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Novembre-Dicembre 2008, n째 13, 2008 Febbraio-Marzo n째 24, 2010


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Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica Http://www.Inschibboleth.org - Mensile on line (con aggiornamenti settimanali), Marzo- Aprile 2010, n° 25. (Numero 26, 2 Maggio 2010) - Registrazione presso il Tribunale di Sassari. Redazione principale: via Nazionale 75, 00184 Roma. Redazione virtuale on line su Skype. Ufficio stampa, Marco De Pascale. E-Mail: infotiscali@inschibboleth.org. Direttore responsabile: Aldo Maria Morace.


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Le elezioni regionali ed il fenomeno del populismo di Elio Matassi Consenso versus partecipazione di Alfonso M. Iacono Il silenzio della sinistra di Alfredo Reichlin Donazione di senso e scoperta di senso di Armando Rigobello

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Dio e la macchina di Massimo DonĂ

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Le apocalissi del soggetto: distruggere, accogliere di Silvano Petrosino

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La comunitĂ s-velata di J.-L.Nancy di Carmelo Meazza

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Senso comune, buon senso, consenso, (e non senso...) di Nicola Comerci

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Paolo VirzĂŹ, La prima cosa bella, ovvero la madre di Domenico Spinosa

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Le elezioni regionali ed il fenomeno del populismo di Elio Matassi

Le imminenti elezioni regionali dopo il decreto ‘interpretativo’ del governo, il grave pasticcio concernente le inadempienze giuridiche relative alla presentazione delle liste da parte del PDL in alcune Regioni (Lazio, Lombardia) cadono in un momento storico che segna il punto più elevato di crisi del nostro sistema democratico. Lo scollamento tra paese reale e paese legale (rappresentativo) diventa sempre più evidente ed i sondaggi demoscopici più recenti segnalano un tasso di astensionismo sempre crescente, che in questo caso, sembra lambire non più non più solo l’area di sinistra ma anche settori consistenti del centrodestra e del PDL. Silvio Berlusconi,


nonostante gli errori evidenti compiuti dall’opposizione, comincia ad essere in difficoltà, difficoltà legate alla costituzione-formazione stessa del partito ed, in parte, corrispondenti alla generalizzazione del fenomeno popolustico, fin’ora cavalcato e gestito con efficacia dall’attuale maggioranza ma che, da qualche tempo, sembra essere sfuggito ad ogni forma di controllo politico. Fenomeni evidenti di corruttela hanno attraversato in eguale misura i due schieramenti e il tutto ha generato ulteriore sfiducia nel sistema della rappresentanza ed in quello della democrazia. Crisi economica e crisi politica si stanno intrecciando sempre più strettamente con effetti devastanti sulla tenuta stessa del sistema democratico nel suo insieme. Il conflitto, esasperato fino all’estremo, dal premier del centrodestra fra potere governativo-politico e istituzioni giudiziarie sta colpendo alle fondamenta in maniera profonda la struttura ed il funzionamento della nostra democrazia. Altro aspetto di una gravità inaudita sta nel superamento della legge concernente la par conditio con il conseguente oscuramento di tutte le trasmissioni di dibattito politico(da ‘Porta a Porta’, ad ‘AnnoZero’, a ‘Ballarò’). Un clima plumbeo e livido sembra ormai imperare nella nostra società dove tutte le strutture pubbliche, dalla scuola all’università sembrano ormai al collasso. Scelte molto difficili sono state compiute in questi ultimi giorni ed una di queste ha riguardato la stessa Presidenza della Repubblica con la firma al Decreto governativo concernente la possibilità di riammettere le liste alle elezioni regionali. Scelta che è stata duramente criticata dall’Italia dei Valori e dal suo leader, Antonio di Pietro, con accenti estremi. Questa è solo una radiografia essenziale di problemi sul tappeto; provo ora, selezionando i diversi aspetti, ad offrire qualche elemento di riflessione. Inizio dall’ultimo problema sollevato, quello relativo alla firma del Presidente della Repubblica al Decreto interpretativo del Governo. La Presidenza della Repubblica ha cercato con questa soluzione di creare un argine all’imperante neopopulismo, cavalcato finora con spregiudicatezza e miopia dall’attuale premier. Dinnanzi alla scelta, rispetto delle regole o possibilità di dare sbocco politico ad una parte consistente dell’elettorato, la Presidenza ha optato per la seconda soluzione, cercando in tal modo di esorcizzare ed arginare l’irresistibile flusso del neopopulismo. Una scelta che può essere largamente condivisibile e che non ha impedito, per esempio, al TAR del Lazio ed al Consiglio di Stato di ricusare la lista del PDL a Roma e provincia per le prossime regionali. Il fenomeno neopopulista presenta, dato l’intreccio perverso che si sta instaurando tra crisi politica e crisi economica, aspetti di estrema gravità, ed una soluzione diversa, la non firma della Presidenza della Repubblica, avrebbe offerto il pretesto politico di una nuova esplosione populistica. Invece, le possibilità offerte dalla Presidenza della Repubblica, hanno di fatto liberato il campo da ogni eventuale pretesto, mettendo in evidenza la brutale semplificazione giuridica che caratterizza la vocazione dell’attuale maggioranza. Il che ha generato sfiducia e si sta ritorcendo come un boomerang sugli stessi protagonisti di questa brutale semplificazione. Recenti sondaggi attestano che almeno il 17% dell’elettorato sta modificando la propria intenzione di voto in ragione di questa scelta. Non si può pertanto condividere l’estremismo retorico dell’Italia dei Valori e del suo premier, che diventa speculare alle rivendicazioni estremistiche di larghi settori dell’attuale maggioranza, rafforzzandone di fatto la dimensione politica.


Un’ ulteriore riflessione riguarda la crisi che sta investendo sempre più direttamente il PDL con una fusione che è stata enfatizzata come nascente dal basso, dal cuore stesso della società civile e che, invece, si sta prestando a difficoltà impreviste, rilevate, per esempio, da esponenti della stessa maggioranza: basti ricordare l’attuale Presidente della Camera dei deputati che, pur essendone il cofondatore, ha affermato esplicitamente che il PDL nella presente versione non sia un’operazione riuscita compiutamente ed abbia pertanto bisogno di modifiche profonde. Queste evidenti difficoltà sono l’effetto naturale di due anni di governo, caratterizzati da molta enfasi retorica e da scarsissimi risultati politici. L’interpretazione di Silvio Berlusconi, che tende a stabilire un’equazione strettissima tra la nostra situazione politica e quella degli Stati Uniti – bisognerebbe in questo caso stabilire un’analogia con le elezioni statunitensi ‘di mezzo’, che registrano sempre delle difficoltà per chi è al Governo – è molo riduttiva, perché tende a considerare l’attuale crisi come esclusivamente congiunturale e non sistemica. Quello che l’attuale premier non riesce o non vuole comprendere sta nel fatto che l’attuale maggioranza, dopo aver cavalcato la tigre del populismo, non riesce più a controllarlo politicamente. Una crisi che apre scenari politici inaspettati ma che purtroppo il Partito Democratico non sembra in grado di saper gestire. Debbono essere segnalati dei veri e propri errori politici nella scelta – selezione delle candidature alle regionali, basti ricordare i casi della Puglia e del Lazio. Possibile che la dirigenza del Partito Democratico, nella gestione delle primarie non sia riuscita ad intercettare in alcun modo le linee di tendenza dell’elettorato, ricevendo un’autentica lezione – umiliazione dal cosiddetto popolo delle primarie? Altrettanto improvvisata ed approssimativa è stata la gestione politica della scelta delle candidature nella regione Lazio, dopo il caso Marrazzo. Era proprio scontato che la scelta del candidato, (tra l’altro del tutto rispettabile) dovesse essere compiuta da un partito rivale e alleato nel contempo come quello Radicale? Questi sono, per così dire, errori tattici ma anche, sul piano generale, si deve lamentare una strategia che si sta rivelando sempre più deficitaria: come può essere concepibile, da un lato, un’alleanza sempre più stretta con l’UDC e con il centro e, nel contempo, perdere proprio al centro ‘pezzi’ sempre più consistenti del partito. I ritardi nella costruzione del partito sul territorio, errori strategici e tattici, sempre più evidenti, stanno contrassegnando il momento molto difficile del Partito Democratico e dell’opposizione in genere, nonostante le altrettante evidenti difficoltà del Centrodestra. Il cammino rimane lungo e complesso ma almeno su alcuni punti deve esserci la massima chiarezza e disponibilità: diventano sempre più indifferibili i criteri di formazione della nostra classe dirigente; purtroppo fenomeni di corruzione hanno attraversato anche esponenti del Centrosinistra e questo non dovrà più avvenire o, almeno, dovranno essere create le condizioni ottimali perché questo non avvenga più. Vi è un ulteriore problema che non può più essere eluso; dinnanzi all’ormai evidente disegno di distruzione della formazione e della scuola pubblica, risulta sempre più necessario che il Partito Democratico si doti di una politica culturale di ampio respiro e recuperi un rapporto stretto con gli intellettuali. Un’operazione che dovrà comportare il recupero – rinnovamento di una identità e di una egemonia che diventano un problema ogni giorno più stringente. I due momenti, quello dell’opposizione (della tipologia dell’opposizione da


condurre) e quello della ricerca, con un vocabolo gramsciano, di una nuova egemonia, - essendo ben consapevoli che non potrà più porsi negli stessi termini del passato (ha ragione Etienne Balibar nel sostenere che, nella contemporaneità, per la complessità dei fattori in gioco si potrà parlare solo di egemonia ‘incrinata’ ossia di egemonia relativa e non assoluta), - devono essere considerati complementari. Che cosa significa innanzitutto ‘egemonia’? In questo caso Gramsci può risultare ancora molto utile; come ha ben visto Norberto Bobbio, da sempre libero dalle pregiudiziali della scolastica marxista, il concetto di egemonia nella rilettura gramsciana prospetta un’interpretazione innovativa della relazione struttura-sovrastruttura, un’interpretazione che si concentra in maniera particolare sulla categoria della società civile. Mentre nella tradizione marxista l’impianto hegeliano della società civile viene assimilato all’esclusivo elemento strutturale, in Gramsci prevale l’opzione inversa, ossia l’analogia società civile-sovrastruttura. A risultare capovolto è il rapporto tra istituzioni e ideologia: le ideologie diventano il momento primario e le istituzioni quello secondario. Da questa ‘inversione’ nasce anche il concetto di ‘egemonia’ come direzione sostanzialmente culturale prima che politica. Nelle pagine programmatiche, dedicate al moderno Principe, pubblicate in testa alle Note sul Machiavelli, Gramsci propone per lo studio del partito moderno due temi fondamentali, quello della formazione della ‘ volontà collettiva’ (la direzione politica), e quello della riforma ‘intellettuale morale’ (la direzione culturale); in Gramsci pertanto la conquista dell’egemonia precede e non segue quella del potere. Una via che in questi anni ‘Inschibboleth’ ha seguito con umiltà e in solitudine, trovando solo in ‘Argomenti umani’ una disponibilità al confronto ed invece una totale sordità di fondazioni di presunto maggior peso. Una umiltà che ha ricevuto un primo riconoscimento: il 18 aprile a Certaldo ‘Inschibboleth’ riceverà il primo premio come miglior sito filosofico dell’anno.


Consenso versus partecipazione di Alfonso M. Iacono

Negli anni ’50 Lipset e Schumpeter avevano pensato che una democrazia in una società di massa dovesse essere poco partecipativa. Ciò avrebbe favorito le élites nel governo delle cose e anche la loro circolazione e alternanza attraverso meccanismi a un di presso referendari. Questo aveva segnalato il grande storico antico Moses Finley nel paragonare la democrazia degli antichi e dei moderni. Ignoranza e apatia, ben lungi dal costituire una patologia del sistema democratico, esprimono una possibile condizione della democrazia, quella che è oggi dominante e che viene fatta passare, a destra e a sinistra, come l’unica. Che dire della moderna alleanza fra democrazia e competizione delle élites? Perché di questo si tratta, dell’ambigua convivenza o addirittura della simbiosi fra democrazia e competizione delle élites. Joseph Schumpeter in Capitalismo, socialismo e democrazia concepisce il metodo democratico come “lo strumento istituzionale per giungere a decisioni politiche, in


base al quale singoli individui ottengono il potere di decidere attraverso una competizione che ha per oggetto il voto popolare”.Uno dei presupposti dei discorsi che intendono coniugare democrazia con competizione delle élites riguarda il fatto che tale sposalizio tanto più è felice, quanto più cresce l’ignoranza politica e l’apatia pubblica. Tradotto in altri termini, nella democrazia così concepita e teorizzata, la partecipazione è uno strumento che serve al gioco delle élites, e, in quanto strumento, essa rimane vincolata ai limiti dell’ignoranza pubblica e dell’apatia politica . In un contesto simile la pallida distinzione fra destra e sinistra finisce con il basarsi su una diversa modalità dell’essere conservatori. E’ bene essere chiari, oggi il problema della sinistra è quello di essere fatta da partiti d’opinione culturalmente e psicologicamente conservatori. Essendosi dissolto il rapporto tra politica e territorio, e poiché la cultura di massa da popolare sta tornando ad essere soltanto plebea, crolla anche il senso della partecipazione (le primarie sono soltanto un pallido simulacro della partecipazione) che ora, in un modo diverso, ma nello stesso tempo simile ai regimi totalitari, si separa dal consenso. Risultato è un regime basato su regole democratiche fondamentalmente referendarie dove il consenso uccide la partecipazione. Ed è sulla separazione di consenso e partecipazione che Berlusconi ha costruito il suo potere. E la sinistra è ancora imbambolata, indecisa se applicare stolidamente il metodo di Berlusconi oppure se affidare la politica ad un moralismo conservatore che, oltretutto, non è in grado di sostenere sul piano della coerenza. C’è un rapporto mortale tra l’apatia politica, l’ignoranza pubblica e i mezzi di comunicazione di massa, a cominciare dalla televisione. La mia idea è che, attraverso la TV, al crescere dell’informazione diminuisce l’apprendimento, in quanto non si riesce ad arrestare il potere distruttivo di semplificazione che la TV ha nei confronti della complessità. Non si tratta di demonizzare i mass media, ma, di sicuro, si può fare di meglio. Suggerirei di rileggere il racconto di Jerzy Kosinski, Presenze , da cui fu tratto il film Oltre il giardino . Credo che possa ancora essere una lettura utile. Lo suggerirei in particolare a tutti coloro che sono ossessionati dal dubbio che i mass media siano gli unici produttori di realtà. I mass media possono nascondere la realtà con l’evidenza, possono amplificarla, ma il mondo non si riduce alla loro realtà. Aggiungo che, attraverso i mass media, al crescere dell’informazione cresce un tipo di consenso che si coniuga con l’ignoranza pubblica e con l’apatia politica. Il punto è che, a mio parere, ciascuno vive come spettacolo la chiusura del sottosistema politico . La televisione è una finestra che quanto più ci fa scorgere un mondo che sta al di là dello schermo, tanto più si oppone come una barriera fra rappresentanti e rappresentati. Quanto più avvicina, tanto più allontana. Ma tutto ciò non è questione dei mass media, è questione della democrazia. La televisione non può che esprimere, nella sostanza, quel che è attualmente una democrazia organizzata per competizione delle élites. Alle forze di sinistra le cose vanno bene così ? E va bene alle forze di sinistra il fatto paradossale che oggi è la Lega a tessere in termini localistici e razzisti quei legami territoriali e democratici che un tempo apparteneva al loro modo di essere? La democrazia ha a che fare non soltanto con le regole procedurali, ma anche con le forme dell’apprendimento, dell’autonomia, del linguaggio e della comunicazione. Ha a che fare con le forme della vita e dei rapporti sociali. Un passo della Politica di Aristotele suona così: “Il ragionamento sembra dimostrare che il numero dei governanti, ristretto in un’oligarchia o elevato in una democrazia, è un elemento accidentale dovuto al fatto che dovunque i ricchi sono pochi e i poveri numerosi. Perciò...la reale differen-


za tra la democrazia e l’oligarchia è la povertà e la ricchezza. Dovunque gli uomini governano in ragione della loro ricchezza, siano pochi o molti, si ha un’oligarchia, e dove governano i poveri, si ha una democrazia”. Ma dove governano i poveri?


Il silenzio della Sinistra di Alfredo Reichlin*

La grottesca vicenda delle liste elettorali è la spia del tramonto di una intera era politica. Dopo anni di confusione tra pubblico e privato e di disprezzo per la certezza e l’uguaglianza della legge è la «casa comune», lo Stato, che si sgretola e rischia di caderci addosso. Ho vissuto tutte le traversie della Repubblica, ma questa è la crisi più grave del Paese dopo l’8 settembre. La denuncia è necessaria ma non sufficiente. Come ne usciamo? Non pretendo di conoscere le risposte, mi chiedo però se siamo consapevoli che l’Italia è arrivata a un appuntamento difficile con la sua storia. Teniamo conto che l’armatura materiale e culturale, etica addirittura, del Paese, ridotta com’è al degrado e quindi all’impotenza sembra non più in grado di fronteggiare la sfida più grande: quella del mondo. La questione è molto semplice e, al tempo stesso, drammatica. L’Italia come si colloca rispetto a un cambiamento così radicale della geopolitica e della geoeconomia? È questo il prezzo enorme che ci sta facendo pagare Berlusconi. Con questo demagogo a Palazzo Chigi e con la sua miserabile cultura che offende ogni valore etico-politico è molto difficile procedere alla necessaria ridefinizione dell’identità e del ruolo di questo Stato. Il quale, così come è, non regge essendosi formato e poi sviluppato in un contesto storico


del tutto diverso, nell’epoca della potenza della vecchia Europa, a quel tempo «officina del mondo». Non c’è più quello spazio per lo sviluppo italiano. In questa contraddizione sta la gravità dei nostri problemi e la necessità che il Pd ridefinisca a un livello alto il suo profilo ideale e la sua presenza nella società italiana. Più a destra, più a sinistra? » un vano quesito. Si tratta di fissare l’asticella dell’alternativa al livello di quello che è il suo problema cruciale di oggi: difendere il futuro degli italiani, il nostro attuale livello di benessere, il nostro contare qualcosa nel mondo. Oppure dobbiamo mandare i nostri figli a vivere e studiare all’estero? Se le cose stanno così, affrontare il problema della crisi dell’unità nazionale diventa la stessa ragione d’essere del Pd, ciò che ridefinisce la sua presenza e il suo ruolo storico. Cioè quella ragion d’essere che non consiste affatto come si continua a dire nella scelta tra non si sa quale neopartito socialdemocratico che minaccerebbe la «presenza cattolica» oppure non si sa quale partito del presidente. Chiacchiere politologiche sulla base delle quali non si formerà mai il collante di un partito nuovo, né si rendono credibili le sue politiche. Noi possiamo cantare l’inno di Mameli quante volte vogliamo, ma se restiamo ai margini dei nuovi processi mondiali la Padania e il Regno del Sud non troveranno più le ragioni del loro stare insieme. Perché non parliamo al Paese con questa chiarezza? La verità è che non siamo di fronte solo a un problema di modello economico ma alla necessità di mettere in campo una nuova cultura politica perché solo forti identità potranno affrontare con successo la fase sempre più aspra di competizione che si è aperta. Questo è il problema della sinistra, non quello (penso al ridicolo dibattito su Casini) di storcere il naso di fronte alle forze che cercano di rompere il blocco di potere berlusconiano. Certo che ci confronteremo. L’importante è che sia chiara in noi un’idea forte dell’Italia. Quale Italia dunque? Certamente un Paese sempre più integrato in un disegno europeo ma non come un’appendice passiva. Ricordiamoci che il solo terreno possibile di identità della nazione è il suo rapporto con la storia repubblicana, cioè con quella rivoluzione democratica, la sola che abbiamo conosciuto e che può restituire al Paese il senso del suo cammino e quindi un’idea del suo futuro. Altrimenti come usciamo da questa crisi? Con una nuova avventura cesarista? Con un ritorno al neoguelfismo sotto il protettorato del cardinal Ruini? Non so se la legislatura arriverà alla fine. So che diventa sempre più attuale una nuova alleanza tra le forze più vitali del lavoro, dell’impresa e dell’intelligenza creatrice disposte a battersi contro il grumo di tentazioni sovversive che attraversano la società italiana. Si è ben visto che in Italia non si difende la democrazia se si indebolisce il regime parlamentare. Se non tornano in campo, quindi, partiti veri, organizzati. Non uffici stampa del capo. E tuttavia partiti nuovi, meno assillati dalla gestione dell’esistente e più sociali, cioè più ‘culturali’, fattori di rinascita della società civile, capaci di ricostruire quei legami sociali e quei poteri democratici che la lunga ondata della destra ha distrutto. Richiamerei molto l’attenzione su questo problema cruciale (le precondizioni dell’economia) senza affrontare il quale diventa astratto il dibattito su come uscire da una crisi così profonda per mettere in campo un nuovo modello di sviluppo. Non credo a nuove formule magiche. Dopotutto conosciamo a memoria le ricette degli economisti. In buona parte sono anche giuste. Ciò che non sappiamo è altro. Conosciamo poco la nuova società italiana. Voglio dire che se tornassimo a riflettere sulle ragioni del «miracolo economico» dell’Italia anni Cinquanta del secolo scorso, più che rileggere l’Einaudi o il Vanoni di allora, dovremmo capire le ragioni per cui i partiti popolari riuscirono a mobilitare con quella vastità le


energie di un popolo in gran parte costituito da contadini analfabeti. Quella fu la vera sostanza del «miracolo». Si rileggano le pagine di Becattini e si rivedano i film del neorealismo. Il miracolo fu il messaggio di fiducia e di speranza che la politica dettea quegli italiani. Ecco ciò di cui oggi abbiamo bisogno, di un nuovo partito che dia un messaggio analogo a questi italiani. Vedo bene la difficoltà. A chi parliamo? Bisognerebbe tornare a leggere (come da anni non facciamo) la società italiana di oggi, quale essa è: le famiglie di oggi e la società ‘liquida’ dei consumatori che si ispirano ai valori berlusconiani e della Tv spazzatura, l’enorme esercito dei precari, i tanti che fanno i soldi illecitamente, i nuovi miserabili. Ma gli italiani sono sorprendenti e sono numerosi anche i nuovi italiani moderni, civili, preoccupati del bene comune. Il compito del vertice politico è questo: rompere quel grande muro che paralizza l’Italia, e che consiste nella totale mancanza di una qualche identità di sé e del suo futuro. Secondo me questo è il punto. La sinistra può ripartire solo da qui. Perciò io dico partito nazionale, per indicare un partito che include, che si apre alle alleanze necessarie: certamente politiche ma prima ancora sociali. Fare un partito «nazionale» è dunque una grande impresa etico-politica e culturale. Essa parte dal rischio di una regressio-ne storica che incombe sull’Italia per rimettere in campo una ipotesi di futuro valida per ricchi e poveri, laici e cattolici, borghesi e popolari. È una impresa che non nasce sul vuoto ma si riallaccia a quello straordinario moto risorgimentale che – ricordiamolo – esplose dopo secoli di decadenza e che vide le élite del Paese, soprattutto giovani, impegnarsi in un insieme di slanci rivoluzionari che hanno dell’incredibile (l’impresa dei Mille, la Repubblica romana, le Cinque giornate di Milano, e poi, dopo il fascismo, la ricostruzione dello Stato democratico sulle rovine dell’8 settembre). Cose mai viste in Europa. L’Italia è anche questo strano Paese dotato di risorse morali grandi. Forse io esagero ma la mia impressione è che il Pd è tuttora al di qua dei problemi. Pensiamo solo a un fatto. Dopo l’orgia della speculazione finanziaria mondiale, il grande quesito su quali basi rilanciare lo sviluppo, pena un impoverimento generale, non della Cina ma certamente di un Paese occidentale come il nostro, è restato del tutto aperto. Tutti dicono chebisognerebbe rilanciare i consumi. Ma quali consumi? La moltiplicazione dei soliti che hanno saturato le società moderne crea già oggi problemi enormi di sostenibilità. Quindi anche altri consumi, evidentemente. Ma è chiaro che ciò comporterebbe grandi trasformazioni sociali: nulla di meno che il riconoscimento di nuovi bisogni umani e quindi di nuovi modi di vivere. Persone come Joseph Stiglitz propongono una gigantesca redistribuzione del reddito per investire nei consumi collettivi. Ma allora pensare una nuova società dovrebbe tornare a essere un problema centrale per la sinistra, non solo un esercizio intellettuale. Questi sono solo accenni, per dire quanto sia necessario che la sinistra esca dal silenzio in cui è piombata da alcuni decenni. Se non ora quando la sinistra deve ricominciare a pensare? Io penso che si possa ormai dire che è arrivata quella «grande trasformazione» di cui parlava quasi un secolo fa Karl Polanyi, cioè quella crescente contraddizione tra la logica del capitale finanziario che tende a invadere non più solo i mercati delle merci, ma i significati e i valori della vita, i bisogni, le culture, i modi di pensare e di vivere, perfino le logiche delle imprese produttive (vale il suo prodotto oppure il suo valore di borsa?). Questo da un lato. Ma dall’altro il fatto che inesorabilmente lo sviluppo umano avanza e tende sempre più a far valere la sua autonomia. E quindi a condizionare a sua volta l’economia al punto di sovvertire i suoi meccanismi. Con la conseguenza che in una econo-


mia dell’immateriale il mercato che sembra così potente è in realtà sempre meno in grado di sovradeterminare lo sviluppo degli altri sistemi sociali. Di qui l’enorme importanza della battaglia culturale e identitaria. Il bisogno di un nuovo movimento democratico profondo. Il problema non è alla portata della destra. La sinistra ha uno spazio enorme se però riesce a misurarsi anche col potere di condizionamento che è insito nella esplosione delle comunicazioni e nella loro perversità. Si è scatenata una forza inaudita e quindi un potere tale che può ormai ‘colonizzare’ i mondi vitali, le identità degli individui e dei luoghiche hanno fatto finora la diversità del mondo. Una forza che investe direttamente l’esperienza della vita quotidiana. Non per caso è emerso un nuovo tipo di intellettuale che non scrive libri e non produce opere di cultura ma la cui forza consiste nella ‘comunicazione’, cioè nella produzione dell’opinionismo. Questa è la novità. Non è l’informazione sulle cose reali ma è la messa in scena del teatro delle opinioni, una chiacchiera che si sottrae a ogni prova, che non esprime concetti né conoscenza, che riduce, di fatto, il confronto delle idee a insensati plebisciti. Qui sta la forza del potere. Essa consiste nel controllo della conoscenza: il potere dei poteri. Per cui dovremmo smetterla di considerare questo tema una chiacchiera per intellettuali perché esattamente questa – come ci ha insegnato Berlusconi – è la politica nell’epoca attuale. Non è più solo quel famoso mestiere del politico come professione di cui parlano quelli che hanno letto Max Weber. La base del potere poggia sempre più sul definire che cosa è la realtà, nell’imporre una visione del mondo e della realtà e per questo mezzo controllare l’azione umana. Prendere atto di questo non significa affatto arrendersi ma, al contrario, scoprire quali nuovi spazi si aprono alle forze di progresso. Non servono i grandi demagoghi. Governare il mondo moderno significa in realtà governare una enorme e crescente complessità di fenomeni, di nuove realtà emergenti, di relazioni. Questa è la sfida che la sinistra più di altri potrebbe accogliere. La condizione, se vogliamo tenere i piedi per terra, è fare un passo avanti sostanziale nel delineare un modello dell’innovazione europeo che non sia la semplice imitazione di quello americano. Un modello di sviluppo capace di stabilire una relazione molto più stretta tra economia postfordista, identità culturale, ambiente e riorganizzazione dei modi e dei tempi del vivere e del lavorare. L’Unione monetaria è stata una premessa necessaria ma non ha risolto il grande problema di una visione europea del futuro. Eppure in nessun altro luogo del mondo sarebbe più facile progettare una società in cui i diritti di cittadinanza siano garantiti a tutti; una società in cui sia libero l’accesso alle nuove tecnologie, e larga l’alfabetizzazione informatica. Dove cose come queste siano un diritto e un’opportunità e non un fattore di disuguaglianza sociale. Berlusconi è davvero un reperto archeologico. *In collaborazione con Argomenti Umani, diretta da Andrea Margheri


Donazione di senso e scoperta di senso di Armando Rigobello

1. Diversi sviluppi della radicalità fenomenologica. In un articolo dei primi anni del Novecento, il giovane Edmund Husserl mette in luce con accenti drammatici la sua radicale decisione di impegnarsi fino in fondo a cercare il senso finale della realtà e della condizione umana: “In primo luogo dico i compiti generali che debbo risolvere per me, se voglio potermi chiamare filosofo. Intendo una critica della ragione. Una critica della ragione logica e della ragione pratica, della ragione valutante. Senza venire in chiaro a me stesso, almeno in tratti generali, circa il senso, l’essenza, i metodi, i principali punti di vista di una critica della ragione, senza aver meditato, progettato, stabilito e fondato uno schizzo generale, non posso vivere in modo vero e veritiero. I tormenti della mancanza di chiarezza, dell’oscillare del dubbio li ho goduti a sufficienza. Io debbo giungere ad una solidità interiore. So che si tratta qui di qualche cosa di alto e di sommo; so che grandi geni vi sono naufragati. Se volessi paragonarmi a loro dovrei disperarmi in partenza. Non voglio paragonarmi a loro, ma senza chiarezza non posso vivere. Io voglio, e debbo, con un lavoro di dedizione, con un approfondimento puramente oggettivo, avvicinarmi all’alta meta. Lotto per la mia vita e perciò credo di


poter procedere con fiducia. Le più dure difficoltà della vita, l’autodifesa contro i pericoli della morte, danno una forza insospettata, smisurata. Io non aspiro a onori e fama, non voglio essere ammirato, non penso agli altri né alla mia carriera. Solo una cosa mi preoccupa: debbo raggiungere la chiarezza, se no non posso vivere, non posso sopportare la vita se non credo che ce la faccio, che davvero posso guardare nella terra promessa, e di persona, e con lo sguardo limpido”1. La via percorsa in questa decisione senza ritorno è quella di una pars destruens più radicale del dubbio cartesiano: la riduzione fenomenologica, la messa tra parentesi di ogni ovvietà, di ogni tradizione ed evidenza. Ad una filosofia che costruisce sistemi, Husserl contrappone una preventiva, radicale messa tra parentesi, una messa fuori gioco. Nella piena maturità del suo impegno speculativo, Husserl perviene con le Meditazioni cartesiane ad una “riduzione nella riduzione”, nel tentativo di raggiungere il darsi della più elementare presenza, “un sostrato elementare e coerente” dal quale ricominciare la ricostruzione. Il richiamo a questo episodio della vita teoretica di Husserl, ci introduce ad una considerazione preliminare. Nonostante il radicale sforzo di rifiutare ogni iniziale presupposto, all’inizio vi è una decisione, un atto cosciente di volontà (la volontà di porsi agli estremi confini del pensare). Ciò è riconosciuto anche in due considerazioni che precedono e seguono la fenomenologia husserliana, nello stesso Cartesio e in Sartre. Cartesio indica in una decisione morale, e quindi in un atto del pensare, l’origine del suo procedere nel dubbio metodico; Sartre, in polemica con Levi-Strauss, rivendica il primato dell’atto consapevole nella decisione di studiare la natura umana con le stesse modalità con cui si studiano gli altri animali. D’altra parte è Husserl stesso, per primo e nella forma più radicale e drammatica, ad esprimere, nel passo ampiamente citato, le motivazioni della sua ricerca, motivazioni che investono la nozione di senso nella forma più compiuta di senso finale, cioè di ricerca radicale del senso del mondo e dell’uomo, una ricerca che non sia fine a se stessa, atteggiamento ludico o vanità intellettuale, ma rivolta ad un suo necessario compimento. Il presente studio, pur nelle diverse condizioni soggettive ed oggettive oltre che di orizzonte storico in cui si svolge, si inscrive liberamente nel progetto husserliano, in cui riduzione e intenzionalità si intrecciano, ed insieme se ne differenzia. Ciò avviene soprattutto nella meta finale: la nostra ricerca si propone una soluzione diversa, intende giungere alle soglie dell’originario e pervenire in sede filosofica ad un finale compimento. Oltre quelle soglie la filosofia si arresta al limite sebbene guardi oltre il confine. La riflessione, a questo punto, si apre sull’esperienza religiosa. In questo ambito tuttavia il millenario argomentare filosofico può recare ancora un contributo nel porre in luce come l’ulteriore originario per rispondere ad una radicale domanda di senso debba sussistere come persona. Un’altra diversità dalla posizione husserliana nello sviluppo del discorso è dovuta, come si accennava, al diverso contesto storico, in particolare all’uso del termine senso. Il termine è andato via via assumendo significati diversi nell’uso linguistico e in relazione alle nuove prospettive della filosofia analitica. Diviene pregiudiziale capire se secondo il metodo fenomenologico 1 E. HUSSERL, Persönliche Aufzeichnungen, in “Phil. und phen. Res.”, XVI (1965), p. 297. La traduzione si trova in G. PEDROLI, La fenomenologia di Husserl, Taylor, Torino 1958, p. 47.


l’esercizio della messa tra parentesi dell’ordinaria prospettiva empirica, l’epoché, che rende possibile l’andare alle “cose in se stesse”, compia una “donazione di senso” (Sinngebung) o sia una purificazione dello sguardo che permette di accedere alla visione delle “cose in se stesse”. L’approccio fenomenologico alla realtà in se stessa è un atto intenzionale: l’epoché (la messa fuori gioco del mondo dell’oggettività empirica) rende possibile l’apparire del plesso delle idee (eide). Potremmo dire che il mondo platonico delle idee si cala nelle “cose in se stesse”, la loro autenticità appare se si riesce a porre tra parentesi la visione empirica del reale e a guardare con sguardo purificato dall’epoché, con quello sguardo purificato che è intenzionale. L’epoché e l’intenzionalità, la pars destruens e la pars costruens della fenomenologia, ci portano alla “terra promessa”, e la fenomenologia da metodo diventa verità. Abbiamo delineato in forma narrativa, quasi un “grande racconto”, il progetto fenomenologico con cui Husserl pensa di aver gettato le basi di una scienza rigorosa (“Philosophie als strenge Wissenschaft”), ma rimane sotteso un problema centrale, che emerge dal racconto stesso della grande avventura speculativa: l’intenzionalità che porta alle cose in se stesse è, come prima si è detto, “donazione di senso” o atto che lascia apparire il senso di fronte ad occhi purificati dalla “messa fuori gioco” operata dalla riduzione fenomenologica? Nel primo caso si ritornerebbe ad una forma di idealismo trascendentale, nel secondo l’idealismo è superato ma ci si ritroverebbe in una metafisica di tipo classico. Non va dimenticato che l’intenzionalità ontologica della nostra coscienza è una nota dottrina di S. Tommaso d’Aquino (“anima est quaeadmodum omnia”), né va tralasciata una qualche influenza del pensiero di Meister Ekhart. Husserl tuttavia, fedele al suo programma di “filosofia come scienza rigorosa”, tentò un’ulteriore radicalizzazione del suo programma speculativo: una riduzione nella riduzione, una “riduzione alla seconda potenza”, una epoché che, come si è accennato, raggiunga il più elementare substrato della realtà: un “sostrato unitario e coerente”, un deserto di presenza amorfa ove tuttavia appare una singolare presenza, un alter ego che permette un rapporto intersoggettivo, e così l’inizio di un processo che conduce alla fondazione della cultura e delle sue istituzioni. Allo sguardo sottoposto ad una doppia riduzione appare quindi nel contesto “unitario e coerente” una strana presenza: una monade (una singolarità vivente) che presenta analogie con me stesso e che avverte la mia presenza come io avverto la sua. Siamo di fronte ad una elementare intersoggettività. L’osservazione di questo rapporto intermonadico ci porta gradualmente ad individuare rapporti intersoggettivi sempre più complessi fino a giungere al compimento: un mondo umano che gradatamente si costituisce come cultura e spiritualità e dà luogo alle relative istituzioni. L’enorme sforzo condotto con minuzioso rigore nelle Meditazioni cartesiane porta Husserl, nelle ultime pagine del testo, ad una celebrazione dell’umana interiorità. La frase conclusiva è una celebre citazione da Agostino: “Noli foras ire, in te redi, in interiore homine habitat veritas”. La vicenda speculativa e umana di Edmund Husserl non si conclude tuttavia in quel momento di esaltante pienezza, lo attendono ancora gli anni bui della Crisi delle scienze europee e le amarezze e le umiliazioni della Germania nazista.


2. Il senso. Discorso sensato e fondamento. Possiamo ora ritornare alla nozione di senso che si è visto essere sottesa ad ogni radicale indagine critica, ossia al movente di ogni passo indietro verso una condizione, un punto incontrovertibile di partenza, il cogito di Cartesio o l’epoché di Husserl o il gratuito gesto esistenziale di Sartre. Tutto ciò ci porta a distinguere nel concetto di senso la componente della criticità da quella della ragione. La criticità assoluta ci appare impossibile: da qualcosa occorre pur partire, questo aliquid è il nostro inevitabile radicamento nel senso: un punto di partenza è necessario e tale vis a tergo del nostro pensare è il consistere nel senso. Kant deducendo tutta l’articolazione del suo sistema dall’originaria Spontaneität accoglie di fatto un presupposto ontologico, un dato inevitabile della condizione umana, come la stessa nozione di libertà come “fatto” della ragione. Una cosa è il rigore, un procedere nell’argomentazione secondo regole logiche sempre più stringenti, altra cosa è la criticità come assenza di ogni presupposto. Il senso esige rigore nel suo esercizio, ma non assoluta criticità nel suo fondamento, esso è coinvolto nell’esistenza, nel vissuto. La criticità nel darsi assoluto paralizza il discorso. Tutto ciò ci porta a concludere che il senso ha un’anima logica, ma è coinvolto in una esperienza esistenziale. Tenendo conto di questa considerazione possiamo concludere che l’intenzionalità husserliana (sia nella prima riduzione, sia nella “riduzione nella riduzione”) presuppone già un soggetto pensante che si ponga una questione, più o meno radicale, di senso. L’atto intenzionale, il concreto esercizio dell’intenzionalità, sono insieme donazione di senso e visione eidetica del senso. Un più o meno consapevole avvertimento del senso è all’origine dell’intenzionalità e lo riconosce in una pienezza originaria alle cui soglie essa si arresta. L’intenzionalità non è soltanto una dinamica dimensione della razionalità, ma è un’esperienza esistenziale complessa. Si potrebbe descriverla parafrasando, per così dire, una celebre espressione di Pascal riferita ad un ben diverso contesto: “Tu non mi cercheresti se non mi avessi già trovato”. Alla pluridimensionalità della dimensione di senso si accompagna una più complessa articolazione del termine intenzionalità. Ciò ci permette di allargare il confronto con altri aspetti del discorso sul senso, alludiamo ai contributi di Frege e di Wittgenstein da un lato, dall’altro al dibattito sul senso nella cultura francese degli anni centrali del secolo scorso, con particolare riferimento alla prospettiva di Merlau-Ponty. Per Frege, che affronta il tema da diversi piani di analisi, il senso (Sinn) è ciò che si afferma con la mente, ossia il pensiero che essa esprime. L’enunciazione concettuale del senso di per sé è insatura cioè priva di contenuti particolari, diventa satura quando il significato (Bedeutung) ne indica il contenuto, lo rende saturo. Il senso, nel suo consistere non saturo, si apre ad una pluralità di saturazioni, ad una varietà di significati. Queste considerazioni, pur con linguaggio diverso, presentano qualche affinità nell’estendere la pregnanza del senso, oltre il rigore logico, alla sfera dell’impercettibile, non venendo meno al rigore ma situandolo in un orizzonte ontologico-esistenziale. La questione del senso si pone in termini ben diversi se facciamo riferimento


alla posizione assunta da Wittgenstein in poi, che considera sensati soltanto gli enunciati che esibiscono le condizioni della loro verità. Il senso, in tal modo, si risolverebbe nella struttura logica del discorso. Ogni trascendimento, ogni apertura all’impercettibile, che per Frege era un compimento di un possibile itinerario dal senso al significato, determinerebbe invece un non senso. La metafisica si presenterebbe quindi come un discorso privo di senso, come pure l’ontologia. Questa convinzione, nelle più recenti teorie linguistiche viene tuttavia spesso contestata in nome di un pluralismo ontologico sotteso all’argomentazione. Nel presente studio siamo naturalmente più vicini a questa seconda prospettiva. La considerazione della intenzionalità coinvolta nel vissuto ha qualche compatibilità con il pluralismo ontologico. Il confronto con alcune significative concezioni sulla realtà del senso, si sposta ora sulla filosofia francese del Novecento, che nel contesto del nostro discorso si limita ai contributi di Merlau-Ponty in Senso e non senso2 e nel volume postumo Il visibile e l’invisibile3, che rappresentano con acuta sensibilità speculativa e comprensione storiografica una problematica crisi del pensiero nella metà del secolo scorso. Per il Merlau-Ponty di Senso e non senso, il senso è forma intenzionale, espressione che racchiude il nucleo centrale del suo pensiero. La forma è già operante nella percezione, che non è quindi un mero ricevere, ma l’avvertire una dinamica interna che si fa intenzionalità. Il termine husserliano si inscrive in tal modo in una fenomenologia che non è rigorosa soltanto per l’esercizio dell’epoché, ma perché caratterizzata da una tensione verso, ossia un percepire nel presentimento di una ulteriorità. L’impegno speculativo e morale di Merlau-Ponty è quello di riportare le astrazioni della tradizione filosofica alla concretezza, al concreto vissuto, ai rapporti intersoggettivi. La nozione di intenzionalità dinamica è la struttura portante di questo programma. La “donazione di senso” (Sinngebung) di Husserl si esistenzializza e si affina in una complessa intersoggettività. Il visibile e l’invisibile, un testo postumo del 1964, arricchito da note di lavoro e abbozzi di progetti, rappresenta una radicalizzazione della prospettiva dei precedenti lavori, radicalizzazione particolarmente significativa per il nostro studio. L’invisibile, osserva Merlau-Ponty, non indica semplicemente una mancanza, un limite anzi un’impossibilità, ma è piuttosto un “tessuto” che avvolge le cose, è il tralucere di una loro possibile dimensione ontologica. Non è una cosa ma ciò che conferisce alle cose allusività, che toglie loro la presente oggettività e nel rapporto tra visibile e invisibile si delinea un latente trascendimento. La reciprocità tra “donazione di senso” e il suo apparire al compimento dell’atto intenzionale, presenta qualche analogia con il rapporto che MerleauPonty stabilisce tra il visibile e l’invisibile. In entrambe le prospettive si coglie una trama logica coinvolta nella certezza del vissuto. Nella riduzione e nell’intenzionalità, in Merleau-Ponty come nella nostra proposta, vi è l’esigenza di partire da Husserl ma di andare oltre, nell’avvertimento di una dimensione ontologica da cui non si può prescindere se navigando nel concreto si vogliano evitare le secche analitiche. L’analogia messa in luce ha tuttavia un limite rilevante nel concepire il rapporto 2 M. MERLEAU-PONTY, Sens et non sens, Nagel, Paris 1948; trad. it. P. Caruso, introduzione di E. Paci, Senso e non senso, il Saggiatore, Milano 1962 3 M. MERLEAU-PONTY, Le visible et l’invisible, Gallimard, Paris 1964; trad. it. e a cura di A. Bonomi, Il visibile e l’invisibile, Bompiani 1969.


tra il visibile e l’invisibile. Nella prospettiva di Merleau-Ponty l’invisibile è una presenza, un orizzonte che ci rende consapevoli della complessità del visibile, del suo manifestarsi nel tralucere di vari piani, che permette di andare oltre il piatto fenomeno empirico, di coglierlo in una ricchezza di rinvii in un intreccio di solidarietà intersoggettive. Nella prospettiva che vorremmo delineare, questa variegata presenza di rinvii, di allusioni, di coinvolgimenti si disegna in un itinerario di effettivo trascendimento, verso una “terra promessa”, una intenzionalità rivolta ad un trascendimento anche se non si configura nella sua immediatezza come una effettiva trascendenza. Immanenza e trascendenza non sono così antitetiche, e quindi alternative, come può spesso apparire. Il rapporto tra prossimità e ulteriorità è un’efficace esemplificazione di un mutevole rapporto. Una metafisica è certo implicita nella nostra prospettiva, ma non si tratta di una dottrina compiuta quanto di uno spazio teoretico richiesto da un’incontrovertibile esigenza della condizione umana pensata fino in fondo. 3. Reciprocità tra la “donazione di senso” e il suo apparire. Nel discorso finora portato innanzi sembra sufficientemente delineata la natura dei termini che entrano in gioco mediante l’epoché e l’intenzionalità: la “donazione di senso” e l’apprensione intuitiva dell’eidos, ossia del senso. Rimane tuttavia enigmatica la loro compresenza e sinergia. La donazione di senso è concettualmente più definita, più problematico è il suo rapporto con l’atto noetico dell’apparire del senso. La contraddizione tra i due modi di conoscenza ed insieme il loro confluire nella conoscenza fenomenologica, può essere rimossa se coinvolgiamo le due operazioni fenomenologiche nel contesto esistenziale, nella decisione ardua e addirittura eroica descritta da Husserl nell’ampia citazione riportata all’inizio di queste pagine. L’irrinunciabile risposta sul senso è alla radice di tutta l’ascesi fenomenologica e rende radicale ogni espressione. Ciò fa sì che tutto il processo, l’iter dell’intenzionalità non si risolva in uno slancio intuitivo ma maturi nel continuo confronto, nel tormento e nella fiduciosa esperienza di un inquieto cercare. Questo contesto speculativo ed insieme pratico può trovare una analogia in quel “vivere assieme ai problemi” di cui parla Platone nella Lettera VII4. “All’improvviso”, osserva Platone, appare l’idea, dopo che si siano confrontate le parole e i loro significati, dopo quel “vivere assieme” che richiama una pensosa, insistente fiducia che accompagna l’inquietudine, la ricerca, la speranza. La donazione di senso non è un facile dono, nasce nella “penuria” ed insieme dall’esigenza di possesso, nota costitutiva della condizione umana. Anche qui un richiamo all’eros platonico, figlio di penia, la mancanza, e di poros, la pienezza. L’eidos, quale senso presagito, è quel dono che l’intenzionalità intende fare alla coscienza radicalmente “ridotta”, allo sguardo fenomenologico sulla realtà non inquinato da ciò che è empirico. Ma quel dono è insieme il riconoscimento di una certezza già presagita fin dall’inizio della ricerca. Queste considerazioni non intendono essere una interpretazione del pensiero di Husserl. Le linee essenziali della sua proposta fenomenologica ci hanno fornito un paradigma su cui misurare un discorso autonomo. Pensiamo tuttavia che questo misurarsi sull’essenziale articolazione del pensiero di 4

PLATONE, Lettera VII, 341 c-d.


Husserl aiuti a mantenere il discorso su un livello di rigore ed insieme che quel suo mettere continuamente in questione i risultati raggiunti costituisca un’esemplare consapevolezza di limiti. Dal pensiero di Husserl, come d’altra parte da quello di Kant, non si può prescindere, ma ad essi non ci si può fermare. Si possono aggiungere alcune ulteriori considerazioni. La totale decostruzione dei contenuti della coscienza richiesta da un rigoroso esercizio dell’epoché husserliana è realmente possibile? Oppure se ne ha notizia solo in una radicalità mistica ove il nulla ed il tutto, lo svuotamento di sé e l’esaltante pienezza sono aspetti di un assoluto ove gli opposti coincidono? In questo caso tutto si consuma in una pienezza il cui linguaggio è semantico, poetico o mistico. D’altro canto, ritornando al tema specifico di cui si discute in queste pagine, non sarebbe possibile compiere una “donazione di senso” se la nostra intenzionalità non fosse essa stessa immersa nel senso, non tanto in alcuni significati ma nel senso in quanto senso. Il vivere finisce per essere un vivere nel senso poiché il non senso è una hybris di assenza infinita. Il senso conseguito nell’intuizione come compimento di un atto intenzionale, l’accennato “vivere assieme ai problemi”, comporterebbe l’esperienza che “conoscere è oggettivare un’inquietudine”, evocata da una considerazione di Jean Lacroix5. Non è infatti la pienezza che muove alla ricerca, ma l’inquietudine. L’intuizione intellettiva è un compimento in cui la tensione si placa nell’eidos che brilla dinnanzi allo sguardo purificato. Tutto il processo conoscitivo si compie attraverso una epoché produttiva. Che significato può avere la parola oggettivare nel contesto dell’espressione? Oggettivare significa dare forma concreta, “oggettiva” a qualche cosa. Objectum in latino significa gettare davanti a sé, il tedesco usa il termine Gegenstand, ciò che ci sta di fronte. Il senso dell’espressione nel contesto della nostra ricerca è più vicino all’espressione latina: una dinamica, un urgere finalizzato. Nel nostro discorso però l’ “oggettivazione” non è un semplice gettare oltre, dinnanzi, ma è un esporre la nostra inquietudine, un orientarla, sostenuti dalla speranza, in una concreta oggettività in cui l’inquietudine si plachi. L’inquietudine non è sempre una anomalia psicologica ma può anche essere un privilegio, l’indice di una ricerca e quindi di una speranza. Abbiamo già citato la suggestiva espressione di Pascal: “Tu non mi cercheresti se non mi avessi già trovato”. Il discorso pascaliano si riferisce all’esperienza religiosa, ma è una considerazione che può convenire anche ad altre situazioni interiori. D’altra parte la ricerca di senso accomuna la spiritualità religiosa e la condizione filosofica dell’interiorità in quanto tali. Il contesto in cui si colloca la nostra ricerca può essere indicato come il tentativo, misurato sul modello di una fenomenologia husserliana (considerata nell’essenziale delle sue linee portanti), di restituire alla filosofia la capacità di una risposta positiva alla domanda di senso, ineludibile problema della condizione umana. Ciò può avvenire attraverso un pluralismo metodologico, coinvolgendo il rigore nella concretezza del vissuto, superando la pretesa di ridurre ad un unico metodo la dignità speculativa del discorso filosofico. La “soluzione del compito” è una “frattura” del metodo unico che perviene ad una pluralità metodologica e comporta una particolare concezione della realtà e della condizione umana. La rottura metodologica non prevede il semplice 5 J. LACROIX, Marxisme, existentialisme, personnalisme, Presses Universitaires de France, Paris 1970.


abbandono di un metodo per accoglierne uno diverso ma una pluralitĂ di prospettive, pluralitĂ che non conclude con una relativitĂ insuperabile ma con un confronto che rende possibile un problematico trascendimento.


Dio e la macchina di Massimo Donà

1) Quello delle religioni del Libro è un Dio intriso di ‘passioni’. E’ un Dio che ama, punisce e gioisce, un Dio sempre e comunque rivolto a noi. Che ci guarda attento – anzi, che tutti ci ri-guarda intimamente. E’ un Dio che l’anima riconosce come vivente e pulsante in se medesima, nel suo fondo più abissale; interior intimo meo, lo definiva Agostino. E’ un Dio che sceglie il proprio popolo, che si fa uomo – che si rivela nella storia; e agli umani, appunto, destina la terra. Ma c’è un altro Dio; quello che i Greci faticavano a ricondurre all’umano in senso proprio; si pensi ad esempio alla critica rivolta da Senofane all’antropomorfizzazione del divino operata sino ad allora dagli esseri umani. Vissuto tra il VI e il V secolo a.C., egli avrebbe aspramente criticato Omero ed Esiodo per aver attribuito agli dèi tutto quanto presso gli uomini veniva fatto oggetto di onta e biasimo. E lo rilevava con la massima chiarezza: i mortali appaiono inspiegabilmente convinti che gli dèi siano fatti a loro immagine e somiglianza; ma se i buoi, i cavalli e i leoni avessero mani e potessero con le loro mani disegnare e fare ciò che gli uomini sanno fare, i cavalli disegnerebbero figure di dei simili ai cavalli e i buoi simili ai buoi, e farebbero corpi foggiati così come ciascuno di loro è foggiato. Per Senofane, invece, si può solo dire che Dio è uno; uno, tra gli dèi e tra gli uomini; il più grande, né per aspetto simile ai mortali, né per intelligenza.


D’altro canto, nel mondo greco, la religione olimpica avrebbe sempre più radicalmente lasciato spazio all’idea di un divino concepito appunto come unica realtà: to theion. Primo teologo fra i filosofi, dunque, Senofane. Che intorno a Dio ragiona in forma specificamente razionale. Rilevando in primis come il Principio, sempre nell’identico luogo in verità permanga, senza muoversi per nulla; come neppure gli si addica recarsi or qui, or là. Certo Dio tutto muove, sempre per Senofane – primo inquieto rappresentante dell’eleatismo. Senza fatica, con la sola forza del pensiero, tutto smuove il suo Dio. Ma anche tutto intero vede, tutto intero pensa e tutto intero ode. Allo stesso modo nessuno può averlo mai incontrato, né colto – ché, nulla di propriamente divino vi sarebbe, per l’eleate, nell’orizzonte delle manifestazioni naturali. La divinità impersonale di Senofane, insomma, non aiuta in alcun modo gli umani; che possono confidare solo nelle proprie forze. D’altro canto, per lui l’uomo è autonomo e perfettamente responsabile della propria conoscenza, ossia del grado di perfezione di volta in volta raggiunto. Un vero e proprio antecedente del Dio aristotelico è dunque quello di Senofane; motore immobile da nulla sedotto. Imperturbabile, impersonale, anche il Dio dello Stagirita, infatti, governa l’universo come un motore governa il movimento di una macchina. “Il primo motore muove come ciò che è amato, mentre tutte le altre cose muovono essendo mosse” (Metafisica, 1072 b). Muove, cioè, ma non come il Dio-amore immortalato da Dante: “l’amor che move il sole e l’altre stelle” (Paradiso, Terza Cantica, Canto 33°, verso 145). E’ ben vero che qui Dante sembra parafrasare Aristotele; ma in verità il suo Dio è innanzitutto “amore”. E dunque non muove tutto come l’indifferente motore aristotelico, al quale nulla interessa delle sorti degli umani (come già accadeva al Dio epicureo); amato e non amante è infatti un tale Dio. Pensiero impassibile che riesce a pensare solo a se stesso. Perfettissimo e dunque rigorosamente estraneo alle vicende cosmiche. Ovvero, alla loro faticosa vicenda millenaria, alle imperfezioni costituenti e caratterizzanti il loro procedere, al ‘limite’ insuperabile di cui fa esperienza il suo più insigne abitatore e testimone: l’essere umano. Pensiero di pensiero; sempre identico a sé, il Dio greco governa un universo di fatto concepito come una vera e propria macchina. Anche il motore di qualsivoglia macchina, infatti, muove i diversi ingranaggi senz’altro scopo che non sia il già da sempre realizzato suo essere quel che è. Puro principio di movimento. Per ciò stesso immobile. Se anch’esso si muovesse, infatti, ci si dovrebbe porre il problema del principio di un tale movimento; e dunque si dovrebbe riconoscere che esso non è Dio, l’eterno, il perfettissimo; ma un semplice derivato – in quanto ‘mosso’ esso medesimo da un altro motore. Il principio di ogni movimento, dunque, non può essere mosso. Il principio di ogni mutamento non può mutare. Perciò Dio deve essere concepito come eterno, immobile, impassibile, impersonale, e dunque come perfettamente autonomo. Principio a se stesso. Causa sui, sarebbe stato anche definito. Eppure nel ragionamento di Aristotele qualcosa sembra non quadrare sino in fondo. Infatti, solo in quanto causa del movimento universale, un tale Principio può dirsi autonomo, indipendente; libero dal mondo. Da un mondo esso sì, invece, assoggettato al suo imperium. Eppure, come sarebbe stato messo in evidenza da Hegel, qualche secolo più in là, un principio fungente da dominus, ovvero da padrone, non può che rivelarsi esso medesimo servo del proprio servo. Perché chi si ritiene li-


bero per essersi svincolato da altro, per essersi mostrato movente e non mosso, ed è dunque reso libero dal tipo particolare di rapporto realizzato con il proprio altro, è fatto essere libero nel rapporto e per il rapporto da esso per l’appunto realizzato. E’ il rapporto, cioè, a renderlo libero… il suo rapporto con un altro. Quel rapporto che fa di esso medesimo ‘un altro’. Ma l’altro in quanto altro non può mai dirsi “libero” in senso proprio; se non per il tipo di relazione guadagnato in rapporto a questa o quella alterità. Ossia è libero solo condizionatamente al tipo di rapporto realizzato. Per questo nessun rapporto può rendere davvero liberi; se per libertà si intende una condizione di non asservimento a questa o quella realtà, infatti, tale condizione e il suo mantenimento “dipendono” in toto dall’eventualità costituita dal mantenimento dell’altro in tale condizione di asservimento o dipendenza. Insomma, la libertà dell’uno ‘dipende’ in toto dal mantenersi tale da parte della dipendenza altrui. Insomma, tale libertà ‘dipende’. E dunque non è affatto libera dalla dipendenza. Tale libertà dipende dalla dipendenza. E dunque è essa medesima “dipendente” – proprio come quella da cui vorrebbe essersi liberata. O meglio: si illude, forse, d’essersi liberata. Il motore immobile, quindi, è solo apparentemente libero e auto-nomo. La sua ‘legge’ è l’altro, ossia, ciò che esso muove – ciò senza il cui movimento esso non sarebbe davvero ciò che è: ossia ‘motore’. Il motore vive sempre e solamente per la sua macchina. A nulla è asservito, certo, il suo muovere; ma nulla sarebbe, esso medesimo, di là da tale movimento, e dunque di là dall’esser mosso da parte di ciò che esso muove. Di là dal complesso ingranaggio di cui esso funge appunto da principio. Certo, esso non ad-tende ‘amorevolmente’ alla sua macchina; e dunque rimane perfettamente indifferente rispetto allo stato di salute del ‘per esso moventesi’. Di ciò che per esso, solamente, esiste. Dunque, tutto il resto vive e si muove, e quindi esiste come tale solo grazie alla sua potenza motrice. Ma non in quanto amato da quest’ultima. Essa muove infatti solo in ragione della propria perfezione. O anche, del proprio esser se medesimo. Proprio in quanto perfetto, il motore muove; esso non muove, cioè, muovendosi – come farebbe qualsiasi determinazione mondana o in qualche modo determinata, finita o vivente. Esso muove per il semplice fatto di essere ciò che è. Il Dio aristotelico, insomma, è immobile solo in forza del movimento che pro-duce e che, solo, gli consente una perfetta immobilità. E’ cioè il movimento dell’altro da sé a garantirgli la perfezione; una perfezione, dunque, tutt’altro che autonoma. Anzi, totalmente dipendente da quel movimento. Quello che gli consente appunto di non mutare. Essa risulta infatti da un’analisi del moventesi, ossia della natura, della physis, quale sua imprescindibile condizione di possibilità. E’ il movimento, cioè, che la reclama e la esige. Perciò si può dire che, da ultimo, essa venga fatta essere dal movimento. Ossia da ciò che essa medesima non-è. Veramente libero è dunque solo il Dio concepito dalle grandi tradizioni monoteiste; libero perché non condizionato dal muoversi del moventesi. Perché libero di non far essere il movimento. Di non far essere l’esistente. Un Dio che potrebbe sempre riconoscersi anche ‘solo’. Un Dio che tutto muove ‘muovendosi’. Come ogni movente finito e contingente. Che ama e odia; che giudica condannando e premiando. Che salva per un intervento diretto nella storia. Sia nell’ebraismo che nell’islamismo, così come anche nel Cristianesimo, le cose stanno così. Un Dio tutt’altro che indifferente o


impersonale è dunque il loro; un Dio che interloquisce – sia pur in forma enigmatica – con gli umani e con le cose tutte. Che si muove, però, pur essendo nello stesso tempo anche perfettamente immobile – a differenza dei motori umani, troppo umani, di cui è costellato questo mondo. E che muovono solo muovendosi, sì da veder necessariamente naufragare ogni loro supposta perfectio. Il Dio dei tre grandi monoteismi si com-muove al cospetto delle meraviglie dell’esistente. E delle sue storture. E’ un Dio che si commuove di fronte alle sventure di cui è costellato il nostro infimo atomo opaco del male. E’ un Dio che garantisce un fine, e dunque un senso, al movimento infinito che tutto travolge – a nulla consentendo di ‘stare’. Un fine che è la sua stessa libertà. Quella caratterizzata appunto da una perfectio che è davvero singolare; perché analoga a quella che in ogni esistente si sviluppa e si misura in relazione ad una imperfezione ivi comunque sempre perfettibile; che si perfeziona, cioè, guardando alla sua libertà. Ad-tendendovi irresistibilmente. Che non ha però in tale fine un ‘destino’; bensì una semplice ‘possibilità’. Laddove, l’esistente del kosmos aristotelico ha invece nel proprio motore una ragione assolutamente necessaria; che è invero esso medesimo a fondare ed esigere secondo necessità. Insomma, mentre il Dio di Aristotele è la permanenza che riflette e disegna le ragioni dell’esistente, quello dei grandi monoteismi è un Dio in cui l’esistente trova piuttosto la condizione di possibilità di un’esistenza incessantemente sospesa alla sua (di quello stesso Dio) assoluta libertà. Perciò nessun meccanicismo avrebbe mai potuto soddisfare le esigenze di una vera e propria religione della libertà. Di là da eventuali accordi tra scienza e fede – come quelli che non di rado hanno cercato di spartirsi l’ambito del definibile –, nessuna idea di mondo-macchina avrebbe mai potuto realmente conciliarsi con le ragioni di una vera e propria religione della libertà. Ovvero, della fede in un Dio inteso come principio ‘libero’. Perché nessun Dio libero può fungere da principio di un mondo-macchina, a meno che questa stessa macchina non riconosca il proprio necessario condizionamento. Ma la macchina in quanto macchina, come abbiamo appena visto, è essa medesima a condizionare il proprio principio. Sì che riconoscere un principio libero significherebbe per essa non avere più nel principio ciò che giustifica il proprio altrimenti inspiegabile movimento, ma piuttosto ciò che potrebbe anche svelare la costitutiva insensatezza e irragionevolezza della propria dinamicità, e dunque della propria esistenza. Perché il riconoscersi come “macchina” implica necessariamente la consapevolezza dell’imprescindibilità del principio di causa. Nella macchina, infatti, ogni movimento è logicamente riconducibile ad una causa (ad un movente, un motore). Non avremmo a che fare con una macchina, insomma, se negli ingranaggi costituenti quel determinato organismo vitale e dinamico non riuscissimo a riconoscere i nessi causali che consentono di comprenderne il funzionamento. La macchina infatti funziona. E il suo movimento è meccanico solo in quanto è articolato secondo ben precisi nessi causali – tali per cui tutto sia infine riconducibile ad un motore primo. Da ciò la possibilità di ripararne gli eventuali guasti. La macchina, infatti, può sempre anche rompersi; nella misura in cui il suo perfetto dinamismo può appunto sempre inter-rompersi. Ma anche qui: se si tratta di una macchina è sempre possibile, in linea di principio, cercare di ripararla. Ovvero, di ripristinare i legami infranti. Di rimettere in moto la sua dinamica; appunto perché è la macchina a domina-


re la logica e il principio che la rende possibile. La macchina si sa come tale solo perché è nota, nel suo dominio, la logica che ne sovrintende il funzionamento; la stessa che le ha consentito di poter contare su quel certo principio. Perciò chi conosce la macchina conosce necessariamente anche la natura del suo motore. Essendo quest’ultimo nient’altro che l’ultima espressione di una logica grazie a cui, solamente, la macchina può riconoscersi come macchina. E non a caso quando si rompe, ossia quando vengono meno alcune delle connessioni causali che la fanno essere appunto quella macchina che è, di sicuro la macchina si ferma; ma la sua fissità non ha allora nulla a che fare con quella che abbiamo visto dover essere necessariamente attribuita al motore. Si ferma e non muove più nulla, infatti. L’immobilità della macchina non ha insomma nulla a che fare con la fissità del motore. Mentre la prima non muove alcunché, la seconda muove il tutto (della macchina). Perciò la fissità della macchina ferita può-deve essere ‘superata’ e in qualche modo risolta. E rimessa in moto. Tanto è vero che nessuna macchina può essere riconosciuta come tale se non nel suo essere in movimento. Perciò la macchina a riposo non è mai realmente valutabile e chiaramente riconoscibile. La macchina ferma può sempre ingannare. Perché rende inevitabilmente azzardato il proprio riconoscimento. La macchina a riposo potrebbe sempre non essere una macchina. E’ solo il movimento a renderne riconoscibile l’essere macchina; perciò il motore deve essere in funzione; ossia deve muovere in quanto riconosciuto come tale nel e per il movimento della macchina. In questo senso il motore è davvero parte integrante della macchina. Da cui è peraltro ‘fatto essere’ come tale. Perciò la sua necessaria fissità è la fissità del permanente. Ovvero, di ciò che appare come tale solo alla luce del movimento di cui è ragione. Perciò il suo permanere è misurabile solo alla luce del divenire di cui è originaria condizione di possibilità. Perciò la sua eternità è il suo semplice durare nel tempo. Il suo rimanere sempre uguale a sé nel movimento, nel divenire – che, solo, può rendere attestabile il suo non mutare, il suo non trasformarsi. Mentre la fissità del Dio rivelato, la fissità della sua libertà allude ad un eterno che nulla ha a che fare con il tempo. E dunque con la permanenza. Il Dio libero, in questo senso, non dura affatto. E’ al di là di ogni durata. E se si manifesta, se si ri-vela, può farlo solo nell’inafferrabilità dell’istante – che dice in quanto tale negazione della durata, ovvero la sua krisis più radicale.

2) Ma un principio che ‘sta’ o ‘permane’ solo nel senso del durare, è un principio ormai tutto risolto del principiato. E che fa del principiato stesso ‘il vero principio’: ovvero, l’orizzonte intrascendibile che, solo, può dirsi principio a se stesso. Nell’orizzonte del mondo-macchina, divino non può che essere il mondo stesso. Perciò la prospettiva meccanicistica non poteva non sancire il tramonto degli immutabili; o meglio dell’immutabilità del principio, qualsiasi dovesse essere la sua forma specifica. Perciò la fede nella macchina, o meglio la fede nell’esser macchina da parte dell’esistente non poteva che condurre all’assolutizzazione del divenire. E quindi del principiato. Risolvendolo in principio di sé medesimo. Perciò proprio l’ontologia nietzschiana rappresenta l’estrema rigorizzazione del cosmo galileiano. E della sua visio-


ne meccanicistica. Perciò Nietzsche è il vero destino della scienza moderna. Perciò egli avrebbe potuto risolvere l’esperienza ontologica fondamentale in un essere ormai fatto coincidere con il divenire. Perciò il falsificazionismo contemporaneo avrebbe finito per svelare la propria costitutiva attitudine alla divinizzazione del mondo. Ossia, alla divinizzazione della macchina in quanto macchina. Perciò scienza e fede continuano inutilmente a tentare improbabili conciliazioni. Perciò l’umanità contemporanea, radicata com’è nella fede in una logica rigorosamente causale – senza la quale sarebbe costretta a farsi una ragione dell’irrisolvibile enigmaticità dell’esistere, e dunque ad affidarsi alla libertà di un solo ‘possibile’ Principio –, avrebbe finito per produrre una vera e propria superstizione della macchina. Di ogni tipologia di macchina. Sì da fare della macchina l’unico vero totem giustificamente adorabile, in quanto cifra della sua stessa perfetta autonomia. Se il mio esistere è principio a se stesso, divina è la macchina che anch’io sono, in quanto ragione di qualsivoglia principio necessario a spiegarmi – o meglio, a spiegare il mio altrimenti insensato muovermi, ad-tendere, desiderare, ovvero il mio esistere tout court. Perciò adorare la macchina significa credere nella autonomia, ossia nella divinità del divenire, del movimento, e quindi dello stesso esistere processuale. Perciò nessun vero cristiano, nessun vero musulmano, nessun vero ebreo potrebbe-dovrebbe adorare la macchina. E vedere nella macchina lo specchio fedele della propria improbabile autonomia. Perciò, credere nella macchina significa non tanto essere radicalmente atei; quanto piuttosto credere nella divinità del nostro stesso esistere. E adorarla nella forma oggettivata che ogni macchina riesce a proporci. Da ciò il ruolo sempre più rilevante, nell’età contemporanea, delle diverse possibili oggettivazioni dell’esser macchina della macchina. Dal treno all’automobile, dalla nave all’aereo… tutte icone della fede nell’intrascendibilità del movimento. Del suo riconoscersi come principio a se stesso; come principio del suo stesso principio. Perciò l’uomo contemporaneo ha fame di movimento; e difficilmente riesce a ‘stare’. Difficilmente è contento del proprio ‘stare’. E viaggia, si propone mete da raggiungere, e sempre agisce. Solo l’uomo contemporaneo avrebbe potuto fare dell’azione la propria prima ragione esistenziale; solo nell’epoca di Goethe si sarebbe potuto azzardare una così radicale traduzione dell’incipit giovanneo: in principio era l’azione. Ad agire è infatti sempre colui il quale si sa come moventesi; a fare dell’agire stesso il principio della propria esistenza non può che essere, insomma, l’uomo macchina portato alla luce dalla modernità. Da una modernità vocata al “rendere ragione”, una modernità finalmente capace di portare a fondo una logica come quella strutturante il rapporto principio-principiato – una logica da sempre fondata sulle ragioni del principiato. Una logica che avrebbe finito per informare di sé anche i rari tentativi di pensare Dio a partire da Dio (come quello, peraltro stra-ordinario, messo in forma da Sant’Anselmo nel Proslogion). E dunque per destinarli ad una costitutiva aporeticità. Ecco da dove viene il contemporaneo assillo della macchina, nonché della velocità da essa resa quotidianamente sperimentabile. Ecco da dove il culto dell’automobile; quale simbolo perfetto dell’homo novus, autonomo… che a nulla e a nessuno è davvero più tenuto a render conto. Di un uomo final-


mente trasformatosi in divinità, e che proprio per ciò di tutto può o deve in qualche modo esser in grado di render ragione. Da ciò il culto per la macchina come simbolo di divinità e dunque di bellezza – stante che da sempre il verum è stato anche pulchrum. La macchina è vera macchina, infatti, solo in quanto capace di esprimere bellezza e splendore; in quanto espressione di un gusto universale, e per ciò stesso da tutti riconoscibile. Di un gusto tanto più vero quanto più universalmente riconoscibile. Di una bellezza davvero valida per tutti – che proprio perciò rende inequivocabili testimoni della divinità che comunque in noi finisce per esprimersi. Il bello è vero in quanto capace di imporsi al riconoscimento collettivo; in quanto la sua verità non si ritrovi costretta al semplice autoriconoscimento. Ché, ogni esistente è macchina; e dunque ogni divino meccanismo deve potersi riconoscere nello splendore di questa o quella sua immagine. D’altro canto il Novecento è stato il secolo della motorizzazione di massa; perciò proprio nella macchina si sarebbe stati destinati a riflettere il livello di consapevolezza di una già posseduta e comunque “difficile” divinità. Da ciò il bisogno di renderla bella in relazione al grado di consapevolezza relativo al proprio statuto. Alla propria autonomia. Enzo Ferrari l’aveva ben compreso; la macchina deve essere sì funzionante, efficace, veloce… ma soprattutto ‘bella’. Sì da lasciar trasparire con la massima potenza il proprio insostituibile valore simbolico. Perché, l’automobile che sfreccia sulla strada è il divino stesso che attraversa la nostra peraltro ineliminabile finitezza. D’altro canto, la nostra è una macchina che può sempre anche rompersi. Non è perfetta, dunque. Per quanto ragione di tutto, anche del proprio motore, essa deve sempre esser pronta a ripararsi, deve sempre disporsi a risanare le proprie ferite. Perciò, vederla scorrere veloce davanti ai nostri occhi, è come vedersi riflessi in uno specchio capace di ricordare la “vera” macchina – quella che è sì vivente in ognuno di noi, ma che solo in quanto totalità delle esistenze, in quanto incondizionata esistenza universale (dove, però, l’universale non si distingua più dall’individuale), può sapersi nella sua verità… di là dalla presunzione del singolo e della sua immagine motorizzata. Che, certo, sempre della medesima divinità finisce per farsi immagine; ma in forma particolare, limitata e dunque solo relativamente ‘bella’. Mai capace di essere la divinità che comunque sa di ‘dover’ essere. Perciò ad Enzo Ferrari mai riuscì di dirsi pienamente felice. Perciò i suoi immancabili occhiali scuri non erano affatto un vezzo; ma dovevano piuttosto nascondere una tragica consapevolezza. Per quanto realizzato, mitizzato, egli appariva infatti perfettamente consapevole del dolore di un’esistenza che, proprio in quanto divina, autonoma, realizzata, mai avrebbe potuto essere ‘da sola’ conforme alla propria peraltro indiscutibile perfectio. Questo viene cioè reso evidente dalla potenza della “macchina”: che, proprio in quanto divino, il mortale è destinato ad essere perpetuamente impari rispetto alla propria verità. Che, proprio in quanto originariamente infinito, mai al finito sarà dato d’essere soddisfatto della bellezza (sempre ‘finita’) di volta in volta guadagnata. E che, dunque, solo nel dolore da ciò provocato abita invero la perfezione che ogni imperfetto è indefinitamente destinato a ricordare e disperatamente ricercare.


Le apocalissi del soggetto: distruggere, accogliere di Silvano Petrosino

Brano tratto dal volume La scena umana. Grazie a Derrida e Lévinas, Jaca Book, Milano 2010. (...) Quando il soggetto vede il proprio “ego” in azione secondo l’ordine della distruzione, quando si vede ma soprattutto si sorprende nell’azione del distruggere, ecco che allora può anche decidere di fermarsi, può tentare di cambiare condotta rispondendo a ciò che lo investe secondo l’ordine dell’accoglienza. Per evitare al riguardo ogni facile ed ingannevole retorica è necessario ora approfondire il senso di questa diversa risposta.


Analogamente a quanto si è già affermato, si deve innanzitutto osservare che, così come il desiderio di distruzione può sorgere solo di fronte a ciò che non si può evitare e dominare (il soggetto può voler distruggere sempre e solo l’altro), anche l’accogliere è un’azione che si può esercitare sempre e solo nei confronti dell’altro. In proposito può essere utile distinguere il “ricevere” dall’“accogliere”: si riceve ciò che è dovuto ed atteso, ciò che è pre-visto e di conseguenza è in qualche modo già conosciuto e noto, mentre si è chiamati ad accogliere solo ciò che sopraggiunge come l’imprevisto stesso, solo ciò che nessun orizzonte d’attesa e nessuna immaginazione è in grado di prefigurare ed anticipare; in estrema sintesi, si riceve ciò che fin dal principio appartiene all’ordine del proprio, mentre si è chiamati ad accogliere sempre e solo ciò che irriducibilmente appartiene al (dis)ordine dell’alterità: si riceve il proprio, mentre l’altro, laddove ci si trattenga dal volerlo distruggere, può essere solo accolto. In secondo luogo, contro ogni rappacificante interpretazione del rapporto con l’alterità, bisogna osservare che pure l’accogliere, anche in questo caso come il distruggere, si afferma come una forma di lotta, sebbene di una lotta senza aggressione e senza rabbia, se qualcosa di simile è pensabile. È questo un tratto che può essere riconosciuto almeno ad un doppio livello. Innanzitutto, l’accogliere non riduce o neutralizza o sospende l’alterità dell’altro, ma anzi, proprio perché non la distrugge ma neppure semplicemente la riceve, accetta di ospitarla così come è, accusandola, di conseguenza, con ancora maggior forza; in tal senso anche nell’accogliere il soggetto si trova esposto all’alterità, ed il fatto di volerla accogliere, e non distruggere, non toglie nulla alla tensione che sempre accompagna il trovarsi esposti. L’accogliere è una lotta proprio perché al suo interno ci si sforza di ospitare l’altro per ciò che è, senza tentare di neutralizzarlo/distruggerlo nella sua stessa alterità; da questo punto di vista una simile risposta non permette mai al soggetto di evitare l’esposizione in cui si trova, dato che accogliendo egli si apre esattamente al contrario, cioè accetta di ospitare l’alterità stessa che lo eccede e a cui è esposto (...).


La comunità s-velata di J.-L. Nancy di Carmelo Meazza (Brani tratti dal volume di prossima pubblicazione La comunità s-velata. Questioni per J. L. Nancy, Guida, Napoli, 2010)

(...) L’apertura di Nancy cerca un’esposizione senza eccesso e senza difetto; né l’eccesso del volto di Levinas ma neppure un ritrarsi che lascerebbe la coda di una cometa nell’inevitabile latitudine di una certa profondità. In questa esposizione c’è il punto di sfida di Nancy a Derrida. (...) La comunità di Nancy non sarebbe possibile se la spaziatura o l’apertura del Mit-sein non fosse nella tangenza della mortalità. Se la mortalità non fosse il limite permanente di una unità disgiuntiva di un contatto che tocca e non tocca l’intoccabile. La finitezza di cui egli parla frequentemente ripete la lezione di Heidegger sottraendo al morire però la figura esistenziale dell’angoscia. L’io di Nancy nasce infatti come già sempre finito, finito in quanto


infinitamente rapportato e alterato alla sua fine e dalla sua fine. Finito infinitamente perché aperto nella scena inappropriabile di una nascita e di una morte che inscrivono l’alterità nel cuore stesso dell’identità. Dove l’alterità stessa si altera per l’imminenza stessa di questa fine che spartisce il tempo impedendogli ogni chiusura e immanenza su di sé. Dove soprattutto la mortalità finita diventa il comune inappropriabile in cui tutti sono accomunati da ciò che si condivide solo in quanto si spartisce senza appropriazione e senza memoria. Lo spaziamento accade infatti nella spartizione della mortalità che tocca ognuno come ciascuno. Questo spaziamento, che finisce infinitamente nel limite in cui la morte tocca il tempo, rende la comunità di Nancy inoperabile dalla logica di un progetto, il suo accadere è già sempre avvenuto e si può solo esercitarla come la provenienza di un dono assoluto (...). (...) Nancy scrive in questo modo: «Cum è un esponente: ci mette gli uni davanti agli altri, ci consegna a nient’altro che all’esperienza di ciò che è». In questo momento delicato Derrida passa in un altro modo rispetto a Nancy. Egli scrive: «Ciò che orienterebbe, qui, “in” questo deserto senza rotta e senza interno, sarebbe ancora la possibilità di una religio e di un relegare, certo, ma prima del “legame” del religare, etimologia problematica e senza dubbio ricostruita, prima del legame degli uomini come tali o tra l’uomo e la divinità del dio». Lasciamo in sospeso per ora la difficilissima questione di quel “prima” (lasciato stranamente libero dalla forza performativa di una virgoletta...) e fissiamo il senza contorno di quel deserto senza rotta. Nancy potrebbe ripeterlo, alla lettera, nella formula di una spaziatura di una singolare pluralità. Entrambi, infatti, condividono il medesimo passo per il quale, prima di ogni legame, una fidatezza elementare apre lo spazio dell’uno e dell’altro. Mentre per Nancy però la cellula elementare di questa spaziatura fidata ha la stabile solidità di un orientamento ontologico, per Derrida, invece, si evoca un luogo che dobbiamo subito sottrarre all’ingenuità della filosofia o al calcolo metafisico in tutte le forme in cui può presentarsi. Inoltre, ogni volta che, in questo luogo, evocato come luogo mancante di ogni luogo, accade un orientamento, quindi quando l’alterità attraversa o curva l’orizzonte, la fidatezza elementare si sta già mutando in un’ellissi, il cui doppio fuoco edifica il santuario di una religione. Per Derrida non c’è indirizzarsi all’altro che non si apra in una fidatezza incalcolabile e, per ciò stesso, non comporti un certo atto di fede. Se per Nancy è in questa confidenza che il senso scorre spartendosi pluralmente, per Derrida l’aperto incalcolabile promosso nella venuta dell’altro si piega subito per una inevitabile fatalità nell’atto di fede per un’alterità che salva in quanto pura e intoccabile nella sua indennità. Come se la fidatezza non resistesse neppure un istante prima di diventare atto di fede e di credenza. In meno di un istante si affida a un appello performativo la cui formula richiama sempre la suprema garanzia di un testimone assoluto (in questo senso la formula “ti prometto”, per Derrida, è già una macchina teologica). L’incalcolabile è, dunque, attraversato dal performativo di un gesto che chiama sempre la testimonianza di un Dio. Mentre per Nancy il performativo di una promessa si radicherebbe nella stabilità di un orientamento, per Derrida, al contrario, è l’instabilità incalcolabile della cellula elementare di una prima fidatezza a generare per una necessità quasi trascendentale come lui dice in più occasioni, la testimonianza di un terzo come Dio. Come se Dio fosse da sempre il nome per un’occupazione del luogo aperto del messianico che per Derrida prima ancora che l’attesa di un Messia è come la cellula elementare dell’attesa in quanto tale, di un’attesa in


cui è il possibile stesso a configurarsi. La fidatezza è a quel punto orientata in un giuramento che chiama un dio come testimone, un dio che assume tutto il credito; al quale si fa un credito totale. Un dio che assume su di sé l’incalcolabile. (…) C’è sempre continuità tra l’esperienza di un incalcolabile creduto e fidato e un sapere come previsione e calcolo. Nelle coerenze di Derrida questa implicazione sta nella stessa matrice di un’alleanza sempre imminente nel momento in cui l’alterità dell’altro si presenta nella vertigine di un imperscrutabile. L’alleanza è già infatti una forma di garanzia nei confronti del rischio assoluto della fidatezza. Ecco perché, secondo Derrida, è sempre un errore separare l’evento e la potenza tecnico-scientifica dall’ellissi del religioso. In quella doppia fonte, in realtà, si realizza, nella logica di una qualche necessità, il dispositivo di una tecnoscienza. (…) Per Derrida non c’è comunità che non ripeta questa legge di cui il religioso è sempre l’esemplare. Allo stesso modo non c’è comunità che non attraversi la fidatezza elementare e da essa in qualche modo si protegga nell’integrità di un qualche legame. Non c’è legame che non si valorizzi nella logica di un’indennità che si santifica e non c’è niente di tutto questo senza prove sacrificali, tradimenti, fedeltà, quindi logiche d’immunità e poi di autoimmunità. In breve e rapidamente, la spaziatura elementare di una fidatezza può solo garantire il disincanto di una dissociazione di ciò che si raccoglie in una comunità ma non può accadere mai come comune. Ciò che per Nancy già sempre accade come confidenza di uno stare insieme, per Derrida può promettere solo la pratica di un arguto disincanto per una dissociazione che non apre verso una comunità altra, ma si delimita, al limite, in un’etica della vigilanza continua per sabotare tutto ciò che fatalmente si raccoglie nella proprietà di alcuni confini. Per coloro che seguono l’intenzione di fondo di Nancy, la comunità, come già sempre perduta di Derrida, ci lascia impotenti nell’azione stessa del pensiero. Per coloro che invece seguono la lezione di Derrida, Nancy sarebbe costretto a nominare la spaziatura con un’ontologia alla fine ingenua e tutt’altro che estranea a una lunga tradizione. Mentre per Nancy la comunità è già sempre accaduta, poiché l’essere già immediatamente spartisce il suo ritiro, per Derrida, invece, la comunità è già sempre mancata nella sua possibile impossibilità. Mentre Derrida sta sempre sul lato di chi ha in sospetto ciò che accomuna, Nancy ritiene invece che la comunità sia il destino stesso dell’essere, originariamente, deve però dire, con una frequenza che lo espone all’insidia di Derrida. (...) Ci chiederemo se l’imperativo ontologico che Nancy rilancia sovrapponendo il Dasein e l’imperativo categorico non sia più coerente con una logica di esposizione senza veli, in particolare se essa viene interrogata a partire dalla soglia d’esposizione in cui si decide un’opera dell’arte. Vedremo anche se, per questa via, una certa fidatezza non debba essere sottratta, poiché si sottrae per conto proprio, senza residui da ciò che invece Derrida fa accadere fatalmente nel deserto senza rotta della chora e cioè, una chiamata elettiva, una preghiera, un sacrificio, ibridatura di communitas ed immunitas e poi autoimmunitas. A quel punto seppure brevemente e di passaggio sarà quasi necessario chiedersi se un certo dio che capitola nel pulchrum abbia qualcosa da dire su un comune di tutti e di ciascuno, se esso sia ancora il dio di


Abramo, se possa essere un dio, se Nancy nella sua decostruzione del Cristianesimo non passi troppo rapidamente su una certa teoanarchia implicata in questa antica vicenda dell’immaginario speculativo dell’Occidente. Se si mostrasse che l’evento dell’opera dell’arte può orientare verso il comune come il luogo di tutti e di ciascuno forse è perché la sua soglia di esposizione non è né un volto né un semplice orizzonte (ma si trattererebbe a questo punto di capire in che modo tutto ciò possa riguardare l’aperto della domanda filosofica). Forse l’evento dell’opera dell’arte respinge da sé sia il sacro che il santo, e poiché nell’uno si patisce una totalità e nell’altro l’esclusività di un certo riguardo, l’emozione del comune, come di tutti e di ciascuno, non si patisce e in questo senso si denuda di ogni velo.


Senso comune, buon senso, consenso (e non senso...) di Nicola Comerci

A grandi linee si è soliti definire “statista” un Primo Ministro che può vantare un numero elevato di crediti nei confronti della nazione che ha governato. Sembra invece molto probabile che il nostro attuale premier verrà ricordato per gli innumerevoli debiti che sta contraendo nei confronti, oltre che della politica e della storia, anche della cultura e della mentalità italiana. Il più pericoloso, in termini di durata e incisività, è senza dubbio il sovvertimento del “senso comune”, quindi di quell’insieme di capisaldi culturali e morali che stanno alla base del cosiddetto “buon senso”. Ora, il fenomeno Berlusconi, in ogni sua presa di posizione, rappresenta una continua e costante sfida al senso comune e dunque al buon senso degli italiani, che egli


sta cercando di sostituire con il consenso elettorale: è vero e sensato ciò che sostiene chi ottiene un risultato elettorale consistente. Ci troviamo di fronte ad un sapiente assedio al sostrato semantico della tradizione umanista. Si badi, non si tratta di difendere un facile moralismo né di avallare un conservatorismo spicciolo, ma di una questione seria, se si considera quanto il riferimento al sensus communis abbia condizionato il pensiero di grandi filosofi di ogni tempo. Husserl, ad esempio, amava ripetere ai suoi discepoli che, in fin dei conti, “la verità è triviale, è banale”. Ebbene, grazie al Cavaliere, oggi in Italia la situazione è mutata, in quanto la verità non è più “triviale” né “banale”, la verità non è più “buon senso”: in Italia la verità è divenuta consenso. A dire il vero, non si può dire certo che il capo del governo rifiuti il senso comune. Al contrario, egli afferma di farsi interprete di “quello che pensa la gente”, e conferisce grande rilievo alla pubblica opinione al punto tale da sottrarla ad ogni altra forma di controllo di validità. Ogni volta che si adopera per disconoscere un luogo comune consolidato (sulla giustizia, sulle tasse, sull’uguaglianza di fronte alla legge etc.) ricorre al consenso tra gli elettori come parametro di verità di quanto sostiene. L’ultimo episodio è la manifestazione convocata a Roma nei giorni scorsi per sostenere che non è in torto chi compie un reato e viene scoperto grazie alle intercettazioni, ma chi alle intercettazioni ricorre come strumento di indagine. Il numero dei partecipanti avrebbe dovuto sancire la verità della sua visione e dunque l’infondatezza del senso comune e del buon senso popolare. Ma in generale è un concetto unico di “regola” che non gli aggrada: le regole non vanno rispettate, ma vanno “interpretate” di volta in volta (ad es.: giustizia, presentazione delle liste elettorali etc.). Regnante Berlusconi la verità in Italia è dunque divenuta consenso. Da questo atteggiamento derivano due conseguenze. La prima è di carattere gnoseologico. Se il consenso diviene l’unico parametro di verità a cui rifarsi, se cioè il vero si riduce al compromesso funzionale, ciò genera paradossi logici relativi al fatto che si assume l’accordo intersoggettivo come unico orizzonte di origine e movimento della verità. In questo modo il processo di individuazione/definizione della verità perde necessariamente di oggettività, in quanto il vero è attribuito alla fluttuante e condizionabile valutazione/ deliberazione di un Macro Soggetto plurale. Il richiamo al consenso popolare assume così i toni di una fuga dal confronto con la realtà. Il Cavaliere sa di non avere ragione e quindi cerca di trasformare il concetto stesso di ragione. Ne deriva che con la potenza del suo apparato mediatico egli non esita a condurre attacchi violenti al senso comune con l’obiettivo specifico di confondere gli elettori e indurli ad uno spaesamento culturale ed esistenziale. Berlusconi prima afferma, poi smentisce, intanto se ne parla e l’idea, che prima non c’era, ora invece circola nelle menti e finisce per consolidarsi in “luogo comune”. Più o meno come succede nella lingua, in cui una forma nuova si consolida con l’uso intersoggettivo. La seconda conseguenza, legata alla prima, è invece di carattere morale: se si introduce l’idea che i valori su cui si fonda la convivenza sociale quali l’uguaglianza, la solidarietà, la giustizia trovino la loro ragion d’essere e la loro natura nel consenso tra gli individui, allora significa che essi non sono né eterni né atopici, ma che possono essere modificati da chi ha il potere di governare tale consenso. Che è più o meno quello che dice Schumpeter quando sostiene che la definizione di “Bene Comune” è relativa alle decisioni e agli interessi di chi detiene il potere. Ma la novità dell’era Berlusconi,


il suo “valore aggiunto” consiste nel fatto che se di solito nei proclami ufficiali tali principi non vengono rinnegati, mentre sono poi le leggi varate a contraddirli nei fatti, il Cavaliere invece mira espressamente a modificare il contenuto di tali valori e a cercare la condivisione su tale opera di modifica. Non nasconde le sue intenzioni, reintegra l’essere all’apparire. Ciò che Berlusconi rifiuta non è dunque il senso comune, piuttosto un determinato senso comune, il buon senso, che non conviene e quindi va combattuto. Con il suo apparato mediatico sta minando valori acquisiti e certezze consolidate. Con leggi personalistiche mette in crisi la saggezza popolare formata da secoli di conquiste culturali, al punto da far sorgere il sospetto che lo Stato e le sue istituzioni non rappresentino la forma più alta della democrazia, bensì il suo limite. Tramite giornaliere dichiarazioni il Premier sfuma i confini tra il bene e il male, tra il vero e il falso e, in questo spaesamento diffuso, sopravvive a se stesso: è capo di un partito e nega la rappresentatività dei partiti; ricopre una carica dello Stato e non riconosce valore alle istituzioni; non nasconde di soffrire il rigore delle leggi e accusa le leggi di essere sbagliate; insomma rappresenta lo Stato e fa di tutto per combatterlo. Berlusconi ha insomma il grande (de)merito di aver fornito ai suoi elettori le ragioni per poter esporre le proprie convizioni senza più timore di essere considerati contrari al senso comune. Diversamente da quanto succedeva poco tempo fa, chi è di destra oggi lo ammette, proponendo insensate argomentazioni che sempre di più entrano a far parte del senso comune. È sintomatico di questa crociata contro il buon senso il progetto di trasfigurazione culturale portato avanti dagli uomini del PDL, nel tentativo di creare una “cultura di destra” alternativa al preteso “predominio marxista” nella cultura imperante. Spiace dover ricordare a questi signori che una cultura di destra esiste già, non c’è bisogno di crearla; semmai ci sarebbe bisogno di formare intellettuali di destra… Ci troviamo in una situazione preoccupante che crea distorsioni non facilmente recuperabili, perché l’incisività del potere mediatico riduce i tempi di trasmutazione del valore culturale e morale e della sua sedimentazione in una sfera di intangibilità poi difficile da scalfire. A ben guardare dunque, il cavaliere è un avventuriero del “non senso”, vive di luce propria, e mette in ombra i valori e le certezze ereditate. Sarà allora questa la prima vera sfida del Partito Democratico: difendere e ripristinare, ristabilire la corretta direzione del senso comune e del buon senso, sottraendoli all’ombra in cui, nonostante tutto, ancora vivono le verità e i valori propri del riformismo europeo. Per evitare che, come spesso accade, troppa luce impedisca di vedere correttamente.


Paolo Virzì, La prima cosa bella, ovvero la madre di Domenico Spinosa

È difficile a volte rispondere, corrispondere, trovare dentro noi stessi forme espressive per ritornare all’immenso amore ricevuto quotidianamente dalla madre. L’amore è un dono, incommensurabile, che viene offerto alla cieca, che ha radici antichissime. Chi più ne dà, più ama in fondo la vita al di là del bene e del male. Le cose poi si complicano non poco quando tua madre è un vulcano fatto persona, improvvisa, traboccante di materialità, e tu figlio/a, semmai un po’ introverso e “testone”, ti trovi nelle condizioni di venir travolto e sconvolto come in una valanga piena di emotività che ti lascia senza parole, dove solo un abbraccio, un ballo o un film visto insieme in una vecchia sala cinematografica prende il sopravvento, unisce e vale più di mille tentati discorsi rimasti da tempo inconclusi. Ma nel momento in cui stai vivendo tali emozioni, t’accorgi che non ne sei capace. Ne resti segnato per sempre, a vita. Sì, perché è proprio la vita che in tutto ciò ne va di mezzo. E così ti


sembra giusto voltarti dall’altra parte, nasconderti per rifugiarti dentro di te, sicuro di quei punti fermi che ti appiano certi. Non hai neanche più la forza e la voglia di andare al mare per tuffarsi e per rimetterti in gioco. Ti convinci che le cose più belle della vita vanno appena sognate, semmai a occhi aperti come può accadere proprio al cinema. Illusioni, quelle sì che sono autentiche. Ritornare sul latte versato, allora, diventa tortuoso, davvero pericoloso e fa quasi paura. “Ritornare” significa qui ripercorrere turbamenti facendo inevitabilmente luce tra i segni del tempo come in un’archeologia dei sentimenti. Di questo, come anche d’altro, ci parla l’ultimo film di Paolo Virzì dal titolo La prima cosa bella, dove il tutto è pensato e ambientato a Livorno attraversando gli ultimi suoi quarant’anni. Di conseguenza, per lo spettatore italiano le vicende narrate acquistano una profonda intimità. Confidenza soprattutto con lo sfondo del film, ovvero gli anni Settanta che di recente vengono riscoperti e ritornano attuali. Ecco, allora Virzì attraverso una storia familiare ci porta, visivamente e narrativamente, anche a fare i conti con quel tempo lontano che ci appare oggi quello a noi più prossimo. Quel passato che, guardandoci alle spalle, ci sembra aver caratterizzato e segnato la vita nazionale così da sentirne ancora oggi gli effetti a dir poco retorici. In un certo senso, siamo tuttora lì. Se è vero che il cinema lavora seguendo un doppio canone di rappresentazione, quello discorsivo-narrativo (per mezzo di storie fatte di azioni e personaggi) e quello visivo (per mezzo di immagini spazio-temporali, ambientazioni, volti e figure) allora La prima cosa bella funziona. Senza eccedere, il film bene intreccia il piano narrativo e quello visivo lasciando lo spettatore piacevolmente non confuso pronto a interrogarsi di nuovo (sua inevitabile e fatale costante) alla ricerca di un centro di gravità permanente che tarda sempre ad arrivare.


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