Singolare femminile. Amalia Guglielminetti nel Novecento italiano

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monografie

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Il genio femminile Ritratti e istantanee

Alessandro Ferraro

singolarefemminile Amalia Guglielminetti nel Novecento italiano



Il genio femminile. Ritratti e istantanee collana diretta da Enza Biagini e Ernestina Pellegrini

Comitato scientifico Augusta Brettoni, Anna Dolfi, Elisabetta De Troja, Maria Fancelli, Federico Fastelli, Rosalia Manno Tolu, Anna Nozzoli, Diego Salvadori, Anna Scattigno, Rita Svandrlik

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Alessandro Ferraro

Singolare femminile Amalia Guglielminetti nel Novecento italiano

Società

Editrice Fiorentina


© 2022 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it facebook account www.facebook.com/sefeditrice twitter account @sefeditrice isbn 978-88-6032-651-5 ebook isbn 978-88-6032-655-3 issn 2036-3508 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata In copertina Autocaricatura di Amalia Guglielminetti (Almanacco letterario, Mondadori, Milano 1928, p. 39)


Indice

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Ritratto veritiero

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Tavola delle sigle

primo tempo (1881-1913) 31

1. L’esordio dell’educanda

47 2. Il canzoniere claustrale in stile floreale: Le vergini folli 66

3. Alla ribalta letteraria con Guido Gozzano

94

4. Le seduzioni di «quella che va sola»

127 150

5. Un poemetto per la sorella, un poema tragico per se stessa 6. Il congedo dell’Insonne

secondo tempo (1913-1941) 181 7. «E credete che faccia bene a tentar prosa?» Dai Volti dell’amore alla Rivincita del maschio 217

8. La collaborazione con «Corriere dei Piccoli», «Bibliotechina de La lampada» e altre fiabe

239

9. Le commedie per il teatro (e una riflessione sull’orgoglio)


267 10. Meglio direttrice che moglie ovvero madre e padre di una rivista 292

11. Pitigrilli e pudore. I problemi giudiziari

319

12. Il finale del levriero

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Bibliografia

375

Indice dei nomi


Ritratto veritiero

Chissà come sarebbe contenta, Amalia Guglielminetti, e come le luccicherebbero i begli occhioni galeotti e ghiotti, se in qualche modo le venisse all’orecchio, là nella latteria della stazioncina di transito dov’ella sta aspettando la coincidenza per il purgatorio, che c’è ancora un suo lettore convinto sulla terra, a diciott’anni di distanza da che lei, dopo aver prodigato tutto di sé, ha fatto il fagottino alla chetichella, e triste triste se l’è filata via all’altro mondo, come una qualunque povera fantesca licenziata in tronco dai suoi padroni. E per giunta senza nemmeno un benservito come si deve, da poterle giovare, là, appo gli spiriti pur che tuttavia l’hanno assunta.

E

ra il 31 maggio 1959 quando Una lira di poesia, di cui si è trascritto l’incipit, venne inserita nel Taccuino dello svagato, la rubrica personale dal piglio imprevedibile che Giorgio Caproni andava aggiornando sulla «Fiera Letteraria» per conservare ciò che meritava, secondo il suo giudizio, di essere valorizzato e sottratto alla dimenticanza. Le due colonne dedicate ad Amalia Guglielminetti apparvero fra la lettera d’istruzioni con la quale Caproni accompagnò la stesura definitiva del Seme del piangere che inviò a Garzanti, datata 23 maggio, e la pubblicazione della raccolta di versi, finita di stampare il 26 giugno. Non può, allora, lasciare indifferenti che Amalia Guglielminetti, in Una lira di poesia, si trovi «là nella latteria della stazioncina di transito dov’ella sta aspettando la coincidenza per il purgatorio», mentre la protagonista di Ad portam inferi, Anna Picchi, la madre del poeta, l’Annina del “libro tutto vezzeggiativo” di cui il componimento è uno dei più memorabili, stia «seduta in quella stazione», che nei primi appunti era una latteria,


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«la mano sul tavolino | freddo, ad aspettare | l’ultima coincidenza | per l’ultima destinazione». Varcando l’aldilà, è un fagottino quel poco che si portano dietro la poetessa sessantenne e la sartina cinquantaseienne, due volti di un’unica donna ormai fuori la porta, come una collaboratrice domestica cacciata via di casa. Amalia, «dopo aver prodigato tutto di sé, ha fatto il fagottino alla chetichella, e triste triste se l’è filata via all’altro mondo, come una qualunque povera fantesca licenziata in tronco dai suoi padroni», e Annina, «posato il fagottino | per terra, asciuga | di soppiatto – | in fretta | come fa la servetta | scacciata, che del servizio | nuovo ignora il padrone | e il vizio – la sola | lacrima che le sgorga | calda, e le brucia la gola». Il seme del piangere risarcì Anna Picchi della gioventù perduta nei dolori della guerra, nei dispiaceri della maternità e nella morte per malattia, con un’operazione poetica dall’inestimabile valore, certo altissimo rispetto allo scritto d’occasione Una lira di poesia, riproposto dall’autore nel 1962 sul quotidiano «La Giustizia». Qui, però, interessa che Caproni, uno che mica metteva troppi paletti fra piani letterari diversi e si divertiva ad abbattere le barriere fra “grandi” e “minori”, scrisse sulla (e alla) «cara» e già «dimenticatissima Amalia» per assicurarle che c’era «ancora un suo lettore convinto sulla terra, a diciott’anni di distanza» dal 4 dicembre 1941, giorno in cui morì per le conseguenze di una caduta. Anni in cui la poetessa scivolò via anche dalla circolazione editoriale e critica, ancorché si continuò a parlare di lei per lo scandalo – così s’intitola un’altra poesia del Seme del piangere in cui Annina è una ciclista – che crearono alcune sue opere, la sua bellezza moderna di donna controversa o la sua vita tribolata, dall’amitié amoureuse con Guido Gozzano alla liaison dangereuse con Dino Segre, in arte Pitigrilli (vale a dire, dall’apripista dei poeti del Novecento al re Mida del romanzo di evasione). Eppure Amalia Guglielminetti, nata a Torino il 4 aprile 1881, vide uscire già a vent’anni il suo primo componimento, sulla «Gazzetta del Popolo», e nel 1903 non passò inosservata la raccolta d’esordio Voci di giovinezza. La poetessa salì alla ribalta nel 1907 per Le vergini folli e raggiunse il culmine del successo nel 1909 grazie alle Seduzioni dove


ritratto veritiero 9 si trova, declinato in decine di versi, l’epiteto scelto per autodeterminarsi, «quella che va sola», trasposizione poetica della propria persona singolare femminile. L’insonne del 1913 chiuse un decennio, al quale appartengono il poemetto Emma del 1909 e il poema tragico L’amante ignoto del 1911, quasi esclusivamente dedicato alla poesia e che coincide – un’antologia congrua lo dimostrerebbe – con la migliore Guglielminetti. L’«unica poetessa» d’Italia, sentenziò nel 1912 Gabriele D’Annunzio, negli anni Dieci e Venti scrisse poi fiabe in versi e romanzi fiabeschi, soprattutto per il «Corriere dei Piccoli» e per la «Bibliotechina de La lampada» di Mondadori, si cimentò nella scrittura di commedie portate in scena dalle maggiori compagnie teatrali e, spesso oltraggiando il pudore, pubblicò un paio di romanzi e centinaia di novelle, inoltre infittì la collaborazione con le testate più popolari dell’epoca e, oramai stabile sopra il soffitto di cristallo, fondò nel 1926 e diresse «Le Seduzioni», una rivista di letteratura e costume. Nei diciott’anni che trascorsero fra la dipartita di Guglielminetti e la “apologia” di Caproni, la rilevanza di Gozzano (condotto nel 1916, a soli trentadue anni, a miglior vita dalla «Signora dall’uomo detta la Morte») e lo scalpore che continuò a suscitare Pitigrilli (ebreo già malaccorto coi fascisti che fu accusato di essere una spia dell’OVRA, si avvicinò al culto di Padre Pio e ripudiò i romanzi Sonzogno degli anni Venti, a loro volta tacciati di pornografia) resero la presenza della poetessa nelle cronache più ricorrente di quanto non riuscirono i suoi libri, relegandola al ruolo di coprotagonista di storie d’altri, quando non di comparsa (sorte satellitare comune a molte “compagne” a lungo oscurate, dall’Annie Vivanti di Giosue Carducci alla Sibilla Aleramo di Dino Campana). La risonanza delle vicende giudiziarie che la coinvolsero fra il 1928 e il 1934 e la pubblicazione delle arringhe di Bruno Cassinelli (un vero principe del foro) diffusero, inoltre, l’immagine di una donna alla sbarra che offese il buon costume e pure il regime fascista, finì in carcere e tentò il suicidio, mentre alcuni aneddoti di prima mano e di rado lusinghieri, che la ritraevano in un Amarcord torinese d’inizio Novecento o su un Viale del tramonto anni Trenta, venivano sbobinati a ciclo continuo in volumi del tipo Gente di ieri e di oggi di Giuseppe Villaroel e L’Almanacco di Gotta di Salvator Gotta.


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Negli anni Quaranta e Cinquanta nemmeno un libro di Guglielminetti venne ripubblicato e nessun nuovo studio le fu dedicato, spuntarono bensì pagine sparse in un panorama editoriale e critico stravolto dalla Seconda guerra mondiale e sorvegliato attentamente dallo svagato Caproni, e si tenga conto che, se la memoria della sua poesia aveva superato la Grande Guerra, l’oblio letterario adombrava la scrittrice fin dalla metà degli anni Trenta (risale al 1934 della tanto agognata autoantologia di versi, I serpenti di Medusa, un «evento degno di un dagherrotipo» che, presenti Giuseppe Ungaretti e Gianfranco Contini, evidenziò la sua estraneità al contesto rinnovato). Qualche attenzione post mortem, all’infuori dei necrologi e nei limiti del giudizio sommario e della voce bio-bibliografica, spesso non corretta, l’opera di Guglielminetti la ottenne nelle rassegne della letteratura italiana compilate in quegli anni o, per esempio, nell’antologia Poetesse del Novecento giacché Eugenio Montale e Maria Luisa Spaziani, col curatore ufficiale Giovanni Scheiwiller, scelsero Notturno, Ebbrezza e Un desiderio, sonetti estratti dalle Vergini folli, per il volumetto All’Insegna del pesce d’oro del 1951. Montale val bene una segnalazione e Poetesse del Novecento, che si apre con Vittoria Aganoor e si chiude con Alda Merini, serve da pretesto per fare, subito, qualche considerazione generale e di genere, chiamando all’appello nomi ricorrenti nei prossimi capitoli («figure femminili che fanno parte della nostra storia» ma, per dire – ed è tutto dire –, Lalla Romano che debuttò, con la raccolta di poesie Fiore, nella città e nell’anno della morte di Amalia Guglielminetti, ci tenne a precisare nel 1995 su «Tuttolibri», di non aver dato importanza da giovane a Grazia Deledda o a Matilde Serao, «né a Ada Negri, a Amalia Guglielminetti o a Sibilla Aleramo»). Con la sola eccezione delle rimatrici del Cinquecento come Gaspara Stampa, è nel passaggio dall’Ottocento al Novecento che le donne cominciarono a farsi largo nella letteratura italiana; le poetesse con maggiore fatica rispetto alle giornaliste come Matilde Serao e alle narratrici come Grazia Deledda, ma Annie Vivanti con Lirica del 1890 (nella cui prefazione Carducci abrogò per lei solamente l’articolo del proprio «codice poetico» che recitava «ai preti e alle donne è vietato far versi») e Ada Negri con Fatalità del 1892 ottennero un


ritratto veritiero 11 notevole successo; quando Sibilla Aleramo, all’anagrafe Rina Faccio, pubblicò Una donna nel 1906 (con data 1907), prototipo di romanzo autobiografico e manifesto del protofemminismo che aprì un nuovo corso, Amalia Guglielminetti, paragonata dai critici a Gaspara Stampa e perfino a Saffo (priva perciò di troppe precorritrici), s’avventurava per le strade da altre quasi inesplorate e impervie della poesia novecentesca, raggiungendo risultati, soprattutto fra il 1907 e il 1913, che ormai le vanno riconosciuti – «dopo aver prodigato tutto di sé» – quantunque imparagonabili ai risultati raggiunti dalle tante poetesse che dovevano ancora nascere e che seguirono, protagoniste del secondo Novecento e di ulteriori conquiste, compresa quella di entrare nelle antologie dei poeti (grossomodo dagli anni Ottanta, invece alla ridefinizione di un canone più equo si sta lavorando negli ultimi tempi). Nel 1951 di Poetesse del Novecento uscì Lettere d’amore di Guido Gozzano e Amalia Guglielminetti, a cura di Spartaco Asciamprener. A Eugenio Montale non sfuggì la ghiotta lettura e ci scherzò con Maria Luisa Spaziani, destinataria della missiva del 26 maggio 1951 da eliminare dal loro «futuro epistolario»: «Dobbiamo morire in bellezza!! Ma ho paura che il Guglielminetto sarò io». Spaziani stessa, in un’intervista immaginaria ad Amalia Guglielminetti del 1992, ha sottolineato che la scrittrice non poteva sapere, in punto di morte, che «la sua bibliografia non era completa» e che «il suo epistolario con Guido Gozzano doveva attirare l’attenzione del pubblico dieci anni dopo quando, ingiustamente finché si vuole, di tutti i suoi libri in versi e in prosa rimaneva ormai un vago ricordo». Non poteva saperlo Amalia, ma poteva sospettarlo, anzi era consapevole dell’importanza di quelle lettere e lei per prima ne pubblicò alcuni brani (pagandola cara), poi provò a raggiungere un accordo con Diodata Mautino e Renato Gozzano, la madre e il fratello del poeta, per l’edizione integrale da consegnare alla Treves e infine diede in merito delle disposizioni, disattese, nelle proprie volontà testamentarie. L’accordo lo trovarono Ornella e Liliana Benso, le nipoti della poetessa, con Renato Gozzano e Garzanti che si aggiudicò nel 1950 un’esclusiva ventennale per la pubblicazione del carteggio e, insieme a una sovraccoperta rosa con la fotografia dei due corrispondenti sulla passeggiata a mare di Bogliasco nel 1908, scelse un titolo fuorvian-


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te, giustificato dall’intenzione d’inserirsi nell’attrattivo solco tracciato dalle lettere d’amore di Foscolo e Antonietta Fagnani o di Carducci e Carolina Cristofori Piva e dalle Lettere d’amore degli scrittori italiani edite da Bompiani nel 1941 a cura di Emilio Villa. Pressioni degli eredi a parte non trova giustificazione, invece, il lavoro di Asciamprener – misterioso il carteggio, misterioso il curatore – il quale all’uscita di Lettere d’amore aveva compiuto trentasei anni e licenziato una dozzina di libri, curato un’Eneide e un altro epistolario, ed era un abile bibliofilo che riusciva ad entrare in possesso di prime edizioni e documenti autografi e anche delle lettere dei due poeti – se ne occupò lui, e non qualcun altro, per questo? – ma confezionò l’edizione con un apparato di note impercettibile e appesantita da una prefazione che si presenta come rilettura sbilanciata su Gozzano mentre Guglielminetti «gozzaneggia» quando non è dannunziana (e pure i numeri sono sbilanciati siccome, oltre alle lacune e ai tagli evidenti, delle 126 lettere e cartoline 86 sono di Guido e 40 di Amalia). Nell’assenza incolmabile dei documenti autografi – distrutti da qualcuno (non già dalle bombe che colpirono gli archivi della Garzanti nel 1943, come sostenne Alberto De Marchi nel 1956, se ci fu, come si dirà, chi ne trascrisse brani nel 1944 e nel 1948) o dispersi nei meandri del mercato antiquario (la nipote di Asciamprener, Silvia, ha parlato della vendita del carteggio, insieme a gran parte della biblioteca del nonno, all’antiquario di Milano Carlo Alberto Chiesa nel biennio 1964-1966) – e nell’assenza di appunti del bibliofilo curatore, morto nel 1954 a causa di un incidente stradale, si porgono, nelle pagine che si presentano, chiavi per una più equilibrata interpretazione del carteggio, brani inediti che andrebbero integrati e informazioni utili a contestualizzare eventi e personaggi, per propiziare (anche sulla scorta delle osservazioni puntigliose di Aldo De Toma a proposito delle incongruenze cronologiche) una nuova edizione in cui orientarsi fra meno ostacoli, altresì per far «balzare qualche cosa di più degno che non la sensibilità meschina dei piccoli amanti», come già disse Gozzano a Guglielminetti, mai amata fino in fondo. Figurarsi cosa poté balzare dal legame di Guglielminetti con Pitigrilli. Salva qualche lettera finita alla Biblioteca Isontina di Gorizia, pure del loro carteggio – per non farsi mancare nulla, anzi per farsi


ritratto veritiero 13 mancare tutto – s’ignorano gli originali; si deve dunque fare ricorso alle trascrizioni che si trovano, frammentarie e sparse, in Pitigrilli. Un italiano vero di Enzo Magrì e, in forma di epistolario ordinato e “integrale”, in Pitigrilli e Amalia di Silvano Volk, ma in entrambi i casi prive di qualsivoglia avvertenza o istruzione ed eluso il coinvolgimento degli eredi dei corrispondenti. Dove Magrì ha consultato le lettere di Guglielminetti e di Pitigrilli? Forse Volk custodiva a casa propria le lettere di Pitigrilli a Guglielminetti? Purtroppo il giornalista e lo studioso di storia locale goriziana sono filati via all’altro mondo – e chissà cosa c’era dentro il loro fagottino – come, di recente, il figlio di Dino Segre, Pier Maria Furlan, il quale, interrogato in merito, ha risposto d’ignorare il destino dell’epistolario del padre ricordando che la sua casa fu bombardata nel 1943 e dubitando della buona fede di Magrì. Insomma un campo di indagine lasciato sgombro, ma ancora minato, sul quale s’insisterà ancora, per vie traverse e in altre occasioni. Del resto, dalla presente monografia sulle opere e sulla vita – e non in ordine invertito – di Guglielminetti, sono rimaste fuori, senza rimorsi benché intriganti, le “lettere d’amore” a lei indirizzate da Pier Antonio Gariazzo intorno al 1907 (anno in cui magistralmente ritrasse a carboncino Amalia) e da Renato Simoni intorno al 1909 (anno in cui recensì Le seduzioni sul «Corriere della Sera»), scoperte da poco, da quando sono spuntate fuori dal cassettone di un inginocchiatoio che stava nello scantinato della casa genovese della famiglia Faruffini, dove Roberto, figlio di Luigi e Liliana Benso, custodisce il materiale appartenuto alla prozia Guglielminetti, patrimonio ricco e perno delle ricerche: manoscritti e dattiloscritti di opere (versi, novelle, articoli, atti unici, discorsi pubblici, cinedrammi), documenti epistolari e contratti editoriali, più di centocinquanta fotografie e qualche ritratto, una piccola parte della biblioteca personale (fra i libri, tre recano dediche “parlanti” di Gozzano), appunti, ritagli, alcuni oggetti e due diari del 1940 e del 1941 (che, a una prima lettura, forniscono ragguagli da agenda degli appuntamenti e resoconti di giornata o da registro di debiti, crediti e calcoli). Si torni alle Lettere d’amore e dalla vita alle opere, pur tenendo conto – ma il conto si perde – di interferenze tanto frequenti, nel caso di Guglielminetti, che i due piani s’influenzarono e, talvolta, s’intercam-


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biarono. Il carteggio con Gozzano fece scalpore e fu recensito, fra gli altri, da Carlo Calcaterra, Pietro Pancrazi, Carlo Bo, Emilio Cecchi e Vittorio Sereni, il quale avvertì, su «Milano-Sera», che la pubblicazione del 1951 non rese «un buon servizio alla fama del poeta», viceversa la poetessa, che non aveva nulla da perdere, ci guadagnò: «Mette tristezza, piuttosto, pensare al destino di lei, assurta rapidamente alla fama e altrettanto rapidamente precipitata nel genere erotico di equivoca lega. Ci fu di mezzo la prima delle due guerre che sappiamo: la letteratura e la poesia battevano intanto altre strade; non era da tutti, allora, avvedersi del salto […] da D’Annunzio a Da Verona o da Gozzano a Pitigrilli». Un grande poeta come Sereni non era tenuto (nemmeno Caproni) a prestare particolari attenzioni a Guglielminetti, ma c’è da supporre che la sua chiusura, ai tempi largamente condivisa e tuttora comprensibile, nei confronti della poetessa fu dovuta non tanto all’essere uno studioso di Gozzano, sul quale si era laureato, ma forse all’avere sottomano un carteggio che lo deluse, a livello documentario, e nient’altro se appena citò un distico dell’Insonne. Così Edoardo Sanguineti, gozzanista di rango che nelle proprie indagini riconobbe alla poetessa il ruolo di interlocutrice privilegiata del poeta, quando – un po’ a sorpresa – curò nel 1990 un’antologia di novelle di Guglielminetti, Seduzioni («titolo ben suo»), per darne nell’introduzione un ritratto veritiero, ricorse sia alla vita privata, quindi a Gozzano e a Pitigrilli («chi volesse sveltamente riassumere il personaggio, con tutto quello che offre di sintomatico e di abnorme, di singolare e di tipico, potrebbe indicare, in questa coppia di difficili avventure passionali e culturali, gli elementi caratterizzanti, anche e soprattutto per il contrasto e la divaricazione che suggeriscono con clamorosa evidenza […], due anime che in lei convivono, con vario impasto, in qualche modo, in ogni momento della sua carriera») sia, appunto, alla sua carriera, aprendo uno spiraglio: «lasciò pure un suo piccolo segno, nel clima dei due primi decenni del nostro secolo, muovendosi con disinvoltura tra poesia e narrativa, teatro e letteratura per l’infanzia, coltivando e subendo la polemica e lo scandalo, con l’intenzione di confermare l’immagine, prescelta con puntiglio e con orgoglio, di “quella che va sola”».


ritratto veritiero 15 Caproni, in Una lira di poesia, fece riferimento a Gozzano e all’«aridità sentimentale», per dirla direttamente con Guglielminetti, che attraversa i suoi brani epistolari («Bella roba di fronte a chi, civetta finché volete, ma almeno questa volta […] dedita ad altra persona che non a se stessa, ha l’ingenua spontaneità di gridare, e per di più con una sottolineatura» in corsivo, che fece “simpatia” anche a Sereni, «Ah! la gloria, Guido, come sogghigno! Io voglio più bene a te che alla gloria, quella non mi farà mai piangere né aspettare in ansia») e fece il paragone con Pitigrilli («magari, oggi, un regista o un romanziere di “costume” avesse la medesima mano disinvolta, il medesimo talento, nel riprodurre i gusti – i vezzi, i vizi – della borghesia contemporanea, soltanto per far la medesima figura, fra altrettanti decenni, che al prezzo di L. 7 fa ancora ai nostri occhi l’Autrice di Quando avevo un amante», mentre Mammiferi di lusso dell’Autore «valevano già allora una lira meno, cioè L. 6»), ma l’apertura totale nei confronti di Guglielminetti fu dovuta alla conoscenza, da parte di Caproni, di una poesia dal valore di non equivoca né infima lega. Una lira di poesia venne forgiata, infatti, con l’appassionata perizia di chi intese ribadire «senza rossore» che era fra gli ammiratori, fra i «franchi lettori», di Amalia Guglielminetti, porgendole un estremo risarcimento. Le letture di Caproni furono ampie sebbene supportate da volumi che, visti dal 1959, appartenevano a un passato, si è detto, non lontano ma editorialmente (ed esteticamente) già remoto: citò L’antico pianto, Il capriccio, Il desiderio, Multiforme e La mia voce dalle Seduzioni, perfino Il frumento da Voci di giovinezza, inoltre richiamò alla memoria L’amante ignoto, la raccolta di novelle Quando avevo un amante del 1923 e il libro di sketch Il pigiama del moralista del 1927. Caproni riconobbe a Guglielminetti la «superiorità» di una donna che «sapeva benissimo» di «esser desiderata più che amata», che «sapeva benissimo d’esser destinata a restare […] “pur sempre quella che va sola”», e soprattutto le riconobbe la «saggezza» d’avere «perfetta coscienza letteraria» e il «senso esatto della propria misura». Lo dimostra, fra i tanti versi appuntati sul Taccuino dello svagato, proprio La mia voce, dove Guglielminetti apparve a Caproni «veramente vera, come invece non apparve […] sulla ringhiera marinaresca», cioè sulla copertina di Lettere d’amore.


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La questione, da esporre subito e tenere presente, è che Amalia Guglielminetti – poetessa dell’esperienza e dell’immaginazione (il cui autobiografismo ha l’importanza del punto di partenza) – volle darsi una voce e darla alle donne che non la avevano, con l’autocoscienza di colei che rifiutò un destino prestabilito. Esemplare è il canzoniere claustrale delle Vergini folli (la raccolta della ricognizione) dove, per i sentieri silenziosi di un monastero immaginato, le cui mura sembrano le costrizioni sociali e l’autocensura, incontra la prima delle sorelle timorose e la convince che può far loro da portavoce («ma tu, per quel ch’io tacqui e piansi, parla», la incita Colei che tace). Oramai portabandiera, Guglielminetti cercò, in maniera spasmodica, anzi smanïosa, di farsi sentire con la scrittura (così cercava l’amore o, meglio, la soddisfazione del desiderio e l’antidoto contro il tedio, due forme di libertà), in un percorso poetico di cui il sonetto La mia voce è tappa centrale, posto in chiusura delle Seduzioni (la raccolta della ricerca) per lanciare L’insonne (la raccolta del ripiegamento) e ripestare i passi precedenti, che mossero in tale direzione sin da Voci di giovinezza, in cui l’autrice disse al lettore, perché la società che la opprimeva sentisse, che poco senso aveva educarla alla «scuola» di Aracne e Penelope, il ricamo, piuttosto che a quella dei Vati, la poesia. Nella poesia di Guglielminetti, in tanto lessico antiquato e in forme tradizionali come il sonetto, le terzine incatenate o il distico elegiaco (non tutta la poesia era d’avanguardia), l’estenuante enunciazione e la descrizione di sé, pure nello specchio degli altri, esprimono un approccio moderno, dirompente per l’epoca, perché già farsi vedere e parlare – per di più scrivendo e, addirittura, componendo versi – era, per una donna d’inizio Novecento, un gesto sovversivo, orgogliosamente comunicativo e non soltanto canoro: La mia voce non ha rombo di mare o d’echi alti tra fughe di colonne: ma il sussurro che par fruscio di gonne con cui si narran femminili gare. Io non volli cantar, volli parlar, e dir cose di me, di tante donne


ritratto veritiero 17 cui molti desideri urgon l’insonne cuore e lascian con labbra un poco amare. E amara è pur la mia voce talvolta quasi vi tremi un riso d’ironia, più pungente a chi parla che a chi ascolta. Come quando a un’amica si confida qualche segreto di malinconia e si ha paura ch’ella ne sorrida.

A proposito di Voci di giovinezza, delle Vergini folli, delle Seduzioni e dell’Insonne, Giorgio Caproni affermò che Amalia Guglielminetti ebbe «il merito d’aver esordito, a diciott’anni, con uno dei più sinceri libri di poesia che una donna (ed era una giovinetta) abbia mai scritto, e di averlo fatto seguire da altri tre, che messi insieme compongono l’unico ritratto veritiero di donna principio di secolo che la nostra superbiosa Letteratura possieda»; benché, o poiché, «ci sono di mezzo» opere come Gli occhi cerchiati d’azzurro del 1920 e La rivincita del maschio del 1923 se questi «“romanzacci” della Guglielminetti» non riuscivano a «commuoverlo meno delle poesie», ribadì Caproni, «a parte il fatto che noi siamo franchi ammiratori (non abbiamo detto franchi tiratori) anche di quei romanzacci, che dopotutto scoprono le tombe imbiancate della più seriosa borghesia di allora (che tale merce chiedeva)». Oggi cosa chiede il mercato editoriale, o perlomeno, cosa attrae gli editori? La riapertura del canone o la semplice riscoperta di qualche figura d’inizio Novecento, sicuramente la promozione di penne femminili – si parla tanto della voce delle donne –, così si spiega (insieme alla scadenza, nel 2011, dei diritti d’autrice) il “profluvio” di pubblicazioni che ha trascinato Amalia Guglielminetti di nuovo in libreria, spesso sotterraneamente e mai grazie a un grande editore (come i Treves, i Sonzogno e i Mondadori che pubblicarono le sue opere). A molta distanza dagli episodi isolati, lodevoli e quasi avulsi dalle logiche commerciali, degli anni Ottanta allorché, poco prima delle Seduzioni di Sanguineti, Carlo Alberto Madrignani ha pubblicato un’edizione autonoma della novella Il cuore tardo (ETS 1985) e la ristampa anastatica della raccolta


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di fiabe Il ragno incantato (Bolis 1987), chi vi scrive ci ha messo del suo per riaprire il “tappo”, pubblicando la nuova edizione della Rivincita del maschio (Sagep 2014); poi, quasi ogni anno, una piccola casa editrice ha ripubblicato un titolo di Guglielminetti (in un repêchage a strascico perlopiù infruttuoso): Gli occhi cerchiati d’azzurro (Graphofeel 2015), Il pigiama del moralista (Ecra 2018), Tipi bizzarri (Rina 2018 e 2019), Quando avevo un amante (Papero 2020), La porta della gioia (Edizioni Cinque Terre 2021); senza contare l’uscita di novelle in autonomia o in antologie, fra cui si segnala L’immagine e il ricordo a cura di Michela Monferrini (Ianieri 2018), o gli e-book e i paperback. La Guglielminetti narratrice è finora andata per la maggiore, anche se il nuovo millennio si è aperto all’insegna della poesia con il ricollocamento sugli scaffali, per la verità furtivo, delle Seduzioni (Palomar 2001), dei Serpenti di Medusa (Artiglio 2004) e delle Seduzioni con Le vergini folli (Damocle 2012 e 2016). D’altra mole il volume di 850 pagine, che però è circolato, in cui nel 2012 due aficionados di Amalia, cioè Silvio Raffo e Grazia Bianchi, hanno riversato – bontà di Bietti – sotto il titolo Lady Medusa. Vita, poesia e amori di Amalia Guglielminetti le raccolte poetiche (tranne Voci di giovinezza), un’intervista, qualche inedito, alcuni testi dispersi e il carteggio con Guido Gozzano, di cui nel 2019 Franco Contorbia ha curato l’edizione Quodlibet, corredandola di una ricca postfazione e in contemporanea con l’uscita di un’altra edizione (Alter Ego). Allargando la visuale, si nota in che modo il carteggio con Guido Gozzano – uno dei più belli, è giusto dire, fra letterati italiani del secolo scorso – continui a dare uno slancio misurato ma inesausto alla circolazione di Amalia Guglielminetti, presenza fissa negli studi gozzaniani e saltuaria altrove, lì fuori dalle pubblicazioni scientifiche. Giuliana Morandini ha scelto per l’Antologia della narrativa italiana fra Otto e Novecento, pubblicata da Bompiani nel 1980, di accogliere la scrittrice con una novella e cinque lettere (dato che fu il carteggio Gozzano-Guglielminetti, quanto quello Carducci-Vivanti, «a introdurre una situazione nuova di perplessità femminile»), e di mettere in copertina il suo ritratto a figura intera, adagiata sui morbidi cuscini di un divanetto in stile Impero, realizzato nel 1912 da Mario Reviglione, mentre nel 1989 Patrizia Valduga, curando, senza firmarlo, uno degli Incontri della rivista


ritratto veritiero 19 «Poesia», ha abbinato una contenuta selezione di lettere a una calibrata corrispondenza di versi dei due poeti. E basti pensare, poi, al riutilizzo romanzato delle Lettere d’amore che ha fatto Alessandro D’Avenia per promuovere l’Amalia di Guido, al pari della Fanny di John Keats o della Zelda di Francis Scott Fitzgerald, a protagonista di Ogni storia è una storia d’amore (libro Mondadori in cima alle classifiche di vendita nell’inverno 2017-2018); mentre un riuso drammaturgico è quello di Luca Starita che di recente, nel suo Canone ambiguo del 2021 (sulla letteratura queer italiana), ha dato voce, per interposto personaggio, all’autrice della Rivincita del maschio e non, per una volta, delle Lettere d’amore. È presto perché Amalia Guglielminetti possa entrare nell’immaginario collettivo, almeno affacciarsi per un breve lasso di tempo come, fra le scrittrici italiane d’inizio Novecento, è accaduto a Sibilla Aleramo, non tanto per il long seller Una donna quanto per il film Un viaggio chiamato amore del 2002, basato sulle lettere scambiate con Campana; però il regista Davide Ferrario sta lavorando a un film su Amalia Guglielminetti, la cui sceneggiatura segue il carteggio con Gozzano e culmina con la morte di lui, non di lei. Intanto i reading degli ultimi anni sono costruiti più volentieri sulle Lettere d’amore che sull’opera in versi, mentre l’unica traccia che “della” poetessa si trova su Spotify è un brano epistolare del poeta letto da Giorgio Albertazzi nel 1971 (qualche anno dopo ci pensarono Lucia Catullo e Walter Maestosi a vestire i panni dei due amanti quasi ignoti e lontani a teatro e in Rai e a recitare le lettere che furono trasmesse più volte in radio). La poetessa, nel passaggio al nuovo millennio – per limitarsi a un torno breve d’anni, a tre nomi famosi (un po’ fortuiti) e al quotidiano più diffuso d’Italia – rimaneva l’amante di Gozzano sul «Corriere della Sera» sia che Enzo Biagi nel 1998 la collocasse al Meleto, sia che nel 2000 Sebastiano Vassalli la definisse ancora femme fatale (per distinguerla dalla Aleramo di Campana), sia che nel 2001 Giovanni Raboni rileggesse puntualmente Lettere d’amore. Sui blog di varia natura e sui social network, dove non valgono logiche, Gozzano è ultimamente divenuto innecessario a Guglielminetti, considerata una martire del patriarcato, una paladina d’antan o una maestra di vita, e le sue poesie si fanno spazio fra un post e l’altro (intanto alcuni versi sono finiti sui cartigli dei Baci Perugina).


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L’appeal o, meglio, il potenziale della poetessa è evidente, quanto la ricezione in via di (caotico) consolidamento, ma la verità resta un’altra e sta nel mezzo. L’impatto del carteggio e l’importanza di Gozzano hanno schiacciato la figura di Guglielminetti come se dovesse restare Lettere d’amore l’unico suo libro, come se cinque anni di corrispondenza (1907-1912), seppur preminente e parallela alla più avvertita attività poetica, potessero rappresentare quarant’anni di cangiante carriera (1901-1941) o come se l’approccio consapevole di un’innamorata, poi di un’amica, di una «buona sorella» e addirittura di un «buon compagno», potesse rendere il ruolo di stimolante interlocutrice del poeta su temi letterari ed esistenziali e – nel modo in cui, invece, riescono a farlo le opere e la vita insieme – racchiudere il carattere complicato di una donna coraggiosa e contradditoria che, sempre autonoma, fece la scrittrice di primo mestiere e finì per preferire se stessa all’uomo di turno, rifiutando il ricamo, il matrimonio e la maternità, esemplare di un’emancipazione femminile, letteraria e sociale, di là da venire. Il “femminismo” di Guglielminetti, infatti, è stato parimenti appiattito sui pareri espressi per lettera a Gozzano, in occasione del Primo Congresso delle Donne Italiane, e contrapposto all’esperienza maturata da Aleramo, presente all’evento del 1908; pochi osservatori hanno guardato oltre il carteggio, quasi nessuno dopo il congresso. Non le ha giovato, in seguito, accompagnarsi a uno scrittore considerato immorale e maschilista come Pitigrilli. Qui si ripercorre la vita della scrittrice e si passano in rassegna le opere per proporre una visione d’insieme con un’interpretazione più articolata. Il primo a dare ad Amalia quel che è di Amalia, in senso strettamente scientifico, è stato Marziano Guglielminetti, altro gozzanista di rango, il quale nel 1987 ha dedicato alla cugina (il bisnonno era fratello del nonno della poetessa) il prezioso saggio Amalia. La rivincita della femmina, confluito, ulteriormente arricchito, nella raccolta La musa subalpina curata da Mariarosa Masoero. Quando Marziano – che troppo presto si è accomiatato dal mondo e accomodato nel pantheon dei maestri – con la sua monografia tascabile ha fatto il punto su Amalia e ha indicato la via per ulteriori ricognizioni, esisteva il fascicolo Amalia Guglielminetti, oscillante fra la lusinga e l’ironia (sin dalla caricatura in


ritratto veritiero 21 copertina, realizzata da Mario Bazzi), che Pitigrilli nel 1919 scrisse, per la serie Gli uomini del giorno di «Modernissima», con la sua verve e grazie alla vicinanza con la donna, ed esisteva il volume di grande formato e colore giallo Amalia Guglielminetti. L’enigma svelato, una rassegna di recensioni e aneddoti, con inserti da pamphlet, assemblata da Mario Gastaldi nel 1930 per salvare ciò che della reputazione della scrittrice si poteva salvare dalla peggiore delle vicende giudiziarie in cui venne invischiata e da cui uscì a pezzi (poi l’editore ripubblicò da sé la «seconda edizione riveduta e accresciuta» nel 1957). Esisteva anche la tesi «Una relazione letteraria». Amalia Guglielminetti e Guido Gozzano con cui Ornella Benso si laureò nel 1944 presso l’Università di Torino (alla presenza del relatore Francesco Pastonchi, professore per chiara fama e personaggio da tenere a mente), lasciando uno studio non originale dal punto di vista interpretativo ma, al pari delle opere dell’amante Pitigrilli e dell’amico Gastaldi, pieno di riferimenti interessanti, compresi quelli al diario disperso della zia (il grado di parentela, per la verità, ha inibito l’indagine di Marziano Guglielminetti negli anfratti più pruriginosi dell’esistenza della componente più chiacchierata di una famiglia che alla città di Torino ha dato imprenditori, antifascisti e un sindaco). Dagli anni Ottanta in avanti sono uscite antologie e miscellanee sulla letteratura delle donne del Piemonte o d’inizio Novecento o degli anni Venti, oppure su argomenti attigui, dove Amalia Guglielminetti ha guadagnato spazio grazie a studiose come Daniela Curti, Rossana Bossaglia, Morandini appunto, Patrizia Zambon, Patrizia Guida, Barbara Ricci e Tersilla Gatto Chanu; al circolo virtuoso, pur discontinuo, hanno contribuito l’attività del Centro Studi “Gozzano-Pavese” dell’Università di Torino, guidato a lungo da Mariarosa Masoero, e l’attivismo del gruppo di ricerca “Escritoras y escrituras” dell’Università di Siviglia, diretto da Mercedes Arriaga Flórez (a rinnovare, in qualche modo, a distanza di cento anni, le attenzioni rivolte dal mondo ispanico alla scrittrice torinese). Intanto, su diversi aspetti della vita e dell’opera di Amalia Guglielminetti, sono apparsi articoli su riviste scientifiche a firma di Nello Sciacca, Marco Cerruti, Monica Venturini, dei già citati De Toma e Volk, e del sottoscritto, giunto oggi – con la complicità, fra gli altri, di Contorbia, di Masoero e di Maria Chiara Acciarini (rispet-


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tivamente amico, allieva e moglie di Marziano Guglielminetti, oltre ai loro ruoli accademici e istituzionali) – al traguardo della monografia sul soggetto singolare, in quanto unico e solitario, nel Novecento italiano (che esce sotto le insegne della Società Editrice Fiorentina e, a proposito di circoli virtuosi, come sesto volume della collana Il “genio femminile”. Ritratti e istantanee). Qui si valorizza la singolarità di Amalia Guglielminetti che si sottrae alla subordinazione e al paragone, che sta sola eppure al centro di un reticolo di relazioni con mezza Italia delle arti e delle lettere. Gozzano e Pitigrilli sono presenti, ma fanno i comprimari di una storia che non è la loro, piegati alle esigenze dell’analisi letteraria e del racconto biografico (dai primi incontri traslitterati con Guido al personaggio poetico che fu nelle Seduzioni e nell’Insonne, dal ruolo svolto da Amalia nell’affermazione di Dino Segre al sodalizio dei due che fu una ditta), e quando appare un terzo scrittore, Luciano Zuccoli che per poco non fece l’incomodo, è anche per entrare nel laboratorio dell’Insonne. L’investigazione della vita di Amalia ha richiesto impegno: dall’epopea risorgimentale della famiglia Guglielminetti (gli “inventori” della borraccia) al debutto della signorina in società, dopo gli anni trascorsi fra casa, chiesa e convento; dal suo protagonismo crescente in una Torino che, perso il titolo di capitale d’Italia, capitale lo era del liberty, della moda, del cinema, dell’automobile, alle estati in Liguria, ai soggiorni a Roma, Napoli, sull’arco alpino e oltralpe (un trasloco continuo che partì dal capriccio e approdò all’incapacità di trovare pace); dalle denunce per oltraggio al pudore al processo per falsificazione di documenti (da riscrivere con sentenze, verbali e cronache giudiziarie alla mano), in un clima oramai fetido di fascismo; dall’esaurimento nervoso alle case di cura e agli ultimi oscuri anni, su i quali fanno luce, a completare l’esposizione epistolare, le lettere indirizzate dal 1933 al 1941 all’amico fotografo Celeste Ferdinando Scavini, custodite in una scatola per camicie, a Rivarolo Canavese, dal nipote Andrea. Gli sforzi maggiori, però, sono stati riservati al corpo a corpus ingaggiato con l’opera della scrittrice, finanche insistente con le raccolte poetiche, e a tutto ciò a essa correlato: l’allineamento di tutte le edizioni, anche straniere, dei volumi (in parte quasi introvabili), la formazione,


ritratto veritiero 23 le fonti letterarie e l’influenza dell’arte, il laboratorio creativo e i generi diversi, la coerenza di fondo e il giudizio della critica (l’elenco alfabetico è di critici illustri, fra i quali Giovanni Boine, Giuseppe Antonio Borgese, Vincenzo Cardarelli, Emilio Cecchi, Silvio d’Amico, Piero Gobetti, Antonio Gramsci, Renato Serra, Federigo Tozzi), la posizione assunta nei confronti della tradizione (Dante, Petrarca, Leopardi, Carducci), dei modelli (D’Annunzio sopra gli altri), dei maestri (a partire da Arturo Graf ), dei personaggi in vista (come Dino Mantovani e Francesco Pastonchi), i legami con le colleghe (Sibilla Aleramo, Ada Negri, Grazia Deledda, Matilde Serao), con gli scrittori a lei vicini (Massimo Bontempelli e Carola Prosperi per esempio) e con gli esponenti delle avanguardie (il Marinetti delle provocazioni futuriste e il Palazzeschi dell’Incendiario), il rapporto con gli editori, e poi la disseminazione sui periodici e l’utilizzo di uno pseudonimo, l’attenzione al mercato librario e le interviste come sapiente e strenua costruzione dell’immagine di letterata. Se è stato difficile concentrare dieci anni tondi di ricerche su Guglielminetti in una monografia, non è stato facile comprimere un’esistenza e un’attività tanto complesse in trecento pagine, l’opera e la critica in una bibliografia, i chiamati in causa in un indice dei nomi, un’iconografia multiforme e inesauribile in un album in appendice che è una piccola porzione del gran catalogo di oltre cinquecento documenti, fin qui reperiti: i dipinti di Mario Reviglione e Raoul Dal Molin Ferenzona, i carboncini di Pier Antonio Gariazzo ed Edoardo Rubino, le fotografie private o degli studi di Giovanni Battista Sciutto (detto Gigi, il «signore del raggio e del veleno») e Mario Nunes Vais («l’unico a cui le pose femminili non fanno paura» scrisse la poetessa nel taccuino del fotografo), i figurini di Marcello Dudovich e le caricature di Golia (Eugenio Colmo) e Guasta (Guglielmo Guastaveglia), fra tante altre mascolinizzanti o animalesche, da abbinare all’infinità d’illustrazioni create da artisti quali Sto (Sergio Tofano) per le copertine e gli interni dei libri della scrittrice. Di qualcosa si dà dettagliata, e non decorativa, descrizione, dacché tutto concorre a comporre il ritratto veritiero di Amalia Guglielminetti, scrittrice di valore, donna con voce, emblema di un’epoca.


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Giorgio Caproni, citando Multiforme delle Seduzioni («“O multiforme”, saremmo tentati di ripetere con la tua stessa voce. Se è vero che ormai […] non più “innumerevoli tumultuano i cuori | dentro il tuo cuore piccolo ed enorme”, lì mettici senza esitare il nostro»), quasi alla fine di Una lira di poesia, rispose affermativamente, anzi amorevolmente, a un’interrogazione intima: Cara, dimenticatissima Amalia. Dovremmo proprio noi, ora che il tuo corpo che non abbiamo mai visto nemmeno nella fotografia del celebre Sciutto, e che tradì la tua anima facendo uscir di cervello i tuoi ammiratori, è uno scheletro spolpato dal tempo, innamorarci delle tue poesie e soltanto di quelle (proprio come volevi tu, anche se ti contraddicevi per il mezzo che usavi a tal fine: i vezzi concreti della tua femminilità), e dir che grande non sei, no ma vera, anzi verissima sì, e quindi tanto più amabile e cara?

Se è vero, come è vero e come ha scritto Glauco Viazzi nel 1981 mettendo insieme i due tomi Dal Simbolismo al Déco, che risulta interessante quando «l’immagine della donna dovuta a penna femminile coincide con quella derivata dall’approccio maschista» e che il «notevole rilievo» assunto, in prospettiva, dall’opera della poetessa, «oltretutto stupenda eroina nel vero, tra Boldini e Chahine, figurativamente (come un ritratto del simbolista e liberty Reviglione dimostra)», sta nella circostanza inedita di una donna che scrive se stessa e il suo rapporto con le cose («nel categoriale degli oggetti rientra anche il partner»), e che lo fa col «gusto specifico per la problematica del ritratto», anzi «va ben oltre una ritrattistica e tende all’intervento», allora bisogna anteporre a tutto una scelta e uno scopo. In un saggio della fine degli anni Trenta sulla Poesia italiana contemporanea, Giuseppe Camposampiero soppesava il capovolgimento della situazione («finora la letteratura amorosa ci aveva abituati a sentire di uomini che tradivano, che cercavano un’ora di piacere e null’altro») misurando il potere della poetessa: «Saremmo tentati di scorgere nella Guglielminetti una concezione superfemministica: una specie di Andrea Sperelli in gonnella, cui sia tutto lecito nel supremo interesse del


ritratto veritiero 25 sesso. È proprio questa l’origine della sua spregiudicatezza: la sua superiorità le ha dato il senso dell’audacia, le ha mostrato che poteva andar sicura». I panni dannunziani da far indossare ad Amalia Guglielminetti sembreranno azzeccati o un’accozzaglia a seconda dei casi – lo si vedrà (e valuterà) – ma si confida che si possano dissipare, almeno in parte, i dubbi che, alla fine degli anni Ottanta, permanevano in Marziano Guglielminetti sulla «liceità di questa scrittrice di varcare i cancelli da tempo chiusi della storiografia in auge», almeno fino a quando «non si sarà riconosciuto a D’Annunzio il ruolo egemone che gli compete, e non se ne saranno tirate le conseguenze». E questo è lo scopo: spingere la scrittrice fuori dal limbo che sta fra la cacciata da questo mondo e i cancelli delle storie letterarie. Per quanto riguarda la scelta (d’obbligo per allontanarsi poi dal Vate e avvicinarsi alla vera Amalia che, a conti già fatti da Caproni, ebbe «tanti altri numeri migliori» che non abbigliarsi come il «più dannunzievole Gabriele»), fra mille risme di ritratti fotografici e pittorici, di caricature e descrizioni che artisti, amici o nemici realizzarono di lei – ipotesi muliebre irricevibile da parte degli osservatori contemporanei, accusata di frivolezza, ostentazione, arroganza, instabilità uterina, isteria, pazzia a cui, per extrema ratio, fu riassegnato il sesso, poiché parve antimaschile o mascolina la sua femminilità e maschilista il suo femminismo (oggi a taluni pare una superfemmina per talaltri rimane un’antifemminista) – si promuove in copertina l’unico autoritratto, a un niente dall’androginia, che fuori di letteratura si conosca della donna, la quale tracciò, per l’Almanacco Mondadori del 1928, la caricatura del proprio volto, con linee dure ed eleganti: un giro di perle sopra un collo possente e sotto un viso spigoloso, una cuffietta alla moda che ha foggia di un elmetto di guerra, i capelli a carré taglienti come gli occhioni, minacciosi al contempo malinconici, mentre la bocca è aperta, nell’atto di parlare di sé, di tante donne.


Tavola delle sigle

L

e sigle della tavola indicano, fra parentesi, i libri, segnatamente raccolte di poesie, monografie e carteggi, dai quali si traggono con più frequenza le citazioni – seguite dal numero delle pagine, mentre rimane l’indicazione delle sole pagine citate, senza sigle, per novelle, romanzi, commedie e fiabe di Amalia Guglielminetti (salvo eccezioni, sempre dichiarate, si fa ricorso alla prima edizione di ogni titolo) e dei soli numeri romani dei componimenti citati per il poemetto Emma – e indicano la tesi, l’archivio e la fondazione maggiormente menzionati, quando si fa riferimento a documenti lì trascritti o conservati. Tutte le informazioni bibliografiche si trovano al fondo del volume. AG AI ES

FF FM I IV LA

Pitigrilli, Amalia Guglielminetti, «Modernissima» Casa Editrice Italia, Milano 1919. Amalia Guglielminetti, L’amante ignoto, Treves, Milano 1911. Mario Gastaldi, Amalia Guglielminetti, Gastaldi, Milano 1957 [seconda edizione riveduta e accresciuta di Amalia Guglielminetti. Enigma svelato, Edizioni Sandron, Milano-Palermo-Roma 1930]. Archivio privato della Famiglia Faruffini (Genova). Archivio storico Arnoldo Mondadori, Fondazione Mondadori (Milano). Amalia Guglielminetti, L’insonne, Treves, Milano 1913. Enzo Magrì, Un italiano vero: Pitigrilli, Baldini & Castoldi, Milano 1999. Guido Gozzano, Amalia Guglielminetti, Lettere d’amore, prefazione e note di Spartaco Asciamprener, Garzanti, Milano 1951.


tavola delle sigle 27 MS

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Marziano Guglielminetti, La musa subalpina: Amalia e Guido, Pastonchi e Pitigrilli, a cura di Mariarosa Masoero, Olschki 2007 [contiene Amalia. La rivincita della femmina, Costa & Nolan, Genova 1987]. Silvano Volk, Pitigrilli e Amalia, Master Copy, Gorizia 2008. Amalia Guglielminetti, Le seduzioni, Lattes, Torino 1909. Silvano Volk, Il segretario galante. Carteggio Luciano Zuccoli Amalia Guglielminetti (e Pitigrilli), «Studi Goriziani», 103-104, 2009, pp. 127-173. Ornella Benso, «Una relazione letteraria» (Amalia Guglielminetti e Guido Gozzano), tesi di laurea discussa con Francesco Pastonchi, presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Torino, il 16 dicembre 1944. Guido Gozzano, Tutte le poesie, testo critico e note a cura di Andrea Rocca, introduzione di Marziano Guglielminetti, Mondadori, Milano 1980 («Meridiani»). Amalia Guglielminetti, Le vergini folli, STEN, Torino-Roma 1907. Amalia Guglielminetti, Voci di giovinezza, Roux e Viarengo, Torino-Roma 1903.



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