parte delle comunità di luoghi di partecipazione e rappresentanza locali. Il globale ed il locale diventano così due facce della medesima medaglia, da cui il concetto di glocalizzazione. La de- territorializzazione della decisione appare perciò doppiata da una richiesta di valorizzazione e autonomizzazione delle istituzioni locali. Assistiamo dunque al dispiegarsi di una doppia energia propulsiva della globalizzazione: da una parte l'aggregazione del potere attraverso l'accentramento della sovranità a livello sovra e trans-nazionale e, dall'altra, alla sua frammentazione nella richiesta di decentramento come istanza di una domanda di autonomia locale. La richiesta di autonomia politica ed amministrativa è la richiesta di strumenti capaci di attivare modelli di sviluppo locale e di garantire la partecipazione al governo del proprio territorio. La creazione di nuove forme di autonomia appare come il tentativo di ovviare da una parte alla riproposizione a livello locale del modello statale centralizzato e, dall'altra, alla incapacità del sistema comunale di garantire un'amministrazione efficace ed efficiente dei pubblici interessi. Inoltre, la rinnovata facilità di movimento dei processi produttivi consente grande flessibilità di localizzazione dei fattori produttivi e costringe quindi i territori ad una competizione globale per l'attrazione di risorse e la creazione di sviluppo economico ed inclusione sociale. I processi di localizzazione dei fattori nell'economia post-fordista dipendono cioè dalla capacità dei territori di attrarre risorse, di creare vantaggi competitivi, di produrre servizi alla persona e alle imprese, di ridurre i costi di transazione e di usare il proprio territorio e il proprio milieu locale come

*Provincia autonoma di Trento, Dipartimento Urbanistica e Ambiente

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vantaggio competitivo. La possibilità di creare sviluppo, e di conseguenza inclusione e coesione sociale, dipende perciò dalla capacità di un territorio di fare sistema e di creare esternalità positive per la remunerazione dei fattori produttivi. La possibilità di creare sviluppo a livello locale, cioè la possibilità di ricollocare i territori, in particolare quelli storicamente considerati periferici come la montagna, sull'asse centroperiferia, dipende irrimediabilmente dalla capacità dei territori di esprimere una propria rappresentanza, di valorizzare la propria autonomia e la propria identità e di creare un proprio modello di sviluppo locale. Tali possibilità si legano alla presenza di un ente pubblico forte, capace di creare spazi di concertazione e valorizzazione della sussidiarietà orizzontale, di essere sintesi tra gli interessi pubblici e privati e capace di esprimere un proprio modello amministrativo e di governo. In questo quadro è possibile collocare la nascita delle Comunità di Valle e la ristrutturazione degli assetti di governo della Provincia autonoma di Trento in senso di governance multilivello, intendendo questa come un sistema di distribuzione delle competenze e del potere tra un numero variabile di attori significativi su più livelli di governo. Dai comprensori alle Comunità di Valle La peculiarità amministrativo-istituzionale del Trentino è quella di mancare sostanzialmente di uno dei tre livelli di governo previsti dalla Costituzione, cioè quello regionale. La Provincia Autonoma di Trento (PAT) presenta inoltre una forte frammentazione comunale, con l'80% dei comuni aventi una popolazione inferiore ai 2000 abitanti ed una distribuzione territoriale secondo logiche storiche ma di forte disomogeneità funzionale. La prima esperienza di pianificazione provinciale si colloca nell'epoca storica caratterizzata dal boom economico delle regioni del nord-Italia. Il Trentino scontava allora parecchie disfunzioni economico-sociali sull'asse di una sorta di dualismo dominante tra le valli periferiche, orograficamente e geomorfologicamente individuate, e il fondovalle dell'Adige, che non consentiva uno sviluppo organico sull'intero territorio. L'economia trentina versava allora in una condizione di sottosviluppo e stagnazione che


Dossier: La pianificazione

poneva un forte rischio depressivo. In occasione dell'avvio dell'esperienza di redazione ed adozione del primo Piano urbanistico provinciale, il dibattito fu quindi incentrato sui temi della pianificazione territoriale e della programmazione economica, da realizzarsi attraverso un nuovo ente, il Comprensorio, al fine di impedire uno sviluppo disomogeneo dell'economia trentina ed avviare processi di sviluppo consapevole anche nelle vallate alpine. Si individuò il fine della pianificazione nella creazione di una campagna urbanizzata. Attraverso il Comprensorio la funzione amministrativa avrebbe cioè dovuto decentrarsi sul territorio, e con essa la localizzazione di servizi fondamentali e di attività produttive. Allo stesso tempo l'attività amministrativa pubblica sarebbe stata avvicinata ai cittadini risolvendo però al contempo la sua frammentazione nei 223 comuni di cui il Trentino si componeva. I Comprensori dovevano, nelle intenzioni, porre freno a tendenze disgreganti della coesione sociale delle valli e alla mancanza di progettualità nello sviluppo, evitando così l'abbandono della montagna attraverso una regolazione dello sviluppo insediativo. Attraverso i Comprensori si cercò, con parziale successo, di creare una struttura territoriale reticolare e policentrica, ovviando al ruolo di Trento quale città-Regione. Nel corso degli anni la PAT ha delegato ai Comprensori importanti funzioni amministrative, senza però riuscire a dare ai Comprensori l'autonomia decisionale necessaria a gestirle. La fine dell'esperienza comprensoriale è da attribuirsi all'impossibilità di potenziare tali enti per mezzo di elezioni dirette nonché all'inadeguatezza del Comprensorio nel fare da catalizzatore di identità omogenee da una parte e problemi amministrativi simili dall'altra, causa ambiti territoriali spesso poco omogeni da un punto di vista culturale, territoriale e funzionale (caso più emblematico quello del C5). A fronte di tale crisi si sono dunque cercate più volte soluzioni all'architettura istituzionale trentina. Il dialogo ed i tentativi di riforma hanno seguito essenzialmente due direttrici. Il primo approccio si concentrava sull'abolizione dei Comprensori e sul riconoscimento di Provincia e Comuni come soli enti legittimati allo svolgimento di pubbliche funzioni. Tesi questa che sembra aggirare il problema della frammentazione del Trentino in 223 comuni, spesso poco adatti a dare risposte efficienti ed efficaci nell'esercizio di funzioni amministrative.

Il secondo approccio, che in definitiva ha ispirato l'attuale riforma dell'ordinamento trentino, teorizzava invece la trasformazione della Provincia secondo un federalismo interno, e la costruzione di un modello territoriale policentrico. Il focus in questo caso era centrato sulla soluzione all'accentramento di potere in capo alla Provincia e sull'implementazione di strumenti capaci di garantire ai territori un autonomo sviluppo nel quadro dell'autonomia provinciale. La soluzione è stata appunto la creazione di un nuovo ente intermedio, le Comunità di Valle (CdV), capace nelle intenzioni legislative di mitigare la frammentazione istituzionale e favorire la costruzione di un Trentino reticolare e policentrico. Le Comunità di Valle nel quadro di governo del territorio Il nuovo processo di riforma amministrativa, avente come punto fondamentale la creazione di enti intermedi associativi di comuni, le CdV appunto, affronta dunque la questione della frammentazione del governo locale trentino. In particolare: a) lo scarto tra il numero complessivo dei Comuni e il novero di quelli effettivamente in grado, per dimensioni demografiche, di affrontare i compiti gestionali che ad essi competono in base al principio di sussidiarietà. b) l'esigenza di affrontare politiche di area vasta in un territorio che evidenzia temi, problemi e opportunità non trattabili sulla scala municipale ma neppure su quella “regionale” tipica della PAT. I nuovi enti avranno dunque come principale compito quello di svolgere funzioni amministrative in forma associata, definire i programmi sociali e pianificare il territorio delle Comunità nei limiti posti dal quadro normativo provinciale. Rispetto alle funzioni amministrative comprensoriali, le quali erano delegate e dalla sola PAT, in questo caso le funzioni saranno trasferite alle CdV sia dalla PAT che dai comuni, in un sistema aperto cioè anche dal basso verso l'alto. In tale senso le funzioni non verranno delegate ma trasferite nella loro titolarità, cosa questa che dovrebbe accrescere la responsabilizzazione dei territori ed incentivare l'attivazione di economie di scala. Rimarrano di competenza provinciale tutte le funzioni necessitanti una gestione comune e le funzioni di coordinamento ed indirizzo delle attività degli enti locali.

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Comunità e pianificazione: la nuova governance territoriale della Provincia autonoma di Trento

L'attuazione del principio di sussidiarietà, sia in senso verticale che orizzontale, passa per la ricerca di forme associative per svolgere quelle funzioni che spesso i comuni, causa una forte frammentazione e scarsa capacità di spesa, non riescono a svolgere

In quest'ottica la nascita delle CdV è da ricondursi in parte al tentativo di risolvere, tramite un processo di decentramento del potere, il forte centralismo provinciale, e dall'altra di dare un'attuazione sostanziale ad un modello amministrativo sussidiario. L'attuazione del principio di sussidiarietà, sia in senso verticale che orizzontale, passa per la ricerca di forme associative per svolgere quelle funzioni che spesso i comuni, causa una forte frammentazione e scarsa capacità di spesa, non riescono a svolgere. Tale soluzione dovrebbe in tal senso garantire un forte recupero di responsabilità locale e di efficacia ed efficienza nella gestione e nel governo degli interessi pubblici. Tra le competenze trasferite in capo alle Comunità spicca, per importanza e strategicità, la pianificazione urbanistica e territoriale intermedia di area vasta, da farsi mediante l'approvazione dei Piani territoriali di Comunità (PTC). La nuova legge urbanistica provinciale 1/2008 individua nelle CdV il nuovo soggetto protagonista della pianificazione urbanistica. Si trasferisce ai territori il compito di decidere in autonomia, in base al proprio modello di sviluppo e nel quadro delle regole poste dal Piano urbanistico provinciale (PUP) e dal Programma di sviluppo provinciale (PSP), del governo e del futuro del proprio territorio. La pianificazione urbanistica e territoriale si configura come un'attività avente una funzione normativa. Essa è lo strumento attraverso il quale governare la trasformazione e lo sviluppo di un territorio e delle dinamiche socioeconomiche che su quel territorio si sostanziano. La forte integrazione tra lo sviluppo di un territorio, le scelte localizzative, lo sviluppo economico e la regolazione delle dinamiche sociali, impongono il coordinamento tra gli strumenti di pianificazione territoriale e quelli di programmazione economica, in un disegno istituzionale caratterizzato secondo logiche di governance e concertazione tra enti pubblici e tra interessi pubblici e iniziativa privata. In quest'ottica il territorio diviene l'infrastruttura materiale ed immateriale dei processi sociali ed economici ed al contempo idea, identità e vantaggio competitivo nei processi di localizzazione e regolazione socioeconomica. In questo scenario il processo di pianificazione mira alla costruzione sociale di una visione del territorio futuro verso la quale indirizzare gli sforzi e le attività di tutti i

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soggetti, pubblici e privati. La titolarità della funzione pianificatoria risulta in tal senso indispensabile ai nuovi enti per costruire, partendo dall'organizzazione del territorio e delle funzioni produttive e di tutela, un proprio modello di sviluppo. Da una distribuzione delle funzioni urbanistiche secondo un criterio gerarchico, si passa alla distribuzione secondo un modello di sussidiarietà. In questo quadro, il nuovo PUP (l.p. 5/2008) si configura quale strumento unitario di governo e di pianificazione del territorio provinciale, attraverso il quale si definiscono le strategie e i vettori delle trasformazioni territoriali. Il PUP si pone dunque come riferimento strategico e fonte conoscitiva per gli strumenti di pianificazione generale subordinata, in particolare per quanto concerne l'individuazione delle invarianti. Il suo compito non è quello di definire le scelte dei PTC, bensì quello di indirizzarle verso obiettivi strategici comuni a tutti i territori della Provincia. Ogni PTC avrà il compito di specificare, ciascuno in base alle proprie specificità territoriali, le azioni di pianificazione e i progetti di sviluppo maggiormente adatti al proprio sviluppo, nella prospettiva del raggiungimento degli obiettivi strategici comuni posti dal PUP. In questo quadro normativo il PTC si pone verso il PUP in una relazione di complementarietà e non di subalternità. Pianificazione intermedia e Piano territoriale di Comunità (PTC) Compito dei PTC sarà quello di pianificare il territorio delle Comunità e di definire sotto il profilo urbanistico e paesaggistico le strategie per uno sviluppo sostenibile del rispettivo ambito territoriale, al fine di conseguire un elevato livello di competitività del sistema territoriale, di coesione sociale e di valorizzazione delle identità locali, attraverso un uso efficiente e sostenibile delle risorse territoriali. Ciò specificando le previsioni fatte dal PUP secondo la dotazione strutturale del territorio di riferimento, ponendo alla base della pianificazione la conoscenza e la quantificazione dei fenomeni territoriali. A sua volta tale strumento dovrà definire il quadro strategico e conoscitivo per la pianificazione comunale, in un sistema di mutuo indirizzo verso il compimento della visione territoriale definita dal PUP.


Dossier: La pianificazione

Le principali funzioni attribuite al PTC in qualità di atto di pianificazione territoriale ed urbanistica intermedio sono: - la definizione sotto il profilo urbanistico e paesaggistico delle strategie per uno sviluppo sostenibile del territorio di riferimento; - l'adozione di una Carta di regola del territorio che dovrà costituire: lo statuto della comunità locale comprendente gli elementi dell'identità dei luoghi, della carta del paesaggio e degli elementi invarianti, nel rispetto e ad integrazione del quadro conoscitivo definito dal PUP; la definizione delle regole generali di insediamento e di trasformazione del territorio; - la definizione dei criteri per il dimensionamento residenziale dei comuni; - la definizione delle regole di dimensionamento e localizzazione infrastrutturale; - l'attività di tutela paesaggistica. La redazione del PTC sarà preceduta da un accordo quadro tra la PAT, le Comunità e i Comuni dell'ambito di riferimento, al fine di coordinare gli obiettivi, le strategie e le scelte di sviluppo del sistema territoriale. L'accordoquadro di programma è uno strumento pattizio, precede la formazione del PTC e ne costituisce il presupposto. Esso è lo strumento incaricato di definire le linee strategiche di governo del territorio delle Comunità e i criteri di attuazione dei programmi e dei progetti e costituisce, nel quadro di governance, il presupposto di un'azione integrata e coordinata per lo sviluppo locale e territoriale alla quale partecipano la Provincia, le Comunità, i comuni e i soggetti privati portatori di interessi diffusi di natura socio- economica o ambientale. Il rapporto tra il PUP e i PTC è dunque un rapporto biunivoco e flessibile. Da un lato il PUP e la legge urbanistica dettano disposizioni normative strategiche e previsioni regolamentari operative valide per tutti gli strumenti di pianificazione; dall'altra si prevede che il PUP medesimo sia sottoposto ad un processo di continuo aggiornamento degli elementi conoscitivi sulla base delle specificazioni integrative e delle scelte di pianificazione effettuate sul territorio dalle singole CdV. In questo senso il PUP fa della conoscenza del territorio il motore di sviluppo, cambiamento e definizione delle strategie pianificatorie, trasferendo però sul territorio, cioè laddove la conoscenza si sostanzia, l'obbligo di definire gli specifici obiettivi di sviluppo territoriale e socio-

economico. Nel quadro dei poteri e delle funzioni delineato dalla l.p. 3/2006, il nodo centrale che lega la riforma della legge urbanistica e la revisione del PUP è dunque quello dell'individuazione di diversi livelli di pianificazione, al fine di garantire una pianificazione al contempo specifica per ambito e coordinata a livello aggregato. Il criterio della flessibilità è l'elemento strategico del nuovo PUP e si esplica sotto due profili fondamentali, che vedono da un lato la disciplina degli elementi invarianti e delle reti ambientali e infrastrutturali, e dall'altra, nell'ottica della sussidiarietà responsabile, il decentramento di una parte importante delle decisioni relative all'organizzazione del territorio e all'uso razionale delle risorse. Il coordinamento del sistema decisionale si potrà infine avvalere di nuovi strumenti e procedimenti, quali sistemi informativi e obblighi di autovalutazione dei Piani, a sostegno della verifica ex-ante della coerenza tra gli obiettivi pianificatori stabiliti a livelli di governo diversi nonché della coerenza degli stessi nei confronti dell'andamento dei fenomeni territoriali. Conclusione Dall'analisi emerge che nel nuovo panorama istituzionale ed amministrativo trentino, il piano urbanistico e territoriale si afferma quale strumento di creazione di un'idea collettiva e condivisa di territorio. È in tal senso necessario ridare al Piano (PTC in questo caso) legittimità attraverso un'attribuzione di appropriatezza degli interventi di pianificazione e di governo del territorio. L'appropriatezza è intesa come la capacità dei processi pianificatori di costruire un progetto di territorio collettivo basato sulla tutela e lo sviluppo sostenibile del territorio, e sulla valorizzazione dei vantaggi, delle invarianti e delle identità tipiche di ogni sistema territoriale. In tali processi le istituzioni pubbliche hanno come principale compito quello di dare leggi certe, soglie minime di qualità, obiettivi strategici integrati di lungo periodo; devono cioè essere la regia dei processi a geometria variabile di governo del territorio, sintesi tra gli interessi pubblici e privati, luoghi di concertazione e di tutela e valorizzazione delle identità locali e territoriali.

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Il rapporto tra il PUP e i PTC è dunque un rapporto biunivoco e flessibile. Da un lato il PUP e la legge urbanistica dettano disposizioni normative strategiche e previsioni regolamentari operative valide per tutti gli strumenti di pianificazione; dall'altra si prevede che il PUP medesimo sia sottoposto ad un processo di continuo aggiornamento degli elementi conoscitivi


Comunità e pianificazione: la nuova governance territoriale della Provincia autonoma di Trento

Fotografia di Gabriele Basilico. Fonte: Provincia autonoma di Trento

Ciò che in definitiva sembra maggiormente mancare nel processo di costruzione delle CdV è un approccio culturale ed amministrativo di area vasta, incline alla cooperazione e alla concertazione

Le CdV sono in tal senso il frutto della ricerca della dimensione ideale sulla quale organizzare i processi di governo del territorio. La rigidità dei confini amministrativi contrasta con la variabilità dei sistemi urbani e con la perimetrazione dei sistemi ambientale, naturale e paesaggistico. Il territorio è rete e sistema ed è dunque imprescindibile l'integrazione sistemica degli strumenti di governo. Da un punto di vista amministrativo sarebbe stato un errore rispondere all'esigenza di decentramento infraprovinciale con la frammentazione della funzione amministrativa nei 223 comuni dei quali la PAT era composta. In questa fase di costruzione ed autolegittimazione che le CdV stanno attraversando, la competenza a pianificare risulta strategica tanto dal punto di vista degli obiettivi che verranno raggiunti quanto per le esternalità che il processo pianificatorio potrà produrre, non ultima la creazione di una propria capacità istituzionale. In tal senso il processo di redazione dei Piani di Comunità potrà essere una scuola di costruzione culturale ed istituzionale, stimolo ad una ristrutturazione della razionalità amministrativa sia individuale che collettiva. Più di tutti infatti il processo di costruzione dei PTC sintetizza il nuovo sistema di governance sulla cui base dovrà fondarsi l'attività di governo del sistema-provincia. Nel processo di redazione dei PTC intervengono infatti tutti i livelli di governo, sulla base di strumenti flessibili, quali l'accordo quadro, che enfatizzano il passaggio da un sistema decisionale verticistico ed autoritario ad uno flessibile e diffuso. Nel processo di pianificazione potranno inoltre intervenire tutti i soggetti portatori di interessi presenti sul territorio, ponendosi così le basi per la costruzione di un capitale sociale e di un sistema di relazioni di potere diffuso. Il rischio più evidente ad oggi è quello di una mancanza di capacità e risorse tecniche, oltre ad una

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difficoltà nella concettualizzazione dei nuovi ambiti territoriali ed una scarsa abitudine alla cooperazione tra più enti e più livelli di governo. Questo potrebbe portare alla costruzione di arene decisionali chiuse e di conseguenza ad una scarsa trasparenza e partecipazione ai processi decisionali. Sembra inoltre necessario, al fine di attivare dei processi pianificatori partecipati e condivisi, superare il deficit di legittimazione e riconoscimento che le CdV stanno attraversando in questa fase di incertezza regolamentare. Ciò che in definitiva sembra maggiormente mancare nel processo di costruzione delle CdV è un approccio culturale ed amministrativo di area vasta, incline alla cooperazione e alla concertazione. Ciò sottende il bisogno di una riforma culturale individuale e istituzionale, cosa questa che contempla un orizzonte temporale lungo. Il rischio di un approccio di governance al governo del territorio è poi quello dell'eccessiva frammentazione delle competenze e della conseguente deresponsabilizzazione degli attori territoriali e rottura dei rapporti sia tra Consiglio e Giunta e tra eletti ed elettori. Nelle premesse normative le CdV hanno la potenzialità e gli strumenti per garantire autonomia di governo ed autodeterminazione di sviluppo ai sistemi territoriali di cui la Provincia si compone. In tal senso ritengo che esse abbiano la possibilità, se pienamente attuate e legittimate, di garantire il decentramento delle funzioni provinciali e l'avvicinamento del governo degli interessi pubblici al cittadino. Esse potranno in tal senso essere lo strumento per portare servizi e poteri decisionali nelle Valli, evitando così di creare, in un'era, quella globale ed informatica, in cui il limite tra inclusione ed esclusione è sempre più labile, un'antidemocratica divisione della cittadinanza in serie A e B sull'asse centro-periferia.


Dossier: La pianificazione

Comunità di valle e sviluppo locale: un binomio non scontato di Angelo Besana*

Il Trentino, regione montana e terra di transito, è riuscito in pochi decenni a vincere i vincoli imposti da tali condizioni, passando da area marginale e di emigrazione a territorio con elevati livelli di sviluppo socio-economico, come spesso testimonia il posizionamento di questa provincia nelle diverse classifiche nazionali che misurano la qualità della vita. Fattore determinante di questo particolare percorso di crescita endogena, esempio concreto della “molteplicità dei sentieri di sviluppo locale” (Bellandi e Sforzi, 2001), è stato, senz'altro, l'originale assetto politico-istituzionale di Provincia a statuto speciale. L'Autonomia ha rappresentato, infatti, una sorta di applicazione anticipata del principio comunitario di sussidiarietà, consentendo al Trentino di definire e sperimentare nel tempo un proprio modello di autogoverno, attraverso cui l'amministrazione provinciale ha potuto realizzare l'ammodernamento infrastrutturale del territorio, un'estesa rete spaziale di pubblici servizi e la predisposizione di un insieme importante di aiuti, sia diretti che indiretti, a famiglie e imprese. Nell'opinione comune, anche da parte di tecnici e studiosi, l'aspetto più significativo dello statuto speciale consiste nella possibilità da parte della Provincia di gestire direttamente la maggior parte del gettito fiscale locale, godendo così di ampi mezzi finanziari, tali da giustificarne di per sé la “sovra-dotazione” infrastrutturale e funzionale, mentre scarsa importanza è riconosciuta alla particolare “geometria” del quadro istituzionale provinciale, all'insieme di conoscenze e competenze degli apparati di questo, alla consolidata tradizione di buona amministrazione pubblica e di attiva partecipazione sociale all'organizzazione dei servizi di interesse collettivo che il “laboratorio” trentino ha saputo costruire o valorizzare, non senza comunque anche errori o inefficienze. In altre parole, nel leggere lo sviluppo socioeconomico trentino, non vi è sufficiente considerazione, o forse consapevolezza, di quanto il modello di autonomia abbia potuto contribuire concretamente alla crescita di quel fondamentale elemento propulsivo delle politiche di sviluppo locale che è definito “spessore istituzionale” (Amin e Thrift, 1995), risultante dalla combinazione di un insieme di fattori immateriali: l'interazione istituzionale, la rappresentanza collettiva, l'associazionismo civico, il senso di identità e la condivisione di norme e valori culturali, e che, in ultima istanza,

*Università degli studi di Torino

produce la valorizzazione e la crescita del capitale umano (capitale cognitivo, sociale, istituzionale, ...) di un dato contesto territoriale. Ora, l'organizzazione provinciale si trova in una fase di importante evoluzione, avendo in questi anni avviato diverse rilevanti iniziative che andranno a modificare in modo significativo la sua architettura istituzionale, e di conseguenza il suo complessivo modello di governance territoriale e le sue politiche di sviluppo. Innanzitutto, l'Euroregione Tirolo, ha deciso nel 2009 di istituire un Gruppo Europeo di Cooperazione Territoriale (GECT), con l'obiettivo dichiarato di avviare nell'ambito della cooperazione transfrontaliera diversi progetti in campo socio-economico, attraverso cui la Provincia di Trento e gli altri due lander, potranno ottenere, verosimilmente, significative economie di scala e di varietà nelle dotazioni infrastrutturali e funzionali regionali, integrandole ad altre strutture e risorse di portata europea. Rispetto all'ordinamento nazionale, invece, il cosiddetto “accordo di Milano” del 2009 ha permesso un ampliamento delle materie di competenza dell'Autonomia, comprendendovi due settori alquanto importanti in relazione alla possibilità di attuare politiche territoriali di sviluppo, in particolare a sostegno diretto dell'occupazione e della produzione di conoscenza e innovazione: quello degli ammortizzatori sociali e quello dell'università e ricerca. Oltre a questo, la Provincia Autonoma ha dato avvio ad una fondamentale riforma del proprio assetto istituzionale interno, spingendo all'estremo l'applicazione del principio di sussidiarietà, con la creazione delle Comunità di valle (LP n.3/2006), entità funzionali attraverso cui i Comuni potranno organizzare e gestire in forma associata un certo insieme di servizi fondamentali, ma soprattutto avere maggiore protagonismo nella definizione e attuazione di piani ed iniziative per la crescita dei propri territori, secondo specifiche geometrie locali, virtualmente differenti da Comunità a Comunità. L'insieme di queste innovazioni istituzionali prefigura un'organizzazione territoriale sempre più proiettata verso la visione europea di un sistema policentrico di economie regionali “forti”, in evidente anticipo rispetto al contesto nazionale ed in cui la complessiva struttura amministrativa provinciale sembra,

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Identità e cultura per la costruzione dei Piani Territoriali di Comunità

In questa visione ed allo stato attuale della riforma, non appare ben chiaro come le diverse Comunità, in particolare quelle di più ridotta dimensione, possano effettivamente acquisire dal livello centrale provinciale, ancorché gradatamente nel tempo, funzioni progettuali per l'economia locale

in particolare, mirare al rafforzamento dell'insieme di quelle risorse pubbliche che sostengono le cosiddette learning regions (Florida, 1995; Morgan, 1997), vale a dire regioni in grado di generare forme di sviluppo territoriale fondate su conoscenza e innovazione. Si tratta di regioni le cui politiche di sviluppo si fondano sull'ampliamento della base istituzionale locale, vale a dire della capacità di autorganizzazione politica attraverso la creazione di diversi livelli istituzionali; sull'estensione locale delle reti che favoriscono l'apprendimento e l'adattamento della conoscenza; sul conseguimento di “economie associative” tra imprese e settori, sia attraverso reti locali che di più ampia portata; sulla mobilitazione dell'economia sociale, la crescita del settore non-profit e della cooperazione. In questa visione ed allo stato attuale della riforma, tuttavia, non appare ben chiaro come le diverse Comunità, in particolare quelle di più ridotta dimensione, possano effettivamente acquisire dal livello centrale provinciale, ancorché gradatamente nel tempo, funzioni progettuali per l'economia locale. Infatti, da un lato, non sembra comunque possibile prescindere da un'azione di indirizzo e coordinamento delle politiche locali rispetto agli scenari nazionale e comunitario, oltre che ai rispettivi canali di finanziamento, dall'altro una dimensione relazionale strettamente localista può rischiare di precludere

un'effettiva apertura dei singoli territori ai circuiti dell'economia virtualmente globale e, quindi, non consentire la messa in valore delle rispettive risorse, soprattutto di quelle latenti. Si tratta di un rischio particolarmente importante per i sistemi minori e periferici rispetto ai poli principali dell'economia trentina, quelli in cui il turismo risulta oggi la sostanziale risorsa economica. Per il futuro di questi territori, infatti, è fondamentale iniziare quanto prima a ripensare e innovare le forme e i contenuti del turismo, ma altresì riuscire ad immaginare nuove e sostenibili vocazioni economiche, a cominciare da quelle delle produzioni energetiche, edilizie ed agroalimentari, per arrivare finanche ad altre più propriamente manifatturiere (beni per la casa, la persona ...), se non anche del terziario avanzato (ad esempio le attività medicoriabilitative o estetico-curative, di design e progettazione, artistico-creative ...). Rispetto a tali esigenze, sarebbe forse più proficuo immaginare l'istituzione di alcune agenzie di sviluppo locale (Corò e Gurisatti, 2009), a scala ancora “comprensoriale”, in grado di operare da interfaccia tra i territori locali e l'economia generale, e a cui demandare anche, ad esempio, la gestione di particolari strumenti progettuali espressamente finalizzati a promuovere coalizioni di attori locali e sovra-locali attorno a progetti autocentrati di innovazione territoriale.

Bibliografia Amin A. e Thrift N., “Globalization, Institutional Thickness and the Local Economy, in Healey P, Cameron S,. Davoudi S, Graham S e Madani-Pour A. (eds)., Managing cities: the new urban context, Wiley, London, pp. 91-108. Amin A., "Una prospettiva neo-istituzionalista dello sviluppo locale", in Sviluppo locale, vol. V, n. 8, 1988, pp. 75-94. Bellandi M., Sforzi F., “La molteplicità dei sentieri di sviluppo locale”, in Becattini G., Bellandi M., Dei Ottati G., Sforzi F. (a cura di), Il caleidoscopio dello sviluppo locale. Trasformazioni economiche nell'Italia contemporanea, Rosemberg & Sellier, Torino, 2001, pp. 41-63. Corò G. e Gurisatti P., “Le Comunità montane come agenzie per lo sviluppo locale”, in Borghi E. (a cura di), La sfida dei territori nella green economy, Il Mulino, Bologna, 2009, pp. 187-207. Dematteis G. e Governa F. (a cura di), Territorialità, sviluppo locale, sostenibilità: il modello SLoT, F. Angeli, Milano, 2005. Feralino F. e Molinari P., Neofederalismo, neoregionalismo e intercomunalità. Geografia amministrativa dell'Italia e dell'Europa, Il Mulino, Bologna, 2009. Florida R., “Toward the learning region”, in Futures, vol. 27, n. 5, 1995, pp. 527-536. Morgan G., “The learning region: institution, innovation and regional renewal”, in Regional Studies, vol. 31, n. 5, 1997, pp. 491-503. Zanon B., Pianificazione territoriale e gestione dell'ambiente in Trentino, CittàStudi, Milano,1993.

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Dossier: La pianificazione

Identità e cultura per la costruzione dei Piani Territoriali di Comunità di Cristina Orsatti*

La necessità della conoscenza Se pianificare significa in primis «conoscere ed interpretare la realtà» (Forrer, 2010) allora è necessario interpretare la realtà nella maniera più ampia possibile, affiancando alle tradizionali azioni di lettura del «reale» nuovi strumenti e pratiche di analisi territoriale. È importante, per questo motivo, addestrare i sensi: aprire occhi e orecchie, sentire, ascoltare, «esserci», osservare e testimoniare gli accadimenti e i fenomeni, in modo attento, dettagliato e antropologico. È fondamentale registrare le percezioni, documentare i fatti, verificare le indicazioni, interpretare e costruire puzzle e poi analizzarli ed esplicitarne il senso. Occorre, in sintesi, riappropriarsi di una dimensione esplorativa della ricerca e dell'analisi. Si tratta, cioè, di svolgere un'analisi antropologica che tenga conto dell'agire, dell'esistere e del dimorare nei luoghi da parte di abitanti e di comunità, esplicitandone i significati più profondi.

sperimentazione più avanzata sulla pianificazione e programmazione dei luoghi. In tali ambiti, concetti come la governance degli spazi di vita, la sostenibilità (intesa come possibilità di vita futura sulle Alpi) possono effettivamente progredire nel rispetto della cultura dei suoi abitanti nella pratica della riproduzione di territorio in scala. Lo scopo pratico di questo ragionamento è quello di facilitare l'attuazione del Piano Urbanistico Provinciale in Trentino, il quale, non a caso, si basa a livello teorico su principi di sostenibilità e sussidiarietà. Nello specifico dei piani territoriali delle comunità (PTC) il problema è quello di costruire le carte di regola e di analizzare, a partire dai principi del PUP e dalla percezione degli abitanti di valle, gli aspetti delle criticità, delle vocazioni, delle specificità dei territori per poi promuoverne lo sviluppo e la gestione sostenibili.

Il Piano Urbanistico Provinciale Il progetto di sostenibilità contenuto nel Piano Urbanistico Provinciale ha a cuore lo sviluppo locale della comunità inteso in senso antropocentrico. Il ragionamento che vorrei fare in questo contesto fa un passo oltre l'aspetto di negoziazione politica del piano che si attua attraverso la partecipazione. Considera la conoscenza “locale” alla stregua della conoscenza “scientifica” e valuta la relazione territorioabitanti-pianificazione (Magnaghi, 1998) non solo in senso politico ma anche negli apporti che la conoscenza locale (indigena) può dare alla conoscenza esperta e/o scientifica (Agrawal, 1995; Nygren, 1999; Ingold, 1995, 2000; Orsatti, 2006). Questo promuove forme di cittadinanza includente nella costruzione del territorio attraverso la mediazione scientifica e aiuta a riscoprire l'identità locale che, quando riconosciuta, può essere negoziata e regolata collettivamente in modo democratico e trasparente. Si tratta di sviluppare le questioni identitarie in funzione delle scelte di piano e della programmazione, per evitare che siano tecnicamente e metodologicamente coerenti ma estranee ai soggetti che sono chiamati ad interagire e ad attuare il piano. Lo scopo scientifico di questa progettualità è di tipo metodologico ed è quella di promuovere l'identità e la cultura sul territorio all'interno di un processo di sviluppo sostenibile, ove queste siano integrate e sostenibilmente collegate alla

Dall'identità al piano alle pratiche Rispetto al Piano, c'è anzitutto la questione della sua realizzazione che deve essere indirizzata verso una modificazione delle pratiche e delle credenze “insostenibili” (o che producono insostenibilità) e promuovendo invece la sostenibilità anche da un punto di vista sociale ed umano. Analizzare le relazioni effettive che intercorrono tra le comunità locali e l'ambiente, l'uso del suolo, le risorse, la cultura indigeno-locale-tradizionale è importante per capire le priorità della pianificazione. Come, del resto, è fondamentale riconoscere le vocazioni future del territorio e dei suoi abitanti che potrebbero già essere innovative e sostenibili rispetto alla gestione delle risorse della comunità e del suo paesaggio. Una auto riflessione su mentalità, abitudini e cultura può essere utile per produrre strategie di sviluppo e per promuovere sostenibilità rispetto ad un territorio da salvaguardare ed innovare da un punto di vista socio-economico e ambientale. Questo può essere ottenuto attraverso questo tipo di analisi, che rende esplicito ciò che tipicamente è tacito, cioè le relazioni, le percezioni, le pratiche.

*Fondazione E. Mach - Trento

Cambiare paradigma Lo sviluppo sostenibile implica un cambiamento socioculturale della relazione tra abitanti e territorio. In particolare occorre avviare la trasformazione creativa di luoghi già

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Identità e cultura per la costruzione dei Piani Territoriali di Comunità

Fotografia di Gabriele Basilico. Fonte: Provincia autonoma di Trento

È necessario uno spostamento della prospettiva del pianificare. Non sono gli oggetti architettonici che qualificano gli spazi, ma le risorse sociali e umane che li occupano che li rendono speciali

strutturati pianificati in luoghi che si pianificano e si pensano “ready made places into places in their makings” (Raffles, 2002) anche attraverso la conoscenza affezionata e intima degli abitanti sul proprio territorio. Questo implica uno spostamento della prospettiva del pianificare. Non sono gli oggetti architettonici che qualificano gli spazi, gli scenari architettonici spettacolari che rendono visibili gli spazi-città, ma le risorse sociali e umane che li occupano. Sono le relazioni invisibili fra persone, abitanti, cittadini a connotare qualitativamente gli spazi rendendoli abitabili, attraverso pratiche sociali, economiche, ambientali che accadono quotidianamente ma che noi non siamo addestrati a vedere: un parcheggio può diventare un luogo d'incontro per immigrati, una strada può diventare un mercato, un centro disabitato una comunità di artisti, uno spazio può trasformarsi da pericoloso ad accogliente quando riabitato da gente in festa. Dove la pianificazione mette ordine, l'antropologia mette disordine, cioè guarda al disordine come a un ordine “altro”, ma è l'interazione fra i due approcci che è geniale. Cioè le analisi quantitative non riescono a cogliere il disordine e neanche il cambiamento. Dunque cambiare il paradigma vuol dire cambiare il modo in cui si vede e si analizza il territorio. Si parte, per questo, da un concetto di cultura e identità come incorporate e da una visione fenomenologica incorporata di cultura, identità (Ingold, 1995; Csordas, 1994), che si riferisce al costruttivismo epistemologico di Haraway (1988). E ci si orienta verso lo studio delle relazioni tra abitanti e territorio attraverso le osservazioni situate, l'analisi delle storie e l'osservazione delle abilità messe in atto sul territorio dagli abitanti per adattarsi a quell'ambiente specifico - montano, nel caso trentino - attraverso il movimento, la performance (Ingold, 2007: 5).

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Identità, cultura e prospettive sulla sostenibilità delle comunità Ad oggi la percezione dell'ambiente non fa ancora parte del “quadro” di conoscenze che è valutato per programmare, pianificare, realizzare e implementare la sostenibilità almeno da un punto di vista di partenza antropologico. La “cultura”, “l'identità'” in relazione ad un territorio, i suoi abitanti e il loro dimorare (Ingold, 1995), non sono valutate ai fini dello sviluppo sostenibile di un'area. La pianificazione urbana è relativamente collegata alle problematiche ambientali e poco collegata agli aspetti sociali, culturali dello sviluppo. I parametri per valutare, misurare la sostenibilità o di rigenerazione di un'area sono facilmente identificabili in dati quantitativi post ante. Se sono qualitativi ex ante sono specifici, basati su statistiche di tipo socio-economico, o indicatori ambientali, secondo dove è fatta la valutazione della cornice istituzionale, politica, geografica. Anche quando ci sono forme di partecipazione ai piani la partecipazione è spesso scollegata o poco collegata a forme di conoscenza locale ed “esperta”. Il “quadro” di conoscenze sul territorio è studiato ma nella pratica politica fa ancora parte di un processo di negoziazione di interessi che è implicito e basato sulle relazioni di potere di chi negozia. Queste problematiche e modi di analizzare e valutare la realtà oggettiva e percepita riducono e ostacolano una visione condivisa di sviluppo sostenibile “collettiva” (Orsatti 2006). Identità e cultura sono difficili da “misurare” (Fusco Girard, Lombardi, 1999) e non possono essere misurati nello stesso modo in cui gli aspetti fisici ambientali sono misurati. Possono però essere documentate. Peraltro, l'antropologia analizza i criteri attraverso cui le misure sono costruite. Quindi è un'ottima garante di oggettività. Per questo un approccio antropologico alla pianificazione e al processo


Dossier: La pianificazione

decisionale è utile, giacché fornisce quegli strumenti per esplorare il territorio e “misurarlo” che altre discipline non hanno. L'uso delle risorse, dello spazio e del suolo sono legati al senso d'identità e alla cultura del luogo, e agli interessi dei diversi “stakeholders” sul territorio che, se esplicitati, organizzati e negoziati diventano parte di un progetto democratico, trasparente, comune e collettivo sulla sostenibilità. Conoscerle aiuta la pianificazione e il decision making a fare delle scelte rispettose del contesto - anche quello socioculturale - ad incoraggiare certe pratiche o a fornire gli strumenti per cambiarle se alla base di certe abitudini è riprodotta l'insostenibilità. Rispetto alle questione identitarie e culturali è necessario dare cittadinanza epistemologica alla conoscenza indigena e intima degli abitanti di un luogo (ma anche alla conoscenza esperta) senza dimenticarsi della sostenibilità del pianeta come una necessità legata al tempo che scorre e alle risorse che si consumano. Le strategie di ascolto nella pianificazione e partecipazione pubblica sono interessanti per capire il progetto della comunità, ma poi è necessario capire in un'intervista se quello che viene detto è vero, falso, se la risposta data è normativa. L'apparenza a volte inganna, le cose spesso sono diverse da come appaiono. Risulta dunque importante l'analisi tra le persone, ciò che viene detto e il contesto. C'è differenza tra ciò che la gente «dice», «dice di fare», e «fa». Qui le abilità dell'antropologo sono molto importanti per misurare quello che viene detto e fatto, le coerenze, le incongruenze (int. S. Green in Orsatti, 2006; Green, 2005). L'antropologia come pratica di conoscenza Le pratiche antropologiche hanno una logica diversa dalle logiche politiche e pianificatorie top-down o di modellizzazione dei comportamenti bottom-up: sono più organiche, più opportunistiche, più consapevoli. Gli antropologi guardano alle relazioni fra la gente senza fidarsi delle formule. Altre discipline rispetto all'antropologia, come l'ecologia umana e la sociologia tendono a categorizzare ciò che analizzano: c'è un ambiente, una natura, una

cultura, un paesaggio e usano queste categorie per analizzare le loro relazioni. Un'analisi antropologica può aiutare a comprendere in che modo uomini e donne costruiscono paesaggi, ambienti e territori, nella quotidianità delle loro pratiche locali ed esperte (Ingold, 1995, 2003). L'antropologia può aiutare a investigare, in modo reale e concreto, le relazioni tra gli uni e gli altri, a capire i processi di identificazione con il proprio territorio, le esperienze che abitanti, cittadini e comunità vivono. Può facilitare la comprensione della cultura tacita che regola pratiche e relazioni, i legami affettivi, gli habitus identitari osservando come la cultura si esprime nelle relazioni e nelle pratiche di tutti i giorni. L'antropologia non va da “a” a “b” secondo un modello lineare come può fare un pianificatore o un decision maker. Anche i pianificatori sanno che c'è sempre un elemento di disturbo, del “rumore” in un piano o nell'applicazione di una politica (int. S. Green ibidem). Per quanto gli ingegneri possano tracciare sentieri (utilissimi peraltro) i filosofi pensarli e la gente percorrerli, occorre tener conto che la gente va dove ha voglia di andare e dove può andare, tracciando dei percorsi più comodi e più brevi. Come potrebbe essere diversamente? Pensiamo ai tracciati su un prato di un parco, alle scorciatoie. Questi non erano stati “pianificati”, però sarebbe stato possibile osservarli prima di pensarli. In ogni piano urbanistico o paesaggistico rimane quello che gli esperti definiscono «il rumore». Ed è su questo rumore che l'antropologo lavora. Peraltro è il locale – nel momento in cui la cultura è situata (Low, 2003) e consapevole – che dà la misura delle relazioni, mentre il globale è senza confini e dunque è «senza misura», come racconta Strathern (1995). Il globale non corrisponde a un'altra scala rispetto al locale perché è anch'esso prodotto localmente ma divulgato secondo modi di distribuzione di una certa tecnoscienza (Haraway, 1988, 1995). Per questo sono necessarie serie riflessioni sull'identità, sul modo di conoscere la realtà e conseguenti implicazioni politiche e pratiche per abitanti, comunità e territori.

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L'antropologia non va da “a” a “b” secondo un modello lineare come può fare un pianificatore o un decision maker. Anche i pianificatori sanno che c'è sempre un elemento di disturbo, del “rumore” in un piano o nell'applicazione di una politica

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L'enigma del paesaggio nel Piano Territoriale della ComunitĂ di Alessandro Franceschini

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Dossier: Il progetto

Il paesaggio: una «parola passepartout» in cerca di progettualità «Il paesaggio – scrive Martin Schwind (1950) – è come un'opera d'arte ma molto più complessa: un pittore dipinge un quadro, un poeta scrive una poesia, ma tutto un popolo crea il suo paesaggio». Si tratta di una costruzione collettiva, non autoriale, estremamente importante perché è il mezzo attraverso il quale la società locale costruisce il grande contenitore della sua cultura che «reca l'impronta del suo spirito». Questa definizione, una delle più belle con cui il concetto di paesaggio sia stato mai descritto, raccoglie in una sintesi esemplare, la complessità del rapporto che s'instaura tra la società locale e il paesaggio che la circonda. Un rapporto che non è solo unidirezionale: il paesaggio contribuisce a costruire l'identità di una comunità e la comunità stessa costruisce, a sua volta, il paesaggio in una costante dialettica. Tra le sfide a cui devono rispondere le nuove Comunità previste dalla riforma istituzionale del Trentino, nella redazione del loro strumento urbanistico, il Piano Territoriale della Comunità, certamente quella del paesaggio è la più difficile ma anche la più stimolante. Perché il paesaggio è l'elemento che più di ogni altro «parla» della Comunità e dentro il quale essa stessa può riconoscersi e progettare il proprio futuro. Allo stesso tempo, però, questo aspetto della pianificazione è anche quello più enigmatico e quindi suscettibile di fraintendimenti e di incomprensioni. La stessa Convenzione europea del Paesaggio definisce questo concetto come quel qualcosa che «designa una determinata parte del territorio, così come è percepita dalla popolazione, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni». Il soggetto della comunità (popolazione) che percepisce il suo intorno rappresenta la novità del documento europeo che, per la prima volta, lega in unica definizione, la comunità locale e il suo intorno naturale e antropizzato. Ma si tratta di una scommessa non scevra da rischi e da ambiguità. «Paesaggio – sostiene il geografo Franco Farinelli (2003) – è diventata una parola passepartout». Ovvero è diventata una parola che apre molte prospettive sull'aperto senza avere la forza di essere strumento chiaro di interpretazione. Questa ambiguità è dovuta, secondo lo studioso, alla Convenzione stessa, che di fatto sostituisce le parole “territorio” e “ambiente”, che per molti decenni erano servite per descrivere efficacemente l'intorno in cui l'uomo vive, con il concetto di paesaggio. Ma il paesaggio, proprio perché viene percepito e non può essere misurato, rappresenta anche un grande rischio per la salvaguardia dell'intorno naturale. La grande scommessa sottesa alla Riforma istituzionale e alla seconda Revisione del Piano Urbanistico Provinciale è certamente quella del rafforzamento del senso identitario delle

comunità introdotte dalla riforma istituzionale. Sia il tema del «paesaggio» sia quello della «sussidiarietà», principi cardine su cui si regge la filosofia del piano, sono estremamente legati all'idea di preservazione dell'identità locale che, soprattutto in un tempo come il nostro sul quale pesa il fantasma della «globalizzazione selvaggia», rappresenta la sfida sostanziale delle politiche messe in atto dalla Provincia autonoma di Trento. Tuttavia non sarà più sufficiente, come è stato fatto in passato, relegare il paesaggio nella rassicurante azione della Tutela. Questo strumento, infatti, non sempre è riuscito ad essere efficace perché considera il paesaggio non come un processo vivo ma come uno stato di fatto che non può evolvere. Occorre invece mettere il paesaggio dentro il «concept» dei progetti – grandi e piccoli – che riguardano il territorio, consentendo così una trasformazione consapevole del contesto in cui la comunità vive. La tutela del paesaggio nei Piani urbanistici provinciali del 1967 e del 1987 La presenza del “paesaggio”nell'ambito degli strumenti di pianificazione inizia, per la Provincia di Trento, con l'elaborazione del Piano urbanistico provinciale all'inizio degli anni Sessanta. Le ipotesi progettuali elaborate dall'urbanista veneziano Giuseppe Samonà e dalla sue équipe e che si avvaleva della visione politica dell'allora presidente delle Provincia Bruno Kessler, si possono riassumere in tre prospettive: il riequilibrio territoriale e socioculturale tra città e campagna allo scopo di neutralizzare le attrattive dell'area centrale lungo l'asta dell'Adige, in particolare dalle città di Trento e Rovereto; l'aumento dell'occupazione per compensare l'esodo agricolo, tenendo anche conto di un auspicato rientro dell'emigrazione extra-provinciale, mediante lo sviluppo delle attività terziarie e industriali diffuse sul territorio; la difesa dell'ambiente naturale con la valorizzazione delle risorse fisiche locali, in particolare con funzione di supporto al turismo, attraverso un sistema di promozione dello sviluppo edilizio e l'istituzione di due parchi naturali. La tutela del paesaggio rappresenta, in particolare, una delle grandi innovazioni presenti in questo strumento urbanistico e con esso la Provincia di Trento inizia di fatto ad esercitare una delega su questa materia che le apparteneva fin dallo Statuto di Autonomia del 1948 ma che, in precedenza, non aveva potuto istruire. Fin dagli anni Cinquanta, infatti, fu evidente il particolare pregio del paesaggio trentino che doveva essere difeso dalle pressioni di sviluppo presenti a partire dal primo dopoguerra. Il piano di Samonà «si propone di operare abbandonando il criterio di bellezza naturale o paesistica e attribuendo invece all'ambiente naturale un contenuto più autentico e moderno inserendovi, oltre alle singolarità naturali per cui gran parte del Trentino è celebrato nel mondo, anche tutto ciò che di un

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«Il paesaggio – scrive Martin Schwind – è come un'opera d'arte ma molto più complessa: un pittore dipinge un quadro, un poeta scrive una poesia, ma tutto un popolo crea il suo paesaggio»


L'enigma del paesaggio nel Piano Territoriale della Comunità

Il concetto che sta alla base della costruzione della seconda revisione del Pup entrato in vigore nei primi mesi del 2008, è quello di «paesaggio»: un tema visto non solo come qualcosa da tutelare ma come un'occasione di progetto e di sviluppo

territorio è opportuno conservare e valorizzare in quanto testimonianza concreta di valori di civiltà; e cioè oltre alle infrastrutture insediative integrate nell'ambiente, le opere di coltura agraria e quelle di infrastrutturazione del territorio» (Zanon, 1993). Nel piano urbanistico il paesaggio è inteso come unità inscindibile tra territorio storico urbanizzato e territorio naturale. L'obiettivo della tutela è quello di limitare la dispersione edilizia, salvaguardando la chiarezza dell'impianto insediativo, e valorizzare le bellezze naturali presenti sul territorio. «Si è ritenuto – scrivono gli autori del piano – che fossero meritevoli di essere tutelati quei settori naturali o trasformati dall'opera dell'uomo, che presentavano singolarità geografiche, florifaunistiche, ecologiche, di cultura agraria, ovvero che costituivano strutture insediative, urbane o non urbane, di particolare pregio per i loro valori di civiltà e che si integravano con l'ambiente naturale circostante, nonché quelli che per la loro bellezza erano o potevano essere apprezzati come luoghi di particolare attrazione turistica» (definizione poi ripresa nella legge provinciale del 6 settembre 1971, nr. 12). Per l'attivazione delle procedure di tutela, il piano prevedeva il rinvio ad una apposita legge che venne approvata nel 1971. L'esperienza di pianificazione a scala provinciale è poi proseguita nel 1987 con la prima revisione generale dello strumento urbanistico, passando da un piano teso a promuovere l'espansione ad uno finalizzato alla tutela e alla salvaguardia dei valori ambientali dentro ad una visione strategica di valorizzazione turistica del territorio. Nei vent'anni trascorsi dal progetto di Samonà sono cambiate molte cose. Il boom economico degli anni Sessanta aveva sortito anche in Trentino i suoi effetti; la presenza dell'Università era diventata sempre più strutturata e in grado di attirare studenti provenienti da molte zone d'Italia; il sistema turistico aveva subìto un grande impulso diventando uno dei motori economici della provincia. In particolare si riteneva concluso il ciclo dell'abbandono delle aree periferiche e il Trentino si proponeva come un'area pienamente integrata con quelle più sviluppate del nord Italia. Ma vi furono anche degli eventi traumatici nel frattempo: in particolare la “Strage di Stava”, (la grande colata detritica avvenuta nel 1985 in Val di Fiemme e che portò la morte di 265 persone), confermava come l'ambiente naturale nel quale gli insediamenti erano inseriti fosse molto fragile e potesse diventare, se piegato alla speculazione industriale ma anche edilizia, incontrollabile e pericoloso. Il nuovo Pup – firmato da Franco Mancuso – assume nel quadro provinciale degli anni Novanta il principio sulla base del quale lo sviluppo economico e sociale non può essere identificato come un consumo crescente di suolo, vale a dire con una espansione indefinita degli abitati e

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degli insediamenti produttivi. L'urbanista sostituisce al concetto di «città in estensione» di Samonà la necessità di rimettere ordine all'«insediamento esteso» che nel corso degli anni Settanta si era andato a formare, ricomponendo le nuove periferie e recuperando i centri storici, riordinando il territorio aperto nelle sue varie componenti, valutando le differenze tra città e campagna come dati da riconsiderare nel loro effettivo valore. La grande novità del piano è costituita dalle carte del «Sistema ambientale» (che si affiancano a quelle più tradizionali del «Sistema insediativo» e a quella del «Sistema infrastrutturale») dove confluiscono tutte le indicazioni e i vincoli che hanno a che fare con la tutela e la protezione del territorio. Il piano considera il paesaggio come una componente indissolubile dell'azione urbanistica generale e individua planimetricamente sia singoli «beni ambientali» (naturalistici, paesistici e culturali), sia gli insieme di tali beni costituenti «unità ambientali». Il Piano «intende classificare tutto il territorio provinciale come meritevole di tutela, pur precisando alcune aree di particolare delicatezza da gestire secondo modalità rigorose per le quali si esplicitano non solo le motivazioni del vincolo ma anche i modi di intervento attraverso i “criteri per l'esercizio della tutela ambientale negli ambiti considerati dalla normativa del Pup» (Zanon, 1993). Questo processo colma di fatto un “buco” normativo: i modi di intervento superano finalmente l'ampia discrezionalità dei precedenti strumenti (che affidavano ai professionisti e ai tecnici una fiducia eccessiva) e riportando in buona misura la valutazione delle richieste ad un fatto di legittimità e non di opportunità. Il paesaggio nel Piano urbanistico provinciale del 2008 Il concetto che sta alla base della costruzione della seconda revisione del Pup entrato in vigore nei primi mesi del 2008, è quello di «paesaggio»: un tema visto non solo come qualcosa da tutelare ma come un'occasione di progetto e di sviluppo. Non a caso il Pup è contemporaneamente un piano a valenza paesistica, così come stabilito dalle normative nazionali. E non a caso la cartografia di piano si arricchisce, per la prima volta, di tavole di lettura e interpretazione del paesaggio. Questa enfasi sul paesaggio è giustificata da una visione moderna di questo concetto inteso qui non solo come aspetto estetico ma come «contenitore di valori condivisi». La Legge urbanistica provinciale (4 marzo 2008, n. 1) prevede, all'articolo 13, che «al fine del riconoscimento e della tutela dei valori paesaggistici la Carta del paesaggio e le relative linee guida, previste dal piano urbanistico provinciale, forniscono l'analisi e l'interpretazione del sistema del paesaggio, inteso come sintesi dell'identità e delle invarianti che gli strumenti di pianificazione territoriale utilizzano come ausilio nella definizione delle


Dossier: Il progetto

scelte di sviluppo e nella conseguente valutazione della sua sostenibilità e dell'equilibrio territoriale» (comma 1). Nell'articolo 67, nel primo comma, si scrive inoltre che «la Provincia, nell'esercizio della propria competenza legislativa primaria in materia di tutela del paesaggio, esercita questa tutela in coerenza e in attuazione del Piano urbanistico provinciale, quale piano avente valenza di piano urbanistico territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici (…)». La Carta del Paesaggio contenuta nel Piano urbanistico in vigore, rappresenta un'evoluzione della carta del Sistema Ambientale prevista nella precedente versione dello strumento urbanistico. L'obiettivo del piano è quello di introdurre il concetto di «paesaggio» come elemento strutturante il processo di pianificazione e di tutela. La Carta del Paesaggio «risponde alla necessità di permettere di intervenire più correttamente nel paesaggio sia urbanisticamente che architettonicamente grazie alla conoscenza dei caratteri identitari. (…) Questa carta nasce inoltre con la conoscenza dei propri ambiti e limiti che riguardano la scala provinciale e che riservano alle scale inferiori, di comunità e comunale, le necessarie precisazioni e i dettagli» (Ferrari, 2007). Nel Piano urbanistico è prevista la suddivisione del territorio provinciale in ambiti elementari. Questi corrispondono allo «stato di fatto». Ovvero perimetrano i territori omogenei, caratterizzati da una uniformità dell'uso del suolo sia esso articolato in edifici già costruiti che in aree edificabili già previste nei piani regolatori comunali o nei piani urbanistici di settore oramai approvati. Queste aree elementari (urbanizzate, agricole, produttive, rurali…) sono state successivamente riaggregate in cinque grandi categorie che per le loro complessità ed articolazioni possiamo definire anche «sistemi». Questa riaggregazione «rappresenta, in sostanza, la novità della Carta del Paesaggio del nuovo Pup, perché tenta una sintesi tra urbanistica e paesaggio. (…) L'esigenza di un processo di aggregazione, di fusione e di nuova unità, nasce proprio dalla consapevolezza che la zonizzazione urbanistica ha portato, se non alla separazione del paesaggio, alla sua frantumazione in una miriade di pezzi, privi di significato» (Ferrari, 2007). I singoli ambiti e i singoli sistemi sono stati identificati sulla base di discontinuità di segni presenti sul territorio: da una campagna ad un fiume, dal limite dell'edificato alla montagna. Si tratta, tuttavia, di un limite indefinito che vuole ricordare «che nel paesaggio tutto si compenetra e che proprio il margine rappresenta un momento di crisi, di mutazione che va indagato in modo approfondito» (Ferrari, 2007). Oltre a questa divisione in aree omogenee diversamente incrociate, la Carta del Paesaggio presenta anche due segni, due limiti. Uno, rappresentato da una linea rossa, identifica un fronte di paesaggio storico o naturale di particolare significato; un altro, rappresentato da una linea nera, segnala invece il punto di «non ritorno», ovvero il limite

all'edificazione che, superato il quale, «si deformerebbe irreversibilmente il paesaggio tradizionale ancora presente». La Carta del Paesaggio, quindi, non ha «solo letto e catalogato i paesaggi identitari, ma li ha anche valutati in base alla loro qualità percettiva e al loro ruolo territoriale. Ora conosciamo non solo la quantità del paesaggio rurale ma anche la sua qualità, dove è collocato, quale immagine emotiva trasmette del Trentino, qual è il suo ruolo territoriale in relazione anche al mantenimento dell'identità» (Ferrari, 2007). Il paesaggio dentro questo strumento cartografico è rappresentato nei seguenti tematismi: - gli ambiti elementari, ovvero: insediamenti storici, aree urbanizzate, aree produttive, cave, aree agricole, pascoli, boschi, rocce, fiumi – torrenti – laghi, fasce di rispetto laghi, ghiacciai. - le unità di paesaggio percettivo, ovvero insiemi territoriali che appaiono come unitari e compiuti; - i sistemi complessi di paesaggio, suddiviso a sua volta in «paesaggio di interesse edificato tradizionale e centri storici», «paesaggio di interesse rurale», «paesaggio di interesse forestale», «paesaggio di interesse alpino», «paesaggio di interesse fluviale». Più che una ricostruzione rigorosa e rigida del Trentino secondo classificazioni paesistiche, queste carte contengono una serie di elementi grammaticali e relazioni fra essi che dovranno essere sviluppati e implementati nei piani sott'ordinati. «Dalla lettura – si legge nella relazione illustrativa (Allegato A) del Pup – di quest'insieme di segni, forti e fragili, antichi e moderni, naturali e artificiali, si ricavano indicazioni metodologiche che dovranno essere applicate e sviluppate nei piani locali. La ricerca sul paesaggio nasce dunque come presa di conoscenza dell'esistente e si concretizza in una serie di atti responsabili per garantire la sostenibilità, le permanenze e l’identità». Il paesaggio nel Piano di Comunità tra l'immagine visiva e l'identità Fra gli «Obiettivi e contenuti del piano territoriale della comunità» (art. 21), al punto b, la Legge urbanistica provinciale prevede che il piano contenga, tra le altre cose, «l'approfondimento e l'interpretazione della carta del paesaggio delineata dal piano urbanistico provinciale con riguardo all'ambito territoriale della comunità». Il Piano territoriale della Comunità, spiega la legge, deve essere un'occasione per approfondire e delineare con maggiore precisione e puntualità i contenuti della Carta del Paesaggio. L'operazione non è, come potrebbe apparire, un semplice aggiornamento cartografico teso alla definizione di limiti e di bordi. Per tre ordini di problemi: - le mutazioni del paesaggio raramente avvengono improvvisamente ma sono spesso caratterizzate, nei margini, da una compresenza di paesaggi diversi di cui diventa difficile

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Il paesaggio è un processo che si percepisce anzitutto visivamente


L'enigma del paesaggio nel Piano Territoriale della Comunità

stabilirne la priorità; - il Piano urbanistico provinciale non chiarisce nel dettaglio l'approccio metodologico che ha portato alla redazione della Carta del Paesaggio le cui campiture si devono, non tanto allo soddisfacimento di criteri di analisi, quanto piuttosto all'abilità e alla sensibilità descrittiva di chi ha redatto il documento urbanistico; - il paesaggio è per sua natura un processo e quindi può cambiare in pochi anni e non corrispondere più rigidamente alla classificazione messa a punto nella Carta del Paesaggio, presente nel Piano urbanistico provinciale. La redazione della Carta del Paesaggio per il Piano della Comunità deve essere allora l'occasione per definire meglio le peculiarità del paesaggio partendo dalle due declinazioni con cui può essere letto l'intorno. Tuttavia sarà necessario aggiungere alcune conoscenze, alcuni strumenti alla «cassetta degli attrezzi» con cui normalmente l'urbanistica opera sul territorio, in particolare per quanto riguarda la lettura del paesaggio inteso sia come fenomeno «visivo» sia come manifestazione «identitaria», nella prospettiva dell'integrazione dei saperi specialistici e degli approcci (Zanon et al., 2007)

L’identità può essere definita come quell'insieme di credenze, di atteggiamenti, di interessi e di valutazioni attraverso cui l'individuo definisce se stesso, unitamente alle emozioni, ai comportamenti e ai valori ad essi legati

Per quanto riguarda la prima (si veda, a tal proposito Zanon e Franceschini, 2009) occorre affermare che il paesaggio è, per l'appunto, un processo che si percepisce anzitutto visivamente. La percezione dell'intorno, infatti, è generalmente definita da una mediazione culturale dei nostri organi di senso (vista, olfatto, tatto, udito), ma in un contesto segnato da una qualità – come il Trentino – il senso della vista prende il sopravvento. Attraverso la percezione visiva il paesaggio si rivela carico di significati: è questo «meccanismo della percezione come atto di significazione» che deve essere indagato, e «poiché nella percezione sensoriale quella visiva è sicuramente la più importante per la significazione, è soprattutto sul paesaggio visivo che l'indagine deve focalizzarsi» (Socco, 1998). Per la comprensione del fenomeno occorre risalire agli psicologi della Gestalt (Wertheimer, Koffka, Kholer) che hanno dimostrato come la percezione sia un processo olistico in cui «il tutto è più della somma dei singoli elementi». Ad esempio, M. Wertheimer (1958) identifica delle «leggi di raggruppamento», ovvero regole di organizzazione percettiva valide a condizione che le altre caratteristiche siano uguali: due o più elementi, a parità di tutte le altre caratteristiche, sono percepiti come un unico raggruppamento se sono legati per il fattore specificato. Va inoltre ricordato anche l'apporto di J. Gibson (1950), nell'ambito della scuola tedesca, che codificò il funzionamento dei cosiddetti “artifici sensoriali scalari”, relativamente alle configurazioni delle impressioni visive che si accompagnano alla percezione della profondità su una superficie.

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I metodi e gli strumenti a disposizione per l'analisi visiva ruotano in generale attorno alla mappatura dei diversi caratteri (termine descrittivo distinto da 'qualità', che comporta anche significati normativi) in base alla morfologia, alla copertura del suolo, ai beni storico-culturali ed agli insediamenti, alla visibilità rispetto ai punti di vista prevalenti. Alcune metodologie combinano la lettura del paesaggio visivo con l'ecologia del paesaggio, impiegando lo sguardo per cogliere le dinamiche ecosistemiche ed integrarle nella visione di insieme (Romani, 1994). Per quanto riguarda i valori estetici del paesaggio naturale, vanno segnalati alcuni metodi elaborati nell'ambito delle discipline forestali e agronomiche e gli esiti di ricerche più recenti (Ode, Tveit, Fry, 2008), che tracciano un quadro degli indicatori del carattere visuale del paesaggio. Altri metodi ancora offrono un lessico per descrivere le modalità della visione (ad es: Grinde, Kopf, 1986; Swanwick, 2002). Vanno infine segnalate anche quelle esperienze che, pur con finalità più ampie, fanno uso di metodi formalizzati di lettura visiva del paesaggio: il Landscape Character Assessment in Gran Bretagna (Swanwick, 2002), gli Atlanti dei paesaggi in Francia, Spagna ed in altri paesi (Brunetta, Voghera, 2008), ma anche alcuni piani paesaggistici in Italia, che variamente inseriscono elementi di lettura visiva. Tale processo, come raccomandato dalla già citata Convenzione Europea, deve essere trasparente ed includere forme di coinvolgimento della popolazione, in quanto si associano ai valori intrinseci del paesaggio quelli estrinseci, attribuiti entro un processo sociale. Per quanto riguarda invece la lettura “identitaria”, è necessario partire dal concetto di identità che può essere definito come quell'insieme di credenze, di atteggiamenti, di interessi e di valutazioni attraverso cui l'individuo definisce se stesso, unitamente alle emozioni, ai comportamenti e ai valori ad essi legati. Essa «consiste in una rappresentazione delle caratteristiche che una persona ritiene di possedere, che sviluppa nel corso delle diverse fasi della vita e che matura sulla base sia dell'esperienza sia degli eventi sociali con cui ha occasione di confrontarsi. Può considerarsi, quindi, un costrutto che funge da mediazione tra il soggetto, il suo mondo psicologico e l'ambiente esterno» (Migliorini, 2001). Le teorie sulla formazione dell'identità sociale che sono state codificate negli ultimi decenni (Palmonari, 1989; Deaux, 1996) si muovono nella direzione tesa a distinguere tra la formazione dell'identità personale (che rappresenta la parte più soggettiva, individuale legata alle esperienze che connotano il soggetto nella sua unicità), l'identità relazionale (che è quella che si forma dalle interazioni con altri individui e nelle relazioni interpersonali con altri soggetti specifici) e, infine, l'identità collettiva (che caratterizza il far parte di un gruppo più ampio


Dossier: Il progetto

ma meno specifico). Particolarmente interessante per il tema della «Comunità» trentina è però l'identità intesa come identificazione con l'ambiente fisico-temporale. Gli studi sull'identità del luogo (Proshansky, 1978), sul senso del luogo e del radicamento (Relph, 1976, Buttimer, 1980; Tuan, 1980), sulla dipendenza dal luogo (Stokols, 1981), e sull'attaccamento al luogo (Altman, 1992), possono fornire delle letture stimolanti per comprendere il rapporto tra identità individuale e contesto geografico. Alcuni studiosi di scuola prevalentemente anglosassone che fanno riferimento al «materialismo storico» (Daniels, 1989), hanno ripreso il concetto del Paesaggio Culturale, caricandolo di nuovi significati. Così per Denis Cosgrove, il capofila di questo gruppo, il paesaggio è «un'idea», un modo di vedere, una sofisticata e precisa «ideologia visuale» in quanto capace di rappresentare «il modo in cui certe classi di persone hanno significato se stesse ed il loro mondo attraverso la loro relazione immaginata con la natura, e attraverso cui hanno sottolineato e comunicato il loro ruolo sociale e quello degli altri rispetto alla natura esterna» (Cosgrove, 1990). Per questo gruppo di ricercatori, non è sufficiente analizzare il paesaggio solo nei suoi aspetti “visivi”, quelli cioè legati alle componenti fisico–naturaliste e storico–sociali, connesse alla «cultura materiale del gruppo che l'ha formato». Sono invece i valori, le rappresentazioni ed i significati che ricoprono e si sovrappongono agli aspetti strutturali – gli elementi naturali e le attività economiche – che, secondo questo modo di interpretare, devono essere considerati, quali elementi portanti delle analisi del paesaggio. Eloquente al riguardo è la definizione di paesaggio elaborata dallo stesso Cosgrove che risulta composto da tre elementi: «i caratteri fisici e tangibili di un'area... le attività misurabili dell'uomo; i significati o simboli impressi nella coscienza umana». È appunto la terza dimensione, il significato simbolico, che interessa chi si trova a

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lavorare sul Piano Territoriale della Comunità. Occorre, quindi, interrogarsi su questo aspetto, ed in particolare sui significati ed i simboli che la cultura ha impresso sul territorio. Tutti e tre questi elementi - lo scenario fisico, le attività ed i significati - sono inseparabilmente intrecciati nelle nostre esperienze, sono in stretta relazione tra loro in quanto «esprimono, ma anche sono espressione, sia del palinsesto dei valori passati sia del dispiegarsi dei valori attuali» (Cosgrove, 1990). Come nota infine Eric Dardel, «piuttosto che essere un contrappunto di dettagli pittoreschi, il paesaggio è un insieme: una convergenza, un momento vissuto. Un legame interno, una “impressione”, unisce tutti gli elementi» perché «il paesaggio presuppone una presenza dell'uomo, anche là dove essa prende la forma dell'assenza. Essa parla di un mondo in cui l'uomo realizzava la propria presenza come esistenza circospetta e indaffarata» (Dardel, 1986).

Non basterà accontentarsi della realizzazione di una buona carta di interpretazione. Il paesaggio dovrà essere il pretesto per contemplare e prevedere progetti di sviluppo e di valorizzazione della comunità locale, camminando sull'equilibrio teso tra il mantenimento della tradizione e la ricerca dell'innovazione.

Una tutela che necessita progetti L'emozione della grande veduta, la sicurezza di un ambiente familiare, il rispetto dell'estetica naturale ed artificiale, il prendersi cura dell'intorno, i segni sedimentati sul territorio, la contemplazione della memoria, l'impegno per il riconoscimento e la trasmissione della tradizione, l'identificazione dei valori del luogo: sono questi alcuni dei temi che devono diventare operativi nella costruzione della Carta del Paesaggio della Comunità. Le indicazioni dell'omonima carta dello strumento sovraordinato, infatti, devono essere l'occasione per un serio approfondimento sugli aspetti visivi ed identitari dell'intorno che caratterizza la Comunità. Ma non basterà, ovviamente, accontentarsi della realizzazione di una buona carta di interpretazione. Il paesaggio dovrà essere il pretesto per contemplare e prevedere progetti di sviluppo e di valorizzazione della comunità locale, camminando sull'equilibrio teso tra il mantenimento della tradizione e la ricerca dell'innovazione. Perché, come sosteneva Oscar Wilde, «la tradizione è una innovazione ben riuscita».

paesaggio: l'invenzione delle Dolomiti”, in Salerno R., Casonato C. (a cura di), Paesaggi culturali, Gangemi editore, Roma. Gibson J. (1999), Un approccio ecologico alla percezione visiva, il Mulino, Bologna. Grinde K., Kopf A. (1986), Illustrated glossary, in: Smardon R.C., Palmer J., F., Felleman J.P., Foundations for visual project analysis, John Wiley & sons, New York. Hamilton K., Selman P. (2005), “The 'Landscape Sclae' in Planning: Recent Experience of Bio-geographic Planning Units in Britain”, Landscape Research, Vol. 30, No 4, 549-558. Migliorini L., Venini L., (2001), Città e legami sociali, Carrocci editore, Milano. Ode A., Tveit M. S., Fry G. (2008), “Capturing Landscape Visual Character Using Indicators: Touching Base with Landscape Aesthetic Theory”, Landscape Research, Vol. 33, No. 1, 89 – 117. Palmonari A. (1989), Processi simbolici e dinamiche sociali, Il Mulino, Bologna. Proshansky H. M., (1978), “The city and self-identity”, in Environmental and Behavior, 10. Relph E. (1976), Place and Placelessness, Pion Limited, London. Romani V. (1994), Il paesaggio. Teoria e pianificazione, Milano, F. Angeli. Scazzosi L. (2004), “Reading and Assessing the Landscape as Cultural and Historical Heritage”, Landscape Research, Vol. 29, No. 4, 335–355. Schwind M., “Senso ed esperienza del paesaggio” (1950), Tellus, VI (14, 1995), p.10. Socco C. (1998), Il paesaggio imperfetto, Editrice Tirrena Stampatori,

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La dotazione di aree produttive alla scala sovracomunale di Paola Ischia

Considerare le aree produttive con una innovata visione di “risorsa” per il complesso urbanoterritoriale può indurre a prevedere per esse una pianificazione articolata in una molteplicità di livelli

Uno dei temi per i quali l'azione sovracomunale risulta determinante e centrata, è quello relativo alle aree produttive. Su di esso a livello nazionale sono state sviluppate esperienze di perequazione e “compensazione intercomunale” delle esternalità dovute alla previsione di diverse localizzazioni, studiando gli aspetti economici dello sviluppo di insediamenti produttivi sulle finanze locali ed attivando fondi di compensazione al fine di ripartire introiti derivanti da scelte urbanistiche e costi di adeguamento di infrastrutture e servizi, computando oneri concessori ed ICI che le municipalità incasserebbero da nuovi insediamenti. E' nota in particolare l'esperienza emiliana dove dal 2000, strumenti legislativi e progettuali hanno inteso razionalizzare la dispersione delle microaree produttive, incentivando solo selezionate zone, adeguatamente collegate a sistemi infrastrutturali. Fin dal 1956, al VI Congresso INU di Torino “Piani intercomunali e piani comunali”, Adriano Olivetti individua nel livello sovracomunale, “...la scala in cui meglio possono intrecciarsi programmazione economica, pianificazione urbanistica e valori democratici”. L'Italia ha sperimentato nell'ultimo decennio nuove ipotesi organizzative a scala sovracomunale in assenza di un preciso disegno di riforma generale che invece si è avviato in altri contesti nazionali europei. La presa di coscienza della molteplicità di argomentazioni di cui la pianificazione-programmazioneprogettazione deve oggi farsi (o ricominciare a farsi…) carico, ha portato ad approfondimenti sviluppati dal concetto di APEA, aree produttive ecologicamente attrezzate (da AEA di cui al D. Lgs. 112/98 Bassanini “Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59”). I fattori di incidenza di

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tali insediamenti non si limitano infatti al carattere localistico per quanto attiene a mobilità, occupazione, aspetti sociali, ambientali, paesaggistici. A livello nazionale è ribadita per questo tema la necessità di pianificazione di area metropolitana che sappia superare i limitanti perimetri amministrativi comunali. La Provincia autonoma di Trento focalizza, con la Riforma Istituzionale, l'esigenza di operatività sovracomunale nella programmazione economica locale per “…azioni e attività d'interesse locale nell'ambito delle politiche provinciali, nelle materie: agricoltura, foreste e alpicoltura, incremento della produzione industriale, sviluppo della montagna, artigianato, fiere e mercati, miniere, cave e torbiere, turismo e commercio”. E' fatto esplicito richiamo all'attenzione per “…servizi pubblici d'interesse locale per quanto non già di competenza dei comuni ed in particolare: ciclo dell'acqua, dei rifiuti, trasporto pubblico locale, distribuzione dell'energia”. Uno dei percorsi di innovazione recentemente proposti (in particolare nell'Alto Garda) mira ad implementare il ruolo strategico delle aree produttive nel complesso dei fabbisogni urbano-territoriali. La potenzialità di una corretta pianificazione e gestione degli insediamenti produttivi incide su temi oggi determinanti quali l'efficienza energetica territoriale, il contenimento di emissioni climalteranti, la capacità di fronteggiare e ridurre danni e rischi dovuti alle improvvise e notevolmente incrementate manifestazioni metereologiche. Il XXVII Congresso Nazionale INU, “Città oltre la crisi. Risorse, governo, welfare”, tenuto a Livorno ad aprile 2011, ha affrontato la complessa condizione attuale, enucleando possibili percorsi di innovazione disciplinare attenti ad efficienza energetica e sostenibilità ed auspicando un uso maggiormente approfondito degli strumenti perequativi di recente introduzione. È stata evidenziata


Dossier: Il progetto

un'inedita attenzione, una convergenza di interessi tra costruttori ed ambientalisti, con tavoli che riuniscono ad esempio ANCE e Legambiente in un percorso interattivo da cui attendere significativi risultati. A dieci anni dalla Legge Costituzionale n 03 di modifica del Titolo V, che ha posto come fondamentali le forme associative, l'operatività in tal senso deve saper emergere e va auspicata la migliore convergenza tra il ruolo del governo del territorio e quello dell'imprenditoria. Considerare le aree produttive con una innovata visione di “risorsa” per il complesso urbano-territoriale può indurre a prevedere per esse una pianificazione articolata in una molteplicità di livelli: di sottosuolo, di mixitè funzionale ai vari piani, di articolata destinazione per le coperture. Canalizzazioni con sistemi di molteplice teledistribuzione e preclimatizzazione passiva possono rigenerare tali insediamenti ed al contempo anche tessuti urbani contermini. L'attenzione per la predisposizione di spazi verdi ad alta valenza ecologica (corridoi biotici), consente l'attraversamento e la ricucitura urbana di parti paesaggisticamente impattanti, geometricamente zonizzate ritagliando aree agricole. Un attento progetto del verde innesca una microclimatizzazione immediata oltre ad una qualità della vita dei luoghi di lavoro e di servizio, capace di indurre ad una mobilità alternativa protetta e qualificata. La possibilità di innesco di valori progettuali di questa natura (la sensibilità per i quali viene considerata forse erroneamente non del tutto propria delle categorie imprenditoriali), può essere implementata dall'evidenziare i vantaggi economici regolarmente registrati in insediamenti che abbiano attivato: chiusura dei cicli, razionalizzazione dei flussi, management della mobilità, gestore unico per servizi e bisogni. Non trascurabile risulta oggi la progettazione di un sistema di regimentazione delle acque meteoriche che prevenga danni dovuti al carattere di improvvisa torrenzialità che i cambiamenti climatici stanno conferendo loro. Riflettendo su

dove si svolga la maggior parte delle attività quotidiane, emerge l'istanza di dotare di performance energetiche, sociali ed ambientali, proprio i luoghi ora maggiormente destrutturati, valutando il loro ruolo attuale e futuro nel complesso urbano. Le aree produttive possono inoltre ospitare macro strutture di approvvigionamento energetico da fonti alternative (in particolare campi fotovoltaici collettivi, rivolti a cooperative di cittadini), permettendo di superare i legittimi conflitti in termini di qualità culturale-paesaggistica di edifici, luoghi e suoli di natura agricola o versanti montani che sempre più aspramente si stanno verificando. Si sta diffondendo inoltre la dotazione di impianti di teleriscaldamento altamente sofisticati: la fiera Klimaenergy2010 di Bolzano ha presentato l'esperienza della città tedesca di Chemnitz, dove il solo ricircolo di flussi industriali consente, tramite serbatoi di acqua fredda, il teleraffrescamento di ospedali, biblioteche, servizi pubblici ed utenze private. Incrementare i vantaggi localizzativi per le aziende, ad esempio riducendo o annullando i consumi di gestione o integrando e coordinando esigenze di differenti categorie economiche del produttivo, servizi, commercio e turismo, aiuta nel tutelare i territori da improvvise imponenti delocalizzazioni che comportano oltre a gravi problematiche occupazionali, anche il venir meno di consistenti gettiti fiscali. La razionalizzazione dei sistemi produttivi attraverso la qualità di programmi di riqualificazione, è un fattore a forte incidenza per l'assetto del paesaggio ed il contenimento del consumo di suolo. Affezione, appartenenza, consolidamento della struttura sociale, radicamento ai territori, pluralità di servizi, attenzione per l'immagine aziendale, premialità indotte nei confronti dell'efficienza energetica, possono guidare un innovato approccio di Comunità nei confronti delle aree produttive.

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Il sistema dei servizi, gli elementi della Comunità di Giorgio Antoniacomi*

L'andamento della popolazione straniera registra un incremento più che proporzionale rispetto a quello della popolazione complessiva: nel solo comune di Trento, la popolazione straniera sul totale della popolazione residente passa dal 2.8% del 2000 all'11.2% del 2010

Il Trentino della transizione (alcuni numeri) Un sistema dei servizi non è un dispositivo tecnicista e non-neutrale rispetto ad una visione di sviluppo. Una visione che ha bisogno, in primo luogo, di un esplicito quadro di riferimento conoscitivo. Inquadrare il sistema dei servizi significa prima di tutto prefigurare gli scenari socio-demografici ai quali si ritiene di dover corrispondere. Per questo è necessario cogliere nella loro peculiarità i caratteri dell'attuale transizione: caratteri inediti e diversi rispetto alle dinamiche che avevano caratterizzato gli ultimi decenni del Novecento. L'andamento demografico dei primi anni Duemila, ad una lettura intuitiva, è ingannevole. Perché il dato d'insieme sembra lineare. Nel decennio 1972-1981 la popolazione del Trentino è cresciuta di circa 15.000 unità. Nel decennio successivo è aumentata di poco meno di 8.000 unità, mentre nel periodo 19922001 è cresciuta di oltre 30.000 unità. Nell'intervallo compreso fra il 2000 e il 2010, nel solo comune di Trento, la popolazione è cresciuta di 10.000 unità, mentre nell'intera provincia fra il 2000 e il 2009 l'incremento complessivo è stato di oltre 45.000 unità. Si stima (fonte: Servizio statistica PAT, 2010) che nel 2030 la popolazione trentina complessiva sarà di circa 620.000 unità, con un incremento di circa 90.000 unità rispetto ad oggi. Un'analisi che vada al di là di ciò che appare permette, però, di mettere in luce come questo andamento sia il saldo di differenti concause, fra loro interagenti, che riguardano fattori strettamente demografici (si fanno meno figli, la popolazione invecchia) e fattori legati all'immigrazione da Paesi stranieri. Una dimensione critica riguarda l'invecchiamento della popolazione. A fronte di un dato positivo (negli ultimi quarant'anni, la speranza di vita alla nascita è cresciuta di dieci anni - dai 68 ai 78 anni - per i maschi e altrettanto - dai 75 agli 85 anni - per le femmine, mentre al 2030 la soglia crescerà di cinque anni per i maschi e di tre anni per le femmine), sale costantemente l'indice di vecchiaia: all'inizio degli anni Sessanta del secolo scorso, le persone con più di 65 anni erano circa il 10% della popolazione; ad oggi sono quasi il 20% e saranno più di un quarto della popolazione nel 2040. L'andamento della popolazione straniera registra un incremento più che proporzionale rispetto a quello della popolazione complessiva: nel solo comune di Trento, la

*Comune di Trento - Servizio Pianificazione strategica

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popolazione straniera sul totale della popolazione residente passa dal 2.8% del 2000 all'11.2% del 2010. Se guardiamo alle famiglie, prendendo a riferimento il comune di Trento come specimen di una tendenza più complessiva, il raffronto fra i dati del 1999 e i dati del 2009 mostra come prosegua la diminuzione del numero di persone formalmente coniugate (dal 49.5% al 45.5%) e continui a crescere quello delle persone divorziate (dall'1.9% al 2.9%). Sale anche la numerosità delle famiglie: nell'intervallo considerato, l'incremento è pari al 16.4% (da 43.839 a 51.040 nuclei), mentre diminuisce il numero medio di componenti per famiglia, da 2.4 a 2.2 persone. Le famiglie con un solo componente continuano ad aumentare il loro peso relativo: già oggi, una famiglia su tre è unipersonale (prevalgono le donne anziane vedove e i maschi single compresi nella fascia 30-44 anni); più di una famiglia su quattro è composta da due sole persone. Non sono dati aridi. Ci dicono molte cose. Ma possono ingannare. Dal punto di vista urbanistico e delle politiche per la casa, ad esempio, sembrerebbe doversi derivare da questo quadro conoscitivo la necessità di una robusta politica abitativa in risposta ad un incremento “fisiologico” della popolazione. Certamente - questa è la nostra convinzione - è necessario impostare una nuova ed incisiva politica per la casa. Ma, a léggere bene i dati, per motivi molto diversi da quelli che sembrano. Perché è necessario prima di tutto riconoscere che si è rovesciato il tradizionale rapporto fra variabile indipendente (tradizionalmente ritenuta l'incremento del saldo naturale della popolazione, considerato un a priori) e variabile dipendente (realizzazione di nuovi alloggi): da alcuni anni, anche nel nostro contesto la variabile indipendente è quella urbanistica, stimolata soprattutto da logiche immobiliari e patrimoniali, che genera le premesse per un incremento della popolazione residente, ma anche le premesse per scivolosi processi di sostituzione che allontanano dal capoluogo coppie giovani e scolarizzate ed attirano, concentrandola selettivamente in alcuni contesti, popolazione straniera priva di reali alternative. La lettura dei dati demografici (intesi come iscrizione o cancellazione dall'anagrafe municipale) relativi all'area urbana estesa - cioè l'area di gravitazione su Trento e di mobilità da e verso il capoluogo - conferma ampiamente questa tesi.


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Il Trentino della transizione (uno sguardo lontano) Il Trentino del 2030 sarà dunque, prima di tutto, un territorio di persone anziane. Spesso molto anziane. La vita si allungherà, ma la condizione di anziani che attende al 2030 la generazione di coloro che oggi hanno quaranta o cinquant'anni sarà molto diversa da quella attuale. Forse non avrà nemmeno più senso la terminologia che usiamo oggi. Per noi, oggi, parlare di terza e di quarta età significa introdurre una distinzione piuttosto netta fra coloro che – avanti, ma non troppo, negli anni e non più in condizione di occupati – dispongono di livelli di scolarità, di reddito, di condizioni di salute, di risorse (a partire dall'uso del proprio tempo) del tutto simili, se non superiori, a quelli della generazione adulta; e coloro che, con un maggior carico di anni, hanno perduto o rischiano di perdere la propria autonomia. Fra vent'anni, il ritardo nell'ingresso nella vita adulta da parte dei giovani, la dilatazione (nell'età e nei ruoli) della generazione di mezzo, il protrarsi dell'età della pensione e le condizioni materiali dei pensionati, lo spostamento in avanti dell'orologio biologico ci metteranno di fronte ad una radicalizzazione di quella che, finora, sembra ancora una transizione relativamente graduale sia dal punto di vista individuale, sia dal punto di vista sociale. I giovani saranno i professionisti dell'incertezza. Per loro, già ora (come diceva Paul Valéry) non c'è più il futuro di una volta. Riferimenti plurimi e contraddittori saranno la cifra distintiva di un mondo, il loro, del quale si possono già cogliere in pieno le ambivalenze. Sarà un mondo sempre più ineguale, che darà spazio a coloro che sapranno coglierne fino in fondo le opportunità e respingerà coloro che vorranno, o saranno costretti a, giocare in difesa. Da un punto di vista professionale, le chance sono – e sempre di più saranno – legate all'intenzione ed alla possibilità, da parte di alcuni, di affrontare una pluralità di esperienze formative ed occupazionali, di vivere il lavoro come occasione di crescita e di cambiamento, di confrontarsi con scenari vasti e mutevoli; la discontinuità creativa e il randagismo professionale saranno valori ricercati. Per coloro che, invece, si collocheranno sull'estremo opposto, il concetto di flessibilità non potrà che essere tradotto in termini di precarietà e di frustrazione. Come è stato autorevolmente rilevato, l'attuale generazione di giovani non ha, a priori, la relativa certezza che starà comunque meglio dei

propri genitori; spesso sarà vero il contrario. Dal punto di vista dei valori-guida, è probabilmente pessimistico dipingere i tratti di una società tout court agnostica ed opportunista. L'idea di famiglia, in quanto coalizione finalizzata simultaneamente alla reciprocità affettiva, alla mutua assistenza e alla genitorialità, conoscerà modificazioni radicali, al punto da legittimare la domanda se si potrà parlare della sua stessa sopravvivenza in quanto istituzione sociale oppure se sarà definitivamente qualcos'altro. Concretamente, il desiderio di una coppia – o sempre più spesso di una donna soltanto – di avere un figlio non si realizzerà necessariamente all'interno di un progetto coniugale stabile, ma risponderà sempre più spesso a logiche parziali, ad esigenze individuali, e sarà anche il riflesso di inedite possibilità inaugurate dall'evoluzione dei criteri etici di riferimento, dalle condizioni materiali di contesto, dalle tecnologie biomediche disponibili. D'altro lato, un peso importante nell'evoluzione delle famiglie sarà assunto dai mutamenti economici e culturali (che già oggi ci mettono di fronte a fenomeni come il numero crescente di famiglie unipersonali – soprattutto giovani maschi adulti – e la permanenza “ostinata” o disperata, nel senso di priva di autonome speranze, dei giovani nel nucleo famigliare di origine). Proseguirà la tendenza ad un incremento del numero delle famiglie più che proporzionale rispetto all'incremento della popolazione; la classe modale delle famiglie sarà quella formata da un solo componente, mentre le classi di famiglie formate da due o più persone vedranno crescere continuamente il tasso di avvicendamento fra i propri componenti. La famiglia sarà interessata dal “nomadismo” dei comportamenti individuali e di coppia, nel quale avrà un ruolo cruciale l'interpretazione che le donne daranno del proprio ruolo: un ruolo sempre meno condizionato da modelli socioculturali inattuali e comunque non più passivamente accettati. È possibile che i cittadini stranieri appartenenti a taluni gruppi, che si richiamano a sistemi valoriali più conservatori, manifesteranno anche reattivamente (cioè non per assenza di modelli alternativi, ma in risposta ai modelli dominanti) una maggiore inerzia al cambiamento e comportamenti in aperta controtendenza. Si tratterà di persone che manterranno l'adesione a sistemi di

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I giovani saranno i professionisti dell'incertezza. Per loro, già ora non c'è più il futuro di una volta. Riferimenti plurimi e contraddittori saranno la cifra distintiva di un mondo, il loro, del quale si possono già cogliere in pieno le ambivalenze


Il sistema dei servizi, gli elementi della Comunità

credenze, atteggiamenti, comportamenti, stili di vita propri di altre epoche e di altre parti del mondo. Non sarà soltanto, la loro, un'affermazione perentoria del diritto ad esistere, cioè di avere spazio e legittimazione in un'epoca caratterizzata da quello che Boudon ha definito politeismo dei valori; sarà, invece, un'affermazione radicalmente antagonista e contrappositiva, che non riuscirà ad accettare sistemi valoriali diversi. Ne uscirà un conflitto tra visioni non compatibili e non conciliabili, l'una laica e l'altra dogmatica, che costituirà una sfida impegnativa per il concetto di tolleranza. Non è difficile cogliere in controluce una possibile, necessaria agenda delle politiche pubbliche con le quali le Comunità potranno iniziare a confrontarsi. Il sistema dei servizi come tutela dei diritti di cittadinanza La prima tesi che abbiamo sostenuto, provocatoria ma non arbitraria, è quella che postula il rovesciamento della relazione storicamente acquisita fra domanda ed offerta di residenza. Non c'è qui lo spazio per formulare alcuna ipotesi circa nuove e diverse politiche per la casa, che dovranno comunque mutare geneticamente rispetto a modelli codificati ed ai relativi presupposti. La seconda tesi che sosteniamo è quella della simultaneità delle dimensioni convocate in qualunque processo di trasformazione territoriale (e della correlata esigenza di presidiarne le interdipendenze). É abbastanza agevole, con riferimento a qualunque città italiana, constatare il peso delle esternalità negative dovute a scelte localizzative che non hanno preso in considerazione gli “effetti collaterali” di decisioni parziali in sé stesse dotate di razionalità. Ciò che possiamo definire convenzionalmente “impatto sociale delle scelte urbanistiche” ci richiama, in realtà, alla necessità di gestire ex ante esiti che non possiamo in alcun modo considerare inaspettati. A questa consapevolezza vanno associate recenti innovazioni intervenute sia in ambito normativo, sia nelle prassi delle amministrazioni locali (con la previsione e la redazione di Piani dei Servizi quali parti integranti ed essenziali dei nuovi sistemi di pianificazione urbana), che hanno proposto il superamento del concetto di standard urbanistico, soprattutto in risposta ad una nuova, crescente e non negoziabile richiesta di qualità dei servizi e di effettività delle prestazioni delle città: ad obiettivi, in breve, che cercano di dare risposte ad una domanda di maggior efficienza dei sistemi urbani, ma anche di maggiore equità e di democrazia delle città. Ciò che viene messo in discussione non sono soltanto gli strumenti e le logiche, ma la razionalità stessa dell'urbanistica di tradizione, nella convinzione di dover interpretare la città e il suo equipaggiamento non solo regolando il regime dei suoli, ma assumendo un criterio prestazionale ed assumendo la città ed il territorio come "progetti" di trasformazione. Alcuni assunti impliciti sono sottesi a questa

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riflessione: 1. è necessario sconfinare dall'ambito disciplinare e dagli assetti categoriali propri dell'urbanistica: non si tratta solo di ricercare un approccio multi- e interdisciplinare, ma di assumere una nuova razionalità, che consideri il prevalere della domanda sull'offerta di qualità urbana e il carattere problematico ed evolutivo, non oggettivo e standardizzabile, e comunque complesso e non prevedibile della domanda stessa; 2. la relazione fra l'adeguamento dei caratteri prestazionali della città e l'evoluzione della domanda sociale non può limitarsi alle dinamiche di aggiornamento del modello di welfare, ma deve includere tutte le dinamiche generatrici di trasformazioni urbane; 3. gli interventi di adattamento dell'organizzazione urbana alle nuove domande rivolte alla città e al suo ruolo non si risolvono esclusivamente nel riassetto e nella ri-funzionalizzazione degli spazi urbani, ma devono attivare dinamiche anche non localizzabili e non


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tipo quantitativo, subordinata alle ragioni (e talora al prepotere) della rendita; che, un poco alla volta, ha generato “periferie” in senso sociale, cioè zone di marginalità, se non di degrado, nelle quali si sono venute concentrando selettivamente criticità e contraddizioni e contesti spesso privi di una forma urbana leggibile, privi di compattezza, nei quali il sistema dei servizi appare sotto sforzo e la complessità di funzioni non è necessariamente garantita; - dall'altro, l'eredità di un criterio di distribuzione delle infrastrutture e di una logica di investimento pubblico di carattere episodico, che riflette una duplice ratio ormai manifestamente arrivata al capolinea: quella di una costante dilatazione della disponibilità di spesa pubblica (che ha consentito talora qualche forma di “navigazione a vista” ed un modello di spesa che talora ha potuto prescindere da una rigorosa gerarchia di priorità e da una valutazione di compatibilità); e, in parallelo, quella dell'affermazione di interessi territoriali più e meglio rappresentati nei luoghi nei quali veniva decisa l'allocazione delle risorse. La domanda da riproporre in termini perentori è questa: quali sono gli impatti attesi o, comunque, prevedibili delle scelte urbanistiche e della transizione demografica sulla domanda di servizi, cioè sul valore d'uso della città? quali sono, in conseguenza, gli impatti i questa domanda sulle logiche di investimento? Quali le priorità? Come diceva Calvino, “d'una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”.

necessariamente riconducibili ad infrastrutturazioni materiali. Ciò che resta, al di là della pur necessaria ricerca di nuovi approcci disciplinari, è la domanda di equità, di qualità, di efficienza dei sistemi territoriali. Non sorprende che questa domanda interpelli la disciplina urbanistica. E rappresenti una sfida per il suo apparato di categorie e di strumenti, per le sue ortodossie, per le sue prassi consolidate, sollecitandola a riflettere su di sé ed a ripensarsi. Non sorprende perché – di fronte ad una perentoria e non eludibile domanda di governo delle trasformazioni – non è possibile limitarsi a risposte esclusivamente formali e ipotetiche che si limitino a distribuire diritti edificatori ed a formalizzare volumi, destinazioni d'uso e vincoli. Venendo al caso trentino (ma anche in questo caso, tranquilli, non siamo soli), la domanda profonda dalla quale nascono queste considerazioni è, in fondo, una domanda molto prevedibile, che può essere ricondotta a due ordini di circostanze: - da un lato, un'urbanizzazione che è venuta crescendo secondo una logica espansiva di

Quale risposta a quale domanda sociale? Politiche e programmazione dei servizi: un esempio Parlare di servizi adeguati al profilo territoriale significa fare un'affermazione imprecisa, se non del tutto inconcludente. Infrastrutture diverse corrispondono a differenti scale territoriali: alcune competono alla scala del quartiere, altre a quella del distretto o della circoscrizione, altre a quella della città, altre a quella dell'area di gravitazione, altre, infine, a quella dell'area vasta, secondo una gerarchia (riconducibile al concetto di reti equipotenziali, quasi, usando un'immagine, delle isobare che uniscono i punti nei quali vengono erogati i medesimi servizi) che va dalla qualità sociale dell'abitare ed arriva alla ricomposizione delle “prestazioni” entro una più vasta regione funzionale, che eccede ampiamente il perimetro amministrativo delle municipalità e delle Comunità. Il primo passaggio per la costruzione di un modello previsionale dev'essere, quindi, quello dell'identificazione dell'unità territoriale minima di governo della programmazione dei servizi. A ciascuna unità di governo corrisponde un'identificazione della domanda

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La domanda da riproporre in termini perentori è questa: quali sono gli impatti attesi o, comunque, prevedibili delle scelte urbanistiche e della transizione demografica sulla domanda di servizi, cioè sul valore d'uso della città? quali sono, in conseguenza, gli impatti i questa domanda sulle logiche di investimento? Quali le priorità?


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Le Comunità di valle potranno, in questo senso, caratterizzarsi per l'intenzione di ripristinare la relazione di “complicità” fra il momento conoscitivo e il momento decisionale, diventando luoghi nei quali dare vita ad alcuni Osservatori a tema su aspetti critici delle politiche pubbliche

“beni pubblici” da tutelare; a questa ricognizione va poi associato il grado di offerta e, dalla comparazione delle due dimensioni, vanno individuate le (eventuali) asimmetrie. Un esempio può illustrare efficacemente il nostro assunto. Pensiamo agli esiti paradossali dello spostamento di quote di residenza dalla città alle aree periferiche, dovuti all'effetto combinato di scelte urbanistiche pregresse e di tendenze del mercato immobiliare. Trento ha subito, nel corso degli ultimi quindici/vent'anni, una marcata tendenza alla gentrification del centro storico e alla suburbanizzazione: dapprima verso nord, verso sud, verso le aree collinari; in una seconda fase verso i comuni dell'hinterland. Alcuni sobborghi hanno raddoppiato la popolazione in circa dieci anni, mentre il principale comune confinante con Trento ha registrato un incremento di residenti di oltre il 15% nello stesso intervallo di tempo. Questo processo ha generato conseguenze non volute (per certi aspetti sarebbe più corretto dire non programmate). Una prima conseguenza riguarda il traffico di gravitazione sul capoluogo: Pergine si è “allontanato” di un minuto all'anno dalla città, anche perché alla delocalizzazione della residenza non si è accompagnato un riequilibrio delle funzioni: non solo di quelle rare o pregiate, tipiche di un capoluogo, ma anche di quelle che avrebbero potuto e dovuto essere opportunamente ridistribuite. Una seconda conseguenza concerne una domanda inevasa di servizi e, per quanto riguarda la tenuta del tessuto comunitario, una difficoltà “da sovraccarico”. Quanto al primo problema, le risposte sono state di natura sintomatica o reattiva, cioè hanno cercato di fronteggiare il problema del pendolarismo potenziando le infrastrutture per la mobilità: una soluzione per certi aspetti necessaria e non rinviabile, destinata però, per altri versi, a riprodurre anziché a rimuovere la criticità. Il secondo problema è, per molti aspetti, ancora inevaso, dal momento che ad una legittima, ineludibile (e prevedibilissima) domanda di spostamenti, di servizi all'infanzia, di servizi sanitari, di scuole, servizi di prossimità, di spazi pubblici nei contesti periferici si è risposto in maniera episodica e reattiva, quasi incolpando il destino avverso di situazioni che, invece, avrebbero determinanti molto riconoscibili (sebbene emerse a distanza di anni). Certe cose, verrebbe da dire, sono come le sigarette: possono dare una gratificazione immediata, ma a distanza di anni presentano invariabilmente il conto (e gli interessi). In ogni caso, ciò che ci preme mettere in luce è la traduzione concreta della nostra tesi della pluralità e della diversità delle scale territoriali di riferimento e della simultaneità delle dimensioni da presidiare: quella urbanistica e delle politiche per la casa, che va riportata alla relazione sovracomunale (nel rapporto fra capoluogo e centri della “diaspora” residenziale); quella della mobilità, necessariamente provinciale; quella dei servizi

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scolastici, propriamente municipale; quella dei servizi di prossimità, da attribuire alla scala del quartiere, della circoscrizione o della frazione. Per concludere (o per iniziare) Questa conclusione non vorrebbe sembrare tecnicista. Ma, in una rivista di urbanistica, non si può fare a meno di proporre qualche dispositivo concretamente spendibile, a meno di non volersi rintanare nel triste novero di quelli che parlano (soltanto) e di volersi autoescludere dal novero, molto più baldanzoso, di quelli che “fanno”. La nostra tesi, in questo caso, è presto detta: è necessario colmare un deficit di informazione e di interpretazione. La definizione di politiche pubbliche sconta spesso un doppio paradosso: quello che potremmo definire dello strabismo divergente tra la disponibilità di dati informativi e conoscitivi e la relativa indifferenza al dato nel momento in cui vengono prese le decisioni. Le Comunità di valle potranno, in questo senso, caratterizzarsi per l'intenzione di ripristinare la relazione di “complicità” fra il momento conoscitivo e il momento decisionale, diventando luoghi nei quali dare vita ad alcuni Osservatori a tema su aspetti critici delle politiche pubbliche. Non crediamo, detto altrimenti, che la funzione conoscitiva possa esaurirsi in uno sterile collezionismo di dati, ma nemmeno che la funzione deliberativa, propria del momento politico, possa avere in sé piena ed esclusiva legittimazione per impegnare risorse e per generare effetti a bassa revocabilità senza conoscere appieno la realtà sulla quale interviene e senza considerare gli effetti secondari prodotti dalle proprie scelte. Mutuando e sistematizzando alcuni precedenti specifici, crediamo che i settori nei quali possa essere prioritariamente sperimentata una funzione di osservatorio siano quelli nei quali é necessario, e possibile, colmare obiettivi ritardi. È appena il caso di notare come manchi, ad oggi, una sistematica e costante rilevazione a scala provinciale dei dati relativi alla domanda e all'offerta di residenza, ai fattori “sensibili” o di tensione che definiscono la criticità economica, sociale o sui servizi delle logiche e delle scelte abitative; come manchi, ad oggi, qualunque evidenza e qualunque interpretazione, se non alla scala del capoluogo, sulle conseguenze involontarie generate dalle scelte urbanistiche concepite da singole municipalità sui sottosistemi della mobilità, dei fabbisogni di edilizia scolastica, della domanda di servizi anche in termini di area urbana estesa; come manchi qualunque analisi che permetta di capire se davvero un sistema ancora fortemente incentrato sull'offerta di servizi socioassistenziali sia davvero congruente, cioè sia in grado di rispondere, ai problemi delle persone, delle famiglie e delle comunità “come sono davvero”. Sempre che lo si voglia fare davvero. Ma questa, come si dice nelle fiabe, è un'altra storia.


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Il ruolo della Valutazione Ambientale Strategica nella pianificazione territoriale d'area vasta di Chiara Bragagnolo* La sostenibilità è divenuta ormai l'elemento propulsivo di un nuovo modello di pianificazione che mira ad un maggior equilibrio tra ambiente, società ed economia e ad una maggior integrazione e coordinamento tra politiche di settore e diverse scale di pianificazione e programmazione territoriale. Per facilitare questa transizione e in accordo con gli obiettivi di sviluppo sostenibile delineati con le strategie di Lisbona e Göteborg, l'Unione Europea ha istituito una serie di procedure/processi che subordinano l'operatività di progetti, piani e programmi a valutazione e controllo ambientale. In particolare, la Direttiva 01/42/CE, ha affiancato la preesistente procedura di VIA (Valutazione di Impatto Ambientale) con la Valutazione Ambientale Strategica (VAS), finalizzata ad integrare la componente ambientale nelle decisioni relative a piani e programmi sia territoriali che di settore. In Italia, la Direttiva è stata recepita più o meno tempestivamente, prima da alcune Regioni, e poi dallo Stato attraverso il Testo Unico sull'Ambiente (D.Lgs. 152/2006) e successivi correttivi. L'approvazione di leggi e regolamenti non è tuttavia sufficiente di per sé a garantire decisioni e comportamenti in grado di assicurare la conservazione degli equilibri ambientali e territoriali. Dalla comunità scientifica (Thérivel, 2004; Fischer, 2007), così come dalle esperienze di VAS già consolidate sia in Italia che all'estero (Colombo et al., 2008) emergono alcune considerazioni importanti affinché la VAS possa davvero svolgere un ruolo efficace nel supporto alle decisioni. Da un lato, vi è la necessità che questo strumento costituisca parte integrante del processo di piano fin dalle sue fasi preliminari, supportando la definizione di strategie di sostenibilità ambientale chiare e condivise e monitorando le scelte operate in funzione di tali obiettivi strategici durante l'intera durata del piano. Ciononostante, la VAS sembra ancora svolgere un ruolo debole all'interno del processo decisionale in quanto talvolta ostacolata da decisori ancorati a “vecchie” consuetudini o decisioni già prese o spesso percepita come un fardello burocratico e non come un'opportunità di miglioramento della qualità e dell'efficacia del processo di pianificazione rispetto alla gestione delle risorse territoriali ed ambientali. Inoltre, l'estensione del processo valutativo all'intero ciclo di vita di un piano è spesso minata dalla

mancanza di responsabilità definite a priori e scarsità di risorse soprattutto rispetto alle fasi in itinere ed ex post (es. monitoraggio, misure correttive, ecc.), che di fatto, anche nei casi più virtuosi, tendono ad assumere un ruolo marginale. Dall'altro lato, una valutazione di natura strategica richiede di andare al di là della mera verifica di compatibilità delle singole azioni di un piano, espandendo “l'ambito di studio” sia in termini geografici che temporali, ai fini di indirizzare decisioni con valenza territoriale d'area vasta e di lungo periodo (Diamantini e Geneletti, 2004). A differenza della VIA infatti, la VAS ha spesso come oggetto di studio tematiche di rilevanza per l'area vasta di incerta attuazione (quadri infrastrutturali, tutela del paesaggio, ecc.), le cui possibili ricadute sull'ambiente richiedono l'adozione di metodologie valutative capaci di interpretare le specificità e vocazioni future di un determinato contesto territoriale, anche ai fini della valorizzazione delle risorse ambientali e non solamente della prevenzione di effetti negativi (es. consumo di risorse, perdita di biodiversità, ecc.). Tuttavia, complice di competenze e professionalità consolidate in materia di VIA e di scarso supporto operativo, la pratica comune tende a valutare il piano sulla falsariga di un progetto, descrivendo lo stato dell'ambiente e confrontandolo, al massimo, con le condizioni future nell'ipotesi di completa attuazione di singoli obiettivi e azioni di piano. Così facendo, da un lato, si rischia di giungere spesso a conclusioni scontate rispetto alla previsione degli effetti sull'ambiente a favore del piano; e dall'altro si limita il supporto rispetto a decisioni più lungimiranti e il ragionamento rispetto a tematiche ambientali spesso complesse, ma di particolare interesse sia a scala globale che locale (es. cambiamento climatico, salute pubblica, ecc.). Infatti, sebbene la VAS richieda un approccio flessibile e capace di confrontarsi con l'incertezza sia del processo politico-decisionale che degli effetti futuri, oltre ad ancor poco sviluppate metodologie di valutazione capaci di “leggere” dinamiche territoriali e loro possibili conseguenze ambientali, spesso mancano anche approcci oggettivi rispetto sia alla circoscrizione del campo di indagine sia alla valutazione degli effetti e al loro monitoraggio. Sebbene la disponibilità di dati e strumenti (indicatori, GIS, ecc.) non costituisca più un fattore così limitante, la qualità dei rapporti

*Università degli studi di Trento

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La VAS sembra ancora svolgere un ruolo debole all'interno del processo decisionale. Talvolta è ostacolata da decisori ancorati a “vecchie” consuetudini o decisioni già prese o spesso percepita come un fardello burocratico e non come un'opportunità


Il ruolo della Valutazione Ambientale Strategica nella pianificazione territoriale d'area vasta

Dal punto di vista analitico, diventa necessaria un'adeguata valutazione non solo degli effetti degli strumenti urbanistici e di governo del territorio, ma anche della loro interazione con altri settori e livelli decisionali (progetti, programmi, ecc.). Dal punto di vista operativo, viene richiesta una maggior integrazione tra decisioni prese a scale territoriali diverse ma con ricadute complessive significative rispetto allo stesso ambito, che spesso implica il superamento di barriere normative, istituzionali e politiche

ambientali è spesso carente dal punto di vista analitico, limitandosi all'utilizzo di matrici di natura qualitativa o proponendo lunghe liste di indicatori poco, o per niente mirati, rispetto alle tematiche di rilievo per un determinato contesto. Nonostante l'utilizzo di approcci “più oggettivi” (es. metodi quantitativi, mappe, ecc.) non costituisca infatti una conditio sine qua non rispetto all'efficacia della VAS, tali strumenti possono giocare un ruolo fondamentale all'interno del processo decisionale. In primo luogo, un'oggettiva selezione degli elementi maggiormente significativi sia dal punto di vista dell'interazione tra piano ed ambiente sia rispetto alle capacità “di risposta” del piano stesso, può indirizzare la valutazione verso i temi di maggior rilievo, evitando così l'analisi di aspetti non rilevanti. Nonostante possa sembrare banale, se questa fase di analisi preliminare della VAS (cosiddetta di scoping) è incapace di “contestualizzare” le problematiche e le opportunità ambientali, questo si ripercuote spesso negativamente sull'intero processo valutativo e decisionale, con il rischio che alcuni aspetti fondamentali vengano ignorati. In secondo luogo, “un'oggettivazione” delle problematiche e delle opportunità ambientali può stimolare il dibattito con i decisori e con il pubblico durante i momenti di confronto che normalmente il processo di VAS prevede, favorendo la condivisione di strategie, buone pratiche, ed informazioni e contribuendo ad una maggior trasparenza delle scelte, consapevolezza su tematiche complesse (es. effetti sulla salute, cambiamento climatico, ecc.) e cooperazione interistituzionale (es. tra amministrazioni pubbliche, agenzie di protezione dell'ambiente, ASL, organizzazioni non governative, ecc.), che costituiscono le finalità stesse della VAS. Inoltre, scarsissima attenzione viene

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attualmente rivolta ai cosiddetti effetti cumulativi, nonostante uno dei principali fattori che ha introdotto la valutazione strategica è legato proprio all'opportunità di considerare le conseguenze derivanti dalla combinazione di azioni e decisioni singolarmente insignificanti, ma con effetti complessivi rilevanti per un determinato territorio. È il caso, per esempio, delle singole trasformazioni urbanistiche (dalle espansioni edilizie ai nuovi complessi turistici, ecc.), che collettivamente giocano un ruolo non di poco conto se considerate a scala d'area vasta. Infatti, se ognuna di queste risulta spesso puntualmente “innocua” e non soggetta a VIA, tra i loro maggiori effetti cumulativi vi sono il consumo di risorse non rinnovabili, in primis il suolo; la frammentazione/perdita di habitat naturali, di spazi aperti e di agro-mosaici con conseguente compromissione di tutti quei servizi ambientali o ecosistemici che queste aree svolgono (protezione rischi naturali, funzione educativa/ricreativa, conservazione identità culturale, ecc.). Tuttavia la valutazione di tali effetti viene spesso trascurata, in quanto non direttamente riconducibile alla sommatoria di singoli impatti, ma piuttosto ad interazioni tra diverse decisioni, che, oltre ad essere difficilmente prevedibili, risultano spesso di competenza di più soggetti territoriali (es. piani urbanistici, programmi comunitari, progetti infrastrutturali, ecc.). A questo proposito, la VAS dovrebbe andare, a mio avviso, verso una duplice direzione. Da un lato, il focus dell'analisi dovrebbe convergere su una, o al massimo due, questioni chiave, per le quali l'attuazione di diverse politiche e azioni concorrenti sul territorio comporta un rischio “cumulativo”. Individuando questi elementi focali particolarmente critici o sensibili (es. risorse scarse, specie o habitat rari, specifico target di popolazione, ecc.), che la letteratura anglossassone chiama risorse ecosistemiche di valore (o Valued Ecosystem Components), si


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sposterebbe così l'attenzione dagli effetti del singolo piano su una serie di componenti ambientali alle conseguenze di più livelli decisionali e settoriali su tali risorse. Dall'altro lato, la VAS dovrebbe esplorare e suggerire fin dalle sue prime fasi delle “soluzioni cumulative”, basate sull'interoperabilità di azioni e misure (obiettivi strategici, azioni attuative e progettuali, limiti dimensionali, compensazioni/perequazioni, strumenti finanziari, ecc.), che per loro natura normativa e decisionale sono inter-settoriali e identificabili solo ad una scala di minor dettaglio, e questo richiede sicuramente uno sforzo maggiore rispetto alla prassi comune. Dal punto di vista analitico, diventa infatti necessaria un'adeguata valutazione non solo degli effetti degli strumenti urbanistici e di governo del territorio, ma anche della loro interazione con altri settori e livelli decisionali (progetti, programmi, ecc.). Dal punto di vista operativo, viene richiesta una maggior integrazione tra decisioni prese a scale territoriali diverse ma con ricadute complessive significative rispetto allo stesso ambito, che spesso implica il superamento di barriere normative, istituzionali e politiche. Alla luce delle considerazioni avanzate, la scala d'area vasta può costituire una piattaforma preferenziale perché la VAS possa giocare un ruolo davvero strategico rispetto alla pianificazione territoriale, supportando, in maniera preventiva e su base preferibilmente oggettiva: - la definizione e il confronto di strategie alternative di sviluppo legate alle potenzialità e criticità di un particolare contesto e identità territoriale; - la formulazione di misure compensative, correttive e di mitigazione degli impatti atte a supportare processi di controllo adattativo del

piano; - l'orientamento di aspetti più propriamente attuativi (compatibilità delle trasformazioni urbanistiche, limiti dimensionali, ecc.). Molti aspetti ambientali (es. tutela e gestione delle risorse naturali, della biodiversità e del paesaggio, prevenzione dei rischi, ecc.) hanno infatti una rilevanza sovracomunale e necessitano di essere considerati e gestiti ad una scala territoriale adeguata. Inoltre, anche i temi insediativi (dal fabbisogno abitativo alla gestione degli spazi pubblici), tradizionalmente governati dalla pianificazione urbanistica, hanno mostrato negli ultimi decenni una valenza sovra comunale, sia per la loro rilevanza che per i loro effetti. Tuttavia, se da un lato i confini comunali sono sempre più spesso troppo circoscritti per affrontare tematiche di interesse sovralocale, la dimensione provinciale non sempre corrisponde ad una identità riconoscibile, e quindi il suo piano territoriale a volte non riesce ad essere espressione diretta di un progetto di territorio. A tal proposito, particolarmente interessante appare la recente riforma della Provincia Autonoma di Trento (n. 3/2006), che ha introdotto la nuova figura istituzionale delle Comunità di valle, quale ente territoriale intermedio tra Provincia e Comuni. Si apre così una nuova sfida rispetto al ruolo della VAS a scala d'area vasta, che potrà svolgere un ruolo chiave nella formulazione dei Piani Territoriali di Coordinamento delle Comunità, indirizzando contenuti ed esiti degli strumenti di governo del territorio (piani di coordinamento e piani urbanistici) solo se percepita come un'opportunità rispetto alla condivisione di una strategia comune di valorizzazione delle risorse territoriali ed ambientali.

Bibliografia Colombo, L., Losco, S., Pacella, C. (a cura di), 2008. La valutazione ambientale nei piani e progetti. Edizioni Le Penseur – Potenza. Diamantini, C. e Geneletti, D., 2004. Reviewing the application of strategic environmental assessment to sectoral plans in Italy. The case of the mobility plan of an alpine region, European Environment 14: 123–133. Fischer, T. B., 2007. The Theory & Practice of Strategic Environmental Assessment: Towards a More Systematic Approach. Earthscan Publications Ltd: London, UK. Thérivel, R., 2004. Strategic Environmental Assessment in Action. Earthscan Publications Ltd: London, UK.

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La perequazione come strumento nella pianificazione sovracomunale di Elisa Coletti

I presupposti della perequazione territoriale a livello sovra-comunale La perequazione territoriale viene definita in letteratura quale condizione di sostenibilità dello sviluppo insediativo, avente come obiettivi lo sviluppo sostenibile nelle politiche di area vasta, la consapevolezza della necessità di scelte selettive orientate alla qualità dell'offerta, la sostenibilità sociale/politica dell'assegnazione ai comuni di ruoli differenti con conseguenti differenti risvolti economici. La perequazione territoriale va intesa non come strumento finalizzato alla distribuzione equilibrata delle nuove scelte localizzative programmate sul territorio dei vari comuni, bensì come metodo per perseguire una più funzionale collocazione degli interventi. Essa cerca infatti di ovviare alle implicazioni sperequative derivanti da piani o progetti di sviluppo territoriale di valenza sovra-comunale, nel senso che alle porzioni di territorio a cui viene consentito di svilupparsi più intensamente di altre, spetta intervenire per evitare il formarsi o l'accentuarsi di situazioni di sperequazione nei confronti di quelle porzioni a cui non è concesso uno sviluppo altrettanto intenso. Si fonda su accordi volontari tra Amministrazioni locali e strumenti di incentivazione finanziaria, generalmente denominati “Fondi di compensazione”, da intendersi quali presupposti per ridistribuire le entrate e per ripartire equamente le spese di investimento (Fallaci, 2004) e compensare i maggiori costi, o i mancati vantaggi, derivanti ad alcuni Comuni dalle scelte di piano. Il Rapporto sulla perequazione territoriale in Emilia Romagna riconduce l'origine di questo strumento a presupposti che distingue in giuridico-istituzionali, economico-finanziari e empirico-fattuali. I presupposti giuridico-istituzionali, rafforzati dalla riforma del Titolo V della Costituzione che configura un più stretto rapporto tra fiscalità pubblica e territorio, possono essere individuati nel rinnovato ruolo delineato per le Province dalla legislazione emanata in Italia già negli anni '90, in materia di pianificazione del territorio, difesa del suolo, valorizzazione e tutela dell'ambiente, trasporti e viabilità, ecc. Tali presupposti attengono inoltre alla valorizzazione degli strumenti urbanistici di livello intermedio (Piani Territoriali di Coordinamento Provinciale - PTCP) che nel panorama nazionale si collocano tra il livello regionale e quello comunale e i cui contenuti innovativi riguardano, in particolare, la qualità

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ambientale, ecologica e paesistica del territorio, con assunzione di scelte in modo concertato e consapevole, anziché gerarchico e non condiviso, con i soggetti - istituzionali e non - destinatari delle prescrizioni (Palombelli, 2002). I presupposti economico-finanziari richiamano le entrate derivanti dagli insediamenti, che hanno assunto eccessiva rilevanza in quanto capaci di riequilibrare i bilanci comunali nel breve periodo. Infine, i presupposti empiricofattuali riguardano i fenomeni di accentuata dispersione e frammentazione dei processi di urbanizzazione e dei connessi insediamenti produttivi, che generano numerosi e consistenti svantaggi sostenuti sia dalle competenti amministrazioni pubbliche che dalla collettività. Di qui l'esigenza di attribuire alla pianificazione di area vasta anche il compito di compensare le “esternalità” che si creano all'interno di quegli ambiti associativi intercomunali che sono già operativi in alcune regioni, quale corollario della fissazione di comuni obiettivi strategici relativamente alle scelte insediative, con particolare riferimento alle attività produttive ed al loro standard qualitativo (Bruzzo, Fallaci, Guaragno, 2004). È varia la gamma delle situazioni concrete di scelte localizzative aventi ricadute ed effetti che, superando i confini del singolo Comune direttamente interessato, si prestano al ricorso dello strumento della perequazione territoriale. In letteratura vengono sovente richiamati esempi di ambiti per i quali può essere opportuno il ricorso allo strumento della perequazione territoriale, quali: - completamento, espansione e/o riconversione di aree produttive sovra-comunali già esistenti, con esigenza di ripristino ambientale; - realizzazione di nuove aree produttive secondo particolari criteri di sostenibilità ambientale; - localizzazione di infrastrutture pubbliche di notevole dimensione e/o di elevato impatto ambientale sul territorio; - regolazione dei rapporti fra aree diverse dal punto di vista morfologico (montagna/pianura o aree urbane/rurali); - regolazione dei rapporti fra comune “centrale” e comuni contermini all'interno di aree urbane e metropolitane (Bruzzo, 2008). I principali obiettivi perseguibili con la perequazione territoriale e, in particolare, con gli strumenti finanziari di compensazione, sono dunque: un più elevato livello sia di efficienza allocativa che di equità territoriale; una migliore concertazione e un maggiore consenso sociale sulle finalità e sulle scelte urbanistiche previste; la possibilità di riqualificare gli insediamenti


Dossier: Il progetto

produttivi già esistenti, in occasione del loro completamento e/o della loro espansione o la possibilità di dotare i nuovi insediamenti di infrastrutture con cui prevenire le varie forme di inquinamento; l'opportunità per ambiti di recuperare o riqualificare, di mantenere o, addirittura, rafforzare la loro attrattività nei confronti di eventuali ulteriori investimenti provenienti dall'esterno dell'area su cui gli ambiti stessi insistono. Gli obiettivi di efficienza allocativa e di equità cui la perequazione territoriale tende, richiamano quelli cui anche la perequazione urbanistica mira, tuttavia i due strumenti sono diversi l'uno dall'altro in maniera sostanziale: si distinguono oltre per finalità perseguite, anche per soggetti coinvolti e scala territoriale degli ambiti interessati. La perequazione territoriale mira a compensare le esternalità prodotte a livello sovra comunale in seguito a progetti di sviluppo condivisi dalle collettività interessate, mentre la perequazione urbanistica persegue un'equa ripartizione dei diritti edificatori e degli oneri derivanti dalla pianificazione tra i proprietari delle aree alle quali si riferisce. Quanto a soggetti coinvolti, la prima vede interagire proprietari di beni immobili e singole amministrazioni comunali, la seconda vede invece intervenire amministrazioni locali operanti anche a livelli istituzionali diversi. Quanto agli ambiti interessati, la prima opera alla scala meso-territoriale, interessando territori afferenti più comuni amministrativi, mentre la seconda opera alla scala micro-territoriale, entro il confine di singoli comuni. Si affrontano in questa sede esperienze di perequazione territoriale condotte nel panorama nazionale, fornendo una lettura di come le leggi regionali di Emilia Romagna e Lombardia introducano tale strumento e di come lo stesso sia declinato negli strumenti di pianificazione di livello intermedio di alcune province di tali regioni e presentando inoltre alcune delle esperienze applicative più rappresentative. Si apre inoltre una breve riflessione sui casi in cui, come in Veneto, le leggi regionali non abbiano introdotto la perequazione territoriale come strumento per la gestione concertata, a livello sovracomunale, delle scelte strategiche di interesse sovralocale. Quadro normativo e esperienze La normativa Emiliano-Romagna e i PTCP delle province di Bologna e Modena: La L.R. 20/2000 introduce in Emilia Romagna il tema della perequazione territoriale invitando gli

enti locali a conformare la propria attività al metodo della concertazione. Specifica inoltre che i PTCP possono prevedere particolari forme di cooperazione tra Comuni negli ambiti che presentano un'elevata continuità insediativa o nei casi in cui le scelte pianificatorie comunali comportino significativi effetti di rilievo sovracomunale. Ne è un esempio la particolare accezione della perequazione territoriale introdotta dall'art. A-13 dell'Allegato alla legge 20, che riguarda gli “ambiti specializzati per attività produttive”, laddove si stabilisce che gli oneri di urbanizzazione relativi alle aree produttive di rilievo sovracomunale sono destinati al finanziamento degli impianti, delle infrastrutture e dei servizi necessari, indipendentemente dalla collocazione degli stessi anche al di fuori dei confini amministrativi del Comune nel cui territorio è localizzata l'area produttiva. L'art. 15 della L.R. 20/2000 introduce gli accordi territoriali quali procedure per concordare obiettivi e scelte di interesse sovralocale, nonché per coordinare l'attuazione delle previsioni dei piani urbanistici comunali. Stabilisce che tali accordi possano “prevedere forme di perequazione territoriale, anche attraverso la costituzione di un fondo finanziato dagli enti locali con risorse proprie o con quote dei proventi degli oneri di urbanizzazione e delle entrate fiscali conseguenti alla realizzazione degli interventi concordati”. In particolare, gli accordi territoriali sono individuati come lo strumento necessario per l'attuazione degli “ambiti specializzati per attività produttive di rilievo sovracomunale” e dei “poli funzionali”, ossia dei grandi centri o complessi comprendenti funzioni di grande attrazione e di rango metropolitano. All'insegna del metodo della concertazione, incentivato e supportato dalla L.R. 11/2001, sono nate in Emilia Romagna numerose Associazioni di Comuni e Unioni di Comuni: si tratta di aggregazioni in forma volontaria, sorte inizialmente con il fine della gestione unitaria ed efficiente di taluni servizi comunali, che si sono rivelate presto anche potenziali mezzi di coordinamento e omogeneizzazione delle politiche urbanistiche. In taluni casi, infatti, hanno danno avvio alla predisposizione in forma associata dei nuovi Piani Strutturali Comunali. La visione che la L.R. 20 ha promosso relativamente alla pianificazione di livello sovracomunale, ha trovato forza anche grazie al diretto intervento della Regione che, nell'erogazione dei finanziamenti per la redazione di nuovi piani comunali, ha privilegiato quelli redatti livello intercomunale in forma associata, congiunta o coordinata.

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La perequazione territoriale va intesa non come strumento finalizzato alla distribuzione equilibrata delle nuove scelte localizzative programmate sul territorio dei vari comuni, bensì come metodo per perseguire una più funzionale collocazione degli interventi.


La perequazione come strumento nella pianificazione sovracomunale

tentativo di applicazione dello strumento della perequazione territoriale nato sulla scorta degli stimoli della L.R. 20/2000, ha avviato uno studio sperimentale con l'intento di elaborare un modello generalizzabile, capace di porre le basi per l'applicazione omogenea del metodo, con l'intenzione di diffondere la consapevolezza che i comuni debbano condividere, volontariamente e in modo solidale, costi e benefici della programmazione urbanistica. I risultati della ricerca “Modello di perequazione intercomunale”, conclusasi nel 2002 e curata dalla Sezione Emilia Romagna di I.N.U hanno definito un modello concreto (urbanistico, amministrativo, giuridico e ambientale) di perequazione territoriale applicato ad un insediamento produttivo a cavallo tra i Comuni di Cavezzo, Medolla e San Prospero. Lo studio ha analizzato, partendo dalla misurazione preventiva di precisi indicatori di costo (traffico, richiesta di servizi, alloggi) e di beneficio (oneri di urbanizzazione, Ici, Irap, compartecipazioni all'Irpef), le compensazioni necessarie affinché, nell'operazione urbanistica di realizzazione di un insediamento produttivo, oneri e onori possano essere equamente distribuiti su tutte le municipalità interessate. PTCP della Provincia di Mantova – Tavola n.2 “Sistema insediativo e produttivo” Fonte: sito web della Provincia di Mantova, sezione PTCP

La Provincia di Bologna, ha compiuto un passo decisivo in occasione dell'elaborazione del proprio PTCP che individua in tutto il territorio provinciale gli “ambiti specializzati per attività produttive di rilievo sovracomunale” e prescrive per gli interventi che li riguardano la formazione di un accordo territoriale: qualunque nuova significativa previsione di sviluppo di attività industriali, commerciali e terziarie passa necessariamente attraverso la condivisione degli introiti e delle spese a livello intercomunale. (Fallaci, 2004) Una delle prime e più significative esperienze condotte in tal senso in provincia di Bologna è quella dell'accordo territoriale per gli ambiti produttivi sovracomunali dell'associazione "Valle dell'Idice", sottoscritto fra la Provincia di Bologna e i comuni di Castenaso, Ozzano dell'Emilia e San Lazzaro di Savena. Sono oggetto dell'accordo l'individuazione delle linee di assetto territoriale ed urbanistico degli ambiti produttivi sovracomunali facenti parte del territorio dell'Associazione “Valle dell'Idice” e la definizione di specifici indirizzi che consentano agli ambiti produttivi stessi di raggiungere livelli prestazionali di qualità. Un'altra esperienza in provincia di Bologna è quella dei due piani strutturali intercomunali promossi dalle associazioni Reno Galliera e Terre di Pianura indicati da Giuseppe Campos Venuti come validi piani “destinati a tentare una strategica operazione di riequilibrio territoriale, costruendo intorno alle nuove scelte infrastrutturali le nuove potenzialità insediative dell'area, di cui garantire la sostenibilità ambientale”. La Provincia di Modena, approcciando il primo

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La normativa lombarda e il PTCP della provincia di Mantova: La L.R. 4/2008 ha introdotto all'art. 15 “Contenuti del piano territoriale di coordinamento provinciale (PTCP)” della L.R. 12/2005 "Legge per il governo del territorio" il comma 7 bis che dispone che il PTCP possa individuare ambiti territoriali per i quali si rende necessaria la definizione di azioni di coordinamento per l'attuazione dello strumento stesso, anche finalizzate all'attuazione della perequazione territoriale intercomunale e alla compartecipazione dei proventi derivanti dai contributi di costruzione. Le azioni di coordinamento sono definite dalla provincia, d'intesa con i comuni interessati, ed approvate secondo le procedure stabilite dallo stesso PTCP. In tal senso il PTCP della Provincia di Mantova assume la concertazione tra gli enti locali quale metodo e criterio fondamentale per accedere ad opportunità insediative e di sviluppo più qualificate e destinate a soddisfare una domanda di natura esogena, nonché per affrontare e risolvere problematiche ambientali di area vasta. Il principale strumento di natura negoziale, attraverso il quale Provincia, Comuni e altri enti interessati possono ricercare un'equilibrata distribuzione dei vantaggi e dei sacrifici connessi ai fenomeni urbanizzativi, infrastrutturali ed insediativi, in modo da evitare che, per conseguire risorse economiche, si diffondano operazioni comportanti consistente consumo di suolo e di risorse ambientali, è la perequazione territoriale. Essa deve rispettare condizioni di sostenibilità e puntare alla realizzazione di obiettivi ambientali: relativamente agli “Obiettivi generali per il sistema insediativo” nonché ai “Criteri localizzativi delle previsioni insediative” viene indicata come strumento adeguato per politiche selettive atte a


Dossier: Il progetto

individuare, ad esempio, poli produttivi attorno a cui concentrare le iniziative di rilevanza sovralocale e provinciale. Gli strumenti amministrativo-giuridici, ai fini dell'attuazione della perequazione territoriale e della concertazione, sono individuati nei Protocolli d'intesa, negli Accordi di programma, nelle Convenzioni e nei Consorzi. In particolare, l'utilizzo dello strumento della perequazione territoriale è incentivato attraverso la promozione di accordi tra i Comuni quale condizione, ad esempio, per espansioni insediative rilevanti o per il potenziamento della rete infrastrutturale provinciale. Per promuovere i predetti accordi, la Provincia può favorire la costituzione di fondi di compensazione, finanziati dalla Provincia stessa e dagli enti locali con risorse proprie, attraverso entrate conseguenti alla realizzazione degli interventi o attraverso oneri di urbanizzazione. In termini di politiche cooperative di livello sovracomunale, accanto allo strumento della perequazione territoriale, il PTCP introduce, con l'art.47, procedure di concertazione sovracomunale finalizzate alla gestione coordinata di previsioni localizzative: tale procedura si rende necessaria allorquando atti di pianificazione comunale prevedano un consumo di suolo, quantificato secondo i “Criteri dimensionali delle previsioni insediative” eccedente la quota massima ammissibile per il singolo comune. Il comune territorialmente interessato dall'intervento, previa dimostrazione della coerenza degli interventi previsti o promossi con gli obiettivi del PTCP, è chiamato ad attivare una procedura di concertazione a livello sovralocale in cui la dimensione insediativa dovrà necessariamente confrontarsi con i valori delle quote massime insediabili dell'ambito sovracomunale. In sostanza le previsioni urbanistiche che superano le percentuali massime ammesse di consumabilità del suolo comunale sono ammissibili solo se l'eccedenza è assorbita dal suolo consumabile dell'ambito sovracomunale, in accordo con i comuni interessati. L'esito di questa attività potrà essere formalizzato in un documento insediativo d'ambito che interesserà i territori dei comuni interessati dalla procedura di concertazione sovracomunale. La normativa veneta e il caso della Provincia di Padova: La L.R.11/2004 della regione Veneto non richiama la perequazione territoriale in modo esplicito, ma, nell'affidamento al Piano di assetto del territorio intercomunale (P.A.T.I.) della funzioni di coordinare scelte strategiche di rilievo sovracomunale e di definire un'equa ripartizione dei vantaggi e degli oneri tra i Comuni interessati, mediante convenzione, può leggersi, ancorché in forma implicita, un rimando allo strumento perequativo. Relativamente a questo tema, nel 2007 l'Assessorato all'urbanistica della Provincia di Padova si è fatto promotore di un seminario

condotto da Francesco Karrer, che ha segnalato come sia possibile concertare le scelte anche con gli strumenti già disponibili, anche se questi non sono del tutto ottimali. Più precisamente, Karrer ha sostenuto che la perequazione territoriale in Veneto “può esplicarsi a legislazione invariata, sia con riguardo alla finanza locale che al diritto degli enti locali più in generale, nella consapevolezza che per cooperare tra enti territoriali gli strumenti non mancano: cabina di regia, protocollo di intesa, convenzione, consorzio, unione dei comuni, accordo di programma, associazione riconosciuta, fondo di partecipazione, società per azioni mista, società consortile a responsabilità limitata”. In questo quadro, si legge nella relazione dell'intervento, “occorre che la cooperazione sia incentivata, che divenga complessivamente conveniente, che convinca”. Conclusioni Le sperimentazioni condotte nelle realtà regionali citate e la lettura di esperienze di cooperazione sovracomunale sviluppate in realtà extranazionali, quali ad esempio Francia, Germania e New Jersey, invitano a ragionare su come l'utilizzo di questi metodi possa divenire strumento per gestire scelte localizzative e occasioni di sviluppo, limitando sprechi di risorse territoriali o duplicazioni di funzioni e servizi dal carattere sovralocale, e a riflettere su come alla ridistribuzione delle esternalità positive possa corrispondere la compensazione degli impatti prodotti. Chiuderei richiamando quanto scritto a tal proposito da Andrea Arcidiacono, secondo il quale “serve forse un'operazione di carattere politico-culturale che aiuti i comuni a comprendere le potenzialità (e spesso l'ineluttabilità) di un'azione sinergica, che è sollecitata in primo luogo dal sistema economico che sempre più ha bisogno di un'economia di scala”.

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PTCP della Provincia di Mantova – L'area del capoluogo di provincia. Fonte: sito web della Provincia di Mantova, sezione PTCP


Città oltre la crisi: risorse, governo, welfare. di Giovanna Ulrici

Temi pesanti quelli affrontati nell'ultimo congresso nazionale INU svoltosi a Livorno lo scorso aprile, ma temi a cui non è pensabile sottrarsi. Quali risorse in tempo di crisi, quali prospettive per le città oltre la crisi e quale welfare per i cittadini del futuro: di questo si è discusso, invitando alla riflessione anche rappresentanti del mondo economico e amministratori pubblici. Partendo da un dato di fatto: che la crisi oltre che essere economica è ambientale e sociale. Alcuni dati per inquadrare il “problema Italia” li offre Bellicini del Cresme, semplicemente ricordando il noto andamento del PIL nazionale negli ultimi anni a cavallo della crisi, già preceduta da un decennio di stagnazione: 2004 - 1,5; 2005 - 0,7; 2006 - 2,0; 2007 - 1,5; 2008 - -1,3; 2009 --5,2. In questi termini la crisi economica non è per tutti, visto il +5% registrato nello stesso 2009 dal PIL mondiale. L'avvicinamento alle tematiche urbane passa attraverso alcuni dati del settore delle costruzioni: analizzato da Cresme l'andamento in 148 paesi, la performance peggiore è quella dell'Italia dove il modello seguito negli anni '90 e 2000 è stato sostanzialmente quello degli anni '50, che ha prodotto “case euro zero” ben poco appetibili ma che anche in piena crisi difende e conserva prezzi stabili, come patrimonio di banche e famiglie: una contraddizione dimostrata dai dati di compravendite. Che mostrano segno positivo solo laddove evidenziano la forza delle compravendite da parte di stranieri (60% delle transazioni residenziali di fascia bassa), ma che vanno interpolati con altri dati sociali, come la crescita del numero di

anziani, la crisi del mercato giovanile, la flessione dei redditi sotto i 35.000 Euro. Come ricorda il prof. Stanghellini, poi, dal 2004 ad oggi si registra una flessione di oltre il 30% dei soli investimenti pubblici nel settore delle costruzioni. L'intervento pubblico è quindi in crisi, quando dovrebbe svolgere un ruolo anticiclico usando regolazione e investimento. Gli Enti locali e sovra locali si trovano senza risorse, o con un'unica risorsa – il suolo - sottoposta a fenomeni di erosione che vanno sotto la definizione di “consumo di suolo”. La grande attenzione alla necessità di contenere gli sprechi di suolo, che anche grazie al crescere della coscienza eco-sostenibile si è sviluppata recentemente, obbliga a supportare le politiche di riqualificazione e recupero per renderle più attrattive dell'uso di nuovo territorio agricolo: la frammentazione dei processi decisionali pubblici, la discrezionalità -soprattutto per gli investitori stranieri- non aiutano. Risolvere questo problema significa per l'urbanistica dare nuove forme al piano, significa puntare sul piano operativo che permette di legare strategie vincolistiche e politiche incentivanti o disincentivanti. Tramite Stanghellini, INU invita inoltre a valutare l'uso dei certificati verdi nelle politiche di governo del territorio: ci sono nell'industria, perché non usarli anche per l'urbanistica? Per farlo tutte le aree da urbanizzare devono acquisire un indice di edificabilità, minimo nella perequazione, massimo da poter raggiungere nella trasformazione. I crediti per le aree di recupero concorrerebbero a finanziare la città senza creare rendita urbanistica.

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Il tema della rendita è stato affrontato anche nel descrivere le cause della crisi immobiliare: come osserva il prof. Camagni, gli anni perduti sono quelli passati, cioè quelli del boom non sfruttato a fini pubblici. Tra il 1996 e il 2006 i prezzi nelle città sono aumentati del 55%, nella media del 35%; i costi di costruzione sono invece sostanzialmente rimasti invariati e le transazioni sono cresciute nello stesso periodo del 57%. Enormi plusvalori lasciati in mano a pochi. La rendita non è altro che la controfaccia monetaria della localizzazione, non è legata alla proprietà privata ma è anche dei suoli pubblici, la si tassa ma la tassazione non la consuma. Nei più recenti anni della crisi, dal 2006 al 2009, i prezzi degli immobili hanno subito una involuzione del -9%, le transazioni sono calate del 33%. La perdita dei prezzi è considerata molto tenue, se si pensa ai crolli di valore di Spagna, Francia e Irlanda negli stessi anni. Sono dati contenuti nell'ultimo rapporto Nomisma e sono dati apparentemente strani: se i prezzi restano fermi è fermo il mercato, inoltre il settore delle costruzioni è uno dei più arretrati. Allora perché questo calo contenuto? Nella politica dei tassi bassi si alimenta l'invenduto, che così costa ancora poco. La grande rendita passata del settore immobiliare si finanzia – pur potendo contare su alte rendite - con prestiti bancari, e l'abbassamento dei prezzi ridurrebbe l'asset a garanzia del debito. Come nella crisi del '29 un sistema oligopolistico ha lasciato alti i prezzi e ridotto la produzione mettendo sul lastrico tanti, il settore ci metterà quindi tempo a uscire dalla crisi.


São Paulo Brazil 1999 © Armin Linke. Courtesy Galleria Massimo de Carlo

Note dal XXVII Congresso nazionale Inu INU riafferma la necessità di un'ulteriore proposta: finanziare la città con il plusvalore privato. Di fiscalità patrimoniale se ne deve parlare, se serve a scala comunale: una tassa di scopo in podestà delle autonomie amministrative locali e con chiarezza di destinazione a differenza degli oneri di urbanizzazione. L'onerosità dei permessi introdotti dalla legge Bucalossi deve essere sia incrementabile con lo strumento attuativo mediante extraoneri applicabili variamente in base all'architettura del contesto, sia legata a nuovi oneri quali il contributo di sostenibilità della regione Emilia Romagna. Si tratta in particolare di concentrazioni impositive su fasce alte di mercato, in grado di offrire il surplus necessario agli investimenti anche per la città da riqualificare. Altri modelli vengono proposti, attingendo a virtuose potenzialità date dalle infrastrutture verdi capaci di creare innovazione capace di generare crescita, rendita, tasse. Infatti, se il tema della tassazione del plusvalore è complesso e ancora considerato utopistico, non lo è il calcolo oggettivo di quanto una pubblica amministrazione possa ricavare dalla negoziazione in un processo di trasformazione. Il prof. Camagni a riguardo ha riportato dati comparativi di operazioni immobiliari a Monaco e a Milano: a parte la facilità di accesso ai dati nel solo primo caso, in genere queste rendono in oneri di urbanizzazione il 38% della rendita in Germania, soltanto il 9% nel caso italiano, neppure sufficienti a coprire i costi delle vere urbanizzazioni. I casi europei mostrano che gli oneri si pagano in anticipo, non a

scomputo e coprono investimenti in fibre ottiche, in infrastrutture evolute, o in edilizia sociale. La negoziazione è dura e difficile, per questo cooperare tra comuni, e puntare sulla trasparenza possono essere di aiuto. Non si può più guardare e pesare le singole città, ma ragionare per sistemi, per territori basati su accordi, per piattaforme territoriali oltre i confini amministrativi. In questo senso il piano acquisisce un nuovo valore, come strumento per fare regia e coordinamento. Un bagno di realismo è stato offerto da alcuni amministratori, che hanno evidenziato come fino al 2014 valga per i municipi (anche trentini, ndr) il patto di stabilità, basato sui principi del blocco del prelievo fiscale e della determinazione di tetti tra cassa e competenza. Nel deprimere le entrate i principi sopraesposti semplicemente deprimono gli investimenti, fino a creare situazioni drammatiche (al punto che in alcune amministrazioni ciò ha comportato anche il blocco dei pagamenti dei S.a.l., quindi di fatto la sospensione delle opere in corso). La crisi non è solo economica ma investe i meccanismi di organizzazione delle città e le prospettive di definizione di costi standard per fabbisogni standard pare punire chi è andato più avanti, che ha surrogato lo Stato, chi per ora riesce a offrire servizi in più, servizi evoluti. Il sistema fiscale locale attuale, definito dal ministro Tremonti “un albero cresciuto storto” risale all'assetto dato con la nascita delle Regioni del '72 ed alla volontà di stabilire un contrappeso centralistico alla spinta federalista rappresentata dalle stesse regioni. La leggerezza demagogica mostrata

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nella soppressione dell'ICI, che generava risorse dalla città esistente, si sostanzia ora di varie opzioni compensative che devono necessariamente basarsi, come la perequazione del nuovo, sulla speranza che il mercato del futuro tiri e torni, più forte di prima, a generare risorse anche se questo purtroppo implica l'espansione della città. I fondi immobiliari, per i quali esistono molte voci di diffidenza, cercano investimenti su progetti approvati dalle città e in procedimenti decisionali che abbiano certezza dei termini procedurali e trasparenza. Anche la partecipazione, valore che sembra scontato ma non è mai abbastanza perseguito, può quindi rappresentare un valore aggiunto nel momento in cui è fattore di controllo della aleatorietà delle transazioni politiche. A condizione che si affronti la partecipazione utilizzando tecniche di negoziazione evolute -gestite da agenzie indipendenti e soggetti specializzati – e basate su progetti chiari. Concludendo, con la riflessione di Properzi, il futuro si gioca su tre territori, ciascuno dei quali mette in campo tre possibili modelli di sviluppo. Il campo sociale, che porta obiettivi di servizio e che rappresenta anche uno scenario dato dalle politiche europee. Il campo istituzionale, dove il futuro si gioca nei termini dati dal federalismo. E la pianificazione, che con strumenti di valutazione strategica e di gestione della rendita (perequazione ma non solo) si muove nella direzione della cooperazione.


Abitare l'Italia: territori, economie, diseguaglianze; note a margine della XI conferenza SIU Torino 24-26 marzo 2011 di Francesco Minora Si è svolta a Torino dal 24 al 26 marzo l'annuale conferenza nazionale della Società Italiana degli Urbanisti (SIU) intitolata “Abitare l'Italia: territori, economie, diseguaglianze”. La conferenza, a detta degli organizzatori, ha saputo raggiungere un discreto pubblico, raccogliendo un numero di contributi scientifici superiore alle duecento unità, quantità sino ad oggi mai raggiunta per questo genere di iniziative. Di fatto, al di là dei numeri, questo evento ha rappresentato un momento importante di confronto tra esperti accademici che da diverse parti d'Italia e con diversità di approcci di ricerca oggi si interrogano su una questione, quale quella dell'abitare, che negli ultimi anni nel nostro paese, a differenza di quanto accaduto nei precedenti decenni, ha assunto un peso sempre maggiore nell'agenda politica pubblica. La città di Torino non è stata scelta a caso: le amministrazioni pubbliche locali hanno avviato da diversi anni una serie di sperimentazioni, più o meno riuscite, più o meno copiate nel resto del nostro paese, volte a contrastare il disagio abitativo di una città in piena transizione economica, sociale ed urbanistica. È difficile sintetizzare in poche righe l'enorme profluvio di parole, concetti, idee e immagini espressi da persone autorevoli nel panorama scientifico italiano che si sono potute ascoltare condensate in tre sole giornate di lavori. L'articolazione della conferenza per atelier paralleli di discussione ha costretto i partecipanti a disegnare un proprio personale percorso di approfondimento della questione oggetto di discussione, operando quindi un oculato investimento del limitato tempo a disposizione sia per l'ascolto e che per la presentazione del proprio contributo. Le considerazioni quindi che il sottoscritto può effettuare sono relative al mio

personale percorso di riflessione e quindi del tutto limitate rispetto alla portata dell'evento. In estrema sintesi ho partecipato alla conferenza per comprendere che cosa significhi oggi, per un giovane ricercatore, interrogarsi rispetto alla “questione abitativa”. Da questo punto di vista l'evento di Torino è stato molto ricco di stimoli. Proverò a condensare in due passaggi quello che per il sottoscritto rappresentano alcuni concetti chiave e linee di ricerca sulla questione abitativa. Da politiche della casa a politiche dell'abitare Sappiamo che tradizionalmente in Italia il problema della casa è stato affrontato dalle politiche di settore, sin dagli anni del boom economico fino a pochi anni fa, come un problema di fornitura di alloggi adeguati e decenti alle esigenze di popolazioni che andavano a concentrarsi sempre di più in aree urbane. La denuncia di importanti studiosi italiani (Tosi, 1994; 2004) dell'incapacità di questo modello di rispondere alle domande abitative di fasce della popolazioni marginali, ha messo in luce la necessità di superare un rigido modello di trattamento amministrativo del bisogno abitativo, incapace di riconoscere nella “casa” un dispositivo di integrazione, luogo di rappresentazione delle identità degli abitanti, veicolo per costruire un progetto di vita e di autentica cittadinanza, o se vogliamo dispositivo di “urbanità” (Amin & Thrift, 2005). La casa negli ultimi decenni nel nostro paese è sempre stata vista dalle politiche pubbliche come un bene privato esclusivo (oggi oltre il 70% degli italiani possiede un alloggio di proprietà), in cui la funzione residenziale è stata rigidamente separate dalle altre, in cui gli spazi pubblici attigui all'abitazione hanno finito per sparire o sono stati banalizzati. È interessante osservare come anche oggi in alcuni recenti progetti di riqualificazione di Milano

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(Bricocoli & Savoldi, 2010) il verde pertinenziale, ad esempio, è un elemento che separa gli abitanti più che avvicinarli, un elemento del paesaggio urbano più da “guardare” che da “praticare”. Tornano quindi a suscitare un certo interesse, almeno per alcuni urbanisti, alcune pratiche abitative in cui gli abitanti e soprattutto le amministrazioni pubbliche locali mettono in discussione questo modello abitativo esclusivo, che però appare ancora oggi come quello prevalente: alcune esperienze di housing sociale, alcuni progetti di coabitazione, talune iniziative di rigenerazione urbana alla scala di quartiere, sebbene lungi dall'essere proposte sistemiche, mostrano un rinnovato bisogno di costruire spazi di prossimità, reciprocità e talvolta solidarietà. Costruire politiche per l'abitare implica una serie di questioni che non si ha qui lo spazio di approfondire: una su tutte il tema del coinvolgimento dell'attore privato (sia esso profit o nonprofit), nella produzione di beni e servizi di interesse generale o più specificatamente di spazi e luoghi pubblici e conseguentemente del ruolo dell'attore pubblico nella costruzione di coesione sociale e nella definizione delle regole del gioco. È interessante da questo punto di vista osservare che la città “pubblica”, oggi difficilmente può coincidere solo ed esclusivamente con quella “statale”. Mi permetto di fare una notazione personale, derivata dai miei studi sui regimi proprietari collettivi, e che alcuni partecipanti alla conferenza hanno approfondito (Moroni & Brunetta, 2008). Quello che pare essersi smarrito nel corso dei passati decenni di tradizionali politiche di governo del territorio e, quindi, anche in quelle per la casa, è l'idea che la proprietà privata coincida con quella individuale. La proprietà privata ha mostrato nella storia numerose forme di espressione, tra cui quella


Photo by Alfredo Brillembourg Courtesy Urban Think Tank Caracas Informal City project

dimenticata nelle nostre città italiane della “proprietà collettiva”, regime proprietario questo oggi diffuso nel nostro paese solo in tracce ed in contesti rurali e montani (Minora, 2010). Di qui l'idea di un ritorno della comunità (come suggerivano alcuni utopisti che formularono idee di “città a misura di giardino”) come un possibile attore su cui strutturare interventi di trasformazione territoriale e di politica urbana. Questo tema è apparso nella conferenza estremamente controverso e generalmente visto come una “moda del momento”. Il dato riscontrabile nelle molte relazioni presentate a Torino è che oggi si fatica a trovare un modello prevalente di politiche abitative che abbia la stessa forza pervasiva di quello che ci siamo lasciati alle spalle: ogni regione e ogni città deve in qualche misura trovare le ricette più adatte a trattare il proprio disagio abitativo. Alcune questioni ereditate dal passato appaiono oggi in discussione: come garantire il diritto alla casa come minimo standard di vita a prescindere dall'attività lavorativa dell'abitante? Come ridefinire il concetto di “tensione abitativa”? Fino a che punto l'“indice di affollamento” individuato nella misura di un abitante per vano oggi appare come l'unico standard abitativo minimo adeguato per qualunque tipo di abitante? Come superare la difficoltà di assimilare a standard urbanistico dotazioni immateriali di servizi e attrezzature connesse all'abitare? Per un'amministrazione pubblica superare la logica di politiche della casa per aprirsi alla produzione di politiche dell'abitare significa attribuire un grado di complessità maggiore alla questione abitativa e misurarsi necessariamente con una scena politica aperta alla diversità istituzionale, attribuendo anche al cittadino un ruolo nella produzione di modelli abitativi inediti e difficili da governare.

Pratiche e progetti di adattamento all'instabilità ambientale, sociale ed economica A fianco di una riflessione più generale su come si trasformano le politiche abitative e sulle implicazioni che questa trasformazione ha sul sistema di governo del territorio, appare parimenti indispensabile porsi con uno sguardo attento e critico rispetto a quale sia la risposta progettuale di architetti e urbanisti al bisogno abitativo oggi molto frammentato e complesso. La dimensione del contenimento dei consumi energetici, ad esempio, oggi appare come un tema con molteplici rilevanze: da un lato spinge il progettista ad elaborare progetti che includano innovazioni tecnologiche nell'uso dei materiali e nella concezione del progetto della casa come di un bene che si colloca nel tempo oltre che nello spazio (i risparmi energetici consentono di ripagare nel tempo l'investimento), ma al contempo consente di realizzare quelle economie di scala che rendono la casa un bene più accessibile in termini economici e quindi adatto alle esigenze di chi non dispone di risorse per accedere al libero mercato né le caratteristiche per accedere all'edilizia pubblica. La sfida per i progettisti è appare quella di fare “molto” con “poche” risorse. Realizzare progetti per l'abitare (e non progetti residenziali) implica considerare come centrali alcuni aspetti e attribuire ad essi un significato non solo tecnico, ma anche e soprattutto sociale: uno degli aspetti più interessanti è quello dell'accesso, inteso quindi non solo come possibilità di entrare nell'alloggio, ma come azione dell'abitante di inserimento in un quartiere e in una città. Accesso quindi inteso non solo con specifica attenzione al godimento dell'alloggio, ma a tutto quell'insieme di servizi che strutturano l'esperienza abitativa e che fanno del residente un vero e proprio abitante. L'articolazione dello spazio abitativo come un

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susseguirsi di occasioni di contatto e di incrocio o scambio con i vicini rappresenta uno degli aspetti essenziali nella progettazione di quartieri e complessi edilizi che mettono al centro una forte componente sociale. Riprodurre la complessità e la ricchezza della città in un progetto abitativo, caratterizzando l'area di trasformazione con elevati mix sociali e funzionali, ideando soluzioni abitative e tipologiche che valorizzano la temporaneità e adattabili a molteplici tipologie di abitanti e ai possibili cambiamenti nella vita delle persone nel tempo, in grado di garantire facilità e contenimento dei costi di accesso e di permanenza (Fondazione Housing Sociale, 2010), in una parola potremmo dire un progetto abitativo capace di rispondere all'”instabilità” ambientale, sociale ed economica con cui l'abitante si misura quotidianamente, appaiono come i tratti principali di un rinnovato progetto urbanistico per l'abitare di oggi e di domani.

Riferimenti bibliografici Amin, A., & Thrift, N. (2005). Città; ripensare la dimensione urbana. Bologna: Il Mulino. Bianchetti, C. (2008). Urbanistica e sfera pubblica. Roma: Donzelli editore. Bricocoli, M., & Savoldi, P. (2010). Milano Downtown; Azione pubblica e luoghi dell'abitare. Milano: Et. al. edizioni. Fondazione Housing Sociale (2010). Un programma per l'housing sociale - concorso internazionale di progettazione di Housing Sociale; a Social Housing programme; international Design Competition of Social Housing. Milano: Fondazione Cariplo; Abitare Sociale 1. Minora, F. (2010) Le proprietà collettive tra “spazio e società”: temi e questioni di rilevanza territoriale Archivio Scialoja Bolla Annali di Studi sulle Proprietà Collettive n.1 Milano: Giuffrè editore Moroni, S., & Brunetta, G. (2008). Libertà e istituzioni nella città volontaria. Milano: Bruno Mondadori. Moroni, S., & Lanzani, A. (2007). Città e azione pubblica;. Roma: Carocci. Tosi, A. (1994). Abitanti: le nuove strategie dell'azione abitativa. Bologna: Il Mulino. Tosi, A. (2004). Case, quartieri, abitanti, politiche. Milano: Clup.


Inu/Trentino Chi siamo, cosa vogliamo come partecipare COSA È L’INU?

COME ASSOCIARSI

L’Istituto Nazionale di Urbanistica è stato fondato nel 1930 per promuovere gli studi edilizi e urbanistici, diffondendo i princìpi della pianificazione. Lo Statuto, approvato con DPR 21.11.1949, definisce l’INU come “Ente di diritto pubblico ... di alta cultura e di coordinamento tecnico giuridicamente riconosciuto” (art. 1).

Per associarsi all’Istituto Nazionale di Urbanistica (INU) occorre presentare al Presidente della Sezione di competenza (per residenza o luogo di lavoro) una domanda sottoscritta da due Membri effettivi dell’Istituto e accompagnata da un breve curriculum e dalla ricevuta di pagamento della quota associativa per il primo anno. Il Consiglio direttivo locale approva le domande e le trasmette alla sede nazionale per la ratifica e la registrazione.

L’INU è organizzato come libera associazione di Enti e persone fisiche, senza fini di lucro. In tale forma l’Istituto persegue con costanza nel tempo i propri scopi statutari, eminentemente culturali e scientifici: la ricerca nei diversi campi di interesse dell’urbanistica, l’aggiornamento continuo e il rinnovamento della cultura e delle tecniche urbanistiche, la diffusione di una cultura sociale sui temi della città, del territorio, dell’ambiente e dei beni culturali. Inu aderisce a CIPRA (Commissione Internazionale per la Protezione delle Alpi) sia formalmente che con contributi ed elaborazioni di significativo valore disciplinare. La stessa composizione della sua base associativa caratterizza l’INU come luogo di scambio e di libero confronto culturale, attraverso le diverse esperienze di cui ciascun socio è portatore: da quelle scientifiche, accademiche e della ricerca a quelle tecniche, professionali e della pubblica amministrazione. L’attività sociale propria dell’Istituto si articola in prevalenza intorno alle sue numerose iniziative nazionali, regionali e locali (rassegne, convegni, seminari e simili), che nell’arco dell’anno, sono diverse decine. A queste si aggiungono le attività finalizzate alle pubblicazioni e alla ricerca, svolta sia in proprio che – anche sotto forma di consulenze – per conto di Enti pubblici. L’INU ha sede a Roma ed è articolato in diciannove Sezioni regionali. Gli Enti associati sono Regioni, Province, Comuni, Iacp, aziende ed enti economici pubblici e privati, dipartimenti universitari, Ordini e associazioni professionali, imprese, cooperative e loro associazioni, Istituti di ricerca, studi professionali, associazioni culturali. I Soci (Membri effettivi e Soci aderenti) sono docenti e ricercatori, professionisti, dirigenti e funzionari delle pubbliche amministrazioni, studenti. Agli architetti, ingegneri e urbanisti, si affiancano giuristi, economisti, geologi, geografi, agronomi, cartografi, ecologi, archeologi e medici. Le Sezioni locali possono attivare – anche su proposta di gruppi di soci – proprie Commissioni (o gruppi di lavoro), su temi analoghi o complementari a quelli trattati dalle Commissioni nazionali, ovvero su altri temi, o per lo studio di situazioni e problemi locali. Le Sezioni locali partecipano comunque con propri rappresentanti alle attività degli Osservatori nazionali e, qualora ne abbiano interesse, ai lavori delle Commissioni nazionali di studio.

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Per gli Enti pubblici che intendono associarsi è sufficiente inviare alla sede nazionale dell’Istituto la delibera degli organi competenti (di cui potete scaricare il modello) contenente anche l’impegno di spesa per la prima quota annuale, oppure anche solo una copia della ricevuta del versamento della quota associativa. Informazioni e modelli per iscriversi sono sul sito: http://www.inu.it Il pagamento della quota associativa può essere effettuato con bollettino postale n. 97355002 intestato a “INU c/Soci” o mediante bonifico bancario sul conto n. 000000581551 intestato a “INU” – Banca di Roma – Filiale 112 – ABI 03002 – CAB 03256. Per contatti e ulteriori informazioni: Segreteria INU Sezione Trentina (arch. Elisa Coletti, elisacoletti@libero.it).


Trento Under Construction. Un’iniziativa dell’Inu/Trentino e di casaCittà Un reportage fotografico di Paolo Sandri Quattro forum di discussione sulla città in trasformazione È stata inaugurata mercoledì 11 maggio ed ha chiuso i battenti il 30 giugno la mostra “Trento Under Construction” allestita presso Le gallerie a Piedicastello e promossa dalla sezione trentina dell'Istituto nazionale di Urbanistica in collaborazione con il Laboratorio urbano di Trento (casaCittà) e con la Fondazione Museo Storico del Trentino. Erano previsti, oltre all'esposizione delle fotografie realizzate su Trento da Paolo Sandri, anche quattro momenti di discussione dove sono stati affrontati alcuni temi strategici delle trasformazioni urbane in corso nel capoluogo. La mostra è nata dalla convinzione che Trento stia vivendo degli importanti cambiamenti urbanistici che andranno a definire, in un futuro molto vicino, un nuovo assetto urbano e sociale della città. Alcune sfide che attendo la Trento del domani sono in corso di realizzazione, altre stanno per essere implementate, mentre altre ancora sono in attesa di una chiara definizione. Trento non è più la città di ieri, ma non è ancora quella di domani. È bene allora interrogarsi sulle potenzialità e sulle criticità di questi nuovi assetti che andranno a disegnare lo spazio di vita del nostro futuro. Nel corso del 2010 Paolo Sandri ha realizzato un reportage fotografico per la rivista “Turrisbabel” (l'organo di informazione della Fondazione dell'Ordine degli Architetti di

Bolzano) che ritrae la città di Trento in un irripetibile momento di trasformazione. Le fotografie di quel viaggio – che raccontano di cantieri in fermento ma anche di luoghi in attesa – sono state così esposte per evocare gli interrogativi di una città «in costruzione», in bilico tra un'immagine ormai compromessa e un'idea che deve ancora concretizzarsi. L'esposizione è stata l'occasione per discutere su alcune questioni cruciali per il futuro della città. Mercoledì 11 maggio sì è parlato del sistema dei poli museali a Trento, tra nuove opportunità e reti consolidate. Il pretesto è dato dalla riorganizzazione urbana di un'ampio comparto urbano che ruoterà attorno al nuovo Museo di Scienze Naturali firmato da Renzo Piano e attualmente in costruzione. Moderati dal giornalista Paolo Mantovan, erano presenti Giuseppe Ferrandi (Fondazione Museo Storico del Trentino), Michele Lanzinger (Museo Tridentino di Scienze Naturali), Franco Marzatico (Castello del Buonconsiglio), Andrea Villani (Fondazione Galleria Civica di Trento) e Lucia Maestri (Assessore per le materie della Cultura, Turismo e Giovani del Comune di Trento). Venerdì 20 maggio si è parlato, invece, del tema della «Destra Adige», ovvero di tutta quella parte di città collocata oltre il fiume Adige e bisognosa di forti interventi di

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riorganizzazione. Hanno partecipato all'incontro moderato dal giornalista Franco Gottardi, Renato Bocchi (Università Iuav di Venezia), Melchiore Redolfi, (Presidente della Circoscrizione Centro storico e Piedicastello), Antonio Scaglia (Università di Trento), Alberto Winterle (Redazione “Turrisbabel”) e Paolo Biasioli (Assessore per le materie della Pianificazione urbana e politiche abitative del Comune di Trento). Venerdì 27 maggio si è affrontato il tema delle aree ex-caserme, che comprendono una vasta parte dell'area sud del capoluogo e su cui non esiste ancora una progettualità ben definita. Coordinati dal giornalista Luca Malossini ne hanno discusso Roberto Bortolotti (Architetto), Beppo Toffolon (Italia Nostra), Giovanna Ulrici (Istituto Nazionale di Urbanistica), Bruno Zanon (Università di Trento) e Michelangelo Marchesi (Assessore per le materie dell'Ambiente e Mobilità del Comune di Trento) Infine venerdì 10 giugno si è tenuto il forum conclusivo dedicato alla strategia per la Trento del futuro. Al tavolo dei relatori Franco Gottardi (l'Adige), Roberto Bortolotti (Corriere del Trentino), Paolo Mantovan (Trentino) hanno fatto una sintesi di quanto emerso negli incontri precedenti. Erano presenti, inoltre, Alessandro Andreatta (Sindaco di Trento) e Giuseppe De Luca dell'Istituto Nazionale di Urbanistica.


Biblioteca dell’ rbanista

Leonardo Benevolo “La fine della città” Editori Laterza, Roma-Bari 2011, 12 euro

Giuseppe Campos Venuti “Un bolognese con accento trasteverino” Editore Pendragon, Bologna 2011, 12 euro

Giovanni Astengo “Urbanistica, la scienza del futuro” La Finestra editrice, Trento 2011, 28 euro

Sotto i nostri occhi sta avvenendo una trasformazione radicale della città. Nessuno riesce a definire con certezza quale possa essere il suo destino, perché ha perso una delle caratteristiche che l’ha sempre contraddistinta: l’essere circoscritta. Non si sa che cosa diverrà proprio nel momento in cui diventa il luogo di vita della maggioranza degli abitanti del mondo. La città perde la sua fisionomia e invade il territorio circostante, che non acquista caratteri di urbanità, ma non è neanche più campagna. Il fenomeno è planetario e interessa sia i paesi industrializzati che quelli più poveri, anche se le forme di questo cambiamento sono molto diverse in Europa rispetto al Sud America o all’Africa.

Dal 1945 al 1980, trentacinque anni di vita personale e professionale di uno dei protagonisti dell'urbanistica italiana, dai primi momenti della lotta alla rendita urbana, che caratterizzerà il suo intero percorso lavorativo ed esistenziale, alle nuove prospettive dell'austerità urbanistica, passando per intense esperienze amministrative: nel 1960, chiamato a disegnare il nuovo volto di Bologna nella Giunta del sindaco Dozza; quindi un decennio più tardi, nella Regione Emilia Romagna. Un'autobiografia che si intreccia ad alcune tappe fondamentali del Novecento, e che, come dice l'autore nell'introduzione, vale la pena ripercorrere "per comprendere meglio quanto accade oggi e magari evitare alcuni errori che stiamo facendo in Italia”.

Questo volume, curato da Alessandro Franceschini, ripropone la voce “Urbanistica” che Giovanni Astengo elaborò per l'Enciclopedia universale dell'arte, edita nel 1966 dall'Istituto per la collaborazione RomaVenezia. Si tratta di una voce molto articolata presente nel XIX volume dell'Enciclopedia e che riassume, in una sintesi inedita per l'urbanista torinese, le ricerche effettuate negli ultimi decenni, e, al contempo, cerca di essere un'occasione per gettare le fondamenta per una strutturazione il più possibile definitiva della disciplina. Nonostante siano passati quasi cinquant’anni dalla stesura della “voce”, i temi toccati da Astengo e le modalità con cui affronta le prerogative della disciplina sono ancora di grande attualità.

Il Rapporto dal Territorio che l'istituto Nazionale di Urbanistica pubblica con cadenza regolare in occasione del proprio Congresso Nazionale, è diventato ormai un appuntamento fisso per la cultura urbanistica italiana, ma anche uno strumento utile per tutti gli operatori del settore che hanno responsabilità specifiche in materia, da quelle professionali nel settore pubblico e in quello privato, a quelle didattiche nei vari livelli di formazione, senza dimenticare le responsabilità di governo a livello locale e nazionale, in particolare quelle di chi ha un compito di direzione politica o legislativa. […] Più in generale, ... sembra comunque di poter affermare che il Rapporto dal Territorio,in particolare in questa quinta edizione 2010, sia diventato un solido strumento d'informazione tecnica e culturale per tutti, andando ben al di là delle sue intenzioni originarie, indirizzate ad un più ristretto ambito disciplinare. L'edizione precedente si era soffermata con particolare attenzione sui cambiamenti più importanti avvenuti nello scenario urbano e territoriale con l'irrompere delle problematiche della metropolizzazione e la necessità di aggiornare, di conseguenza, gli strumenti

d'intervento, dando nello stesso tempo conto dello stato della pianificazione istituzionale nel nostro Paese; evidenziando in modo critico e con il rilievo necessario lo spazio ancora largamente maggioritario coperto da quella comunale, secondo una tradizione consolidata della pianificazione italiana. Anche questa edizione 2010 riprende nei primi tre capitoli la descrizione dello stato della pianificazione istituzionale, regionale, provinciale e comunale, che rimane il “cuore” del documento, ma accompagna questa descrizione con approfondimenti e valutazioni anche assai originali e inediti (come la parte sulle professionalità dell'urbanistica) che rendono il volume assai più ricco ed interessante del precedente.

Rapporto dal Territorio 2010. Edizione 2011 A cura di Pierluigi Properzi Monitoraggio biennale dell'attività di pianificazione Pagine 411, formato cm. 21 x 29, tavole e illustrazioni a colori Prezzo di copertina € 48 Agevolazioni per gli iscritti INU

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(dalla presentazione di Federico Oliva, Presidente dell'Istituto nazionale di urbanistica)


porfido e pietre trentine Verso nuovi traguardi

DISTRETTO DEL PORFIDO E DELLE PIETRE TRENTINE

MISSION DELLA SOCIETA'

Promuovere l'evoluzione competitiva del sistema produttivo locale che ha per oggetto l’estrazione, la lavorazione e la commercializzazione del porfido e delle pietre trentine con la prestazione di servizi a supporto dei processi innovativi delle imprese operanti nell'ambito provinciale

OBIETTIVI DELLA SOCIETA' - la promozione della cultura e dell'immagine del distretto oltre al confronto e lo scambio culturale, commerciale e produttivo; - l'incremento della capacità di innovazione delle imprese; - il potenziamento e l'evoluzione qualitativa dell'accesso al mercato delle imprese distrettuali; - l'aggregazione di imprese, finalizzate al rafforzamento competitivo e la cooperazione tra imprese in progetti che perseguono il medesimo obiettivo; - la creazione e lo sviluppo e risorse capaci di generare benefici collettivi; - il consolidamento dei livelli occupazionali e delle altre risorse umane del distretto attraverso attività di istruzione e formazione mirata; - miglioramento delle condizioni ambientali del distretto e delle condizioni di sicurezza sul lavoro e della qualità della vita; - l'internazionalizzazione delle imprese e l'accesso a nuovi mercati.

PROGETTI Riutllizzo scarti e ricerca nuove applicazioni

Caratterizzazione viabilità con uso pietra trentina

Promozione Pietra Trentina

Ricerca, qualità e nuove tecnologie

Osservatorio Provinciale

Riorganizzazione settore estrattivo provinciale

Sostenibilità ambientale della pietra Trentina

Sito Web

Nuovi prodotti e design

Nuovi inserimenti per lavoratori inabili e formazione

Codice etico Formazione

Accordo con Enti locali per la promozione e uso della pietra trentina

IN COLLABORAZIONE CON TRENTINO SVILUPPO SONO STATI SVILUPPATI I SEGUENTI PROGETTI. Progetto Kaizen per miglioramento processo produttivo - Progetto Hab per nuovi prodotti - Progetto Innova per la commercializzazione



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