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cui è il possibile stesso a configurarsi. La fidatezza è a quel punto orientata in un giuramento che chiama un dio come testimone, un dio che assume tutto il credito; al quale si fa un credito totale. Un dio che assume su di sé l’incalcolabile. (…) C’è sempre continuità tra l’esperienza di un incalcolabile creduto e fidato e un sapere come previsione e calcolo. Nelle coerenze di Derrida questa implicazione sta nella stessa matrice di un’alleanza sempre imminente nel momento in cui l’alterità dell’altro si presenta nella vertigine di un imperscrutabile. L’alleanza è già infatti una forma di garanzia nei confronti del rischio assoluto della fidatezza. Ecco perché, secondo Derrida, è sempre un errore separare l’evento e la potenza tecnico-scientifica dall’ellissi del religioso. In quella doppia fonte, in realtà, si realizza, nella logica di una qualche necessità, il dispositivo di una tecnoscienza. (…) Per Derrida non c’è comunità che non ripeta questa legge di cui il religioso è sempre l’esemplare. Allo stesso modo non c’è comunità che non attraversi la fidatezza elementare e da essa in qualche modo si protegga nell’integrità di un qualche legame. Non c’è legame che non si valorizzi nella logica di un’indennità che si santifica e non c’è niente di tutto questo senza prove sacrificali, tradimenti, fedeltà, quindi logiche d’immunità e poi di autoimmunità. In breve e rapidamente, la spaziatura elementare di una fidatezza può solo garantire il disincanto di una dissociazione di ciò che si raccoglie in una comunità ma non può accadere mai come comune. Ciò che per Nancy già sempre accade come confidenza di uno stare insieme, per Derrida può promettere solo la pratica di un arguto disincanto per una dissociazione che non apre verso una comunità altra, ma si delimita, al limite, in un’etica della vigilanza continua per sabotare tutto ciò che fatalmente si raccoglie nella proprietà di alcuni confini. Per coloro che seguono l’intenzione di fondo di Nancy, la comunità, come già sempre perduta di Derrida, ci lascia impotenti nell’azione stessa del pensiero. Per coloro che invece seguono la lezione di Derrida, Nancy sarebbe costretto a nominare la spaziatura con un’ontologia alla fine ingenua e tutt’altro che estranea a una lunga tradizione. Mentre per Nancy la comunità è già sempre accaduta, poiché l’essere già immediatamente spartisce il suo ritiro, per Derrida, invece, la comunità è già sempre mancata nella sua possibile impossibilità. Mentre Derrida sta sempre sul lato di chi ha in sospetto ciò che accomuna, Nancy ritiene invece che la comunità sia il destino stesso dell’essere, originariamente, deve però dire, con una frequenza che lo espone all’insidia di Derrida. (...) Ci chiederemo se l’imperativo ontologico che Nancy rilancia sovrapponendo il Dasein e l’imperativo categorico non sia più coerente con una logica di esposizione senza veli, in particolare se essa viene interrogata a partire dalla soglia d’esposizione in cui si decide un’opera dell’arte. Vedremo anche se, per questa via, una certa fidatezza non debba essere sottratta, poiché si sottrae per conto proprio, senza residui da ciò che invece Derrida fa accadere fatalmente nel deserto senza rotta della chora e cioè, una chiamata elettiva, una preghiera, un sacrificio, ibridatura di communitas ed immunitas e poi autoimmunitas. A quel punto seppure brevemente e di passaggio sarà quasi necessario chiedersi se un certo dio che capitola nel pulchrum abbia qualcosa da dire su un comune di tutti e di ciascuno, se esso sia ancora il dio di


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