VOLTA n°1 - Brand Magazine

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Massimo Banzi Come la mia idea ha rivoluzionato il business

Alva Noto Intervista allo

scienziato del suono

Adriano Olivetti Un’ispirazione italiana

nella Silicon Valley



Massimo Banzi Arduino: l’invenzione open-source tutta italiana

Kelli Anderson Il giradischi di carta: invito a nozze musicale

Alva Noto Tra scienza, musica e video

Jeff Davis Dischi in vinile: un’opera da collezione

Adriano Olivetti Il pioniere italiano, modello per Steve Jobs

Achille Castiglioni Un tributo a 10 anni dalla scomparsa

Doriano Mattellone W-EYE: i primi occhiali in legno e alluminio

Mr. T–Bone Intervista all’astro nascente dello ska in Italia



Dietro a uno stereotipo, c’è sempre del vero. Così, dietro al luogo comune del genio estetico italiano, si trova una tradizionale qualità e cura del dettaglio che nessun altro al mondo può vantare e che fa comprendere perché, sempre più spesso in un periodo di crisi come questo, viene evocato il nostro più apprezzato spirito artistico. Troppo spesso, infatti, i primi detrattori del Bel Paese siamo proprio noi italiani, sottolineando solo i tratti peggiori della nostra indole. Tutti gli altri, soprattutto quando si parla di design, nutrono una sorta di adorazione per il nostro gusto elegante ed equilibrato. Il genius loci italiano, che magicamente continua a sfornare generazioni di menti dal gusto raffinatissimo, si unisce poi alla particolare attitudine che il popolo nostrano ha nel tentare di proporre la propria idea. E i dati lo testimoniano. L’Italia, infatti, è il paese più intraprendente del G8 con una percentuale di imprenditori sull’intera popolazione che supera il 10%, considerando anche i pensionati e i neonati. Cifre da prima della classe. E così è notizia di questi giorni che il gruppo Fiat è in procinto di inglobare il marchio di auto di lusso Bertone. Come a dire che l’altissima qualità italiana è ancora una volta quello su cui scommettere, il sasso con il quale il piccolo David italiano risponde al devastante Golia cinese. Si perché il genio italiano non è soltanto questione di geni. Prima ancora di essere un’economia è un’antropologia, una struttura recondita della mentalità e del costume. E’ figlio della moltitudine di culture che nel corso dei secoli hanno abitato lo Stivale: nasce dall’epoca dei Comuni e delle Signorie, dal dinamismo delle repubbliche Marinare e delle botteghe della Firenze rinascimentale, dal mix di umori greci, arabi, normanni e spagnoli del Mezzogiorno, dall’energia dei Longobardi del Nord e dal raffinato estetismo dei Bizantini. La qualità senza compromessi. E’ questo il pedale da schiacciare per riprendere a correre forte, come avvenne col miracolo economico del dopoguerra, quando l’Italia del Sorpasso superò di gran lunga paesi socialmente ed economicamente più forti. Sono tanti i prodotti che hanno segnato la storia del design italiano del XX secolo. Prodotti che hanno migliorato la vita degli italiani, consacrando momenti topici dell’Italian Lifestyle. Come la Moka disegnata da Alfonso Bialetti nel 1933, una vera e propria creazione d’autore che ha scandito il rituale mattutino col suono gorgogliante del caffè che monta, con la sua forma decò e l’immagine familiare dell’omino coi baffi. Un oggetto dal design unico e inconfondibile, che ha trasformato il cognome Bialetti in un brand internazionale. Così come è successo per la Olivetti , altra marca storica del panorama del Made in Italy. Figlia della visione di Adriano Olivetti, singolare figura di imprenditore umanista che concepiva la bellezza come materia prima dell’eccellenza. O ancora Zanuso con Cubo, un oggetto misterioso e affascinante prima ancora di essere una radio, o la lampada Arco di Castiglioni, perfetto connubio tra la solidità del marmo di Carrara e la leggerezza di una struttura che proietta il corpo illuminante proprio là dove deve stare, al centro della stanza. Sono queste le figure che hanno dato un’identità e una forma al Made in Italy. Sono queste le figure sulle quali l’Italia deve continuare a credere, sono loro la vera marcia in più del nostro paese. “La bellezza salverà il mondo” diceva Dostoevskij. E la bellezza è Italia. Samuele Schiatti


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Arduino, l’idea geniale di Massimo Banzi Mario Privitera

«Guarda qui», dice Massimo Banzi. Il barbuto ingegnere dal fisico massiccio si sporge per controllare un robot per la produzione di chip, una macchina grande quanto un forno per la pizza che afferra e posiziona i componenti. È in piena attività, mentre prende minuscoli transistor elettronici e li mette su una scheda, proprio come un pollo che becca freneticamente alla ricerca di semi. Ci troviamo in un’azienda costituita da una sola stanza utilizzata da Tinker.it, il gruppo italiano che progetta questa scheda, chiamata Arduino, che va per la maggiore fra i costruttori di gadget fai-da-te. La loro fabbrica di materiale elettronico è una delle più pittoresche in circolazione, arroccata ai piedi delle colline di Ivrea, con il canto degli uccellini che si diffonde all’interno attraverso le porte aperte e molte pause-caffè per il personale con i camici bianchi. Ma oggi Banzi pensa soltanto agli affari. Sta mostrando con orgoglio la sua attività a un gruppo di clienti giunti dall’Arizona. Prende una delle schede e indica la minuscola cartina dell’Italia raffigurata

sopra. E in effetti, da quando è iniziata la produzione di massa, due anni fa, in tutto il mondo sono state vendute 50mila unità di Arduino. Cifre irrisorie per gli standard di Intel, ma importanti per un’impresa da poco entrata in un mercato molto specializzato. Ma ciò che è davvero notevole è il modello di business di Arduino: il gruppo ha creato una società basata sull’idea di regalare tutto. Sul suo sito sono pubblicati i segreti commerciali perché chiunque li possa prendere: gli schemi, i file di progetto e il software per la scheda. Scaricateli e potrete produrre un Arduino da soli; non esistono brevetti. Potete inviare i progetti a una fabbrica cinese, far produrre in massa le schede e venderle, intascandovi gli utili senza pagare a Banzi nemmeno un centesimo di royalty. E lui non vi farà causa. A dire il vero, in un certo senso, lui spera proprio che lo facciate. Questo perché la scheda Arduino è un pezzo di hardware open source, messo gratuitamente a disposizione di chiunque lo voglia utilizzare, modificare o vendere. Banzi e il suo gruppo hanno dedicato

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molte ore, per le quali si sarebbero potuti far pagare profumatamente, a creare l’oggetto, e lo commercializzano direttamente con un margine risicato, ma lasciando che altri facciano la stessa cosa. In questo esperimento non sono soli. Con un’iniziativa quasi priva di coordinamento, decine di inventori di hardware di tutto il mondo hanno cominciato a pubblicare le loro specifiche tecniche. Si trovano sintetizzatori, lettori mp3, amplificatori per chitarra e addirittura router per telefoni voice-over-ip, tutti open source. Banzi ammette che il concetto sembra una pazzia. Dopotutto, Arduino si assume parecchi rischi; il gruppo spende migliaia di dollari per produrre un lotto

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di schede. «Se pubblichi tutti i tuoi file, in un certo senso è come invitare la concorrenza a venire a ucciderti», dice l’ingegnere scrollando le spalle. Anche Linux sembrava un’idea folle, quando Linus Torvalds ne diede l’annuncio nel 1991. Nessuno credeva che un manipolo di volontari part-time avrebbe potuto creare qualcosa di complesso come un sistema operativo, o che sarebbe stato più stabile di Windows. Nessuno credeva che le 500 società di Fortune si sarebbero fidate di un software che non poteva essere “di loro proprietà”. Eppure, 17 anni dopo, il movimento per il software open source è stato cruciale per l’esplosione dell’economia in rete. Linux ha

L’intuizione: se Arduino fosse stato aperto, poteva ispirare più interesse e ricevere più pubblicità gratuita rispetto a un pezzo di hardware chiuso e proprietario consentito a Google di creare server a costi bassissimi; Java, Perl e Ruby sono diventati la lingua franca per costruire applicazioni web 2.0; e il software gratuito Apache sta alla base di metà dei siti del mondo. Il software open source ha fatto nascere l’era di internet, dando a tutti, anche a coloro che vi hanno lavorato gratuitamente, un maggiore benessere economico. L’hardware open source riuscirà a fare la stessa cosa? Ogni progetto open source inizia con un’insoddisfazione. Linux è stato lanciato quando Torvalds ha deciso che non gli piacevano i sistemi operativi a disposizione. Microsoft Dos, Apple e Unix erano tutti costosi e chiusi; Torvalds, invece, voleva un software col quale poter armeggiare. Oltre a lui, molti altri geek desideravano la stessa cosa. Così, quando Torvalds ha


Ciò che è davvero notevole è il modello di business di Arduino: il gruppo ha creato una società basata sull’idea di regalare tutto, un concetto che sembra una pazzia.

cominciato a lavorare su Linux e a condividerne i codici, si sono messi a disposizione per dargli una mano a migliorarlo gratuitamente, creando una forza lavoro virtuale infinitamente più grande e più capace dello stesso Torvalds. Arduino è iniziato nello stesso modo. Banzi faceva l’insegnante all’Interaction Design Institute di Ivrea, e i suoi studenti spesso si lamentavano di non riuscire a trovare un microcontroller potente ma economico per gestire i loro progetti artistici robotizzati. Durante l’inverno del 2005, Banzi stava discutendo il problema con David Cuartielles, un ingegnere spagnolo specializzato in microchip, che in quel periodo era ricercatore ospite presso la scuola. I due

decisero di creare la loro scheda e chiamarono David Mellis, uno degli studenti di Banzi, per scriverne il linguaggio di programmazione. In soli due giorni, Mellis scrisse il codice; altri tre giorni e la scheda era completa. La chiamarono Arduino, dal nome di un pub che si trovava nelle vicinanze, e fra gli studenti ebbe un successo immediato. Quasi tutti, anche se non sapevano niente di programmazione di computer, sono riusciti a utilizzare un Arduino per fare qualcosa di bello, come rispondere a dei sensori, fare lampeggiare delle luci o controllare dei motori. Poi, Banzi, Cuartielles e Mellis, insieme a Gianluca Martino, hanno messo online gli schemi elettronici e hanno investito circa 3mila euro per produrre il primo lotto di schede. «Ne abbiamo fatte 200 copie, e la mia scuola ne ha acquistate 50», dice Banzi. «Non avevamo nessuna idea di come avremmo venduto le altre 150. Pensavamo che non ci saremmo riusciti». Ma la voce si è diffusa fra i designer in tutto il mondo e pochi mesi dopo sono giunti ordini per altre centinaia di unità Arduino. Si è scoperto che

esisteva un mercato per questo genere di cose. Così, gli inventori di Arduino hanno deciso di costituire una società, ma con una particolarità: i progetti sarebbero rimasti open source. Poiché la legge sul copyright, che regola il software open source, non è applicabile all’hardware, hanno deciso di utilizzare una licenza Creative Commons chiamata Attribution Share Alike. Chiunque è autorizzato a produrre copie della scheda, a riprogettarla, o addirittura a vendere schede che ne copiano il progetto. Non è necessario pagare nessun diritto al gruppo Arduino e nemmeno chiedere il permesso. Tuttavia, se il progetto di riferimento viene ripubblicato, occorre dare il riconoscimento al gruppo Arduino originale. E se la scheda viene modificata o cambiata, il progetto deve

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utilizzare la stessa licenza Creative Commons o una simile, per fare in modo che le nuove versioni della scheda Arduino siano altrettanto libere e aperte. L’unico elemento di proprietà intellettuale che il gruppo si è riservato è stato il nome, che è diventato il suo marchio di fabbrica. Se qualcuno vuole vendere delle schede utilizzando questo nome, deve pagare una modesta commissione ad Arduino. In modo che il marchio non venga danneggiato da copie di scarsa qualità, dicono Cuartielles e Banzi. I vari membri del gruppo avevano motivazioni leggermente diverse per rendere aperto il progetto del loro apparecchio. Cuartielles, che ha una massa di capelli ispidi e ricci e una barba alla Che Guevara, si descrive come uno studioso di sinistra, meno interessato a guadagnare soldi che a ispirare

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creatività e a fare in modo che la sua invenzione venga utilizzata ad ampio raggio. «Quando, recentemente, ho tenuto una conferenza a Taiwan, ho detto: “Per favore, copiatelo!”», racconta con un largo sorriso. Banzi, al contrario, è più simile a uno scaltro uomo d’affari; si è quasi completamente ritirato dall’insegnamento e gestisce Tinker.it, una società di progettazione hi-tech. Ma aveva intuito che, se Arduino fosse stato aperto, poteva ispirare più interesse e ricevere più pubblicità gratuita di quanta ne avrebbe potuto ottenere un pezzo di hardware chiuso e proprietario. Ancor di più, i geek entusiasti lo avrebbero hackerato e, come i sostenitori di Linux, avrebbero cercato il gruppo Arduino per offrire dei miglioramenti. Loro avrebbero tratto vantaggio da tutto questo lavoro gratuito, e

In un certo senso, Arduino è arrivato al momento giusto. I geek sono sempre più interessati all’hackeraggio e al miglioramento dell’hardware, stimolati dall’elettronica a prezzi che continuano a calare, da riviste di “costruiscilo da solo” come Make, e da siti come Instructables. ogni generazione della scheda sarebbe migliorat Più o meno, è quanto è successo. In pochi mesi, i geek hanno suggerito modifiche al cablaggio e hanno perfezionato il linguaggio di programmazione. Un distributore si è offerto di mettere in commercio le schede. Nel 2006, Arduino aveva venduto 5mila unità; l’anno successivo 30mila. Gli appassionati le utilizzano per creare robot, per far ridurre i consumi al motore della loro automobile e per costruire modellini di aeroplani senza pilota. Una società chiamata Botanicalls ha sviluppato un dispositivo basato su Arduino che controlla le piante di casa e telefona all’utente quando hanno bisogno di essere innaffiate. zNegli ultimi anni, hanno crackato aggressivamente i gadget per renderli più effi caci, aggiungendo una durata supplementare alla batteria degli iPhone, installando dischi fissi più capaci sui TiVo, smembrando i giocattoli Furby e riprogrammandoli per farli funzionare come antifurto. Strumenti economici per la lettura dei chip consentono di


reingegnerizzare quasi tutto. L’hardware è già aperto. Anche quando gli inventori cercano di mantenere segreti gli elementi più nascosti dei loro prodotti, non ci riescono. Allora, perché non aprire attivamente quei progetti e cercare di trarre profitto dall’inevitabile? «Apple non ha mai fatto diventare open source l’iPod, giusto? Ma se andate a Canal Street, a Manhattan, ne trovate delle copie a ogni passo», dice Limor Fried, fondatrice della Ada-fruit Industries, una società di New York che fabbrica e vende hardware open source. Come il gruppo Arduino, anche Fried ha scoperto che, quando la gente ha accesso ai progetti delle sue invenzioni, suggerisce modifiche. Nel 2006, quando Fried ha pubblicato il progetto di MintyBoost, una lattina piena di batterie stilo che può essere utilizzata per ricaricare il lettore mp3 o il telefonino, alcuni utenti si sono lamentati sul forum che non funzionava bene con i loro apparecchi. Altri si sono precipitati ad analizzare i problemi e a trovare delle soluzioni; alcuni hanno addirittura fatto uno schizzo della scheda sostitutiva

La facilità di programmazione di Arduino permette di controllare con semplicità anche suggestive installazioni luminose. (attualmente, MintyBoost è l’invenzione più popolare di Ada-fruit; ha venduto 8mila unità al prezzo di circa 20 dollari l’una). In sostanza, i suoi clienti costituiscono anche il suo servizio tecnico, a disposizione 24 ore al giorno e sette giorni alla settimana, senza alcuna spesa. Quando Banzi o Cuartielles descrivono la loro strategia Arduino, si sentono inevitabilmente rivolgere questa domanda. Ed è un vero mistero, perché l’hard ware open source non è proprio simile al software open source. Riprodurre il software non costa quasi nulla; Torvalds non aveva bisogno di spendere ogni volta che qualcuno scaricava una copia di Linux. Ma il gruppo Arduino deve pagare per produrre le schede prima di poterle vendere. In base alla tradizionale logica economica, ciò prevede un

brevetto; nessuno rischia del denaro per inventare e vendere hardware, a meno che non riesca a impedire ai concorrenti di rubargli immediatamente i progetti e di entrare nel mercato. Ma, allora, come si fanno i soldi in un mondo di hardware open source? In questo momento, i pionieri dei progetti aperti tendono a seguire uno di questi due modelli economici. Il primo è quello di non preoccuparsi di vendere molto, ma piuttosto di cedere la propria esperienza di inventore. Se chiunque può fabbricare un apparecchio,

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allora il produttore più efficiente lo farà al prezzo migliore. Va bene, lasciateli fare. Ciò vi garantirà che la vostra “creatura” abbia una distribuzione allargata. Ma la comunità di utenti inevitabilmente vi si stringerà intorno, in modo molto simile a quanto è successo a Torvalds per Linux. Voi sarete sempre i primi a sentire parlare di miglioramenti interessanti o di utilizzi innovativi per il vostro dispositivo. Una simile conoscenza diventa la risorsa più preziosa, che potete vendere a chiunque. Questo è esattamente il modo in cui lavora il gruppo Arduino. Guadagna poco: soltanto alcuni dollari dei 35 della vendita di ogni scheda, che vengono reinvestiti nel successivo ciclo di produzione. Ma i redditi importanti provengono dai clienti che vogliono costruire dispositivi basati sulla scheda e che assumono i fondatori come consulenti. «Quello che abbiamo è fondamentalmente il marchio», dice Tom Igoe, professore associato presso l’Interactive Telecommunications Program alla New York University, che si è unito ad Arduino nel 2005. «E il marchio è importante». 12

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Ma, ancora di più, la crescente comunità Arduino fa lavoro gratuito per i consulenti. I clienti della società di design di Banzi spesso gli chiedono di progettare prodotti basati sulla scheda Arduino. Uno, per esempio, voleva controllare una serie di led. Ficcanasando in rete, Banzi ha scoperto che in Francia qualcuno aveva già pubblicato il codice Arduino che faceva esattemente quel lavoro. Gli è bastato prenderlo per essere a posto. Poi, c’è il secondo modello per fare soldi tramite l’hardware open source: vendere quel che si è creato, ma cercando di mantenersi all’avanguardia rispetto ai concorrenti. Il che non è difficile come sembra. L’anno scorso, Arduino ha notato che online venivano messe in commercio imitazioni della sua scheda realizzate in Cina e a Taiwan. Eppure, i distributori di Arduino continuavano ad aumentare lo smercio delle sue schede. Perché? In parte, perché molte copie asiatiche erano di cattiva qualità, piene di difetti di saldatura e i collegamenti dei pin erano deboli. Disporre semplicemente delle specifiche

di un prodotto non significa che una sua copia sia di buona qualità. Ci vogliono le capacità, e il gruppo Arduino ha capito il suo apparecchio meglio di chiunque altro. «Perciò, nella realtà, alla fine le copie possono trasformarsi in un elemento positivo per la nostra società», dice Igoe. «In un certo senso, l’hardware sta diventando molto simile al software», dice Eric von Hippel, professore di management aziendale al Mit di Boston: «Questo è il motivo per cui si iniziano a vedere tecniche di open source nell’ambito hardware. La progettazione si sta trasferendo direttamente dai fabbricanti alle comunità». Per avere successo in futuro, i produttori di hardware dovranno cambiare radicalmente mentalità. Il loro lavoro non è più soltanto quello di avere idee, ma è altrettanto importante, forse addirittura vitale, cercare e trovare innovazioni dagli utenti. Erano abituati a doversi immaginare quello che desiderano i loro clienti: ma i clienti già sanno che cosa vogliono, dunque è più efficiente farlo progettare a loro. Non posso fare a meno di pensare che tutto ciò abbia dei limiti. I dilettanti appassionati possono creare un lettore di mp3 o un sintetizzatore. Ma che cosa si può dire per un motore? O per un’automobile? Per superare i test, questi prodotti hanno bisogno di


costose attrezzature, come gallerie del vento o laboratori per le prove di impatto. Cose che non può ottenere un gruppo di designer poco coordinati fra loro, e magari collegati a internet con i loro laptop mentre siedono in un bar. Yochai Benkler non ne è così sicuro. Professore di Harvard e autore di The Wealth of Networks, Benkler prevede che le società commerciali classiche dovranno condividere le risorse con le comunità open source. «Se volete progettare un’automobile in modalità open source, forse lavorerete con una società che ha accesso a una costosa galleria del vento», dice. Questo genere di cooperazione è diventata comune per il software open source. Ibm e Sun Microsystems, per esempio, pagano i loro dipendenti per contribuire a Linux, perché è interesse delle società fare diventare il sistema operativo sempre migliore, anche se ne traggono vantaggio i concorrenti. Ma per quanto possa essere entusiasmante, l’hardware

open source è anche confuso, addirittura disarmante. I pionieri in questo campo ammettono di non avere nessuna idea di come fare il salto dai piccoli hardware da boutique ad apparecchi per il mercato di massa. Ogni tanto, persino Massimo Banzi si domanda se è semplicemente uno sciocco a cedere qualcuno dei suoi lavori migliori attraverso Arduino. «Se il chip Arduino diventa più grande, migliore e più famoso, qualcuno in Cina lo produrrà a un costo più basso del 50 per cento. Questo è chiaro», dice Banzi mentre a tarda sera cena in un noto ristorante pugliese di Milano. Affonda la forchetta in un piatto di orecchiette e beve vino rosso, con un’espressione a metà fra il sorriso e la smorfia, mentre immagina il proprio lavoro saccheggiato da qualche produttore straniero che offre un prezzo decisamente migliore. «Penso che ci sia una sottile linea di confine», dice sospirando, «fra l’open source e la stupidità» •

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Il giradischi di carta di Kelli Anderson Abigail Spencer

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Kelli Anderson ha appena terminato un progetto davvero divertente - un invito a nozze sotto forma di giradischi di carta. Nell’ invito in stile libretto, alcune pieghe di carta amplificano il suono di un ago per cucire che si sposta lungo le scanalature di un giradischi flessibile. La registrazione tessuta a mano produce un suono, confuso ma distinguibile, di una canzone originale della coppia. Richiede un po’ di bricolage e di capacità di piegatura. Il tutto serve da imballaggio interattivo per la canzone - che può essere sperimentata sul giradischi di carta, svitata e impostata su una piattaforma regolare, oppure goduta in rete, (per gli audiofili là fuori). Benché questo progetto iniziò realmente con le repliche di Mr. Wizard negli anni ottanta, hanno iniziato a pensare a questo proposito pochi mesi fa quando Karen e Mike, due amici, si resero

conto di aver bisogno di un invito per il loro matrimonio. Karen lavora come avvocato presso il Software Freedom Law Center e sostiene i diritti dei programmatori, inventori e codificatori, ma è anche una dj, e Mike è un tecnico del suono nominato al Grammy. Il loro amore per la musica e i loro sforzi di collaborazione audio sono un aspetto toccante della loro relazione e una parte importante della loro amicizia (si sono incontrati ad un concerto). Kelli ha quindi ritenuto davvero importante che l’invito facesse riferimento al ruolo sociale della musica nel far incontrare le persone. E idealmente avrebbe la funzione di una canzone originale della coppia per sigillare il patto. Karen e Mike hanno subito accolto e


amato l’idea, e hanno scritto quel brano orecchiabile che appare sul disco. Ora bisogna solo spiegare il modo in cui far funzionare l’invito. Il piccolo gruppo di ricerca e sviluppo (composto dalla coppia, Kelli e la sua dolce metà, Daniel) porta avanti il progetto mediante prove materiali mirate (e spesso deludenti). Noi tutti armeggiamo con mucchi di diversi tipi di carta, aghi, viti, feltro, sughero, adesivi, con la convinzione che una qualche combinazione di queste cose, avrebbe potuto funzionare. Il destinatario piega la seconda pagina del libretto per creare un braccio teso, e con l’ago piazzato, poi si può far girare con attenzione il disco, alla velocità dei 45 giri, per sentire la canzone. L’ago percorre la lunghezza del brano e produce il suono.

Le sue vibrazioni sono amplificate dalla sottile carta piegata alla quale aderisce. Per mantenere l’ago appoggiato, abbiamo rinforzato il retro del braccio con mezza pagina di cartoncino pesante. Per ridurre l’attrito tra il disco acetato e il supporto, abbiamo dovuto rendere l’interno del libretto liscio e ideale perché si potesse girare a mano. Con tutta la musica in formato mp3 di oggi, è stato davvero divertente sperimentare con la realtà della musica come materiale, un’astrazione così elegante espressa dalle scanalature ondeggianti del giradischi. Il collegamento tra la carta, l’ago e il dito è gratificante. C’è qualcosa di alchemico e magico su questi umili materiali che producono un suono. •

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Alva Noto tra scienza, musica e video Maurizio Narciso

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Mai visto un display lungo 50 metri? Allora non puoi mancare il 20 Settembre all’HangarBicocca, quando verrà inaugurato Unidisplay, un’installazione audiovisiva lunga oltre 50 metri del tedesco Carsten Nicolai, artista, musicista e personaggio di spicco della ricerca contemporanea tra musica elettronica e immagini, che il 29 novembre ha realizzato una spettacolare performance live. Unidisplay (a cura di Chiara Bertola e Andrea Lissoni) consiste in un’unica paretedisplay audiovisiva, lunga cinquanta metri, delimitata agli angoli da due muri specchianti, su cui scorrono immagini che si moltiplicano all’infinito, creando un effetto di spaesamento spaziale nello spettatore. L’opera si basa su una serie di moduli di diversi effetti visivi, forme astratte in continua mutazione elaborate con software capaci di attribuire segni e colori alla scomposizione del suono. Le immagini interferiscono con la percezione dello spettatore attraverso l’illusione ottica,

l’effetto flicker (lo sfarfallio di linee e segmenti), i movimenti impercettibili e la complementarietà dei colori. Il pubblico, coinvolto a livello sensoriale, si trova in tal modo a fronteggiare sequenze, motivi e forme grafiche di varie unità di tempo che si alternano e si susseguono come un enorme affresco astratto in movimento. Nicolai, utilizzando lo pseudonimo di Alva Noto con il quale porta avanti la sua ricerca sul suono, ha realizzato questo potente intervento – che entra in relazione con le dimensioni industriali di HangarBicocca e con la grande opera di Anselm Kiefer I Sette Palazzi Celesti – attraverso l’utilizzo di tecnologie all’avanguardia e un’attività di approfondita ricerca sulle relazioni tra percezione umana ed elementi spazio-temporali. Il suo lavoro, infatti, si muove costantemente tra saperi differenti: ricerca scientifica, sperimentazione tecnologica, studi sulla percezione, architettura, arti visive. Un approccio multidisciplinare in sintonia con l’identità e la storia di Pirelli, impresa che nel sostegno dell’arte contemporanea vede


Il live è basato sull’utilizzo di un software in grado di generare in tempo reale pattern e segnali sonori sempre differenti il naturale proseguimento di una cultura d’impresa che ha fatto dell’unione tra ricerca tecnico/scientifica e innovazione culturale il suo punto di forza. La serata di inaugurazione del progetto espositivo di Carsten Nicolai – il 20 settembre 2012 – è parte del programma del Festival MITO SettembreMusica. Giovedì 29 novembre alle ore 21, Nicolai realizzerà un live di musica e immagini dal titolo univrs / univrs (uniscope version), concepito nel 2011, utilizzando come dispositivo l’installazione unidisplay. Il live è basato sull’utilizzo di un software in grado di generare in tempo reale pattern e segnali sonori sempre differenti, creando un set spettacolare e spiazzante.

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“Dopo una fase di intensa creatività ho la necessità di far passare del tempo, in modo tale da valutare l’opera dall’esterno, senza condizionamentii”

Non si sa mai bene da dove iniziare con Carsten Nicolai: se dalla musica, dalle ricerche scientifiche legate ad essa oppure, più in generale, dalla capacità di ricombinare i linguaggi dell’arte in una personalissima visione interpretativo/esplicativa del tutto. Puoi tu stesso fornirci un ordine delle cose? Occuparmi allo stesso tempo di arte e musica mi viene abbastanza naturale. E‘ inevitabile che delle volte si debba dare priorità a progetti particolari, magari per sviluppare un’idea ben precisa che si ha in mente, ma il più delle volte cerco di lavorare parallelamente su diversi aspetti, senza impormi barriere tra i due campi artistici. Talora potrete riscontrare delle connessioni, altre volte no, ma va bene così. Sei uno dei fondatori del centro culturale “Voxxx.Kultur und Kommunikationszentrum” di Chemnitz. Come ti rapporti con questa attività? Il Voxxx.Kultur und Kommunikationszentrum di Chemnitz è strutturato in diversi spazi, che comprendono

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un’area museale, un cinema, uno spazio per le performance live, una zona happening… il tutto è organizzato in modo organico, affinché vi sia una linea guida comune delle diverse attività proposte. Come membro fondatore ho gestito il centro fino alla fine degli anni ’90, dopodiché mi sono dedicato maggiormente ai miei progetti personali, affidando la gestione ad amici e colleghi che continuano tutt’oggi a proporre idee innovative e progetti assai validi, anche attraverso lo studio di registrazione interno alla struttura. Riceviamo molte visite settimanali delle quali andiamo fieri. Nello stesso tempo gestisci l’etichetta “Raster-NotonArchiv für Ton und Nichtton”. Che significato ha per te produrre/distribuire musica altrui? Si tratta sostanzialmente di un’etichetta all’interno della quale lavorano artisti “amici”, che mettono insieme idee ed esperienze diverse per un progetto che punta alla qualità prima di tutto e che presenta un’identità assolutamente definita. E’ un progetto al quale teniamo molto e stiamo


cercando di svilupparlo il più possibile, organizzando anche performance live come per esempio il recente Electric Campfire organizzato a Roma che ha avuto un riscontro di pubblico molto positivo. Oltre a comporre musica come solista, suoni in due band, Signal con Frank Bretschneider e Olaf Bender, e Cyclo con Ryoji Ikeda. Inoltre collabori con musicisti dall’estrazione più diversa: Vainio-Pan Sonic, KnakOpto, Sakamoto e BargeldEisturzende Neubauten. Se dovessi definire con un

aggettivo ognuno di essi quali sceglieresti? E’ molto difficile rispondere a questa domanda. Pensandoci bene direi che nel progetto Signal, per via della presenza di Frank e Olaf, mi sento a casa. Con loro siamo alla continua ricerca di un’avanguardia sonora che sia allo stesso tempo underground. Con Cyclo siamo ossessionati dalle “imperfezioni digitali”, il progetto è teso ad esplorarle nel profondo. A riguardo abbiamo pubblicato un libro ed un album. Mika per me è una figura molto importante e fonte di ispirazione, sia come

solista che con il progetto Pan Sonic. Incarna al meglio la mia concezione di “futuro” in musica. Thomas è una persona straordinaria e riesce a produrre buona musica nonostante per lui sia sostanzialmente un hobby. Con lui mi sento perfettamente a mio agio e rappresenta il lato giocoso del comporre musica. Ryuichi Sakamoto lo definirei un visionario. Attualmente è impegnato anche sul fronte ambientalista, tenendo molto alla causa. Blixa Bargeld potrei definirlo con una sola parola che esiste in tedesco, ma forse anche in inglese, ovvero “Zukunftangst”, che combina

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i termini futuro e l’essere spaventati. Di quale progetto parallelo sei più fiero? Non sono in grado di rispondere. Vado molto fiero della collaborazione con Ryuichi Sakamoto, che risulta essere la produzione più completa essendo composta da ben 5 cd in 10 anni di attività. Sono comunque soddisfatto di tutti i progetti paralleli, che esplorano ognuno ambiti sonori ben precisi. La tua musica, è un ventaglio assai diversificato di micro intuizioni, mosse su atmosfere fredde-isolazioniste ma allo stesso tempo “meccanicamente” vive, pulsanti. In fase di produzione studi a tavolino l’evoluzione dei brani oppure è il caso ad influenzarne lo sviluppo? Non so se si tratta di una tendenza comune a tutti gli artisti, ma io lavoro approfonditamente su un brano, dopodiché ho bisogno di stabilire una certa distanza tra me e la musica che ho scritto. Dopo una fase di intensa 20

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creatività ho la necessità di far passare del tempo, in modo tale da consentirmi di valutare l’opera dall’esterno, senza condizionamenti, magari vedendo il prodotto sotto una luce diversa. Credo che questa distanza sia fondamentale. Talvolta riscopro la mia opera, giudicandola anche a posteriori un buon lavoro, talvolta no. Più che lavorare nei modi in cui hai scritto nella domanda, ricerco questo distacco.

Credo che gli artisti riflettano sempre il loro tempo, “they’re indicators of their time”. Qual è il tuo rapporto con la controparte visuale della musica? C’è una relazione forte tra la mia musica e la sua controparte visuale. Sono molto attento ai visuals e alle performance visive legate alla musica. Credo che si possa comprendere anche

vedendo il DVD bonus allegato al mio ultimo cd dato alle stampe, Univrs. Raccontaci la tua esperienza avuta nell’occasione della 49a Biennale di Venezia del 2001. Hai partecipato con l’opera “Frozen Water”, sorta di studio sulle vibrazione del suono in rapporto ai liquidi. Sono stato molto felice di essere invitato a quella edizione della Biennale. Sono davvero grato a Harald Szeemann, il curatore della Mostra del 2001. È stato uno dei direttori artistici più creativi e conservo profondo rispetto ed ammirazione per la sua personalità cos’ inventiva. Mi diede questa meravigliosa chiave di ingresso nel panorama artistico della Biennale. A posteriori, essendo passati dieci anni, posso dire che Szeeman ha davvero creduto nel mio lavoro


ed io gli sono estremamente grato per questo. L’opera in sé esplora la propagazione delle onde sonore attraverso l’acqua o altre superfici liquide, come altri miei lavori, quali ad esempio Milch, Wellenwanne, oppure Atem. Crediamo che tu sia l’artista in ambito elettronico che più di ogni altro rappresenta la contemporaneità. Eppure la tua è una ricerca continua di nuovi mezzi d’espressione. E’ una contraddizione in termini secondo te?

Nella tua oramai quindicennale carriera, hai esplorato molti ambiti della musica, in quali ti senti più a tuo agio? Sento come davvero mia la musica prodotta attraverso i computer. Utilizzo qualche volta frammenti sonori di strumenti veri: il pianoforte o la chitarra, anche se sono terrorizzato dall’idea di suonarli. Attendo però il momento in cui la tecnologia possa affiancarsi a pieno titolo agli strumenti tradizionali, esercitando la

stessa attrattiva e manifestando identica bellezza. Se dovessi consigliare l’acquisto di qualche tuo album, quali consiglieresti? Sicuramente Transform, poi il mio primo disco Mikro Makro realizzato con gli Underoath; e infine Polyfoto. Guardando ai più recenti, gli album con Sakamoto. In generale credo che tutti i miei dischi possono dare ispirazione alle persone perché sono molto dinamici e cinematici. •

Sono molto lusingato di leggere questa definizione. Credo che gli artisti riflettano sempre il loro tempo, “they’re indicators of their time”. Con la nostra sperimentazione proviamo a dare una risposta alle problematiche e alle domande delle persone. Anche se le risposte non vengono poi comprese oppure non sono sufficienti, il processo di ricerca della soluzione è veramente entusiasmante e riflette sicuramente i tempi contemporanei.

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Il fascino del tempo diventa un’opera da collezione Melissa Alvarez

Quando si tratta di musica non ci sono dubbi: il disco in vinile ha un fascino del tutto indiscutibile. L’ascolto prevede un rituale affascinante: lo si estrae con cura, lo si poggia sul piatto, si solleva il braccio e lo si accompagna delicatamente fino al bordo del disco, per lasciare poi che la testina scenda leggera fino a toccare il primo solco. Il crepitio iniziale colpisce l’ascoltatore, seguito immediatamente dalle prime note. La musica diventa più avvolgente, forse per i fruscii di sottofondo, forse per le copertine da aprire e scoprire; forse perché già la piccola sequenza di gesti predispone all’ascolto; forse perché, non potendo essere agevolmente duplicato, ci dà l’impressione di avere per le mani qualcosa di unico. Un’esperienza inimitabile durante la quale ci si prende il proprio tempo per rilassarsi e ascoltare (semplicemente) musica. 22

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Al giorno d’oggi questo non succede quasi più, si è sempre di corsa tra mille impegni e la musica è quasi sempre un passatempo durante il viaggio. Ma se si potesse in qualche modo trovare una via di mezzo tra queste due esperienze? è quello che ha cercato di fare Francesco Iappolo con la collezione Re Vinyl 33, una serie di orologi da parete realizzata su temi fiabeschi, scenografici e minimalisti. L’intera lavorazione manuale, la casualità dell’etichetta discografica e le caratteristiche strutturali del disco stesso rendono ogni orologio un pezzo unico, contribuisce a dare un tocco alternativo alle case degli appassionati, riflettendo la qualità di una produzione, ancora una volta, made in Italy. Pezzi numerati che ci ricordano di godere del nostro tempo, di fermarci dalle corse quotidiane e apprezzare le piccole gioie quotidiane. •



Adriano Olivetti Il pioniere italiano modello di Steve Jobs Luca Dello Iacovo Steve Jobs deve tutto all’Italia, sono stati i nostri designer e il nostro amore per l’estetica a fare di un abile imprenditore il genio della Apple. È l’affascinante tesi di Art Molella, presidente del Lemson Center for Study of Invention and Innovation al Museo nazionale della storia americana di Washington, che al fondatore della Apple ha dedicato l’articolo «L’anima italiana di Steve Jobs». Tutto è iniziato nel 1981. «Come riporta Walter Isaacson nella sua biografia - spiega Molella - la presenza di Jobs alla International Design Conference di Aspen fu per la sua carriera un momento cruciale. La conferenza era dedicata quell’anno alla devozione totale per il design italiano, e per Jobs fu l’occasione di incontrare, tra le altre celebrità italiane, il designer Mario Bellini, il regista Bernardo Bertolucci, Sergio Pininfarina, Susanna Agnelli». «Ero andato a venerare i designer italiani, proprio come il bambino che è in Breaking Away venera i motociclisti italiani» dirà

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È dagli italiani che lui apprese i principi del design funzionale, che definì quello stile che sta alla base del suo spettacolare successo

Jobs a propositivo di quell’incontro, aggiungendo: «È stata una fonte di ispirazione incredibile». Allo stesso incontro dell’Aspen Institute, Jobs ha anche imparato ad amare il design della scuola Bauhaus. «Ma è dagli italiani che lui apprese i principi del design funzionale, che definì quello stile che sta alla base del suo spettacolare successo - prosegue Molella -­. Non deve quindi sorprendere che quando tornò alla Apple, nel 1997, cercò personaggi come Giorgetto Giugiaro o Ettore Sottsass, famoso per il suo lavoro alla Olivetti. Considerato il suo amore per il design italiano, Jobs fu certamente ispirato dallo “stile Olivetti” nello sviluppo di tutti i suoi prodotti di successo: dal Mac, all’iPhone, all’iPad». La Olivetti Programma 101 è stata spesso definita il primo portatile della storia. Grande come una scatola di scarpe, era più o meno capace delle stesse cose dei grandi computer. L’azienda ne vendette migliaia, ma l’Olivetti andò in crisi e i tagli si concentrarono in quel settore. Come noto,pochi anni dopo, a raccogliere quei cocci ci pensarono la Microsoft e la Apple, questa volta con un’enorme fortuna. «Olivetti e Jobs furono anime gemelle. Entrambi lasciarono la loro impronta in quell’ambito che riunisce arte, design e tecnologia. Chiunque abbia mai posseduto una macchina per scrivere Lettera22 sa perché è custodita al Museo di Arte Moderna. Non solo funziona perfetta-

mente, è anche meravigliosa da vedere», continua Molella. «Modernista entusiasta, Adriano Olivetti considerava determinante l’atmosfera aziendale, dandogli la stessa importanza dei prodotti realizzati. A capo degli architetti più celebri di quegli anni, Adriano costruì industrie modello, negozi, scuole e case per i suoi dipendenti, come anche una città modello: il suo lavoro era per lui arte». Jobs fece suo anche questo aspetto. «Dopo il suo viaggio in Italia, nel 1985, Jobs insiste per ricoprire i pavimenti e l’intera superficie esterna dei suoi Apple stores con la stessa pietra grigio-­blu che aveva visto nei marciapiedi di Firenze. Volle -senza badare all’esorbitante costo - la stessa pietra dalla stessa cava, Il Casone di Pietraserena, impegnando gli artigiani fiorentini per tagliare i blocchi

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in lastre». Queste poi partiranno per l’America - con un viaggio di 11 giorni da Livorno - e per altri negozi Apple nel mondo. Ispirati dalla loro comune passione per la bellezza nella tecnologia, «sia Olivetti che Jobs collezionavano geni del design per le loro aziende. La figura di Jony Ive alla Apple è la controparte di Marcello Nizzoli per l’Olivetti». Jobs ammirava quest’azienda e conosceva le sue menti più importanti. Come

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ha ricordato Elserino Piol, ex dirigente di Olivetti, Steve Jobs andò a far visita alla Olivetti di Ivrea nei primi anni ‘90. «Era molto affascinato dall’attenzione che noi italiani davamo al design e all’immagine ha raccontato Piol -­. Ricordo che ci rimase male quando gli dicemmo che l’architetto Pellini, che all’epoca disegnava i nostri modelli, si trovava a Milano: insistette per andare nel capoluogo lombardo e incontrarlo». Jobs

tenterà anche di avere Mario Bellini tra i suoi. L’inventore della Programma 101, il già citato primo desktop del mondo, fu contattato personalmente da Steve Jobs, allora ancora poco noto. Bellini rispose che avevo un contratto di consulenza esclusiva con Olivetti e che quindi non poteva collaborare con Apple. Il gusto e lo stile italiani divennero presto punti centrali della strategia aziendale di Jobs, garantendo il vantaggio di Apple sulla concorrenza. «Il primo esempio è l’iPod - sostiene Molella -. Jobs arrivò in ritardo a pensare di unire musica e personal computer. Hp e altri avevano già incluso lettori Cd nelle loro macchine, e il concetto di musica digitale era già avanzato, con l’avvio del mercato degli MP3. Jobs ammise di avere perso e di dover recuperare terreno in questo ambito: bene, con iTunes, iTu nes Store, e il fantastico successo del minimalismo bianco dell’iPod, un miracolo di semplicità e funzionalità, Jobs vinse nonostante il ritardo».•



W-Eye I primi occhiali in legno e alluminio Flavia Romano

Se ne sente sempre parlare, di questi piccoli imprenditori del nordest. Perché in fondo sono la strana anomalia di questo paese, il cui cuore produttivo è un ginepraio di piccoli e anarchici talenti, anziché una meccanica organica. Se ne sente parlare sostanzialmente poco: chiusi, introversi eccetera. Invece poi, come sempre, da questi ritratti ingenerosi saltano fuori 28

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personaggi fuori catalogo e fuori cliché. Uno di questi è Doriano Mattellone. Lui è un uomo colto, scrive meglio di un giornalista, gira il mondo in sacco a pelo alla ricerca di terre amene, fotografa la natura, ama il fiume che è stato il grembo della sua vita, e studia il legno, che è il suo lavoro, più per destino che non per amore del denaro. Perché la sua famiglia faceva quello e lui ne segue il percorso come dovesse proseguire un tracciato. E così da 30 anni Doriano lo piega, torce, studia, in una sottile sfida con il lavorio della materia, delle qualità, delle differenze. Un giorno capisce che può dare al legno quello che non ha, migliorarlo lì dove la natura aveva difettato e comincia a combinarlo con l’alluminio, pelle viva e anima tecnica, vecchio e nuovo, caldo e freddo, artifizio e natura. Dopo un po’ si rende conto che la sfida ha bisogno di altro, di uno scarto oltre l’esperimento, di un disegno, di un progetto compiuto. Un po’ per caso incontra Matteo Ragni, il designer, tassello mancante di un progetto, W-Eye, che è un oggetto da indossare figlio soprattutto del rapporto fra l’amore della materia e il

tratto sapiente del design. Tutti i modelli hanno un’essenza, intera, colorata o doppia, che può essere acero, frassino, ciliegio, noce, wengè, mogano, ebano, zebrano, sapelli. Al termine della loro realizzazione essi vengono marchiati con un sofisticato sistema laser che ne determina la tracciabilità e, su richiesta, procede alla personalizzazione. Un pezzo unico, per sempre. •


Achille Castiglioni: Un tributo a 10 anni dalla scomparsa Giuseppe Sartor

Achille e Piergiacomo Castiglioni. Quasi unici nella capacità di mediare tra un immaginario fantastico e le fredde esigenze del marketing, i fratelli Castiglioni già dagli anni cinquanta progettano oggetti e ambienti, con forme sempre diverse: geometriche o organiche, irreali o rigorosamente funzionali, ma sempre ottenute con una tecnica di “stravolgimento” che ricorda molto le esperienze surrealiste e dadaiste di artisti come Marcel Duchamp. Così, ad esempio, la lampadina per Leuci del 1957 ha il globo molto più grande di una normale: obbliga a ripensare l’idea stessa di lampadina e ne suggerisce l’uso libero, senza bisogno del lampadario. La lampada Tubino

del 1951, è invece un semplice tubo metallico verniciato, piegato a formare base, sostegno e supporto di un altro tubo al neon, primo esempio di applicazione da tavolo di una luce fredda. Non casualmente i Castiglioni sono considerati tra i più grandi designer della luce: la sperimentazione tecnica per loro si unisce sempre a quella formale. Uno degli esempi più famosi è la Toio, vistoso ready-made fatto di un trasformatore (a vista) come base, di un profilato d’acciaio su cui il filo è fissato con anelli da pesca e nastro adesivo e un faro d’automobile per lampada. Fin dalla prima mostra nazionale della radio e televisione del 1947 grandissima importanza ha nel loro lavoro la relazione tra oggetti e allestimenti. Achille Castiglioni definirà l’allestimento come “occasione per verificare a fondo le intenzioni progettuali, studiando da vicino le relazioni con il pubblico, la sua percettività agli spazi, ai volumi, ai colori, alle luci”. Diversi oggetti di produzione industriale derivano da queste occasioni: dalla radio Phonola con scocca in bachelite del 1938, alla lampada Splugen

per l’omonima birreria (oggi distrutta) in corso Europa a Milano, agli sgabelli mezzadro e sella per la storica mostra “nuove forme e colori nella casa d’oggi” tenutasi alla villa Erba di Como nel 1957. Arricchiti così di una grandissima esperienza nel rapporto diretto con il pubblico, profondamente impegnati a coniugare espressività e funzionalità dell’oggetto, con il loro lavoro i fratelli Castiglioni hanno “traghettato” il design italiano dalla dimensione dello stile, legato al gusto e al costume a quella del progetto stabile nel tempo. Senza rinunciare alla ricerca sulle tecnologie, i materiali e i processi produttivi essi hanno saputo dare al prodotto industriale significati completamente diversi: ironia, divertimento, ma anche invenzione ed estrema praticità. Per Castiglioni progettare significa inventare “qualcosa che non c’è, per risolvere meglio una funzione” magari già antica. •

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Mr T Bone intervista all’astro nascente dello Ska italiano Francesco Pavelo

Mr.T-Bone (Gigi De Gaspari), trombonista del gruppo the Blue Beaters e autore di vari progetti personali, si è dimostrato indubbiamente molto disponibile e simpatico. Così, in una lunga e piacevole chiacchierata, ci si addentra in una discussione dai vari argomenti: dai suoi progetti ai suoi gusti personali, dalla sua carriera a cosa pensa di varie questioni. Iniziamo...oltre alla tournee con i Blue Beaters, attualmente hai altri progetti in corso? Per quanto riguarda i miei 30

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progetti personali, sto portando in giro per tutta Europa il mio ultimo disco “Mr.T-Bone Sees America”. Abbiamo già fatto un tour di diciassette date a gennaio praticamente in tutto il continente e del relativo buon successo siamo rimasti contenti. Il disco è distribuito già in quasi tutti i paesi europei grazie all’etichetta spagnola “Brixton Records” indubbiamente molto valida. Inoltre è distribuito negli Stati Uniti dalla “Megalyte Records” che non è altro che la ex “Moon Ska” l’etichetta dei Toasters. Prossimamente ci sarà anche un tour negli U.S.A probabilmente con una backing band.

Non spreco nomi ma potrebbe essere con un paio di band americane interessanti. Ho letto che hai collaborato con Larry McDonalds (percussionista dalle infinite collaborazioni) e David Hillyard (sassofonista degli Slackers). Che tipo di persone sono? Lavorare con Larry è stato fantastico. Basti pensare con quanta e quale gente ha collaborato, artisti come Bob Marley o gli Skatalites. Per quanto riguarda David, è un personaggio molto particolare. Sicuramente è un musicista molto valido, anche a


me piace moltissimo tant’è che da suo fan ho voluto che suonasse nel mio disco. Come persona ripeto, è molto particolare. Non so come spiegarlo: è un po’ ombroso, un po’ come lo si vede sul palco. Però è molto buono. Alla fine non lo conosco così bene da giudicarlo ma dovrebbe essere molto timido, una di quelle persone un po’ chiuse.

come nel caso dei Blue Beaters, a valorizzare le cose che ci tengono uniti ovvero l’amore per la musica, nel nostro caso l’amore per la musica ska-reggae e le loro buone vibrazioni, le cose vanno bene. La cosa migliore è valorizzare i punti più forti e mettere da parte le divergenze.

Quando si diventa un artista così grande come ci si trova a suonare con persone che sono del tuo stesso rango? Al di là del fatto che magari ci si trova benissimo a suonare, c’è anche uno scontro di personalità diverse.

Dopo tanti anni come vivi il tuo rapporto con il lavoro? Ormai è un lavoro.

Avevo dodici anni e mi dissero: “Tu, vuoi suonare il trombone?” “Boh, proviamo.” È molto difficile, sicuramente. O meglio, potrebbe esserlo. Non a caso le band si sciolgono o qualcuno se ne va. Può succedere che ci siano delle divergenze, gusti diversi, mille motivi anche se di solito si scatta per i motivi più stupidi. Però se si riesce,

Assolutamente. Ormai è un lavoro a tutti gli effetti. Anche se io personalmente non lo vivo come un lavoro, è la mia vita. Ho la fortuna, come altra gente, di fare questo come lavoro. Bisogna dire che comunque c’è tanto impegno dietro a quello che vedi. Tanti anni passati a suonare ovunque, tante ore passate a casa a imparare, tante ore passate in sale studio a provare, a registrare e persino tantissime ore di viaggio. Veramente un grosso lavoro. È facile vederci sul palco e dire “bella vita!”. Magari prima del concerto ci si è assorbiti sette ore di viaggio e un’ora di sonno. Immagino le difficoltà nel prendere, spostare, suonare, vedere pressoché le stesse cose in posti diversi. Il fatto di alzarsi la mattina e non andare in ufficio di fare questa vita diversa, che magari per due mesetti è bella. Ma poi alla lunga..? Ci sono dei pro e dei contro

anche in questo. Come dicevi giustamente tu, ci sono dei momenti in cui vorrei avere un lavoro più regolare, stare più spesso a casa, vedere più spesso gli amici, vedere più spesso la mia fidanzata. Nel caso del mio lavoro è più difficile. Ieri sera eravamo a Rimini, l’altro ieri a Firenze, tra due giorni siamo a Roma. Insomma, sei sempre in giro. Però chi fa questo per mestiere lo fa con passione. Essendo un lavoro alla fine c’è un rendiconto, ma è fondamentale la passione a portarti avanti. Anche perché ci sono tantissimi problemi, mancano soprattutto le relazioni sociali. “Mr.T-Bone Sees America” è stato prodotto a New York. Com’è lavorare “lassù”? Lavorare a New York è molto bello. Io ho avuto una prima esperienza con la New York Ska Jazz Ensemble nel 2002. Ho fatto con loro una tournee estiva dopodiché sono andato a New York a registrare il disco “Minor

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Moods”. È stata un’esperienza fenomenale per me. Quando all’inizio della carriera ho fatto il mio primo gruppo nel 1999 avevo proprio come gruppo di riferimento la Ska Jazz Ensemble. Quindi suonare con loro, andare nella loro “città” e registrare con loro è stato veramente un sogno che tutt’ora mi emoziona. Quindi ho voluto mettere insieme le due cose: ovvero la mia realtà italiana e l’esperienza americana. Arrivare là e mischiare le due cose è stato molto bello. Per noi e per loro stessi. Poi il disco è stato prodotto da Victor Ruggiero degli Slackers, persona stupenda oltre, che secondo me, un genio assoluto dal punto di vista musicale e creativo. Più precisamente, cosa intendi per prodotto? In questo caso, prodotto significa che Victor ha seguito dall’inizio alla fine la registrazione del disco. Io ho scritto i pezzi e li ho arrangiati. Lui mi ha dato una mano a dare un suono a queste cose. Ho sempre amato quello che lui fa con gli Slackers, quel tipo di sonorità che tira fuori dal suo gruppo. Non a caso sono andato a registrare nello studio dove lui registra sempre. Prodotto significa proprio questo, lui gli dà la sua impronta.

Nel caso dei Blue Beaters: fate una musica che parte indipendente, poi in qualche modo si trasforma ma cerca di aggrapparsi ancora all’indipendenza. Sai qual è la grande differenza tra una major e un’indipendente? La prima ha molti agganci, molte più possibilità. La major prende un gruppo e investe centinaia di migliaia di euro e questo permette di avere molto

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spazio e molta visibilità da un punto di vista televisivo piuttosto che interviste, passaggi dei pezzi in radio. Hai questo tipo di visibilità. Dai, chiamalo successo. Alla fine l’artista è un’esibizionista. Sì, potrebbe essere anche così. Io preferisco non usare la parola successo perché è usata troppo e male. A me piace il rispetto. Il rispetto della gente. Uno compra il tuo disco perché ama quello che fai non perché ha visto settanta volte il tuo video su Mtv e quindi dice: “ok, mi piace”. Anche perché dopo un po’ te lo fanno piacere. Nel mio caso, che è ancora più piccolo dei Blue Beaters, quando uno compra il mio disco dice: “ok, mi piace un sacco”. Ecco, questa è veramente una soddisfazione! Indubbiamente ti piace molto il sound americano. E di quello tedesco che ne pensi? In Germania c’è sicuramente un movimento reggae/ska enorme. Basti dire che attualmente al primo posto in classifica c’è Gentleman che ha venduto ben 150mila copie. È un artista favoloso, con una voce stupenda. Lui è fenomenale! C’è quindi una forte scena reggae. Poi i Seeed, anche loro tedeschi e bravissimi. Ci sono gruppi minori, intendo meno famosi, come i Court Jester’s Crew piuttosto che Dr.Ring Ding, personaggio storico degli anni passati e molti altri ancora. E come trombonista com’è il “dottore”? E’ valido. Diciamo è uno dei capi di queste cose. Per un certo periodo ha smesso perché era stanco ma ha fatto cose molto importanti per la scena ska e reggae.


Ma l’Italia ha un suo sound? No, secondo me l’Italia non ha un suo sound vero e proprio. Alla fine, come me, tutti si rifanno ad altri sound, quello jamaicano piuttosto che americano, quel misto di soul, reggae e vari. Anche se indubbiamente ci sono diversi gruppi validi anche in Italia. E qualcuno al di fuori del “tuo” genere? Per cambiare completamente ti dico che qualche mese fa ho sentito Robi Neubanks che è un trombonista americano di Brooklin. È un trombonista jazz sperimentale e fa delle cose veramente mozzafiato. Non lo dico per dire ma sono uscito con le lacrime agli occhi dal teatro. Non mi ha toccato il cuore, mi ha trafitto! L’ho visto tante volte ed è fenomenale.

Come ti sei innamorato del rocksteady? Credo come tutti o quasi in Italia, grazie ai Casino Royale. Fine anni ‘80 diventai un loro fan, così mi innamorai dello ska. Poi si sono

spostati su altri generi. Tant’è che loro stessi fanno fatica ad identificare il loro sound, e questo secondo me, è un grande pregio. Mi ricordo che ad un concerto il dj mise un pezzo ed io rimasi folgorato, quella canzone era di Dr.Ring Ding. Da lì mi sono appassionato ed ho incominciato ad ascoltare Skatalites e tutto è venuto di conseguenza. E come mai suoni il trombone? Vengo da una famiglia dove si è sempre suonato e cantato, dove c’è sempre stato un ambiente musicale vivo. Mio fratello andava nella banda del paese e allora andai anch’io. Avevo dodici anni e mi dissero: “Tu, vuoi suonare il trombone?” “Boh, proviamo...”. Da lì mi sono innamorato dello strumento ed ho incominciato a suonare in centinaia di gruppi e continuo tutt’ora.

Mi innamorai del Rocksteady alla fine degli anni ‘80 grazie ai Casino Royale

Nel tuo ultimo album, canti di più e suoni di meno. Come mai questa scelta? Quel disco rappresenta

quel momento e quindi in quel momento mi sono usciti più pezzi cantati che suonati. Mi sono divertito di più a scrivere che a cantare. Dal vivo canto molto di più di quanto cantassi prima. Anche se continuiamo con la band a suonare diversi pezzi strumentali. Diciamo che è stata un’evoluzione. Il mio gruppo è iniziato come “solo strumentale”, dopodiché abbiamo cominciato a cantare sempre di più qualche pezzo. Io ho imparato di più ad esprimermi cantando. Non che mi piaccia di più cantare che suonare, sono due cose diversissime anche dal punto di vista dello spettacolo. Se canti di più c’è più gente attenta, mentre se sono solo pezzi strumentali la gente tende più a distrarsi.

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Alla fine questa musica, ska e rocksteady, è musica da intrattenimento. La gente viene per divertirsi, per ballare, per non stare lì a pensare “però senti che arrangiamento raffinato e che assolo”. Anche se poi lo fai e c’è anche chi lo apprezza. Però secondo me è più bello che sia una festa. Questo non è per sminuire il pubblico anzi, questa è una musica da festa quindi è bello cantare con la gente che si diverte. Poi con le parole riesci a trasmettere meglio il tuo messaggio, insomma quello che tu pensi o il tuo mondo. Con il testo arrivi immediatamente alla persona, con la musica un po’ di meno.

Chi fa questo mestiere, lo fa con passione. È pur sempre un lavoro, alla fine c’è un rendiconto. Ma è la passione a portarti avanti

Aprivi con la tua Liberation Jamaica Orchestra le date della New York Ska Jazz Ensemble e poi suonavi con loro. Come facevi a resistere così tanto tempo a suonare? È questione di allenamento. Ho fatto adesso con la mia band diciassette concerti consecutivi tutte le sere in tutta Europa e non è stato semplice però tieni conto che: sul palco suoni un’ora e mezza, due a casa e magari ne suoni cinque al giorno. Suonare sul palco è la parte più facile. È la parte più divertente. Sì, perché poi a casa studi, devi fare le cose un po’ più complicate. Come vivi il rapporto con la stampa minore? Mi piace moltissimo e la ritengo molto importante. Soprattutto il fatto che gli appassionati hanno possibilità di avere delle notizie più precise. Per quanto riguarda la differenza con le grandi agenzie stampa, la realtà è che con loro devo stare attento a quello che dico, devo misurare le parole, con voi sono più libero. •

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GENOVA

Festival della Scienza L’immaginazione al potere

“L’immaginazione è più importante della conoscenza. La conoscenza è limitata, mentre l’immaginazione abbraccia il mondo, stimolando il progresso e facendo nascere l’evoluzione”. Parola di Albert Einstein, fisico, premio Nobel. Si ispira a questa massima il festival della Scienza di Genova che si terrà dal 25 ottobre al 4 novembre. Immaginazione come antidoto alla banalità, coraggio di intraprendere nuove sfide, differenza, personalità, libertà. Ospite di questa edizione sarà l’Unione Europea, appena insignita del Premio Nobel per la Pace 2012, che a Genova darà vita a una vera e propria unione della scienza attraverso il Progetto Piazza Europa, un’insieme di eventi spazi dedicati a realtà imprenditoriali locali, nazionali e internazionali le cui attività siano connesse alla ricerca.

MILANO

On Space Time Foam

Tomás Saraceno

Ricerca scientifica e arte contemporanea convivono in One Space Time Foam, la sorprendente installazione presentata da Tomás Saraceno all’HangarBicocca. Dal 25 ottobre al 3 febbraio, l’artista argentino espone una monumentale struttura architettonica che, grazie a complessi interventi di ingegneria e all’uso di materiali altamente tecnologici, prende vita e sembra respirare come un vero e proprio organismo.

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Milano Bologna Jazz Bookcity Festival La magia dei libri conquista Milano con Book City, la manifestazione diffusa in programma dal 15 al 18 novembre. Un evento dedicato al piacere della lettura, con incontri, reading, presentazioni, spettacoli e mostre in numerose location cittadine come il Castello Sforzesco e la Triennale. Tra gli ospiti, anche l’autore cileno Luis Sepúlveda, lo scrittore israeliano David Grossman e l’italiano Massimo Gramellini.

Design Weekend Dal 6 al 9 ottobre architettura, arte, musica e design si impadroniscono della città grazie a numerose iniziative. Il tema dell’edizione 2011 è Diamoci del tu. Dialoghi fra arte e design: un incontro aperto e ravvicinato tra la città, il design e l’arte. Per tutto il fine settimana,i principali musei propongono visite guidate e itinerari. A completare il tutto, eventi musicali per vivere la città.

Dal 15 al 25 novembre la città emiliana propone come di consueto un programma di alta qualità nei teatri e club della città. I concerti principali si terranno nei teatri di Bologna e Ferrara assieme a numerosi eventi off nei club di Bologna con tante band internazionali di rilievo e dove trovano un loro spazio anche giovani e promettenti talenti italiani e stranieri. L’inaugurazione è affidata al Brad Mehldau Trio sul palco del Teatro comunale di Ferrara.

Claudio Baglioni in concerto È nel segno delle dita delle mani il nuovo progetto di Claudio Baglioni, sette concerti che vedranno il musicista impegnato in una nuova e avvincente sfida, un’altro momento fondamentale della sua fantastica carriera. Gli appuntamenti si terranno a Roma, all’Auditorium Parco della Musica, dal 25 al 31 dicembre, e a Milano al Teatro Degli Arcimboldi dal 10 al 14 gennaio.

Torino film festival Il prossimo 23 novembre prende il via il Torino film festival che quest’anno «punta sulla qualità», ma non si fa mancare neanche la quantità: 223 titoli tra cui 81 anteprime italiane e in totale sono stati visionati più di 4000 film. Ad aprire la manifestazione l’esordio alla regia di Dustin Hoffman interpretato da attori del calibro di Maggie Smith, Michael Gambon e Pauline Collins, madrina della serata Claudia Gerini.

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CONTRIBUTI

Mario Privitera

Abigail Spencer

Maurizio Narciso

Melissa Alvarez

Luca Dello Iacovo

Flavia Romano

Giuseppe Sartor

Francesco Pavelo

Melissa Alvarez Chiara Ballabio Daniele Bellè Mara Cominardi Samuele Schiatti




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