Centofiori agosto 2017

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Poste Italiane S.p.A. - Sped. in abb.to postale - DL 353/2003 (conv . in L. 27/02/2004 n. 46) art. r 1, comma 2 - DCB Roma - n. 78

Periodico di informazione sul volontariato a cura della branca italiana del Servizio Civile Internazionale

PRESENZE IN CAMPO Condivisione e scambio per superare le frontiere

Servizio Civile Internazionale


PRESENZE IN CAMPO

CONDIVISIONE E SCAMBIO PER SUPERARE LE FRONTIERE AGOSTO 2017 Servizio Civile Internazionale Via A. Cruto 43 - 00146 Roma Tel: 06 5580644 E-mail: info@sci-italia.it Web: www.sci-italia.it Centofiori n. 78

3 EDITORIALE

di Simone Ogno

Direttore Responsabile: Gianni Novelli Redazione e amministrazione: Segreteria Nazionale SCI Via A. Cruto 43 - 00146 Roma E-mail: info@sci-italia.it Web: www.sci-italia.it Coordinamento e realizzazione: Segreteria Nazionale SCI Testi: Segreteria Nazionale, attivisti, volontari e partner SCI

7 Interventi Civili di Pace

al confine serbo-croato

Parte I

di Alessandra Dallari e Silvia Valdré

Stampa: Multiprint Via Braccio da Montone 109, Roma Aut. Trib. Roma 86/83 del 5/3/83

Interventi Civili di Pace

al confine serbo-croato

Parte II

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di Alessandra Dallari e Silvia Valdré


15 Lezioni d’inglese a

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DIYARBAKIR di Umut Suvari

BASKET BEATS

BORDERS

di Daniele Bonifazi

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IX° NO BORDER FEST

de La Città dell’Utopia

di Sylla Lassana Nidal Amir Alessandra Cedri Damir Boijc

CONCLUSIONI di Susanna Monello

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EDITORIALE Turismo umanitario o attivismo transnazionale? “Turismo umanitario o attivismo transnazionale”, è questo il titolo dell’importante contributo pubblicato ad aprile sulle pagine on-line di DINAMOpress. A partire dall’analisi delle recenti vicende migratorie europee, l’articolo aveva l’obiettivo di aprire uno spazio di riflessione collettiva sulle attività solidali in zone di confine, alla ricerca di tracce metodologiche che permettano di interrogarci sulla reale portata e utilità dei viaggi solidali, al fine di comprendere quanto questo tipo di presenza in loco sia capace di trasformare i conflitti sociali contemporanei. Come Servizio Civile Internazionale portiamo avanti questa

di Simone Ogno riflessione da più di trent’anni, per questa ragione abbiamo accolto con entusiasmo l’invito a contribuire alla riflessione. Di seguito un estratto del nostro contributo, aggiornato alla luce dei più recenti sviluppi sul tema. Allargare la prospettiva: il confine come conflitto, il conflitto come opportunità. Le recenti vicende migratorie mostrano come il confine sia la manifestazione di un conflitto, di difficile definizione perché legato a dinami-

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che locali e internazionali, spesso non direttamente correlate ma sempre esercitate sui corpi delle persone migranti, considerate ormai alla stregua di oggetti. Per questa ragione, le azione solidali legate alle vicende migratorie - in particolare la presenza civile in zone di confine non possono prescindere da manifestare una presa di posizione chiara, che parta da una visione della cittadinanza che vada al di là delle frontiere e riconosca ad ogni persona il diritto di ricercare per sé, il nucleo familiare e la propria comunità le condizioni per il soddisfacimento dei propri progetti di vita. Una ricerca che ha determinato e continua a determinare per milioni di persone l’esigenza di muoversi, di trovare la propria strada in altri luoghi diversi da quello di nascita. Tutto questo supportato da un quadro giuridico che riconosca libertà di movimento e un rinnovato contesto politico internazionale in grado di affrontare le cause alla base dei fenomeni migratori. In questo senso, il contributo “Turismo umanitario o attivismo transnazionale” è uno stimolo per andare oltre le vicende legate alla presenza solidale in zone di confine, legandola a ogni geografia o a ogni istanza in cui si manifesti un conflitto.

litica. Questi tre elementi sono considerati necessari per distinguere azioni solidali volte alla trasformazione sociale da altre di tipo assistenziale - per lo più mosse da spirito pietista - e, quindi, di normalizzazione del conflitto. Anche la nostra associazione si è trovata negli ultimi tempi ad affrontare questi aspetti, proprio in relazione alle vicende migratorie che attraversano l’area balcanica. Di recente, affiancandoci ai nostri partner serbi, abbiamo promosso un progetto di “Interventi civili di pace al confine serbo-ungherese”, per il supporto delle persone migranti in transito nei Balcani, la cui libertà di movimento è ostacolata dalle politiche europee di chiusura dei confini, a cui si aggiungono le quotidiane violazioni dei diritti umani portate avanti dalla polizia di frontiera e da gruppi più o meno apertamente neofascisti. Questo tipo di intervento rientra all’interno dell’ambito puramente umanitario e, se vogliamo, assistenziale. Il suo carattere politico risiede tuttavia in una volontà manifesta tanto semplice quanto necessaria: quella di agevolare il viaggio delle persone e garantirne la libertà di movimento. Come già avvenuto in Italia e Francia, la solidarietà diretta alle persone migranti rientra ormai in Spartiacque: formazione e decenquella zona grigia tra legalità e illetramento galità, con una progressiva tendenza verso la seconda e, di conseguenza, Nel contributo si citano tre sparla possibilità di incorrere in misure tiacque per meglio comprendere le penali. Di questo ne siamo consapedifferenze tra i vari tipi di interventi voli, rispondendo con la proposta solidali: politicizzazione, continuità di un approccio di “legittimità” e di temporale, inchiesta giuridica e poquotidiano lavoro di inchiesta, semPAG. 4


pre attraverso lo strumento del volontariato, che permetta di svelare le cause del viaggio forzato. Agli spartiacque già presentati vorremmo quindi aggiungerne altri due: formazione e decentramento. Da sempre consideriamo i momenti di formazione propedeutici a prendere parte a qualsiasi attività di azione solidale, indipendentemente che la persona abbia già avuto esperienze affini. L’obiettivo degli incontri di formazione è quello di favorire una presenza in loco che sia consapevole delle dinamiche locali e rispettosa del contesto ospitante, al fine di contribuire a dinamiche solidali e di cooperazione virtuose lontane dall’assistenzialismo e dalla normalizzazione, con l’obiettivo ultimo di svelare le cause alla radice dei conflitti. L’elemento pivotale di questi momenti è l’utilizzo di un approccio legato all’educazione non-formale, che si realizza per lo più attraverso sessioni di gioco: teatro dell’oppresso, role-plays, schieramenti. Anche le sessioni più orientate alla discussione collettiva sono portate avanti attraverso brainstorming (facilitato e, spesso, silenzioso) o prevedono l’utilizzo di elementi audiovisivi e, soprattutto, dell’elemento esperienziale, importante per trasmettere un approccio empatico e diretto dell’intervento in loco. L’educazione nonformale permette quindi di discutere del politico ed è esso stesso un approccio politico, perché permette di scardinare le dinamiche frontali e verticali di trasmissione del sapere, favorendo la partecipazione di tutte e tutti nonché lo scambio di saperi, rendendo la conoscenza un bene coPAG.

mune in divenire. Proprio nell’ottica di condivisione e scambio, questa volta relativi alla collaborazione con i nostri partner locali e internazionali, ci poniamo la seguente domanda: che processi di autonomia può favorire un progetto coordinato da una geografia terza con personale espatriato? Dove risiede l’approccio mutualistico e di crescita comune? Pensiamo che la cooperazione decentrata sia uno strumento più in linea con il fine di costuire società giuste attraverso processi realmente collettivi e inclusivi, per questa ragione non possiamo esimerci dall’affiancare e non scavalcare i nostri partner, proporre e non imporre, vedere e ascoltare prima di parlare. I nostri partner locali, le nostre compagne e compagni, sono coloro che meglio di chiunque altro conoscono la realtà geografica, sociale e culturale in cui si realizza l’azione solidale, sono loro a conoscere i propri bisogni personali e, di conseguenza, legarli a problemi più ampi quindi ai conflitti che vivono. Sono per questo i primi soggetti a poter proporre soluzioni e quindi azioni efficaci di trasformazione del conflitto e di costruzione di società nuove. Queste valutazioni sono sempre messe in discussione nel nostro operato da uno scenario internazionale mai così fluido e stratificato, in cui i processi sociali e politici non possono più essere letti attraverso le lenti di venti o trent’anni fa. Sono anche messe in discussione da un’evoluzione dell’approccio alla solidarietà, sempre più orientato al soddisfaci5


mento individuale (in tutte le sue sfumature) e non collettivo. Nonostante le sfide siano sempre più ardue, queste sono al contempo stimolanti, poiché necessitano un lavoro costante su noi stessi, sulle nostre contraddizioni e sulle modalità per portare avanti il nostro operato, sempre mosso (e sempre dovrà esserlo) dalla volontà di incidere sulla realtà circostante insieme a chiunque si riconosca nella costruzione di relazioni orizzontali ad ogni livello, nel superamento di gerarchie e dinamiche di potere, favorendo l’inclusione e l’ascolto reciproco. Nella speranza che questo dibattito possa continuare con altri contributi perché necessario e per crescere, chiudiamo affermando che questi ragionamenti portano a una costante rimodulazione delle forme, tali da poter intercettare la più ampia fetta di motivazioni che spingono ad intraprendere azioni solidali, senza però cedere nei contenuti al fine di un processo di crescita graduale e mutualistico.

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INTERVENTI CIVILI DI PACE

AL CONFINE SERBO-CROATO di Alessandra Dallari e Silvia Valdré Parte I

Testimonianza di due volontarie partite con il progetto Interventi Civili di Pace in zone di confine in Serbia (maggio-giugno 2017) per supportare il lavoro delle organizzazioni di volontari internazionali indipendenti che sostengono i rifugiati bloccati al confine serbo-croato. Sid, Serbia – 8 Giugno 2017 “Oggi si respira!” ho pensato, forse ingenuamente, stamattina. La temperatura, fino a ieri altissima, è calata considerevolmente, regalandoci un po’ di refrigerio. I problemi, però, non sono tardati ad arrivare: al posto del sole incandescente è arrivata la pioggia e, con questa, una bella dose di fango. Stasera, durante la distribuzione del cibo, sono stati in tanti ad avvicinarsi al furgone per chiederci tende e teli di plastica sotto la quale ripararsi. Sembra che al clima serbo non piacciano le mezze misure. In questi giorni io ed Alessandra ci siamo spostate da Subotica, sul confine ungherese, a Sid, a pochi chilometri dalla Croazia. Questa piccola cittadina passerebbe sicuramente inosservata se non fosse che, al momento, veda la presenza di diverse centinaia di profughi che vivono in condizioni di estrema vulnerabilità. L’attuale impossibilità di varcare il confine con l’Ungheria ha reso il confine serbo-croato, e Sid in particolare, la seconda scelta per tutti coloro che cercano di entrare in Europa attraverso la rotta balcanica. Di fatto però, si sta riproponendo

la stessa situazione che fino a pochi mesi fa era possibile osservare a Subotica: frontiere invalicabili, presenza ingente di polizia, respingimenti forzati, abusi da parte delle autorità di frontiera e, in pratica, migranti abbandonati a sé stessi, costretti ad un’attesa infinita. Mentre scrivo, ripenso alle conversazioni avute oggi durante la cena. Ho fatto amicizia in particolare con X, un simpatico signore algerino che ha vissuto a Bologna per diversi anni e con cui passo il tempo a chiacchierare di cucina. Sa che negli ultimi giorni io ed Alessandra stiamo aiutando i volontari di No Name Kitchen, che tutte le sere preparano e distribuiscono i pasti alle oltre 200 persone che affollano la jungle. Si è quindi probabilmente convinto che io abbia una qualche (pressoché inesistente) dote culinaria e dispensa consigli sulla quantità di sale da usare e sulle verdure più adatte, lamentando la sua voglia di lasagne e tortellini. È una sorta di figura paterna qui: è raro, infatti, incontrare ragazzi sopra i 30 anni. Vedo che saluta sempre tutti e che c’è sempre qualcuno che lo lascia passare davanti in fila.

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Mentre ci parlo, mi chiedo sempre quale sia la sua storia, ma non voglio essere indiscreta. Qui, di storie interessanti, in realtà, ce ne sarebbero sicuramente tante da raccontare. Ad esempio, qualche giorno fa un gruppo di ragazzi ci è venuto a chiamare: aveva fatto la sua comparsa un piccolo gruppo di Cubani che, chiaramente confusi, avevano bisogno di qualcuno che fornisse loro informazioni.

Cubani? In Serbia? Non ci potevamo credere! Eppure erano lì, seduti in un angolo. Nonostante se ne stessero in disparte, cercando di passare inosservati, è stato facile notarli: la ragazza, in particolare, sempre con lo zaino sulle spalle e la mano stretta in quella del suo compagno di viaggio, spiccava chiaramente, unica donna tra la folla di uomini. Mi sarebbe piaciuto riuscire a scambiarci due parole, ma di loro, oggi, già non c’era più traccia. Quello che abbiamo notato è che sono in tanti qui, a parlare diverse lingue: pashtu, urdu, farsi…ma anche italiano, spagnolo, francese. Molte di queste persone hanno vissuto per tanti anni nei nostri Paesi, costruendo una vita in quell’Europa che adesso si chiude davanti a loro. Quando Henry, un volontario inglese, ci è venuto a chiamare per andare a casa, ho salutato X, augurandomi che riuscisse a riposarsi un po’, nonostante l’acquazzone. “Sister, lo sai che io non dormo!”, mi ha risposto, riferendosi al fatto che anche oggi, come tutte le altre notti, proverà a passare il confine con PAG. 8


la Croazia. “Non molliamo mai!”, ha gridato, in italiano, mentre correva via. Giunta a casa, mi arriva un messaggio da Victor, uno dei volontari dell’organizzazione tedesca Regardu che da diversi mesi lavorano qui a Sid. Chiede se può passare da casa nostra per lasciare un sacco di vestiti da lavare, sono tanti e con una sola lavatrice a loro disposizione non sarebbero mai pronti da distribuire per il giorno dopo. I volontari di Regardu stanno portando avanti un progetto davvero bello: offrono un servizio di docce “portatili” per i profughi che, non avendo accesso ai

campi ufficiali, non saprebbero dove altro lavarsi. Si caricano sulle spalle tutto il necessario e montano le docce in un luogo nascosto in mezzo al bosco. Con un sistema di tubi prendono l’acqua da un fiume vicino e fanno in modo di riversarla all’interno di tre tende, adibite a docce. Grazie a dei tasselli numerati, i volontari controllano che la fila sia rispettata, dosano il sapone e cronometrano il tempo necessario ad ognuno per lavarsi. Dopo ogni doccia raccolgono i vestiti sporchi di ciascuno e danno un ricambio pulito a tutti. Con questo sistema riescono a provvedere ai bisogni di circa 50 persone al giorno. Tra l’altro sono stati costretti a cambiare postazione diverse volte dalla polizia, che non vuole che si distribuiscano beni ai profughi e accampa motivazioni di salvaguardia dell’ambiente. Hannah, la responsabile del servizio, mi ha raccontato di come, per evitare ulteriori problemi con la polizia, i volontari siano addirittura arrivati ad evitare di dare direttamente ai migranti il flacone del bagnoschiuma, preferendo versarglielo in mano quando necessario: “Se ci dovessero cogliere sul fatto, nelle loro mani non troverebbero nulla, nemmeno un flacone di plastica. In fin dei conti l’acqua è un bene pubblico, non possono vietarne l’accesso!”. Abbiamo capito che, almeno per i prossimi giorni, il nostro appartamento sarà trasformato in una lavanderia a pieno ritmo. Qui i problemi da risolvere sono tanti, troppi. Le uniche organizzazioni che supportano i profughi esclusi dai campi sono tutte finanziate da

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donazioni, o dai volontari stessi che in caso di necessità pagano di tasca loro le spese necessarie. Eppure sembra funzionare tutto bene: ogni settimana i volontari si incontrano per fare il punto della situazione, per dare suggerimenti, per capire semplicemente se tutti siano sulla stessa lunghezza d’onda e come sia il morale. Ogni volta c’è un dilemma in più: i migranti musulmani chiedono del latte per rompere il digiuno del Ramadan, si può trovare? Si vorrebbe arricchire la dieta con della frutta fresca, ma i fondi stanno finendo: c’è qualcuno che possa finanziarla? È stata notata la presenza di polizia attorno al luogo della distribuzione: è stato fermato qualcuno? Ci sono dei ragazzi che hanno bisogno del dentista: qualcuno può accompagnarli? La comunicazione è continua e il sistema collaudato. Mi chiedo però, cosa succederà quando i volontari se ne dovranno andare. Per quanto si potrà andare avanti? Tra tutti, il problema delle visite mediche, forse, è quello più stringente. Mentre trovare cibo è più facile, non lo è altrettanto assicurare la presenza di medici qualificati. I volontari adeguatamente formati sono pochi e spesso i medici delle cliniche si rifiutano di visitare i profughi, invitando ad andare a registrarsi ai campi, già sovraffollati. Anche il supporto psicologico manca. Offrire il proprio tempo per ascoltare, “esserci” , è sicuramente importante, ma può non essere sufficiente. Purtroppo è fin troppo chiaro come sia necessario, per alcuni, un serio sostegno professionale. I volontari spagnoli, che hanno accolto in casa loro un ragazzo afghano che li aiuta nella preparazione dei pasti, ci hanno confidato come siano preoccupati per lui: non dorme da giorni e si isola spesso. Il trauma del viaggio, la mancanza di prospettive, gli abusi fisici e psicologici a cui molti sono sottoposti hanno lasciato segni più difficili da vedere, ma che hanno gravi conseguenze sulla loro capacità di “non mollare mai”.

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INTERVENTI CIVILI DI PACE AL CONFINE SERBO-CROATO Parte II

di Alessandra Dallari e Silvia Valdré

Ci sono stati tanti momenti, questa settimana, in cui abbiamo veramente compreso la dura realtà della vita qui per i profughi che cercano di attraversare la frontiera con la Croazia. Tutti loro continuano a provare il così detto “Game”, il “gioco”, che di divertente ha ben poco, visto che si tratta del tentativo di attraversamento del confine (cinque giorni di cammino tra i boschi con cibo e acqua limitati) che purtroppo quasi sempre finisce con la cattura, gli abusi e il respingimento in Serbia da parte della polizia croata. Vale la pena segnalare, inoltre, che gli abusi da parte delle autorità sono ricominciati anche al confine ungherese, dove, per un certo periodo, la situazione sembrava essersi calmata. Dopo settimane trascorse con loro ogni sera, ci siamo affezionate a molte persone e non sappiamo mai se augurarci di non vederle il giorno seguente, nella speranza che siano riuscite ad attraversare il confine e ad arrivare in Europa o, al contrario, di continuare a poterle incontrare e assicurarci che stiano bene. Spesso, la sera, durante la distribuzione del cibo, si presentano gruppi più o meno grandi di ragazzi di ritorno dal “Game”: è successo, per PAG. 11


esempio, l’altro ieri. All’improvviso sono arrivati 20 ragazzi esausti, sporchi di fango, i loro corpi coperti di punture di zanzare e lesioni, le scarpe rotte. Il cibo era già finito e le volontarie di SolidareTea hanno cercato di raccogliere qualcosa da mangiare, mettendo a disposizione la frutta e i pochi biscotti rimasti. Siamo rimaste ad osservarli mentre li mangiavano freneticamente nella speranza di sfamarsi, scioccate nel sentire che questi ragazzi avrebbero tentato di attraversare il confine nuovamente quella sera stessa, senza darsi il tempo di riposare e recuperare le energie. Durante il Ramadan il gioco è ancora più difficile. Parlando con uno di loro abbiamo percepito come siano esausti, ma come, allo stesso tempo, la voglia di farcela gli permetta di continuare a provare. Una volontaria austriaca che fino al mese scorso si trovava a Belgrado nelle baracche (edifici occupati dai profughi) ha riconosciuto un ragazzo e ci ha rivelato di come se lo ricordasse carino e amichevole, e di come, adesso, lo veda invece con uno sguardo aggressivo ed estraniato allo stesso tempo. Abbiamo potuto notare come alcune persone facciano uso di droghe per sopportare tutto questo e i momenti di tensione, che anche durante la distribuzione dei pasti non mancano, a riprova dell’esaurimento fisico e mentale a cui sono sottoposte. Pochi giorni fa durante il momento delle docce, un ragazzo ci ha mostrato un foglio con gli orari dei treni diretti in Italia. Ci ha spiegato che

ci vorrebbero due notti nascosti in un container per arrivare nel nostro Paese, uno dei più gettonati dove i ragazzi vorrebbero vivere, convinti che i loro problemi termineranno una volta arrivati. Notiamo come ci sia poca consapevolezza sui futuri ostacoli che dovranno affrontare, ma non ce la sentiamo di spegnere in loro la speranza di poter trovare pace e continuare la loro vita. “Se non ci riesco neanche questa volta, pago uno smuggler che conosco che con 300 euro mi fa arrivare a Trieste, ma non vorrei affidarmi a lui perché conosco tante storie finite male”, ci ha confidato un altro. Questa settimana è nata un’opportunità per A., un ragazzo afghano, di trovare illegalmente documenti per l’Europa. Era molto combattuto se tentare o tornare dalla sua famiglia e al lavoro in Afghanistan. Questa decisione sembrava innescare un conflitto dentro di lui – afflitto da insonnia e da gravi disturbi psicologici, dovuti ai traumi del passato, che manifesta con convulsioni alle quali abbiamo assistito la scorsa settimana. Quando gli abbiamo chiesto cosa sentiva, lui ha fatto un gesto con le mani dicendo: “il mio cuore sta parlando troppo”. Ci ha detto che aveva ricevuto delle telefonate dal suo capo nelle Forze Speciali il quale gli aveva chiesto di tornare a casa per combattere i talebani, minacciando di pagare la mafia per trovarlo e ucciderlo se non avesse obbedito. Ci ha raccontato che precedentemente era stato catturato e torturato per un mese proprio dai talebani, tenuto in una piccola stanza. Era sopravvissu-

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to a molte esplosioni di bombe, una delle quali lo aveva portato a passare tre mesi in ospedale. Aveva combattuto insieme ai soldati britannici e americani contro i talebani e quando era stato costretto a fuggire a causa della paura della morte, non aveva trovato nessuno a sostenerlo. Come una pedina era stato usato e poi scartato. Per noi si è trattato di uno sguardo in un passato sconvolgente di terrore e di brutalità. Perché nessuno si assume la responsabilità di coloro che sono colpiti da una guerra in cui siamo così fortemente coinvolti?

gazzi a un possibile pericolo. Stasera, inoltre, ci è arrivata una voce sulla possibilità che giovedì la polizia arrivi con dei bus negli squat dove molti ragazzi dormono, per deportarli a Presevo, il campo al confine con la Macedonia. Pur non essendo certi che la cosa avvenga, li abbiamo avvertiti, perché per loro essere portati in quel campo significherebbe tornare due passi indietro: molti

Questo stesso ragazzo pochi giorni fa si trovava nel solito luogo dove provvediamo a fornire le docce, di fianco ad un piccolo fiume. Quel giorno noi non eravamo presenti, e ci ha raccontato che la polizia è arrivata e lo ha picchiato, sottraendogli il cellulare, i pochi soldi che aveva e il diario che stava scrivendo da 5 anni. Ci ha riferito di come non gli importasse delle cose materiali che aveva, quanto del suo diario e delle foto della sua famiglia che portava sempre con sé. Abbiamo percepito la frustrazione, la paura e l’umiliazione che vivono ogni giorno, soprattutto quando lui ci ha detto sorridendo “Le uniche ore del giorno in cui mi sento tranquillo e non ho paura sono quelle in cui veniamo qui a mangiare con voi, in cui stiamo insieme e ci divertiamo”. A causa della scoperta della polizia del luogo delle docce siamo stati costretti a cambiare posto, per evitare di avere problemi e sottoporre i raPAG. 13


di loro ci sono già passati e ne sono scappati. Per alleggerire il clima, sabato scorso, dopo la distribuzione, abbiamo dato inizio alle serate di cinema all’aperto, durante le quali proiettiamo film consigliati da loro, che terminano con quella che abbiamo soprannominato ironicamente “Pashtu disco”. E’ in questi momenti di allegria e spensieratezza che ci guardiamo e ci sentiamo nel “posto giusto”.

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LEZIONI D’INGLESE A DIYARBAKIR

di Umut Suvari

L’articolo è stato scritto dal presidente della Youth and Change Association di Diyarbakir in seguito alla presenza e al lavoro svolto dal volontario Cherif, partito con il progetto Yazidi’s Voice per insegnare l’inglese ai bambini e alle bambine rifuigiati Yazidi e quelli/e di Sur.

Il Servizio Civile Internazionale (SCI Italia) supporta i rifugiati Yazidi di Diyarbakir dal 2015 e, all’inizio del 2017, ha lanciato una campagna di crowdfunding mirata alla costruzione di una scuola per bambine e bambini rifugiati. Purtroppo, dal momento che il governo turco ha chiuso il campo profughi di Diyarbakir e forzosamente ricollocato tutti i rifugiati (più di 1.300 persone) in un’altra città (Midyat) e non ci è stato inoltre permesso di entrare all’interno di questo campo governativo, abbiamo deciso di fare qualcosa per le bambine e i bambini di Sur (quartiere di Diyarbakir), dove ci sono stati scontri durati vari mesi tra le forze di “sicurezza” turche e i giovani kurdi. Appena Cherif è arrivato a Diyarbakir ha diffuso la sua attitudine positiva non solo nelle strade di Sur ma anche nella nostra associazione. Crediamo che la sua positività derivi dalle sue numerose esperienze a contatto con le persone, vissute durante i suoi viaggi in numerosi paesi. Ogni persona della nostra asPAG. 15


sociazione ha stretto un bel rapporto con lui, anche perchè qua il nostro motto è “creare nuove cose da qualsiasi cosa”. Cherif è stato ospitato nella nostra guesthouse, naturalmente accompagnato dalla sua bicicletta. Mentre era a Diyarbakir, Cherif ha lavorato in maniera instancabile. Prima ha coordinato svariati workshops, giochi e a volte ha lasciato che le bambine e i bambini corressero sulla sua “straordinaria bicicletta”. Oltre a questo, insegnava loro frasi in lingua inglese, canzoni in inglese e italiano. Quelle bambine e bambini provenivano prevalentemente da contesti svantaggiati e avere la possibilità di entrare in contatto con una persona proveniente da un altro contesto geografico è stata per loro un’esperienza unica: per alcuni era addirittura la prima volta. Inoltre, Cherif ha facilitato lezioni di inglese non solo rivolte alle bambine e ai bambini ma anche a insegnanti e volontari della nostra associazione. Con il supporto dei volontari ha quindi creato cose meravigliose come dipinti, disegni, una casetta-rifugio per bimbi all’interno della nostra associazione. Lavorare insieme ci ha unito e ha contribuito a diffondere i valori del volontariato. Abbiamo notato che le sue capacità manuali, sociali e linguistiche hanno creato un’aura speciale nella nostra comunità locale e quei lavori da lui fatti hanno avuto un effetto diretto su di noi. Su di lui sono stati scritti anche alcuni articoli e girati servizi televisivi, in particolare sulla sua attività di volontariato e sul giro del mondo in bicicletta... non solo sui media locali ma anche in quelli nazionali! PAG. 16


D’altro canto Cherif ha avuto anche effetti indiretti sulla nostra comunità, contribuendo a rompere stereotipi e pregiudizi. È un fatto che le persone si stiano radicalizzando giorno dopo giorno. Se in Europa dilagano islamofobia e discriminazione nei confronti dei rifugiati, in Turchia è lo stesso per la xenophobia crescente. I media turchi stanno portando avanti una propaganda massiccia verso le persone straniere che si recano nelle regioni kurde, enfatizzando che entrano in Turchia con cattive intenzioni. Una persona straniera potrebbe essere una spia o supportare il “terrorismo”. Sino a quando Cherif è rimasto qua ha avuto strette relazioni con le persone del posto e noi volevamo che il suo operato fosse visibile, per mostrare quanto le persone provenienti da lontano possano essere amichevoli. È stato qua per soli due mesi, un tempo che può essere considerato brevissimo per questo tipo di attività, ma se utilizzato in maniera consapevole può

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portare a grandi cambiamenti. Senza contare che abbiamo tratto ispirazione per nuove attività grazie ai risultati positivi ottenuti grazie al suo operato. Cherif è passato da Diyarbakir con la sua bicicletta lasciando un’immagine positiva su chi viene da lontano, specialmente dall’Italia. Le bambine e i bambini cresceranno così con questa immagine e crediamo che contribuirà al cambiamento, alla fratellanza tra i popoli.

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BASKET BEATS BORDERS a ritmo di palleggi oltre ogni frontiera

di Daniele Bonifazi

“Imparare a conquistarmi il mio spazio in campo mi è servito a fare lo stesso nella vita. Quando vivevo ancora in Palestina, il basket mi ha insegnato a rivendicare i miei spazi, i miei diritti. Compresa quella notte in cui i soldati israeliani sono entrati in casa mia e io, bambina, li ho affrontati a testa alta”. Areej vive in Italia da molti anni, ma ricorda benissimo le lotte intraprese per poter giocare a basket a Dheisheh, il campo profughi palestinese in cui viveva a sud di Betlemme. Quando mi ha chiamato, non riuscivo a credere a quanto la sua storia fosse simile a quella delle ragazze del Real Palestine Youth F.C., squadra di basket femminile di Shatila, campo profughi di Beirut in cui vivono venticinquemila persone in un chilometro quadrato. Areej voleva assolutamente partecipare all’iniziativa che io e David, con il prezioso aiuto dello SCI, avevamo ideato e che da lì a pochi giorni si sarebbe PAG. 19


finalmente realizzata: Basket Beats Borders. Ovviamente le ho detto subito di sì, spiegandole dettagliatamente come fosse nato il nostro progetto. Basket Beats Borders è il frutto di due incontri, quello mio con David sulla rotta balcanica, tuttora percorsa da migliaia di migranti, e quello di David con Majdi, allenatore del Real Palestine Youth F.C., a Beirut. Venuti a conoscenza di questa squadra, fondata pochi anni fa per dare alle ragazze di Shatila l’opportunità di praticare uno sport e di incanalare positivamente le energie negative che la vita in un campo necessariamente genera, io e David abbiamo deciso che non potevamo tenerci questa storia per noi. Così abbiamo iniziato a pensare a come poter portare queste otto adolescenti a Roma, dando loro la possibilità di viaggiare e a noi tutti l’opportunità di ascoltare le loro storie. Malgrado le infinite vicissitudini burocratiche per l’ottenimento dei visti, che ci hanno reso ancora più consapevoli di quanto le politiche migratorie italiane ed europee rendano il viaggio PAG. 20


impossibile a una persona nata nel Sud del mondo, l’11 maggio abbiamo finalmente accolto le ragazze all’aeroporto di Fiumicino e le abbiamo accompagnate alla Città dell’Utopia, che le ha ospitate durante la loro permanenza a Roma. Per cinque giorni Wafaa, Rola, Hanan, Marwa, Rayan, Mona, Noha e Bahija si sono allenate con tre squadre di basket popolare di Roma: gli All Reds, l’Atletico San Lorenzo e Les Bulles Fatales. Squadre “popolari” in quanto autofinanziate, proprio come il Real Palestine Youth F.C. Oltre ad allenarsi, le ragazze palestinesi hanno visitato Roma sia a piedi che in bici e hanno partecipato a due tornei di basket, alla fine dei quali abbiamo riservato uno spazio per il dibattito tra le squadre e il pubblico su temi quali il Libano, la Palestina, lo sport popolare, il femminismo e la libertà di movimento. Attraverso le storie che le ragazze palestinesi e il loro allenatore ci hanno raccontato, abbiamo così potuto conoscere meglio la realtà di Shatila e riflettere sulla condizione dei rifugiati palestinesi in Libano, ai quali sono negati diritti, mestieri e soprattutto il ritorno in Palestina, che viene loro impedito da Israele nonostante sin dal 1948 ci sia una risoluzione dell’ONU che sancisce il diritto di tutti i rifugiati palestinesi al ritorno nella propria terra. Come si evince dal nome del progetto, l’obiettivo ultimo di chi ha preso parte a Basket Beats Borders è l’abbattimento di ogni frontiera. E siamo convinti che il dialogo sia una delle strategie migliori per raggiungere questo scopo. Il successo di Basket Borders è stato proprio questo: la creazione attraverso il basket di uno spazio di confronto, di riflessione, di scambio tra persone provenienti da contesti molto diversi e con una profonda disparità di diritti. Uno spazio libero che, come ci ha insegnato Areej con la sua storia, una volta conquistato non può più essere reso. PAG. 21


IX° NO BORDER FEST de La Città dell’Utopia

“LIBERTA’ DI MOVIMENTO OLTRE OGNI CONFINE” di Sylla Lassana, Nidal Amir, Alessandra Cedri, Damir Bojic

“Abbiamo fatto insieme, lavorato insieme, mangiato insieme, giocato insieme, camminato insieme, parlato insieme. Eravamo un gruppo. 13 persone. 7 donne. Tre francesi; un inglese; due italiani; un africano, io, Lassana; uno spagnolo; una donna tedesca; due donne ungheresi e di altri paesi, non so di dove. Il lavoro è stato pulire qui, dentro e fuori, per il No Border. C’è stata la festa del No Border, venerdì e sabato. Il gruppo ha pulito, ha organizzato, ha potato le sedie, 64 sedie. C’erano tante persone e tanta gente in piedi. Dopo abbiamo messo a posto. Un bel lavoro, si può fare, non troppo pesante. La cosa più importante è stata fare gruppo. Mi piace molto fare gruppo, con il gruppo si capiscono tante cose. Sono molto contento. Il gruppo era molto molto gentile. Il gruppo faceva la spesa, comprava da mangiare, comprava le birre e sempre tutti dicevano “Mi dispiace, Lassana, che tu fai il Ramadan.” [Lassana, volontario senegalese del workcamp e de La Città dell’Utopia].

Lassana è un ragazzo senegalese che da tre anni vive a Roma ed è volontario di Laboratorio 53, l’associazione che si occupa di migrazioni a La Città dell’Utopia. Lassana ha deciso di partecipare con grande entusiasmo – nonostante fosse in pieno Ramadan – al workcamp per la preparazione del No Border Fest. Dalle sue parole emergono le forti sensazioni date dallo stare in gruppo, un gruppo variegato, internazionale composto da persone arrivate a La Città dell’Utopia per collaborare all’implementazione sì del No Border Fest, ma in particolare legate dall’interesse per la tematica delle migrazioni, intesa

Così Lassana descrive il lavoro fatto durante il workcamp internazionale del Servizio Civile Internazionale. PAG. 22


come libertà di movimento e diritto fondamentale ed entusiaste di approfondire ed studiare l’inclusione sociale a livello locale. Giunto alla sua IX edizione, il No Border Fest è il festival durante il quale celebriamo la libertà di movimento di tutti e tutte, l’abbattimento delle frontiere e l’opposizione a politiche securitarie e criminalizzanti che da decenni caratterizzano la retorica italiana ed europea sul tema delle migrazioni. Come nelle edizioni precedenti, il festival ha visto la partecipazione di un gruppo di volontari internazionali che hanno preso parte al workcamp del Servizio Ci-

vile Internazionale: per dieci giorni, da prima a dopo il festival, il gruppo di 10 volontari internazionali ha lavorato allo scopo di rendere questo festival possibile in molti dei suoi aspetti. L’idea comune, alla base delle aspettative di tutti e tutte i e le partecipanti, era di sentirsi protagonisti di uno spazio aperto in cui le frontiere venissero abbattute, uno spazio in cui le differenze rappresentassero un valore aggiunto e in cui gli stessi volontari e volontarie fossero catalizzatori di tale processo. Durante i giorni precedenti il festival, il gruppo ha avuto modo di conoscere La Città dell’Utopia e di dare

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il proprio contributo ai vari progetti, i cui risultati sarebbero stati il cuore del No Border Fest: in questo modo i volontari e le volontarie internazionali si sono avvicinati alle quotidiane attività de La Città dell’Utopia e delle associazioni che lavorano al suo interno, prima tra tutte Laboratorio 53. Ma non solo. Una delle ricchezze del No Border Fest di quest’anno è stata la presenza anche di altre progettualità, ciascuna con la propria idea da sviluppare, ma col comune obiettivo di restituire una narrazione alternativa delle migrazioni, diversa e contrapposta a quella che le istituzioni ci restituiscono quotidianamente, non solo nei vari decreti Minniti-Orlando che di legislatura in legislatura cambiano nome ma non

principio, ma anche nelle generiche politiche che l’Unione Europea attua da decenni per fermare la libertà di movimento e per criminalizzare le migrazioni. “Quando la mia cara amica e collega Sylvi mi ha raccontato dei suoi piani per le ferie, sono rimasto molto colpito da quanto fossero diversi rispetto a quelli delle persone che mi circondano. Nei suoi piani c’era un progetto di volontariato internazionale per promuovere la libertà di movimento per tutti e tutte e l’inclusione sociale a livello locale; tutto ciò attraverso un workcamp di dieci giorni per organizzare, implementare e partecipare al No Border Fest di Roma. Appena dopo la

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nostra conversazione ho deciso di unirmi al progetto, pieno di entusiasmo. È stato grandioso scoprire che attivisti e attiviste da paesi diversi avevano l’opportunità di incontrarsi e lavorare insieme per migliorare il mondo in cui viviamo, per quanto si possa fare in un progetto di breve durata. Una volta arrivati al Casale de La Città dell’Utopia a Roma, ci siamo trovati in una piccola comunità che è riuscita negli anni a creare un’atmosfera estremamente accogliente, che ha permesso a migranti, rifugiati, richiedenti asilo, comunità locale e attivisti internazionali di lavorare insieme e di conoscersi con un obiettivo comune: superare le nostre barriere che riflettono quelle cui siamo abituati quotidianamente

dal mondo esterno. È stato particolarmente interessante e ha fatto la differenza l’attenzione che tutti e tutte hanno prestato ai diversi background dei partecipanti internazionali e locali che, nonostante abbia portato con sé delle sfide, ha resto il campo più bello per tutti e tutte. Essendo io insegnante in un college internazionale che mira a creare una realtà senza barriere, sono rimasto particolarmente colpito dal lavoro eccezionale fatto da una delle associazioni del Casale: Laboratorio 53. Io e i miei studenti lavoriamo con i rifugiati e richiedenti asilo in Galles, dove si trova il nostro college. Ho potuto vedere come Laboratorio 53 ha riunito un gruppo di attivisti in grado di lavorare insieme ai migranti

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per trovare soluzioni alle difficoltà, le stesse che abbiamo vissuto noi in prima persona qui in Galles dall’inizio: le loro attività e iniziative sono state illuminanti e inaspettate per me. Il prossimo passo sarà di mettere in atto simili soluzioni nel contesto locale in Galles. Sono soddisfatto del supporto e dei consigli datimi da Laboratorio 53 per poter raggiungere simili obiettivi, mostrando il potenziale che un festival come il No Border Fest può avere a livello internazionale: molti giovani hanno giovato e gioveranno indirettamente del loro lavoro durante il campo e avranno tutta una vita davanti a loro per poter mettere in pratica ciò che hanno imparato sul piano delle conoscenze e delle capacità apprese durante l’esperienza del festival. È stato appagante vedere come l’educazione sia presa seriamente a La Città dell’Utopia, dove anche volontari di 16 anni sono ammessi ad essere parte del gruppo. Questo ha significato uno sforzo in più per guidare i più giovani, che sono diventati in tutto parte della nostra comunità di attivisti internazionali. Per concludere, vorrei fare i complimenti ai responsabili per il magnifico lavoro di gestione del tempo, che ci ha permesso di trascorrere insieme anche molte ore libere e di goderci il festival tutti e tutte insieme!” [Nidal, volontario ispano-palestinese del workcamp]. Oltre agli attivisti e alle attiviste, ai volontari internazionali e alle associazioni che hanno contribuito a rendere possibile il No Border Fest, quest’anno la presenza a La Città

dell’Utopia di due attivisti parte del progetto Torno Subito della Regione Lazio ha reso possibile l’organizzazione di un’installazione durante il festival, il cui scopo era quello di valorizzare le narrazioni di un quotidiano migrante che fosse diversa da quella presentata dai quotidiani nazionali: “Come mi vedo, come mi vedi. Narrazioni e altre narrazioni sul quotidiano migrante”, questo il titolo. I due progetti erano tra loro diversi, ma hanno trovato un approdo comune durante il No Border Fest: il primo progetto, portato avanti da Damir Bojic, prevedeva una ricerca sulla propaganda mediatica che i media ufficiali italiani portano avanti da anni sul tema delle migrazioni. L’idea era quella di restituire al pubblico tutte le informazioni che negli ultimi anni le principali testate giornalistiche ci hanno imposto come notizie. Una raccolta di titoli e articoli che presentavano denominatori comuni nei termini “invasione”, “masse di immigrati”, “ondate”, “nu-

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meri insostenibili” fino alle più svariate terminologie per indurre il lettore a criminalizzare o vittimizzare le persone migranti. Il secondo progetto, invece, è stato sviluppato da Alessandra Cedri e ha visto la collaborazione di Laboratorio 53, della scuola di italiano di Caritas Roma e di altre associazioni e realtà del territorio romano, che insieme hanno portato avanti dei laboratori di riciclo creativo e inclusione sociale nei quali, attraverso il lavoro insieme e i momenti di creatività, veniva non solo restituita un’immagine contrapposta a quella cui siamo da tempo abituati quando sentiamo parlare di migrazioni, ma anche venivano aperti momenti di quotidianità che provavano a tenere lontani i problemi di ogni giorno che l’essere migrante a Roma porta con sé.

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CONCLUSIONI

di Susanna Monello

Quando si parla di frontiere, è in realtà di spazio che si sta parlando, della voglia, della necessità, della negazione, del diritto a quello stesso spazio. Lo spazio per esprimersi, quello per agire, quello per pensare, quello per rifugiarsi, quello per muoversi. E’ uno spazio fisico, come quello che A attraversa da l’Afganistan al confine

Le frontiere ne sono il limite imposto e violento che lo spezza, lo interrompe, influenza quello che si sviluppa al suo interno impedendo che sia autodeterminato ed inclusivo. Superare le frontiere diventa quindi un passaggio imprescindibile per la trasformazione verso una società più equa e più giusta, che rispetti i

serbo-croato; è uno spazio interiore, come quello che sperimentano le giocatrici di basket di Shatila nelle loro sfide sul campo; è multimediale, come quello che percorrono le notizie da Diyarbakir fino a voi che state leggendo questa pubblicazione.

bisogni dell’individuo e delle comunità in cui vive. Ma come si partecipa efficacemente in questo percorso? Cosa si può fare? E soprattutto: come? Come evitare che le attività che mettiamo in campo alimentino un appiattimento e un processo di

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normalizzazione? Il volontariato è oggi spesso, quantomeno in Europa, fenomeno di massa. Non tutte le persone sono spinte dal desiderio di far parte di un processo di cambiamento che le precede e supera nel tempo e nello spazio. Molte ricercano la soddisfazione di un bisogno di crescita e voglia di scoperta individuale, a volte di protagonismo, a volte di non rimanere indietro rispetto agli altri. Mentre termini come “militanza” fanno paura e riportano a qualcosa di violento, “cittadinanza attiva” si veste in alcuni casi di un significato un po’ di moda, lontano dall’idea di cambiamento attraverso lotta e resistenza che, a giudicare almeno dai fondi elargiti dai maggiori donor, si adatta ai giovani europei fra i 19 e i 30 anni senza occupazione meglio che a tutti gli altri cittadini e cittadine. Accanto a questo, l’attenzione si sposta in modo rapido da una “questione” ad un’altra: ieri i Rom, oggi i Rifugiati, domani la Palestina, dopodomani l’Ambiente, fra una settimana la Scuola, fra un mese la Somalia. In questa direzione, la pratica dell’azione si frammenta, rischiando di agire sulle varie questioni come fossero separate l’una dalle altre, ottenendo magari qualche risultato a volte, ma sempre limitato e non duraturo. Ed è proprio qui che si trova, infatti, un aspetto della sfida: considerarle nella loro complessità e organicità, consapevoli che le ragioni alla base sono comuni e le soluzioni necessariamente interdipendenti. In questo senso, educazione e rete, come argomentato nell’introduzione, sono due aspetti strettamente collegati fra loro e rivestono un ruolo fondamentale in questa dinamica. Il torneo di basket fra le palestre popolari romane e le donne di Shatila, il supporto attivo ai migranti che attraversano i confini, il corso di inglese con il partner curdo, i campi che stimolano sempre il senso di comunità, le formazioni che sono spazi di dibattito e crescita, gli incontri e i progetti con altre realtà insieme alle quali ci poniamo sempre nuove domande: tutto questo questo è già riappropriazione di spazio, superamento delle frontiere, è già trasformazione.

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GRUPPI REGIONALI

SEGRETERIA NAZIONALE Via A. Cruto 43, Roma Tel. 065580644 Cell. 3465019990 E-mail info@sci-italia.it Orari di apertura: dal lunedì al venerdì, dalle 10 alle 18. FB: Servizio Civile Internazionale Italia

LOMBARDIA SCI Lombardia Viale Suzzani 273, 20100 Milano E-mail: lombardia@sci-italia.it FB: Servizio Civile Internazionale Lombardia - SCI Lombardia

“La Città dell’Utopia” Via Valeriano 3/F, Roma (Metro S. Paolo) E-mail: lacittadellutopia@sci-italia.it www.lacittadellutopia.it Tel: 0659648311 Cell: 3465019887 FB: La Città dell’Utopia

SARDEGNA SCI Sardegna Via San Giovanni 400, Cagliari E-mail: sardegna@sci-italia.it FB: Servizio Civile Internazionale Sardegna - SCI Sardegna

CAMPI DI VOLONTARIATO Campi nel Nord del Mondo: outgoing@sci-italia.it Campi nel Sud del Mondo: campisud@sci-italia.it Campi in Italia: incoming@sci-italia.it Coordinamento campi in Italia: workcamps@sci-italia.it

GRUPPI LOCALI

VOLONTARIATO A LUNGO TERMINE (LTV E SVE) ltv@sci-italia.it evs@sci-italia.it VOLONTARIATO A BREVE E LUNGO TERMINE SU INCLUSIONE SOCIALE inclusione@sci-italia.it AMMINISTRAZIONE amministrazione@sci-italia.it

PIEMONTE SCI Piemonte C/o Associazione Comala - Polo Creativo 3.65, Corso Ferrucci 65/A, 10138 Torino E-mail: piemonte@sci-italia.it FB: Servizio Civile Internazionale Piemonte - SCI

BOLOGNA SCI Bologna C/o Làbas Via Orfeo 46, 40124 Bologna E-mail: bologna@sci-italia.it FB: Servizio Civile Internazionale Bologna - SCI Bologna NORDEST SCI Padova E-mail: padova@sci-italia.it FB: Servizio Civile Internazionale Padova Nordest - SCI Padova Nordest

UFFICIO STAMPA comunicazione@sci-italia.it PAG. 30


CONTATTI LOCALI NAPOLI Alessandro Paolo E-mail: alessandro.paolo2887@gmail.com GENOVA Matteo Testino E-mail: genova@sci-italia.it PALERMO Giorgio Nasillo E-mail: giorgio.nasillo@sci-italia.it CATANIA Rosario Scollo E-mail: catania@sci-italia.it

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Servizio Civile Internazionale via A. Cruto 43 - 00146 Roma Tel/Fax 06. 5580644 e-mail: info@sci-italia.it web: www.sci-italia.it


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