Stelle senza polvere

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che c’erano gli avversari, ormai il dado era tratto. Scendendo in pista per vedere i velocisti avversari, ho scoperto che, per un gioco strano di tempi ottenuti nei quarti di finale, nella mia semifinale c’erano i tre migliori velocisti del mondo, quelli che avevano fatto il record mondiale, cioè Radford, Johnson e Norton. Poiché si correva in sei, io dovevo battere uno dei tre per arrivare in finale. Era una cosa difficile, ma mi stimolava. Alcuni nei cimenti importanti si bloccano, altri invece ricevono una carica in più. Per fortuna io appartengo alla seconda categoria. Comunque, ai 170 metri mi sono trovato in testa e ho cominciato a rilassarmi, perché dopo c’era la finale. Ho sentito il tempo: 20”5, record mondiale eguagliato. Ero arrabbiatissimo con me stesso: «mi sono stancato troppo, in due ore come faccio a recuperare la fatica di questa gara?». Per cui, mentre gli altri sono scesi in campo per prepararsi e per scaldarsi, io sono rimasto nello spogliatoio tranquillo, a bere Coca Cola e acqua con zucchero e limone, le mie bibite predilette, fino a mezz’ora prima della partenza. Poi sono sceso in campo per far vedere che c’ero e gli altri pensavano che con questo atteggiamento volessi prenderli in giro. Invece ero preoccupatissimo. Ho provato due partenze in tutto, non ho fatto assolutamente nessun riscaldamento. Una cosa completamente folle, al di fuori di ogni regola logica, ma ero terrorizzato di essermi stancato troppo. Preoccupazione fuori luogo… In finale ho fatto la mia unica partenza falsa. Ero talmente teso che quello dietro di me ha spinto sui blocchi e ha fatto una partenza falsa. Al suo rumore sono partito anch’io all’inseguimento. Lo starter non sapeva a chi dare la partenza falsa perché eravamo insieme e allora non l’ha data a nessuno. Io sapevo che dovevo tener duro, allungare il passo per non ingripparmi. Avendo poca resistenza dovevo cercare di mantenere la velocità fino in fondo e non cedere. Dopo la curva mi sono accorto di essere in testa e sono riuscito a fare un passo più sciolto, meno esasperato. È strano come l’udito riesce a selezionare i rumori. Non sentivo il pubblico che applaudiva ma lo scalpiccio degli avversari che si avvicinava a me. Il traguardo si avvicinava e alla fine mi sono buttato. Per me è stata la definizione di una gara bella, senza però quell’emozione e quel pathos degli spettatori. È come quando vai dal dottore: hai l’emozione, la tensione prima. Appena tagliato il traguardo, quali sono stati i tuoi primi gesti? La cosa più bella forse è stata che il primo ad abbracciarmi è stato il franco-senegalese Abdu-seye, pieno di soddisfazione perché era arrivato terzo. Io lì ho dato un esempio di abbattimento dell’apartheid, che c’era ancora a quei tempi in Sudafrica. Con la Wilma Rudolph andavamo mano nella mano nel villaggio olimpico. Quando lo sport è fatto con amore, passione e onestà non accetta nessun tipo di differenze. Sono stato uno dei primi 8


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