IO, o NOI?

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Luigi Schiatti

IO, O NOI? L’uomo nella Bibbia


INDICE

Che titolo! ................................................................................... pag.

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IO (io)… LA GRANDEZZA DELL’UOMO “PER NOME”........................................................................... pag.

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ABRAMO L’ UOMO “NUOVO” ......................................... pag. 16 IL FIGLIO PRODIGO ........................................................... pag. 21 I TALENTI ................................................................................ pag. 30

…O NOI ? L’UOMO “COMPLETO” …O NOI?................................................................................... pag. 37 CORPO MISTICO DI CRISTO ............................................ pag. 44 VITE E TRALCI....................................................................... pag. 51

Dunque… ................................................................................... pag. 63

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Che titolo! Che cosa significa un titolo come questo: Io, o noi?. Se i due pronomi personali sono in antitesi, ossia, l’uno esclude l’altro, è troppo difficile accettare un titolo come questo; è piuttosto una provocazione. Qui si parla di uomini, non di animali, o addirittura di cose. A questo punto mi sorgono tante domande; mi chiedo: l’uomo ha valore in sé e basta? Solo per quello che è in se stesso, per le sue capacità indipendentemente da ogni rapporto con gli altri uomini, come se vivesse lui solo su un’isola? Gli altri sono addirittura un fastidio, un inciampo alla sua personale realizzazione? Quindi, ogni uomo deve impegnarsi a sviluppare se stesso infischiandosi di chi gli sta attorno? Gongolandosi di quanto afferma la Bibbia fin dalle prime pagine della Genesi: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza»? (Gen 1, 26). Senza dubbio, questo esprime la grandezza, la dignità… divina dell’uomo, di ogni uomo in sé. È vero che ogni uomo sente questa sua grandezza, voluta da Dio stesso; quindi è una consapevolezza che ci esalta e ci invita a… “goderci”, senza preoccuparci degli altri e di altro. Per di più con la convinzione di essere noi stessi gli autori, i “facitori” della nostra grandezza. Oppure, all’opposto, l’uomo, da solo e in se stesso è una nullità? E riceve ogni suo valore unicamente dal fatto che è in rapporto con gli altri e perché dipende in tutto da altri? È solo questo “rapporto” che dà valore al singolo uomo? Un tale modo di pensare sembra avvalorato ancora dal primo libro della Bibbia: «Non è bene che l’uomo sia solo: gli farò un aiuto che gli corrisponda» (Gen 2, 18). Alla base di questi due modi di intendere l’uomo stanno due antropologie opposte: Chi è, o che cosa è l’uomo? È una “monade”, è un mondo chiuso in se stesso, autosufficiente e finalizzato solo a se stesso, e basta? Questo è un individualismo assoluto: l’uomo ha valore tutto e unicamente in sé. Non c’è il pericolo che l’uomo che vive così, corra il rischio di autosoffocarsi? Nell’altro modo di pensare c’è il rischio che l’uomo in se stesso non sia proprio nulla e che il suo valore lo riceva solo dall’esterno. 3


Al limite, è il gruppo o addirittura la società che gli attribuisce un valore, anzi, ogni valore, perfino quello di essere un uomo che pensa e che decide. Così si cade nella concezione opposta alla precedente. Quindi è la comunità che… crea l’uomo! Ma questo è mortificante e aberrante! La Parola di Dio che cosa dice al riguardo? È chiaro che la risposta è fondamentale, non solo per capire che cosa è l’uomo secondo la volontà di Dio creatore. È addirittura indispensabile per capire chi sono io; chi sono agli occhi di Dio. È necessario affinché io mi conosca nella mia realtà profonda, e perché io possa vivere in modo responsabile, libero e finalizzato; altrimenti finirei per vivere come un automa, tirando a campare, dissociato in me stesso e senza avere la consapevolezza e la gioia di realizzarmi. Il presente opuscolo tenta, con molta umiltà, di avviare una riflessione, religiosa, su questo fondamentale problema. Le riflessioni sviluppano il seguente cammino: Al primo posto sta la grandezza straordinaria dell’uomo in se stesso. Il punto di partenza è ovviamente l’affermazione della Parola di Dio nel libro della Genesi, il primo libro di tutta la Bibbia: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza… E Dio creò l’uomo a sua immagine: a immagine di Dio lo creò» (Gen 1, 26-27). Su questo argomento rimando al mio opuscolo Chi sei?. In un secondo momento ricorderemo che ogni uomo ha una sua identità, una sua peculiare e inconfondibile grandezza voluta dall’amore di Dio, un amore non generico, ma personale, unico e irripetibile, riservato a quel determinato uomo e che costituisce la sua identità. Dio ci ha chiamati all’esistenza “per nome”! A ognuno affida un compito: un esempio significativo è Abramo. La Parola di Dio continua il suo insegnamento affermando che Dio non ha abbandonato l’uomo a se stesso, non gli dice: «Io ti ho creato per amore, adesso pensaci tu a realizzarti con le tue forze». No, Dio dice all’uomo che, per realizzarsi ed essere felice, deve necessariamente rimanere agganciato, anzi, inserito in Cristo, il Dio che si è fatto uomo proprio a nostro vantaggio. Ci dà un tale inequivocabile insegnamento nella parabola della vite e i tralci: «Io 4


sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15, 5). È splendida la grandezza dell’uomo; è proprio una creatura “divina”! Dio ha creato l’uomo per avere un “Tu” con cui comunicare e dialogare. Però la storia insegna che l’uomo, che è libero perché è a somiglianza di Dio, può rifiutare, o almeno pretendere di rifiutare l’amore di Dio nei suoi confronti: questo significa commettere il peccato. La conseguenza è la sofferenza per l’uomo, fino a quando liberamente ritorna a Dio, che lo ama sempre, nonostante i peccati. Ce lo insegna magistralmente la parabola del Figlio prodigo (Lc 15, 1-32). Dio ha voluto l’uomo al di sopra di tutte le creature: per amore lo ha creato come “re” di quanto esiste e ha voluto che tutto fosse finalizzato al bene dell’uomo. ha chiesto una sola condizione: che l’uomo credesse in Lui e si fidasse di Lui. In una parola, è la fede in Dio che rende l’uomo pienamente uomo; anzi, la fede mi rende uomo “nuovo”! Nell’Antico Testamento l’esempio più significativo di… “uomo nuovo”, perché si è fidato totalmente e sempre di Dio, è Abramo. Uno degli elementi della somiglianza con Dio è il dono della libertà: dono immenso e ineffabile che esalta la grandezza di ogni uomo. La libertà, però, va esercitata verso il bene, il nostro vero e supremo bene, che è Dio. Pertanto la nostra realizzazione dipende anche da noi, dal singolo uomo, dal come e da quanto ognuno esercita la sua libertà. Il Vangelo di Matteo lo insegna efficacemente con la parabola dei talenti (Mt 25, 11-30). Quanto scritto fin qui è l’insegnamento principale sull’uomo: è proprio vero quanto affermava S. Ireneo: «Vivens homo gloria Dei», che significa: La gloria di Dio è l’uomo che vive, perché vive e quanto più vive…; come Dio lo ha creato – aggiungo io! Però questo è un discorso incompleto. L’uomo è reale, è… completo se e perché è in rapporto con Dio e con gli altri uomini. Il libro della Genesi, dopo l’affermazione che l’uomo, ogni uomo, è immagine e somiglianza di Dio, non dice: è tutto qui. Allarga il suo insegnamento affermando che l’uomo è vero uomo come Dio lo ha pensato e creato, solo quando vive liberamente in comunione, quando vive “in relazione”, con Dio e con gli uomini, tenden5


zialmente con tutti gli uomini. Insomma, l’uomo è irrinunciabilmente una… comunione vivente! Se l’uomo non vive “in comunione”, è chiuso in se stesso, come in una botte, senza aria: soffoca e si autodistrugge. Ogni capacità dell’uomo è una apertura verso l’esterno. Ma verso chi? S. Paolo proclama a gran voce che l’uomo, specie se battezzato, è comunione vitale con Cristo e con tutti gli altri uomini. Con chiarezza e decisione l’Apostolo delle genti esprime la dottrina del Corpo Mistico di Cristo, specialmente nella prima lettera ai cristiani di Corinto, al capitolo 12, o più brevemente nella lettera ai Romani, al capitolo 12. Scrive S. Paolo: «Come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e, ciascuno per la sua parte, siamo membra gli uni degli altri» (Romani 12, 4-5). Anche la parabola della Vite e dei Tralci ci dà lo stesso insegnamento: i vari rami sono tutti interdipendenti perché tutti inseriti nella stessa vite. La lettura e l’approfondimento delle riflessioni di questo opuscolo aiuteranno ad assaporare la bellezza di questa verità: Non: o io, o noi; ma: io con gli altri, sempre, inevitabilmente. N.B. Per leggere con frutto queste riflessioni, è opportuno far precedere la lettura attenta dell’altro opuscolo, Chi sei?. L’attuale Io, o noi? è la continuazione, quasi il completamento, del Chi sei?.

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IO (io)…

LA GRANDEZZA DELL’UOMO

Genesi 1, 26-27 L’uomo è IMMAGINE di Dio, quindi è in rapporto necessario con Dio SOMIGLIANZA con Dio, quindi è comunione con Dio e con gli uomini



“PER NOME” Nulla e nessuno esiste per caso! Nessuno vive senza un fine grande! Anna Maria Cànopi, una squisita maestra di vita interiore, un giorno cantò questo inno di gloria a Dio, creatore di ogni cosa: «In principio Dio creò il cielo e la terra; / chiamò per nome il sole, la luna e le stelle, / e riempì la terra di animali, / di alberi, di fiori ed erbe./ Poi plasmò l’uomo e la donna / e li mise a custodia di quanto aveva creato, / avendo loro dato l’intelligenza della mente / e la sapienza del cuore, / per prendersi cura di tutte le creature. / Chiamate per nome a una a una, / esse rispondevano: / “Eccomi, eccomi”, / con immenso amore. / E questo canto dalle molte voci / dava lode e gloria al Creatore». Sì, Dio mi ha creato chiamandomi “per nome”. Mi ha creato singolarmente, non in gruppo. E solo per amore; per vivere di amore! Perché Dio è amore; è L’Amore; agisce sempre e solo per amore. È una verità inconfutabile: è vero per ogni uomo che è esistito, che esiste e che vivrà in futuro. Mi chiedo: Siamo tutti convinti di questa verità ineffabile? Scrive il card. Martini: «Dio ci chiama per dirci il nostro nome, la nostra identità in un incontro personale, irripetibile, singolarissimo, che trasforma la nostra esistenza in maniera assolutamente insperata e imprevedibile: questo è l’evangelo, la buona notizia. Un evangelo che deve riempirci di stupore, di gioia, di gratitudine perché è amore e salvezza di Dio per me». (C. M. Martini, Le confessioni di Pietro, p. 50). Addirittura, Dio ha creato «L’uomo (quindi, ogni uomo) a sua immagine e somiglianza» (Gen 1,26-27). Sono due termini che non si finisce mai di approfondire. Ci basti un accenno iniziale. IMMAGINE dice “relazione”, rapporto con una determinata realtà, proprio perché è immagine di quella realtà. Altrimenti non potrei considerarla “come immagine”. L’uomo, quindi, è in rapporto ineliminabile con Dio, anche quando l’uomo non lo pensa o non lo vuole. E la grandezza dell’uomo sta proprio nel fatto che è in rapporto reale ed esistenziale con Dio. Da qui 9


deriva la grandezza di ogni uomo, indipendentemente da tutte le diversità tra gli uomini, e anche dal suo comportamento, dal suo modo di vivere. Un’altra osservazione: Il fatto che l’uomo è necessariamente ed inevitabilmente sempre in rapporto con Dio mi dice che ogni atto dell’uomo, atto buono o cattivo, chiama in causa anche Dio: o è una manifestazione del Suo amore, oppure è un tentativo di negare il Suo amore. SOMIGLIANZA è un termine ancor più affascinante. Non si tratta di somiglianza esterna, fisica. La definirei così: È partecipazione alle modalità dell’essere. Nel nostro caso parliamo del modo di essere di Dio. Manca il respiro, a pensarci! Proprio perché l’uomo è “a somiglianza di Dio”, tende alla Verità, perché Dio è “LA” Verità (evidentemente in Lui non ci può essere l’errore, tantomeno la falsità o il dubbio). Per tale motivo, ogni uomo, che è a somiglianza di Dio, cerca e desidera, ha un forte bisogno di conoscere sempre la verità nelle varie situazioni di vita e di ogni realtà esistente. Inoltre, ogni uomo è esigenza di Libertà, perché Dio è sommamente libero in quanto in Lui non c’è affatto alcuna materia, la quale è sempre un limite. E Dio rispetta sempre la libertà di ogni uomo, come ha fatto nell’ Eden con Adamo ed Eva (Gen 3). Non basta: in modo sublime l’uomo vive a somiglianza di Dio nella misura in cui vive l’Amore, la Comunione! Dio è in Se stesso Comunione (è Trino nell’Unità), ed è l’Amore vivente: Dio è totalmente, sempre Amore! Quello che ho detto fin qui è solo un accenno per esprimere embrionalmente la grandezza divina, sì, divina dell’uomo! L’essere “a somiglianza di Dio” è il massimo della dignità di ogni uomo. Quanto più un uomo si rende conto della sua realtà a “immagine e somiglianza di Dio”, tanto più ammira la sua ineffabile dignità, e loda, ringrazia, benedice Dio perché lo ha creato UOMO! Inoltre, l’uomo sente una esigenza interiore, libera e volontaria di vivere consapevolmente il suo rapporto personale con Dio. Dice S. Teresa d’Avila: «Sono nata per te, per te io sono: dimmi che cosa vuoi da me, Signore…». «Come posso resistere lontano da te, Vita della mia vita? Chi mi consolerà in questo mare tempestoso?»… «Dammi tu, Signore, secondo la tua provvidenza, i mezzi necessari per servirti, non come piace a 10


me, ma come piace a te. Muoia ormai questo “io” e viva in me Colui che è più grande dell’“io”! Egli viva e mi dia vita, Egli regni e io sia sua schiava, la mia anima non vuole altra libertà!». Un altro Maestro di vita spirituale scrive: «Il Signore, creandoci, ci ha chiamati per nome e ci ha destinati a un progetto di vita di cui lui possiede il segreto e la forza. Dobbiamo sentirci “vegliati” da Dio, soccorsi e guidati da lui; dobbiamo interpretare le vicende della vita non come un labirinto dal quale non si riesce ad uscire, non come una trappola nella quale è fatale cadere, ma piuttosto come una strada che il Signore, giorno dopo giorno, ci stende innanzi» (A. Ballestrero, Vivi nel Dio vivo, Edizioni Paoline, p. 135). Da questa somma verità nasce il massimo rispetto dell’uomo verso se stesso e verso ogni uomo senza alcuna distinzione. L’essere chiamato “per nome” dice la mia identità; mi dice: Chi sono! Esprime l’oggettività della mia persona e anche il mio compito fondamentale, penso ai due nomi “divini”: Dio significa: Io sono; Io sono Colui che é. Gesù significa: Colui che salva, Colui che mi salva. “Dare il nome” esprime avere autorità su qualcuno o qualcosa, padronanza su qualcuno. È scritto nel libro della Genesi 2,19: «Da’ il nome agli animali», ordina Dio ad Adamo; ossia: «Uomo, sappi che tutti gli animali sono per te, per il tuo bene». “Cambiare il nome” a una persona significava (e significa tuttora) affidarle un compito, una missione specifica. Penso all’apostolo Simone che diventa Pietro, la roccia, il fondamento; penso ad Abram, che viene chiamato Abramo perché in lui saranno benedetti tutti i popoli, come dice Genesi 17,5. Penso ai Papi, che prendono un nome significativo, che esprime un compito particolare come Pontefice ed è quasi un indizio del programma del nuovo papa. “Chiamare per nome” esprime conoscenza, amicizia e magari collaborazione. Un esempio chiaro lo vediamo nel Vangelo di Luca nell’episodio di Zaccheo (Lc 19,1-10): «Zaccheo, scendi subito, oggi devo venire in casa tua…» Gesù non dice: “Tu…”, oppure “Quell’uomo…”, “Tu, capo dei pubblicani…”. Chiamandolo “per nome” Gesù vuol dire a Zaccheo: «Ti conosco: ho un progetto su di te». Il risultato lo conosciamo bene. 11


UNA PRECISAZIONE L’affermazione sacrosanta che è Dio l’autore della mia vita, ancor più della mia realtà profonda, può farmi sorgere la tentazione di pensare che io debba praticamente “subire” la mia vita, e che in fondo il mio compito sia solo quello di lasciare agire Dio in me. Io dovrei soltanto stare inerte e non intralciare l’azione di Dio. Allora mi chiedo: dov’è la mia collaborazione per la mia personale realizzazione? Non c’è alcuna mia partecipazione e responsabilità nel realizzarmi? E gli altri non possono aiutarmi? Ripeto: è una tentazione, alla quale rispondo con le parole del monaco T. Merton: «Sebbene gli uomini abbiano un destino comune, pure ogni individuo deve lavorare alla propria salvezza personale con timore e trepidazione… Il singolo è responsabile della sua vita personale e del modo come “trova se stesso”… Gli altri potranno darti un nome o un numero, ma non potranno mai dirti chi sei davvero. Si tratta di qualche cosa che tu solo puoi scoprire dal di dentro» (T. Merton, Nessun uomo è un’isola, Garzanti, p. 10). E io aggiungo: con l’aiuto di Dio. Dio continua a chiamarmi “per nome” perché vuole, ogni giorno, la mia collaborazione. È ancora Madre Cànopi che ce lo assicura: «Quante volte il Signore ci chiama “per nome” per scuoterci, per non lasciarci deviare, per dirci: “Dove sei? Dove vai?, che cosa fai?”. A ogni suo richiamo anche noi dobbiamo sempre rispondere come Mosè: “Eccomi, sono qui!” – (l’abbadessa sta sviluppando una riflessione su Mosè) –. Presentandoci a Lui pienamente disponibili a seguire le sue vie, a obbedire alla sua Parola, a vivere secondo la sua volontà» (A. M. Cànopi, Eccomi, p. 46). È vero: ogni uomo è personalmente responsabile di se stesso e della propria crescita; il papa San Paolo VI scrive nell’enciclica Populorum progressio: «Nel disegno di Dio, ogni uomo è chiamato a uno sviluppo, perché ogni vita è vocazione. Fin dalla nascita è dato a tutti in germe un insieme di attitudini e di qualità da far fruttificare: il loro pieno svolgimento, frutto a un tempo dell’educazione ricevuta dall’ambiente e dello sforzo personale, permetterà a ciascuno di orientarsi verso il destino propostogli dal suo Creatore. Dotato di intelligenza e di libertà, egli è responsabile della sua crescita». Sì, ogni uomo è responsabile della sua crescita, come se “quasi” tutto dipendesse “solo” da lui. Ho detto “quasi”, perché la parola di Dio ci dice tante volte che l’autore di noi stessi è Dio, o meglio, è Gesù Cristo. Infatti è indispensabile fare continuo riferimento a Lui, a Gesù; addirittura, l’uomo si realizza, ed è felice, tanto più quanto più vive IN Cristo, perché Lui ci ha chiamati 12


“per nome”, e continua a chiamarci ogni giorno “per nome”. Questa non è una verità astratta: è una esperienza concretissima di vita. Quindi mi chiedo: Quanto è “vivente” Gesù nella mia vita feriale? Quanto io lo percepisco “vivo” in me? Quanto Gesù Cristo mi affascina? Martini afferma che occorre una “formidabile esperienza affettiva di incontro con Lui”. A questo riguardo ho sottomano una “calda esternazione” ancora di S. Paolo VI. Si trovava a Manila, il 29 novembre 1970, quando si espresse così nell’omelia, con un cuore davvero infuocato di amore per Gesù: «Cristo! Io sento la necessità di annunciarlo, non posso tacerlo. (…) Egli è il centro della storia e del mondo; Egli è Colui che ci conosce e che ci ama; è il compagno e l’amico della nostra vita; è l’uomo del dolore e della speranza. (…) Come noi, e più di noi, Egli è stato piccolo, piccolo, povero, umiliato, disgraziato e paziente. Per noi, ha parlato, ha compiuto miracoli, ha fondato un regno nuovo, dove i poveri sono beati, dove la pace è principio di convivenza, dove i puri di cuore e i piangenti sono esaltati e consolati, dove quelli che aspirano alla giustizia sono rivendicati, dove i peccatori possono essere perdonati, dove tutti sono fratelli. (…) Gesù Cristo! Questo è il nostro perenne annuncio, è la voce che noi facciamo risuonare per tutta la terra, e per tutta la fila dei secoli». In una lettera pastorale quand’era arcivescovo di Milano, citava un “inno” di sant’Ambrogio: «Tutto abbiamo in Cristo, tutto è Cristo per noi. Se vuoi curare le tue ferite, egli è medico; se sei ardente, egli è fontana; se sei oppresso dall’iniquità, egli è giustizia; se hai bisogno di aiuto, egli è vigore; se temi la morte, egli è vita; se desideri il cielo, egli è la via; se rifuggi dalle tenebre, egli è la luce; se cerchi cibo, egli è alimento». A commento di questo “inno” di S. Ambrogio, Montini scriveva: «Sì, tutto è Cristo per noi; ed è dovere della nostra fede religiosa riconoscere ciò, confessarlo e celebrarlo. A Lui è legato il nostro destino, a Lui la nostra salvezza». E concludeva con una ardente preghiera: «O Cristo, unico nostro Mediatore, Tu ci sei necessario (…) per imparare l’amore vero e per camminare nella gioia e nella forza della tu carità». UNA DOMANDA Se è vero che l’uomo, davvero ogni uomo, si realizza IN Cristo, mi chiedo: Come vivere quotidianamente e concretamente IN CRISTO? È semplice: mediante i sacramenti e la preghiera personale: non sia una serie di formule, ma sia apertura di cuore a Gesù. È 13


necessario anche l’ascolto frequente (Non sia solo il sentire!) della Parola di Dio (una volta si chiamava… meditazione). In modo particolarmente efficace viviamo “IN Cristo” vivendo quotidianamente l’EUCARISTIA, nella ferialità della vita, nelle piccole decisioni e nei fatti che sembrano di poco conto. Ascolta quanto scrive il card. C. M. Martini: «L’Eucaristia ci insegna la gioia e il dono del presente. Oggi è il giorno più bello della mia vita perché Gesù mi dona con totalità, senza risparmio, dando il senso ultimo a tutti gli incontri, a tutte le attività, a tutti i piccoli sacrifici, a tutte le umiliazioni, a tutte le fatiche che allora non sento più o, se le sento, sono occasioni di gioia, non di lamento… L’ Eucaristia che riceviamo ogni giorno ci assicura che fin da ora la nostra vita è santa, non è perduta, è grande davanti a Dio, è, in un certo senso, compiuta. Se non abbiamo la consapevolezza di questa stupenda e incredibile verità, sciupiamo le nostre giornate, non riconosciamo la possibilità di vivere istanti di vera gioia, di autentica pienezza». (C. M. Martini, Confessioni di Pietro, p. 91) Dunque: vivere l’Eucaristia sotto i tre aspetti: Messa, Comunione e Adorazione. Ascoltiamo ancora il card. Martini: «L’Eucaristia è molto importante; in essa l’uomo si ritrova come uditore della Parola, come colui che è “fatto” da Dio, e per il quale il Verbo incarnato si è immolato sulla croce… Come e dove, Signore, vuoi che ti serva?... La risposta l’abbiamo nell’Eucaristia, luogo in cui Gesù chiama dalla croce. Non ci chiama al di fuori della croce; egli, attraverso il pane spezzato e il calice che offre, ripete il gesto dello spogliamento della croce, ed è proprio in quanto servo povero, umile, crocifisso, che ci chiama. La nostra vocazione va ripensata, paragonata sempre con questo termine. Gesù che adoriamo, che riceviamo nella comunione, è colui che viene come il Figlio totalmente donato, per affidarci il mandato, la missione. L’Eucaristia sottolinea che la nostra vocazione storica non è l’autorealizzazione, ma l’essere come Cristo, donati, dati, spesi, dedicati…» (Idem, p. 88). LA COMUNIONE Con la Comunione eucaristica Gesù Cristo, il Dio fatto uomo per noi, è fisicamente dentro nel mio corpo: nel cuore, nella mente, nei sentimenti… La presenza di Gesù in me non è un pensiero, frutto di ragionamento, né una percezione del sentimento; non è nemmeno un frutto della mia volontà. È un fatto reale, concreto, 14


perfino fisico. Dopo aver ricevuto la Comunione, non devo dire nulla: devo stare in silenzio, cuore a cuore con il Cristo che è davvero, fisicamente in me! Qui nasce stupore, gioia, offerta di me a Lui. Tutto il resto, anche le preghiere vocali, sono inutili, perfino fastidiose. UN CHIARIMENTO Può sembrare che mi sia allontanato dall’argomento. Penso di no. L’essere creato “per nome” non è un fatto solo del passato, iniziale della mia vita: è invece una realtà di ogni giorno, perché ogni giorno, perfino ogni istante Dio mi chiama “per nome”, perché in ogni istante della vita Dio continua a crearmi e, ovviamente, mi crea sempre “per nome”, ossia nella mia identità unica e irripetibile. Grazie, Signore, perché continui ad amarmi personalmente. Chiudo con una testimonianza giovanile. Per nome (Una adolescente) Scrive una adolescente: «All’origine della mia storia personale non ci sto io: ci sta Dio. È Lui il regista, il protagonista. Per Lui io sono importante: mi ha dato un “nome”: un nome per me, unico, irripetibile. Nessun altro può averlo, all’infuori di me. Un nome-compito. Un nome-missione. lo sono un pensiero di Dio. Dio ha un sogno su di me. Io devo essere io nel senso che devo scoprire, realizzare quel progetto che Dio ha pensato per me. E sono convinta che a questa scoperta è legata la riuscita della mia vita, della mia felicità». (Prigionieri della speranza, Ancora, p. 29)

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ABRAMO L’ UOMO “NUOVO” L’uomo è veramente grande! È scritto nella Bibbia: «Davvero l’hai fatto (l’uomo) poco meno di un dio, / di gloria e di onore lo hai coronato. / Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, / tutto hai posto sotto i suoi piedi: / tutte le greggi e gli armenti/ e anche le bestie della campagna, / gli uccelli del cielo e i pesci del mare, / ogni essere che percorre le vie dei mari» (Salmo 8, 6-9). È grande perché lo ha creato Dio a Sua immagine e ancor più a Sua somiglianza. Dio ci ha creati così ad uno ad uno, individualmente, ognuno con una sua individualità irripetibile, e ci ha chiamati “per nome”; proprio così: ciascuno nella propria individualità. A me piace tanto sapere che Dio ha pensato proprio a me, ha voluto e creato proprio me, personalmente e non in gruppo. Quindi sono unico e irripetibile: non esiste un mio “sosia”! E mi ha creato solo per amore, per la mia felicità. Una tale costatazione mi esalta e mi fa… volare. Mi chiedo: l’uomo “della strada” è consapevole della sua grandezza? Vive coerentemente alla sua dignità? La Parola di Dio ci insegna che l’uomo, per essere davvero felice, è necessario che viva come Dio gli indica: è Dio che lo realizza nella verità di se stesso, talvolta anche al di là di quello che l’uomo singolo pensa. Però sappiamo, e lo costatiamo tutti personalmente, che noi uomini siamo tutti peccatori, ci comportiamo ‘lontani’ da Dio, proprio come il “figlio prodigo”, e come lui anche noi viviamo nella miseria, perché siamo usciti dalla casa del Padre. La cronaca quotidiana (quella di oggi in modo speciale) ce ne dà una tragica conferma. Però la parabola in questione non si ferma al peccato del giovane e alle sue conseguenze: nella seconda parte ci presenta il figlio prodigo “nuovo”, grazie all’amore del padre che lo rifà! Quel giovane dissoluto ora è “nuovo” perché ridiventa figlio e riprende a vivere come figlio, ma in un modo… “nuovo”, diverso da prima: ora accetta di dipendere dal papà che lo ama ostinatamente, e vive secondo “lo stile” richiesto dal papà. Ora il figlio si fida del papà e accetta le sue richieste perché ha sperimentato personalmente che gli vuole bene, che lo 16


ama in un modo diverso da prima, ancora più profondamente di prima, fino al punto di “rigenerarlo”. Ora è “liberamente costretto” a vivere come vuole il papà! È la nostra storia personale. Siamo peccatori – tutti! – ma rifatti, resi “nuovi” dall’amore di Dio mediante la morte in croce del Figlio, Gesù Cristo. S. Giovanni Paolo II scrive nell’enciclica Redemptor hominis, al n. 10: «La Redenzione, avvenuta per mezzo della croce, ha ridato definitivamente all’uomo la dignità e il senso della sua esistenza nel mondo, senso che egli aveva in misura notevole perduto a causa del peccato. E perciò la Redenzione si è compiuta nel mistero pasquale, che attraverso la croce e la morte conduce alla risurrezione». Quindi l’uomo “nuovo” è l’uomo religioso, necessariamente e sempre dipendente da Dio, e ancor più a Sua somiglianza. Anche noi, come il giovane della parabola, siamo chiamati a vivere in modo “nuovo”. A vivere in modo… cristiano, o addirittura cristocentrico! Adesso siamo chiamati a vivere di fede! Alla domanda iniziale: Come vivere “da cristiano”, rispondo con semplicità: È necessario vivere di fede, vivere fidandoci sempre del Signore, anche quando è difficile, o anche quando non riusciamo a capire il perché di certe situazioni. Il risultato sarà sempre positivo, sarà sempre la nostra realizzazione, quindi la nostra felicità. Come facciamo fatica a vivere come vuole Gesù in certe circostanze! Eppure non c’è altra via. L’esempio esemplare del “fidarsi di Dio”, dopo Maria SS., è Abramo, chiamato addirittura “nostro padre nella fede”. ABRAMO Abramo è l’esempio più luminoso dell’Antico Testamento di uomo credente. Non solo sapeva, e ne era convinto, che Dio si interessava del bene degli uomini, del popolo d’Israele, ma ha vissuto la sua fede per tutta la vita, sempre, nonostante le numerose e difficili prove. Mi limito a qualche accenno, rimandando la lettura personale di tutta la storia di Abramo nel libro della Genesi, capitoli 12-25. Abramo si sentiva, ed era visto dagli altri, come vero amico di Dio, e sperimentava che Dio stesso era suo amico. Per tutti era l’uomo giusto, davvero religioso. La prova: possedeva tante terre, tanti animali, tanti servi. Per gli ebrei, la quantità di beni era la 17


prova sicura che Dio lo amava. Quindi Abramo è contento, realizzato; vive in pace con se stesso ed è umanamente felice. Dio è motivo di sicurezza per lui, perché è dalla sua parte ed egli può contare sempre su Dio, perché non lo abbandonerà mai! A un certo punto, però, Dio interviene nella sua vita, gli fa una grande promessa che va al di là di ogni aspettativa e di ogni possibilità umana: «Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12, 2-3). Però nello stesso tempo gli dà un comando molto doloroso da attuare, un comando che mette in crisi la tranquillità di Abramo e la sua incrollabile fiducia in Dio: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò» (Gen 12,1). Abramo si fida di Dio anche questa volta nonostante lo sbalordimento interiore: lascia tutto e va in una terra lontana e sconosciuta seguendo la volontà di Dio. Anche in questo momento è sicuro che Dio vuole il suo bene, come sempre, la sua felicità, anche se ora non capisce nulla. Che cosa richiede questa promessa, o comando di Dio? Un completo distacco dalle sue sicurezze umane e dai suoi progetti, perfino accettando un dubbio assai doloroso: perché Dio adesso mi tratta così? Ha forse fatto un voltafaccia nei miei confronti? Nonostante i dubbi e le difficoltà interiori, Abramo si fida ancora di Dio e agisce come Dio gli chiede. È il primo atto di fede “doloroso” di Abramo che richiede una vera e totale libertà da se stesso. Che fatica! Continuando la lettura di Genesi 12 e seguenti, troviamo le ripetute promesse di Dio ad Abramo, ma nello stesso tempo vediamo le prove ripetute, sempre maggiori, fino alla prova “disumana”, assurda, del sacrificio dell’unico figlio, Isacco, che Dio ha donato ad Abramo e a Sara, contro ogni legge naturale. È raccontato in Genesi 22. La storia di Abramo ci insegna innanzitutto che Dio è sempre fedele alle sue promesse e che l’uomo si realizza proprio perché realizza ciò che Dio chiede a lui personalmente. Dio ha chiamato Abramo “per nome”. Ha chiamato proprio lui, Abramo, e solo lui. Per un progetto che Abramo dovrà realizzare! Si legge nel libro della Genesi che le promesse di Dio si realiz18


zano sempre, al di là di ogni previsione e oltre ogni criterio umano. Davvero fino all’impossibile. Ci insegna inoltre che ogni richiesta di Dio è sempre per il bene e la felicità dell’uomo. C’è però una condizione indispensabile: che l’uomo creda a Dio, sempre, si fidi di Dio, sempre, al di là di ogni suo modo di pensare e di reagire, totalmente libero da se stesso, dalle proprie sicurezze, dal “per me”. Un secondo insegnamento è quasi sconvolgente: l’iniziativa è sempre di Dio, ma è sempre indispensabile l’azione, la collaborazione dell’uomo, fino al punto che il risultato finale, a vantaggio dell’uomo, sembra dipendere tutto e solo dall’uomo! Questo ci dice che nella mente di Dio l’uomo è grande di una grandezza “divina”, proprio perché esiste e vive come “immagine e somiglianza di Dio!”. Il risultato è che Abramo per la sua fede e fiducia in Dio diventa un uomo “nuovo”! Diventa cioè un Abramo diverso da quello che era prima delle prove vissute; ma soprattutto diventa un Abramo davvero realizzato e felice. È proprio vero: vivere di fede ci rende uomini “nuovi”! La prova più convincente sono i numerosissimi Santi anche dei nostri tempi. Noi, uomini di oggi, diventiamo “nuovi”, sempre più “nuovi”, nella misura in cui crediamo al Dio fatto uomo per noi, Gesù Cristo! Se Dio ci ama così, come è possibile che noi talvolta scegliamo quali uomini considerare veri uomini, e quali “scartare” – secondo l’espressione di papa Francesco? Forse ti chiederai: che rapporto c’è tra Abramo e il tema che stiamo trattando? Rispondo: ogni uomo, indipendentemente dalla sua condizione personale e dalla considerazione, grande o piccola, da parte degli altri, è la creatura sublime che Dio ha creato “a Sua immagine e a Sua somiglianza”. E lo ha posto al di sopra di ogni altra creatura, vivente o non vivente. C’è di più: l’uomo collabora alla sua realizzazione mediante la fede, perché l’uomo è in sé, secondo la sua stessa natura, religioso. È il rapporto personale con Cristo che ci rende persone vere. Scrive il papa S. Paolo VI nell’enciclica Populorum progressio: «Mediante la sua inserzione nel Cristo vivificatore, l’uomo accede a una dimensione nuova, a un umanesimo trascendente, che gli conferisce la sua più grande pienezza: questa è la finalità suprema dello sviluppo personale». 19


Come conclusione sulla grandezza dell’uomo, ho scelto una riflessione del card. Martini. Scrive il grande Arcivescovo di Milano: «O Dio, nostro creatore e nostro Padre, noi ti lodiamo e ti benediciamo perché tu sei grande e perché ci comunichi la vita. “Ti ringraziamo perché ci hai fatto come un prodigio, perché ci hai tessuto nel profondo. Sei tu che hai creato le nostre viscere e ci hai tessuto nel seno materno. Stupende sono le tue opere e tu ci conosci fino in fondo”. Il più spontaneo atteggiamento dell’uomo, di fronte alla sua vita, è di stupore e meraviglia. E il nostro canto di lode, le cui radici e motivazioni profonde sono ben espresse nella preghiera del salmo 138, è un canto alla misteriosa azione di Dio che sta “intessendo” e “impastando” la creatura umana nel grembo della madre. Dio conosce l’uomo fin dalle sue origini più arcane, egli conosce il feto che nessun occhio può discernere perché egli fin dall’origine il Signore dei reni dell’uomo, delle sue viscere, cioè di quanto vi è di più segreto in lui. L’uomo, quindi, appartiene a Dio fin dal grembo materno e in questo risiede il fondamento ultimo della sua grandezza e della grandezza della sua vita. L’occhio del Signore non percepisce soltanto un essere invisibile a ogni sguardo umano, ma intravede, al di là che è ancora informe, l’adulto di domani i cui giorni sono già scritti nel suo libro. In tale prospettiva, l’uomo è il prodigio, il miracolo più alto di Dio, è una delle azioni gloriose e rivelatrici di Dio stesso. L’embrione umano è già un segno dell’amore creativo di Dio, una manifestazione della sua fantasia creatrice, del suo splendore, è la prefigurazione di un progetto, è l’introduzione a una delle pagine del libro della vita, è l’avvio di una vocazione. Davvero grande è il mistero dell’uomo creato da Dio» (C. M. Martini, Dizionario spirituale, Piemme, p. 192). È davvero esaltante sapere che Dio mi ha pensato, amato, creato “per nome”: un nome solo mio, che nessuno può condividere con me. Grazie, Signore, per la mia unicità! Abramo è un uomo “nuovo” perché ha accettato e realizzato pienamente il progetto di Dio su di lui.

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IL FIGLIO PRODIGO Creati “per nome”, individualmente, come persona che ha valore in sé, così com’è, con le sue qualità e anche con i suoi limiti e difetti. Dio ama ciascun uomo, sempre, con dolcezza e misericordia. Un esempio luminoso di ciò ce lo offre la parabola del “figlio prodigo”. Leggi la riflessione seguente con attenzione. L’uomo è una meraviglia vivente, perché è voluto e creato da Dio a Sua immagine e somiglianza, e per amore! A mio parere, è la somiglianza con Dio l’aspetto più importante, perché dice una partecipazione al modo di essere di Dio. Un elemento fondamentale della somiglianza con Dio è la LIBERTÀ perché in Dio non c’è materia, quindi non c’è limite. Ogni uomo quindi è libero: Dio l’ha voluto e creato così. Per questo motivo l’uomo è chiamato a collaborare, anzi, è anche lui artefice della sua grandezza. Però, l’essere libero implica la possibilità di agire in modo diverso dalla volontà di Dio, o addirittura contro la Sua volontà. In questo consiste il peccato. Ce lo insegna con chiarezza solare il capitolo 3 della Genesi: il peccato di Adamo ed Eva. Per fortuna Dio è fedele a se stesso, lo è per natura! Dio è sempre Amore, e, nonostante i peccati degli uomini, ama sempre e inevitabilmente ogni uomo e lo vuole riportare nella pienezza della dignità iniziale: essere ad ogni costo ‘immagine e somiglianza di Dio’! È quanto ci insegna la parabola del “Figlio prodigo”, o come affermano alcuni teologi, la parabola del “Padre misericordioso”. Leggiamo con il cuore la parabola dell’evangelista Luca. Poi rifletteremo su alcuni punti. In primo luogo su un aspetto particolare del peccato e del male in genere. In secondo luogo prenderemo in considerazione il cammino di conversione del giovane. Quindi faremo un richiamo sui tre personaggi: il padre e i due figli. Da ultimo puntualizzeremo alcuni elementi particolari della parabola. 21


«Disse ancora: “Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: ‘Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta’. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: ‘Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati’”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disubbidito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”» (Lc 15,11-32). È MALE? Che male ha compiuto il “figlio prodigo”? Stando alla parabola, ha chiesto solo quello che gli spettava di diritto: la sua parte di eredità. Questo non è una colpa, tanto meno un peccato. Eppure, noi istintivamente consideriamo questo giovane un vero peccato22


re. Il male che ha commesso riguarda solo il cattivo uso che ha fatto dei soldi avuti in eredità: lo sperpero del denaro nei vari divertimenti non sempre leciti. Mi chiedo: il male compiuto dal giovane dissoluto è addirittura un peccato, ossia un atto responsabile contro la legge divina? Oppure è semplicemente un atto “umano”, ossia un atto che non riguarda la legge di Dio? Perché lo consideriamo male dal momento che ha esercitato un suo diritto? È forse un male l’essere uscito dalla casa paterna? Oppure l’aver rifiutato di fatto la figliolanza, l’essersi comportato non più come “figlio”? Come e con chi ha sperperato l’eredità? Quante domande ci pone fin dall’inizio questa parabola. Aggiungo un’ultima domanda: il male commesso dal giovane ha semplicemente conseguenze personali, oppure riguarda anche la sua comunità, la sua famiglia, in particolare il suo rapporto col padre? Più precisamente: quando commetto un peccato, è solo un fatto mio, che riguarda solo me, oppure ha riflessi anche sugli altri? Di solito pensiamo che sia un fatto solo personale, che riguarda soltanto la mia coscienza e la mia vita. Addirittura talvolta penso che sia peccato unicamente perché io lo ritengo tale: il peccato è solo un fatto “mio” e basta: gli altri non c’entrano! In ultima analisi: il peccato è soltanto qualcosa di “soggettivo”? Invece la parabola in esame ci insegna che il male compiuto dal figlio minore ha una sua “oggettività”, è un fatto che produce effetti indipendentemente dalla mia volontà, dalla responsabilità mia e dalla mia consapevolezza. La parabola aggiunge che anche sui famigliari, in particolare sul padre, fu causa di dolore e di divisione tra i fratelli. La parabola è chiara: il male del giovane è consistito (anche se ha agito secondo la legge, cioè secondo il diritto all’eredità) nell’essere uscito dalla casa paterna (questo è un fatto oggettivo), dove usufruiva di molti beni. Là infatti era “figlio”, non un semplice servitore. È vero: è uscito dalla casa paterna senza commettere una colpa morale, un peccato. Però, così facendo, si è sganciato fisicamente dalla casa paterna, dai suoi beni, dal suo benessere, perché là era “figlio”. La felicità, il benessere del giovane dipendeva dall’essere, come figlio(!), proprio nella casa del padre. L’uscita dalla casa è un fatto fisico, oggettivo. Tutto quello che il giovane farà e tutti i grossi guai che incontrerà e che commetterà, saranno conseguenza del fatto reale di non essere più nella casa di 23


suo padre, nel non godere più dei privilegi della figliolanza. Così tutto diventa “male” e causa di sofferenza per quel giovane. Conseguenza ultima: la sua estrema povertà lo avrebbe portato fino alla morte, se fosse rimasto per sempre fuori dalla casa del padre, e, conseguentemente, avesse continuato a vivere male. Questo sarebbe accaduto anche se non lo avesse né pensato, né voluto. Ripeto: il male (anche il peccato!) ha una sua oggettività: non è solo un atto interiore (di coscienza) di chi lo compie e non produce conseguenze solo a chi lo compie. Questo vale indipendentemente dalla colpa morale, cioè dall’aver compiuto un peccato. Concludendo: il bene, la felicità per il figlio minore (il “prodigo”) consisteva nel vivere, come figlio, nella casa paterna. Il male per lui è consistito nell’essere uscito dalla casa paterna. Il peccato è consistito nel cattivo uso del denaro, ma ancor più nell’uso sbagliato della libertà personale, nell’avere responsabilmente rinunciato a vivere “da figlio”. Quale insegnamento ci dà la parabola? Oggi va riscoperta la oggettività del male (e del peccato), contro la mania di leggere tutto psicologicamente e solo soggettivamente. Questo, ovviamente, non esclude la soggettività, ossia la responsabile decisione del singolo di compiere quell’azione. Bene e male non li inventiamo, non li decidiamo noi: ossia, non esistono… perché li decidiamo noi! Felicità e infelicità hanno un fondamento reale esterno a noi: non può essere vera felicità mia quello che non corrisponde al mio bene reale, vero! La spiegazione è chiara, eppure il problema della libertà rimane: Come mai l’uomo, che è creato da Dio ed è “a Sua somiglianza”, talvolta non vuole vivere come Dio desidera? O forse non capisce che la sua felicità sta nell’accettare e vivere secondo la volontà di Dio? È proprio un mistero! Eppure l’esperienza ci dice che l’uomo, grandissimo in dignità, è vero peccatore. CAMMINO DI CONVERSIONE La parabola ci suggerisce un secondo spunto di riflessione: il cammino di conversione del figlio “prodigo”. Partiamo dalla situazione iniziale: il giovane vive nella casa paterna. Là trova tutto quello che gli dà la felicità: abbondanza di beni, di “cose” per i suoi desideri; è rispettato dai servi perché è 24


figlio del “padrone”. Quindi la casa paterna è realmente la situazione, quasi la causa della sua felicità. Non gli manca proprio nulla: è sufficiente che esprima un desiderio perché il papà e la servitù lo accontentino. Vive in una situazione ottimale per essere felice, almeno materialmente. Però gli manca la libertà. Così pensa quel giovane. E per questo motivo si sente infelice. È lui che pensa di non essere libero: si sente portatore di diritti suoi, personalissimi, non soddisfatti (pensa alle esigenze dell’“io” che ognuno di noi sperimenta dentro di sé!). Si sente troppo stretto nella casa del padre, mentre si sente desideroso di godere, subito, tante cose! Necessariamente decide (il desiderio è l’atto che qualifica una persona!) di allontanarsi da casa, ma con il denaro, in cerca della “sua” libertà e del possesso e dell’uso delle “cose” in cerca della felicità, quella sperimentabile e secondo i suoi desideri o istinti. Quindi, va, da solo, lontano, senza una meta (il non avere una meta prefissata è più affascinante: è avventura!): al giovane interessa soltanto allontanarsi dalla casa, sentita come chiusura, quasi la negazione della sua libertà. E trova un momento di felicità, grazie alle “cose”, ai soldi diventati proprio… suoi, e che può usare liberamente, solo secondo un suo criterio istintivo, epidermico. Quanto è affascinante la possibilità concreta di “usare” i propri soldi senza dover renderne conto a nessuno! Assapora il piacere di poter spendere senza alcuna preoccupazione né previsione per il futuro. Dice l’evangelista Luca: «… sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto» (v. 13). Due osservazioni al riguardo: “sperperare” e “in modo dissoluto”. Innanzitutto il verbo “sperperare”: il latino dice: “dissipavit”, che significa l’opposto di accumulare, di custodire, significa quindi spendere senza una regola. L’altro è “da dissoluto”: anche qui il latino aiuta; dice: luxuriose, ossia: senza misura, senza temperanza. Il v. 15 afferma: «abiit et adhaesit uni civium regionis illius». Il verbo “adhaesit” è molto forte, significa: attaccarsi, appiccicarsi come una ventosa. Nel nostro caso dice che il giovane, oramai senza soldi, tenta di… appiccicarsi a uno del posto che possedeva tanti porci, sperando di approfittarne un pochino, di ottenere almeno alcune ghiande che servivano come cibo per i maiali. Più in generale ci dice che l’uomo, in grave difficoltà, tenta di salvarsi secondo una visione “carnale”, secondo criteri perfino mate25


riali. Ma nemmeno questo padrone lo aiuta. Finalmente, data la situazione di estrema necessità perfino dell’indispensabile, prende coscienza di essere nell’infelicità: si accorge che le “cose” finiscono, quindi non danno una felicità duratura. e nello stesso tempo emerge nel suo cuore la consapevolezza della dignità perduta. l’essere figlio di un padre e di un tal padre. Si legge nell’enciclica Dives in misericordia di San Giovanni Paolo II: «È allora che egli prende la decisione: “Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: ‘Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te; non sono degno di essere chiamato tuo figlio’” (v. 18). Ora si rende conto che la sua infelicità e povertà estrema è la conseguenza inevitabile dell’essere uscito dalla casa paterna. Pertanto decide di ritornare nel luogo, nella situazione del suo bene, della sua autentica felicità. E là ritrova non un padrone, ma il papà, sempre in attesa di riaccoglierlo come figlio, e di riabbracciarlo con infinita tenerezza». Quale insegnamento ci dà l’esperienza di questo giovane! Ci dice che talvolta, o spesso, il dolore fisico o morale è una buona occasione per prendere coscienza che la mia, la nostra felicità, dipende dall’accettare la paternità di Dio e nel vivere di conseguenza. Ancora una volta ripeto che l’uomo è inevitabilmente “immagine e somiglianza di Dio!”. Quindi l’uomo non può realizzarsi se non in rapporto, conosciuto e voluto, con Dio. LE PERSONE IL PADRE Il personaggio centrale della parabola è senz’altro il padre. Il racconto dell’evangelista Luca ha lo scopo, unico, di mettere in risalto, anzi, di esaltare la grande figura e il comportamento del papà dei due figli. Il comportamento dei due fratelli ha in un certo senso lo scopo di far risplendere la grandezza del padre: quanto più è narrato a forti tinte l’agire dei fratelli, tanto più risplende l’amore incondizionato e indefettibile del padre: per lui conta solo la persona di ognuno dei due figli, indipendentemente dal loro comportamento: ognuno dei due è… suo figlio; tutto il resto non ha alcuna importanza. 26


Il padre è l’amore vivente! È sempre e totalmente amore vivente: quando è necessario diventa anche misericordia, perdono totale, sempre, senza la più piccola condizione! Un tale papà è la figura eccellente, ineffabile di Dio. È l’amore misericordioso e incondizionato di un tale papà che ricostruisce pienamente la dignità del figlio, senza alcun castigo: qui c’è posto solo per la gioia. Il padre non vuole neppure conoscere come è vissuto il figlio “prodigo” che è vissuto “lontano” dalla casa e dall’amore del papà. All’amore non interessano le giustificazioni; non interessano i perché e i per come: l’amore esiste, c’è, vive e basta; l’amore è solo presente, per lui non esiste il passato. E non chiede un rendiconto dei soldi che gli ha dato. A un tale papà non importa che il figlio “peccatore” ritorni in casa per godere i vantaggi, i privilegi come prima; vuole ad ogni costo rimetterlo, quasi, ricostituirlo nella dignità di figlio! È meraviglioso il comportamento del papà ed è commovente ancor più il motivo del suo totale e incondizionato perdono al figlio che ritorna. I Vangeli non potevano darci un esempio più sublime dell’amore misericordioso di Dio Padre verso ogni peccatore. Il Figlio si è incarnato ed è morto in croce proprio per rimettere ogni uomo, benché peccatore incallito, nella grandezza divina di essere solo lui, non le altre creature, “immagine e somiglianza” con Dio! Grazie, Signore! S. Elisabetta della Trinità, ammirando il comportamento di un tale papà, si innalza a contemplare l’amore di Dio Padre e scrive: «Oh! Come ti ama il buon Dio: se tu vedessi con quale tenerezza ti guarda… Devi metterti alla sua presenza con questa convinzione: Dio è mio Padre. Mi conosce. Mi vede. Mi attende. Mi ama. Qui. Ora. Sempre. Così come sono, suo figlio, come una perla preziosa, io senza il quale non può proprio vivere… Dio “ti ama oggi, come ti amava ieri e come ti amerà domani. Anche se lo hai fatto soffrire…”. Allora, “entrate all’interno della vostra anima, lo ritroverete sempre là che vuole farvi del bene”» (Conrad De Meester, La tua presenza è la mia gioia, Mimep-Docete, p. 66). La dignità del figlio, peccatore ma pentito e ritornato, è ancora più grande di prima, quando “viveva” nella casa paterna. È vero: un peccatore, perché perdonato da Dio, è ancora più bello, più prezioso, di quanto lo fosse da innocente. Grazie, Gesù, perché hai istituito il sacramento della Confessione! 27


I FIGLI Il padre della parabola è la rappresentazione dell’amore incondizionato, dell’apertura al bene degli altri, della loro felicità e della loro gioia, anche del benessere, di chi vive nella casa del padre. Certo, è necessario che i famigliari stiano volentieri in casa. Occorre insomma la libera risposta dei singoli famigliari, e che nessuno pensi solo a se stesso. I due figli invece sono la figura, sia pure per motivi diversi, di una totale chiusura su se stessi; quindi diventano causa della propria infelicità e motivo di divisione addirittura tra fratelli! L’esperienza ci insegna che il fatto si ripete in continuazione. Il figlio minore, il “prodigo”, si è chiuso in sé, ha rinunciato alla comunione familiare, perché desideroso del suo immediato e incontrollato “piacere”. Il maggiore si è ugualmente chiuso nel proprio “orgoglio”: quindi non ha voluto condividere la gioia del padre per il ritorno del fratello. Scrive San Giovanni Paolo II nel documento Reconciliatio et paenitentia (a p. 21): «L’egoismo lo rende geloso, gli indurisce il cuore, lo acceca e lo chiude agli altri e a Dio. La benignità e misericordia del padre lo irritano e indispettiscono; la felicità del fratello ritrovato ha per lui un sapore amaro. Anche sotto questo aspetto egli ha bisogno di convertirsi per riconciliarsi». Il figlio minore, date le circostanze di povertà estrema, si converte. Il documento papale citato sopra scrive: «Il figliol prodigo, nella sua ansia di conversione, di ritorno fra le braccia del padre e di perdono, raffigura coloro che avvertono nel fondo della propria coscienza la nostalgia di una riconciliazione a tutti i livelli e senza riserva, e intuiscono con intima certezza che questa è possibile soltanto se deriva da una prima e fondamentale riconciliazione, quella che porta l’uomo dalla lontananza all’amicizia con Dio, del quale riconosce l’infinita misericordia». A proposito del figlio maggiore, il documento continua: «La parabola dipinge la situazione della famiglia umana divisa dagli egoismi, mette in luce la difficoltà di assecondare il desiderio e la nostalgia di una medesima famiglia riconciliata e unita; richiama pertanto la necessità di una profonda trasformazione dei cuori nella riscoperta della misericordia del Padre e nella vittoria sull’incomprensione e l’ostilità tra fratelli». 28


N.B. Sul comportamento dei due fratelli invito a leggere due riflessioni, ampi e ‘punzecchianti’ di Don Pronzato. Non posso riportarle qui per questione di spazio. Vale la pena di rintracciarle e di leggerle a cuore aperto. Ecco l’indicazione: Alessandro Pronzato, Vangeli scomodi, Piero Gribaudi Torino, pp. 279-300. L’INSEGNAMENTO FINALE Qual è l’insegnamento fondamentale di una tale parabola? È semplice e molto chiaro: Dio Padre è sempre Amore verso ogni uomo: sì, proprio verso ogni uomo. E vuole riportare l’uomo peccatore nella sua divina grandezza, quella di: immagine e somiglianza di Dio! Com’ è bello e grande l’uomo!

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I TALENTI Ogni uomo è davvero un capolavoro originale, irripetibile nella sua bellezza, perché Dio “si diverte” a crearci l’uno diverso dall’altro; e ognuno rende gloria a Dio nella sua originalità. Occorre solo che ciascuno conosca come Dio lo ha creato, quali elementi specifici, o doni, gli ha dato. È però necessario che ognuno si impegni responsabilmente a sviluppare i doni che Dio ha dato a lui personalmente. Tutto questo ce lo insegna con chiarezza solare la parabola dei talenti, narrata dall’evangelista Matteo. È una parabola che conosciamo bene, però è opportuno rileggerla; lo facciamo nell’edizione dell’evangelista Matteo. «Avverrà infatti come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone – sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone – sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sottoterra; ecco ciò che è tuo”. Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non 30


ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre, là sarà pianto e stridor di denti”» (Mt 25,14-30). Gli studiosi della Sacra Scrittura leggono questa parabola in chiave escatologica, ossia vedono un insegnamento che riguarda gli ultimi tempi, la fine della storia, quando il Cristo glorioso ritornerà come giudice di tutti gli uomini. In questa luce la parabola insegna che il “giudizio” di Dio riguarderà l’impegno personale nel compiere la volontà di Dio. È verissimo. Però nella presente riflessione intendo sottolineare la necessità della libera partecipazione dell’uomo al piano di Dio per la sua realizzazione, quindi della sua felicità già nella vita di oggi, la vita “feriale”. In particolare la parabola ci insegna che tutto ciò che è bene, buono e bello è opera di Dio (è il padrone che dà i talenti ai vari dipendenti e ne aspetta i risultati a suo vantaggio). Però qui si sottolinea che l’uomo non è passivo, non subisce ciò che Dio gli chiede: l’uomo in prima persona deve “responsabilmente” collaborare all’opera di Dio, tanto che pare addirittura che il risultato positivo dipenda proprio, quasi totalmente, dalla volontà dell’uomo. Quanto è importante la volontà dell’uomo! Qualche sottolineatura per capire meglio il brano del vangelo. – Ai singoli servi diede un numero diverso di talenti. Perché è scelta liberissima da parte di Dio. Ci dice che Dio dà a ogni uomo delle capacità diverse per ciascuno e in numero differente. Il nostro impegno sta nello sviluppare i talenti che Dio mi ha dato, proprio quelli che Dio ha dato a me e non altri talenti che non mi riguardano. Non c’è posto per l’invidia. – “Partì”. Quasi ci vuol dire che Dio si ritira, vuole che l’uomo impegni se stesso nel proprio realizzarsi. E la felicità è anche opera del singolo uomo: nessuno deve subire l’iniziativa di Dio! 31


– Il terzo servo fece una buca e vi nascose il denaro del suo padrone. Quindi il talento non era sua proprietà: lo aveva ricevuto in consegna con il compito, anzi, con il dovere di trafficarlo; non era sufficiente conservarlo. Anche l’accidia non è cosa buona! – Ognuno dei tre riceve una ricompensa, o un castigo, in base all’impegno e all’uso che ha fatto dei talenti ricevuti. Che insegnamento! Dio non chiede a tutti lo stesso risultato, ma vuole che ognuno si impegni responsabilmente per la propria realizzazione: in questo sta la felicità dell’uomo. Anche in questo insegnamento vediamo la grandezza straordinaria di ogni uomo, quella che io chiamo “grandezza divina” dell’uomo, sia pure per volontà di Dio. Anche la santità personale è risposta attiva alle capacità ricevute da Dio. La santità è quindi collaborazione all’opera di Dio in noi. – «… prendi parte alla gioia del tuo padrone». Se le parole hanno un significato oggettivo, l’insegnamento è questo: la felicità dell’uomo sta nel condividere la gioia, quindi la vita stessa, di Dio! Non è una esagerazione: è la verità. – Il castigo del servo pauroso e pigro non è un castigo vero inflitto dal padrone, ma esprime che l’uomo, se si chiude narcisisticamente in sé, non può realizzarsi, quindi non può essere felice. L’insegnamento di fondo è questo: senza togliere nulla all’azione di Dio, ogni uomo si realizza e vive nella felicità solo a patto che impegni pienamente la sua volontà. L’uomo non è un automa, un robot: è “a somiglianza di Dio”, è “vero” uomo, quindi è pensante e libero, ossia è pienamente responsabile. Anche in questa parabola risplende la bellezza e il valore dell’uomo. N.B. Aggiungo un’osservazione qualificante. Quanto detto fin qui è senz’altro valido per ogni uomo senza la più piccola differenza tra l’uno e l’altro. Qui non entra in gioco nemmeno il praticare una religione o un’altra; non im32


porta nemmeno il credere in Dio, o no. Però è vero che colui che ha la fede ed è cristiano, vive questa meravigliosa verità in forza di un fatto oggettivo, religioso, perenne e incancellabile, il Battesimo. La fede cristiana, grazie al Battesimo, è un “plus valore” per la vita dell’uomo, qualunque e comunque sia la sua vita “feriale”. Un esempio luminoso è Abramo: la fede rende “nuovo” l’uomo!

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…O NOI ? L’UOMO “COMPLETO”

Genesi 2,18 «Non è bene che l’uomo sia solo: gli farò un aiuto corrispondente» L’uomo è un rapporto vivente, è esigenza di comunione.



…O NOI? La narrazione biblica della creazione (Gen 1 e 2), al termine di ogni giorno, conclude con: «Vide che era cosa buona». Invece, dopo aver creato l’uomo “a Sua immagine e somiglianza”, l’Autore sacro ci dice: «Vide che era cosa molto buona» (Gen 1, 31). Dio-Creatore adesso si compiace di quanto ha creato; soprattutto è soddisfatto di aver creato l’uomo, il re di tutto il creato: ogni realtà creata è a servizio dell’uomo, per la sua felicità, affinché ne possa usare e goderne… Pare di vedere un bel quadro: Dio, compiaciuto, contempla la sua opera, ammira soprattutto la bellezza dell’uomo, la creatura “perfetta” nella mente di Dio, davvero il re del creato. A questo punto sembrerebbe tutto compiuto, e compiuto bene, alla perfezione. Tutto è bello (Dio crea solo il bello e tutto quello che crea è bello in sé, perché esiste come Dio lo ha voluto!). Tutto si riferisce all’uomo ed è a lui finalizzato. Verrebbe voglia di mettere un bel punto fermo, come quello che uno scrittore pone alla fine del suo libro, quando, soddisfatto, dice a se stesso: «Bravo! Hai scritto quello che volevi scrivere e lo hai scritto bene! Sei proprio stato bravo!». Si compiace con se stesso. E gode della sua opera. Così, afferma il libro sacro, al settimo giorno Dio… riposò (Gen 2, 1-3). Certo, non vuol dire che Dio si sentiva stanco; “riposò” esprime il pieno compiacimento di Dio, che contempla la sua opera. Quindi, a questo punto tutto è concluso ed è… bello! Invece, no! Subito dopo, nel capitolo secondo, dal versetto 4 in poi, è scritto che Dio non è ancora pienamente soddisfatto: l’uomo non è ‘completo’ secondo il pensiero di Dio, quindi non può essere felice del tutto: l’uomo è… “solo”! «Non è bene che l’uomo sia solo: gli farò un aiuto corrispondente» (Gen 2, 18). L’opera creatrice di Dio riprende la sua azione per… completare la sua opera d’arte, l’uomo! Genesi 2, 18 è molto importante e va approfondito. Innanzitutto va detto che quel versetto non è in contrapposizione con Genesi 2, 7: «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente». 37


L’insegnamento biblico è chiarissimo: l’uomo è materia e spirito, uniti tra loro in modo totale e inscindibile, tanto da formare un essere solo: l’uomo. Questa è l’affermazione basilare sull’uomo, e non esclude affatto quanto dice al versetto 18. Tanto meno le due affermazioni sono in contrasto, in contrapposizione reciproca. Se così fosse (ma per fortuna non è assolutamente vero!), ci troveremmo di fronte a due antropologie che si escludono a vicenda. Nella prima affermazione ci troveremmo di fronte alla visione di un uomo totalmente chiuso in sé, come in una botte, che si crede sufficiente a se stesso. Finirebbe per autosoffocarsi. Nell’altra antropologia si finirebbe per escludere il valore del singolo uomo, per riconoscergli solo il valore che riceve da un altro, come se fosse proprio l’altro che dà valore (quasi che lo fa esistere) all’uomo stesso; fino al punto di affermare che l’uomo in sé non ha valore, o addirittura non esisterebbe affatto. E ciò è totalmente contrario alla verità contenuta già nei primi due capitoli della Genesi, specialmente nel v. 7 del capitolo 2. Veniamo alla spiegazione di Genesi 2, 18. “Non è bene…”, ossia “Non è un bene…”; qui la parola “bene” è un sostantivo e significa: «Non è una realtà secondo il disegno di Dio». “Solo” significa: senza legami esterni, senza rapporti, chiuso in se stesso, quindi con la pretesa di realizzarsi soltanto affidandosi alle sue capacità e in forza della sua iniziativa e della sua volontà. Questa osservazione ci suggerisce che secondo la volontà di Dio l’uomo è e deve essere aperto agli altri! E, ovviamente, aperto innanzitutto a Dio. “Gli farò un aiuto”. Di solito parliamo di “aiuto” per agire, per realizzare un’opera. Noi diciamo: «Ti do un aiuto» per fare qualche cosa. Qui invece la parola “aiuto” è molto più profonda, riguarda l’essere dell’uomo. Ossia: Dio stesso dà un aiuto all’uomo affinché quell’uomo esista e viva come Dio lo ha pensato. “che gli corrisponda”. Per capire questa affermazione, penso a una cerniera. Le due parti della cerniera sono uguali, ma i ganci delle due parti non devono incontrarsi l’una contro l’altra, ma inserirsi l’una nell’altra per formare una unità, cioè… una cer38


niera, appunto. Così l’uomo, il singolo uomo, sia pure uguale, in dignità, a tutti gli altri uomini, deve trovare fuori di sé un “aiuto”, un’altra persona con cui completarsi nel suo essere, nella sua stessa persona, quindi nella sua vita. Ovviamente, l’altro deve essere una persona, non un animale; deve cioè essere della stessa natura, perché solo l’uomo è materia e spirito! Con chiarezza solare il libro della Genesi continua: «Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna, e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse: “Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tolta: per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne» (Gen 2, 21-24). Proprio così: innanzitutto affinché l’uomo sia, esista (qui siamo sul piano dell’essere!), come Dio l’ha voluto, amato e creato! Che meraviglia! L’uomo è grandissimo in sé, di una grandezza divina, ma lo è nella sua completezza, perché è un rapporto vivente, sempre (!), con un’altra persona, anzi, con gli alti uomini, tendenzialmente con tutti gli altri uomini. È UN DISCORSO “LAICO” Il discorso che sto facendo è innanzitutto un discorso… LAICO, ossia, è un discorso valido indipendentemente dalla fede cristiana: vale cioè per ogni uomo di tutti i tempi, perché la Bibbia ci presenta la realtà creata da Dio così com’è: non parla solo delle persone credenti e battezzate. Da qui derivano diverse conseguenze, che sembrano ovvie, ma che è opportuno richiamare anche qui per “capire” meglio la realtà dell’uomo. Ne richiamo solo alcune. LA CONOSCENZA DI SÉ Il fatto che l’uomo “reale”, veramente esistente, è inevitabilmente in una determinata situazione, sempre un rapporto vivo e vivente, ci aiuta a conoscerci così come siamo. Scrive T. Merton, uno dei tanti convertiti divenuto poi monaco: 39


«Ciò che ogni uomo cerca nella vita è la salvezza propria e di quelli con i quali vive. Ma per salvezza intendo prima di tutto la scoperta piena e completa di quello che egli è davvero. Quindi l’esplicazione, nell’amore verso i fratelli e verso Dio, di quelle facoltà che gli sono state date da Lui. E poi anche la scoperta di quello che non può trovare limitandosi soltanto a se stesso, ma che deve trovare negli altri e per mezzo loro» (T. Merton, Nessun uomo è un’isola, Ed. Garzanti. p. 13). L’AMORE ESIGE UNA “ALTERITÀ” L’amore – scrive ancora Merton - esiste e si manifesta verso un’altra persona: «Un amore disinteressato che si riversa su un oggetto egoista non dà una felicità completa: non perché l’amore abbia bisogno, per amare, di ricambio o di ricompensa, ma perché riposa nella felicità dell’amato… L’amore non cerca una gioia che da esso derivi: la sua gioia sta nel bene dell’amato. Di conseguenza, se il mio amore è puro, per me non cercherò neppure la soddisfazione di amare. L’amore cerca una cosa sola: il bene dell’amato, e lascia che tutto il resto vada da sé. L’amore perciò è la sua stessa ricompensa» (Idem, pp. 22 s). Altrimenti non sarebbe rapporto, apertura, tanto meno sarebbe amore; sarebbe solo solipsismo, narcisismo. Come tale sarebbe chiusura totale in sé, infecondità… IL MATRIMONIO Il libro della Genesi, al capitolo secondo, ci insegna con una chiarezza solare il bene del matrimonio. Ci dice che il matrimonio, ovviamente tra un uomo e una donna (vedi Gen 2, 18-24), è la realizzazione più vera, più reale e completa (direi: omnicomprensiva) che l’uomo è davvero se stesso quando esce dal suo egocentrismo e si pone totalmente e vitalmente “in rapporto” con un essere “simile” (così diceva la traduzione precedente della C.E.I.), ossia: uguale in dignità, ma diverso nella realtà personale, quindi nella “identità”. Come dicevo sopra, questa è una visione “laica” dell’uomo, che non implica una fede o una religione. Pertanto è universale, valida per tutti gli uomini, senza esclusione di nessun genere. Pertanto questo uomo è il fondamento di tutta la società, in tutti i suoi elementi sociali, culturali, politici ecc. È l’uomo, senza alcun aggettivo. 40


PACE Perfino la pace ha origine, fondamento “fontale” in questa verità biblica. Riflettiamo insieme: ogni uomo è “immagine e somiglianza” con Dio, quindi l’uomo è nel suo più intimo una “comunione vivente”, perché Dio è comunione in Se stesso, è la Sua essenza. Sì, ogni uomo, anche se non è ancora nato, oppure appena concepito, o se è in una situazione di vita quasi al limite della sopravvivenza; ogni uomo, senza distinzione di cultura, nazione, religione, stato sociale, salute, colore della pelle, civiltà ecc. Oggi parliamo tanto di pace e, spero, gli uomini della politica di tutto il mondo (?!) discutono sulla pace e tentano di trovare vie nuove e mezzi efficaci per raggiungerla, o almeno si sforzano di tendere alla pace. È certamente cosa buona. Ma il fondamento della pace è la dignità identica di tutti gli uomini, perché tutti, ma proprio tutti (!), sono creati da Dio a Sua immagine e somiglianza, e… per amore; pertanto tutti gli uomini hanno identica dignità e per di più è sacra! A questo proposito scrive papa Benedetto XVI: «Costituisce un elemento di primaria importanza per la costruzione della pace il riconoscimento dell’essenziale uguaglianza tra le persone umane, che scaturisce dalla loro comune trascendente dignità. L’uguaglianza a questo livello è quindi un bene di tutti inscritto in quella “grammatica” naturale, desumibile dal progetto divino della creazione; un bene che non può essere disatteso o vilipeso senza provocare pesanti ripercussioni a cui è rimessa a rischio la pace». E la “trascendente dignità” di cui parla papa Benedetto XVI è il fatto che l’uomo è naturalmente un rapporto, anzi, è una comunione vivente, perché Dio è comunione in Sé e ha creato l’uomo come esigenza necessaria di comunione. NASCITA Perfino la nostra nascita, anzi, il nostro concepimento è la prova più vera, più naturale, che l’uomo è frutto di un rapporto umano. È legge di natura! Per questo dico che è una verità, una constatazione “laica”, perché è un fatto naturale, innegabile, a cui nessuno sfugge. Non è frutto di pensiero, non è un sentimento, o altro: è un fatto e basta! Se invece faccio un discorso di fede, allora il fatto che l’uomo è 41


sempre e necessariamente un rapporto tra uomini acquista un valore sacro, perché è fondato su un sacramento, il Battesimo, e il rapporto tra uomini battezzati diventa addirittura una comunione; si tratta di “comunione” in ogni momento della vita e in ogni azione che l’uomo compie. Che differenza tra “comunità” e “comunione”! la prima esprime una realtà giuridica, esterna; la seconda invece esprime una realtà spirituale, interiore. Se la “comunità” è visibilmente verificabile, fondata sulla legge; la “comunione” non ha misure ben verificabili: è sempre “in divenire”, suscettibile di miglioramento, oppure, purtroppo, di peggioramento. Se la “comunità” è solo da accettare da parte del singolo appartenente, la seconda dipende molto dalla volontà del singolo. La “comunità” è fisica; la “comunione” è spirituale! Papa Francesco dice che anche nella preghiera non c’è mai soltanto l’io, ma la preghiera è sempre un noi. Dice il Papa: «C’è un’assenza impressionante nel testo del Padre Nostro: manca la parola ‘io’. Gesù insegna a pregare avendo sulle labbra anzitutto il ‘Tu’, perché la preghiera cristiana è dialogo: “sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà…”. Tutta la seconda parte del Padre Nostro è declinata alla prima persona plurale…: perfino le domande più elementari dell’uomo – come quella di avere del cibo per spegnere la fame – sono tutte al plurale». È ANCHE UN DISCORSO “RELIGIOSO”: LA CHIESA È vero: l’uomo è sempre, naturalmente, un rapporto, un rapporto tra persone; quindi l’uomo tende alla comunione, perché un rapporto tra persone non è mai solo un fatto fisico, ma chiama in causa la persona completa: il cuore, i sentimenti, gli affetti e tutto quello che è spirituale nell’uomo, anche quando un uomo non ci pensa. Ma, se prendo in considerazione la fede, il discorso si fa molto più impegnativo, splendente. Qui si apre la realtà della Chiesa stessa. Quante domande sorgono a questo riguardo! Che cosa è la Chiesa? Da chi è formata? Da tutti gli uomini, o solo da alcuni? Che cosa ci inserisce nella Chiesa? Soprattutto: Che valore ha nella Chiesa la verità sacrosanta che l’uomo è un “io” che si realizza pienamente in un “noi”? Sono domande che richiedono una risposta adeguata e pacificante. 42


La Chiesa è il luogo dove l’“io” del battezzato si realizza pienamente nel “noi”, con Cristo e con i fratelli battezzati, in forza di un principio unico, reale e spirituale, il Battesimo. Proprio grazie al Battesimo l’uomo viene inserito in Cristo e, per questo, è, si trova, in rapporto con tutti i battezzati. Ora non è più “solo”, secondo l’affermazione di Genesi 2,18. Quindi, il battezzato diventa davvero un “uomo nuovo”: ha qualcosa in più rispetto ai non battezzati, e qualcosa che lo fa vivere “oltre”, in modo “trascendente”, ossia tendente all’eternità, che va oltre la vita naturale e oltre il tempo. Sono tante le definizioni che si usano per definire la Chiesa. Tutte sono valide e ciascuna esprime un aspetto vero della Chiesa. Oggi, seguendo il Concilio Vaticano II, si preferisce definire la Chiesa come popolo di Dio. Nel mio discorso preferisco la terminologia di S. Paolo: la Chiesa è il CORPO MISTICO DI CRISTO. Questa definizione mi fa percepire di più il rapporto personale e totalizzante, quasi “fisico”, con Gesù. Essere Chiesa non è un sentimento e non dipende affatto dalla mia volontà: è un fatto reale; è il sacramento del Battesimo che mi inserisce nella Chiesa. Tutto il resto è una conseguenza e chiama in causa, impegna la mia personalità.

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CORPO MISTICO DI CRISTO Tra le varie immagini usate dall’Apostolo delle genti per esporre la realtà della Chiesa, quella più tipica e significativa è il paragone che Paolo fa tra la Chiesa e il corpo umano. Questa immagine, a preferenza delle altre, esprime con evidenza il profondo rapporto che esiste tra i vari appartenenti alla Chiesa in forza dell’unico principio di coesione, che è il sacramento del Battesimo. Tutti i battezzati sono in rapporto reale e vivo tra loro, perché ciascuno è inseparabilmente legato al Cristo; anzi, il Battesimo ci… “innesta” vitalmente e definitivamente in Gesù Cristo. È opportuno riflettere ancora sulla parabola della Vite e de tralci: i tralci sono uniti tra loro fino al punto di formare una pianta sola perché ogni tralcio è inserito nell’unica pianta e appartiene a quella pianta. Allo tesso modo, ogni battezzato viene “inserito” in Gesù Cristo, pertanto vive in Lui, e in Lui: trova gli altri battezzati, perché sono tutti allo stesso modo “inseriti” in Cristo. Così, tutti insieme formano e sono realmente il Corpo Mistico di Cristo, che è la Chiesa, mistero di comunione dei battezzati con Cristo e tra di loro. S. Paolo nelle sue lettere espone più volte in modo chiaro e incisivo questa dottrina. Nella lettera ai Galati dice in modo inequivocabile: «Siamo una cosa sola con Cristo» (Gal 3,28). Agli Efesini scrive: «Lui è il capo, noi le membra» (Ef 4,15). In modo più esplicito scrive ai cristiani di Roma: «Come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e, ciascuno per la sua parte, siamo membra gli uni degli altri» (Rom 12,4-5). In modo speciale, con un linguaggio assai efficace, Paolo esprime il suo pensiero a questo riguardo nella prima lettera ai cristiani di Corinto: «Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo battezzati mediante un solo Spirito in un solo 44


corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito. E infatti il corpo non è formato da un membro solo, ma da molte membra. Se il piede dicesse: “Poiché non sono mano, non appartengo al corpo”, non per questo non farebbe parte del corpo. E se l’orecchio dicesse: “Poiché non sono occhio, non appartengo al corpo”, non per questo non farebbe parte del corpo. Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l’udito? Se tutto fosse udito, dove sarebbe l’odorato? Ora, invece, Dio ha disposto le membra del corpo in modo distinto, come egli ha voluto. Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? Invece molte sono le membra, ma uno solo il corpo. Non può l’occhio dire alla mano: “Non ho bisogno di te”; oppure la testa ai piedi: “Non ho bisogno di voi”. Anzi, proprio le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie; e le parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggior rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggiore decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha disposto il corpo conferendo maggiore rispetto a ciò che non ne ha, perché nel corpo non ci sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre. Quindi, se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. Ora voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra. Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi ci sono i miracoli, quindi il dono delle guarigioni, di assistere, di governare, di parlare varie lingue. Sono forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti fanno miracoli? Tutti possiedono il dono delle guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti le interpretano?» (I Cor 12,12-30). Per un ulteriore personale approfondimento del testo di S. Paolo propongo un esame particolareggiato del brano. Il corpo umano è vivo: la Chiesa, Corpo Mistico di Cristo, è viva, non è una semplice istituzione giuridica. Il corpo umano è vivo perché ha un’anima. Anche la Chiesa è viva perché ha un’anima, lo Spirito Santo. Il corpo umano ha un capo che la dirige e coordina le varie membra. La Chiesa ha un capo che la guida: è Gesù stesso. Il corpo umano ha molte membra vive. 45


La Chiesa ha molte membra vive, sono i cristiani perché sono tutti battezzati. Le membra del corpo hanno funzioni diverse ma tutte utili, o addirittura sono membra vitali. Mi chiedo: Qual è la mia funzione nella Chiesa? Ogni uomo è un “messaggio” al mondo! Non importa ciò che fanno le singole membra di un corpo: il benessere del corpo intero deriva dall’insieme ordinato delle funzioni delle singole membra. Così nella Chiesa ogni stato di vita, ogni vocazione ha un suo valore e una sua funzione necessaria per il buon funzionamento dell’intero Corpo Mistico di Cristo. È necessario che nelle singole membra scorra la vita, affinché siano sane e robuste e servano al bene di tutto il corpo. Nei singoli battezzati è necessario che ci sia la Grazia, una vita spirituale intensa, per il bene della Chiesa. Tutte le membra con le loro specifiche funzioni concorrono al benessere di tutto il corpo e non solo a se stesse. Così noi battezzati non possiamo pensare solo a noi stessi, ma a tutto il Corpo Mistico. Le singole membra, anzi le singole cellule, hanno un’influenza positiva o negativa su tutto l’organismo. Allo stesso modo la vita dei singoli battezzati influisce su tutta la Chiesa, positivamente o negativamente. Tutto il corpo soffre della sofferenza e gioisce della gioia di ognuna delle membra. La stessa reciproca partecipazione alla gioia e al dolore altrui avviene, o dovrebbe avvenire nella Chiesa. Ogni membro non può disinteressarsi di quello che fanno gli altri; anzi, in un determinato momento tutto il corpo compie un’unica azione, a cui partecipano le singole membra compiendo la propria parte. Così tutti i battezzati, ciascuno a modo suo, partecipa all’azione che la Chiesa compie in quel determinato momento storico. Le singole membra ricevono tutte l’identico nutrimento necessario per la propria vita. Allo stesso modo tutti i battezzati vivono con il medesimo nutrimento, l’Eucaristia. 46


DIVERSITÀ NELL’UNITÀ L’immagine del corpo umano, usata da S. Paolo per indicare la Chiesa, è molto chiara e, direi, perfino affascinante: tutti i battezzati formano un corpo solo, la Chiesa, vista come Corpo mistico di Cristo; in essa ciascuno ha un compito specifico ma a vantaggio di tutti. Scrive ancora nella prima lettera ai Corinzi: «A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell’unico Spirito, il dono delle guarigioni; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro l’interpretazione delle lingue. Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole» (I Cor. 12,7-11). Il card. Martini, nello sforzo di calare nel concreto i doni dello Spirito, li chiama diaconie e scrive: «Sono tutti quei servizi che noi rendiamo ai fratelli, a partire dalla fede, quindi dal Battesimo, dalla nostra conversione battesimale…: il servizio dei malati, handicappati, drogati, il servizio della giustizia, i servizi sociali, il servizio dell’istruzione, l’aiuto ai carcerati, a tutte le forme di emarginazione. Sono opere di misericordia e di assistenza di ogni genere che per il cristiano provengono dalla fede e che, di per sé, possono nascere semplicemente da un desiderio di umanità, di solidarietà col fratello. Per il cristiano però acquistano una particolare caratteristica perché sono frutto della propria fede matura; quanto all’oggetto, non si distinguono invece da altri servizi» (C. M. Martini, L’evangelizzatore in S. Luca, Editrice Ancora, p. 82). Un altro cardinale, A. Ballestrero, vede nella Chiesa, come Corpo mistico del Signore, addirittura la “pienezza dell’incarnazione”: «Attraverso il mistero dell’incarnazione del Verbo che si compie nello Spirito Santo, la Chiesa diventa “sacramento di salvezza” per tutta l’umanità, assumendo in Cristo Gesù tutti gli uomini e facendo di essi un corpo solo, che è il corpo mistico del Signore, pienezza della sua incarnazione» (A. Ballestrero, Viventi nello Spirito, p. 31). Per una più profonda conoscenza della Chiesa come Corpo mistico di Cristo rinvio a due encicliche. La Mystici corporis di Pio XII, e la prima enciclica di S. Paolo VI: Ecclesiam Suam del 6 agosto 1964. 47


UNA DOMANDA È sufficiente definire la Chiesa come comunità? Certamente no! S. Paolo VI nella sua enciclica Eccleisam Suam la considera soprattutto come “mistero”. È certamente molto riduttivo considerarla solo come comunità la Chiesa è fondamentalmente “comunione”, proprio perché è formata dai battezzati, è l’insieme di tutti i battezzati in Cristo e perché l’uomo è in se stesso “somiglianza di Dio”, che è essenzialmente comunione; quindi l’uomo è per forza una comunione vivente, o almeno è vera esigenza di comunione. A un titolo speciale lo è il battezzato nell’unico Signore Gesù: «Nella misura in cui siamo Chiesa – afferma Ballestrero – siamo chiamati ad essere comunione, a fare comunione, ad accrescere la comunione. E questo nella varietà delle vocazioni, dei carismi e anche dei dati umani; non c’è niente che possa attenuare l’istanza della comunione» (A. Ballestrero. Saulo-Paolo, p. 36). Lo afferma il libro degli Atti degli Apostoli: «La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuor solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune» (Atti 4,32). UNA PRECISAZIONE ASSAI IMPORTANTE La radice del rapporto, anzi, della comunione tra fratelli, nella Chiesa, non è l’altro, il fratello con le sue necessità, il fatto che l’altro è uomo come me, ma è Cristo Risorto, “IL VIVENTE”; e questo avviene mediante il battesimo: IN Cristo e mediante Cristo mi trovo, scopro di essere… in rapporto, in comunione con i fratelli, perché ogni uomo, in forza del battesimo, è ‘innestato’ nell’unico Cristo: il battesimo è uno solo per tutti gli uomini, quello ricevuto “in acqua e Spirito” – dice il Vangelo. Davvero ogni battezzato fa parte della Chiesa, della comunità “Chiesa”. È un fatto oggettivo, che non dipende dalla volontà del singolo o dalla coerenza del suo vivere: è un fatto storico e innegabile. Dal giorno in cui uno viene battezzato è membro della Chiesa, e si trova “fratello” degli altri battezzati. Poi dipenderà da lui vivere “in comunione” con tutti i fratelli: è compito suo, dipende dalla sua libertà trasformare la Chiesa, Corpo Mistico di Cristo, da semplice “comunità” in “comunione” viva con gli altri. E la via, oserei dire, lo strumento (lo dico con rispetto) di questa trasformazione è l’Eucaristia. Il card. Martini, rifacendosi al Con48


cilio Vaticano II, scrive: «Il battesimo è la porta e il fondamento della comunione nella Chiesa. L’Eucaristia è la fonte e il culmine di tutta la vita cristiana. La comunione del Corpo eucaristico di Cristo significa e produce, cioè edifica, l’intima comunione di tutti i fedeli nel corpo di Cristo che è la Chiesa. L’essere noi Chiesa è dunque frutto dell’Eucaristia, non è l’effetto di volerci bene o del fatto che ci troviamo insieme a pregare: è il fatto che Dio stesso, nutrendoci con la sua Parola e con il suo Corpo, fa di noi una comunione, una realtà strettissima, una parentela che non ha paragone con alcuna parentela umana. In questo modo la comunione da Dio passa nell’uomo e raggiunge l’umanità passando per la Chiesa» (C. M. Martini, Parole sulla Chiesa, Centro ambrosiano, Ed. Piemme, p. 56) UN INVITO Per un esame di coscienza personale mi pongo alcune domande: Come vedo la Chiesa: come una semplice istituzione, quasi solo umana? Riesco a considerare la Chiesa anche, e soprattutto, come “comunione”, addirittura come continuazione di Cristo nella storia di tutti i tempi? Che cosa comporta nella mia vita il fatto che la Chiesa è comunione con tutti i fratelli? E ancor più con Cristo? Vivo ferialmente la vita, lo stile della vita della Chiesa come comunione? Oso pensare che forse è possibile vivere una certa comunione con Cristo senza riferimento alla Chiesa? La amo e la difendo anche con la parola nella società di oggi? Un grande uomo, papa e santo, San Paolo VI, era un vero innamorato della Chiesa: tutto il suo ministero, sacerdotale e petrino, era un atto di amore e di totale servizio alla Chiesa. Le citazioni a questo riguardo sono innumerevoli; ne cito una sola, sgorgata spontaneamente dal suo cuore in una parrocchia della diocesi di Milano, nel comune di Primavalle. Nell’omelia in occasione della visita pastorale, il 7 marzo 1971, a braccio, senza testo scritto, così si espresse: «L’amore alla Chiesa! Pare superfluo farne menzione, offensivo farne raccomandazione, tanto di questo amore facciamo motivo di vita e abitudine mentale. Ma né superflua, né tanto meno offensiva può essere l’esortazione all’amore, quando di natura sua l’amore aspira al fervore. Vogliamo amare la Chiesa con fervore sincero, con fervore nuovo, con fervore divorante e dilatante. (…) Oggi ritorna alla riflessione degli studiosi e alla preghiera degli oranti la scoperta della Chiesa come ‘sacramento’ di Gesù Cristo, cioè prisma luminoso e misterioso, attraverso il quale noi vediamo non più ciò 49


che esso è materialmente, ma ciò che esso rappresenta: ecco, il volto del Signore fiammeggia divino; Cristo è vivente nella Chiesa (…) Quanto più amiamo la Chiesa, tano più amiamo Cristo, e assumiamo la sua forma. (…) La Chiesa, sì, è umana, ed ha quindi un suo aspetto limitato, difettoso. Ma se la guardiamo bene, con gli occhi della sapienza, che il Signore dà ai suoi che hanno ricevuto il battesimo e la fede, sappiamo che dietro questa faccia umana c’è una realtà divina che a noi preme di penetrare al di là dei suoi limiti terreni. La Chiesa è Cristo presente, vivente nella storia. Più che curarci dei suoi difetti visibili, dobbiamo cercare di penetrare nella sua realtà, di vederla trasfigurata, di vedere la sua luce che è splendente come il sole e candida come la neve. Amate la Chiesa, anche per i suoi difetti, che sono i bisogni che la Chiesa ha. Ma soprattutto amatela perché davvero nasconde Cristo e dà Cristo. È per questo che io sono, come Santa Caterina, folle d’amore per la Chiesa». Dove c’è la Chiesa, lì c’è il Cristo vivente! Come i pesci vivono perché sono nel mare e si nutrono dell’acqua del mare, così gli uomini battezzati vivono perché sono nella Chiesa, che è Cristo, “IL Vivente!”.

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VITE E TRALCI Il fatto di essere amati e creati “per nome” esalta la bellezza originale del singolo uomo. Però Dio Padre ci vede non in modo assoluto, ossia sciolto da ogni legame: il Padre è padre perché genera sempre, inevitabilmente il Figlio. Tutto quello che ama e crea (quindi anche ogni uomo) il Padre lo ama e lo crea nel Figlio. Pertanto il singolo uomo è necessariamente in rapporto con il Figlio: è Dio Figlio che ama, che… dà il nome all’uomo. È una realtà “divina”: non esiste un uomo “slegato” da Cristo, tanto che ogni uomo può realizzarsi solo vivendo IN Cristo! Se uno pretende di fare a meno di Cristo, è come un tralcio secco della vite. Non dà alcun frutto, non… vive, viene tagliato e gettato via – dice l’evangelista Giovanni nella parabola della Vite e dei tralci. Dunque: “vivere IN Cristo” non è una formula ad effetto (scusate l’espressione); è la pura verità: tutto ha valore se e perché esiste in profondo rapporto con Cristo. È interessante notare quante volte i vari Canoni della Messa (la parte centrale di ogni Messa) usano precisamente l’espressione “IN Cristo”. In particolare, ogni Canone termina: «… IN Cristo, nostro Signore, per mezzo del quale, tu, o Dio, doni al mondo ogni bene». Con tono vibrante S. Paolo usa molto spesso la formula “IN Cristo Gesù”. L’apostolo Paolo preferisce mettere prima l’appellativo “IN Cristo…” (ossia, l’Unto, il Messia) quasi per affermare che a noi interessa soprattutto il fatto che Gesù è per noi, è la nostra salvezza. Oggi, per sottolineare la necessità fondamentale del rapporto con Cristo, da cui dipende la nostra felicità e la piena realizzazione, leggiamo la parabola della Vite e i tralci. «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me, e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza 51


di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca: poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli. Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15, 1-15). L’INSEGNAMENTO La parabola della vite e dei tralci è nota a tutti. Mi chiedo: perché Gesù sceglie proprio questa parabola, e perché l’evangelista Giovanni la pone in quel preciso punto del suo vangelo? Rispondo per punti. Che cosa mi insegna la parabola della vite e dei tralci? Due sono gli insegnamenti chiari: 1. Per essere cristiani veri, autentici, attivi, è necessario essere sempre uniti a Gesù; anzi: essere “innestati” in Gesù. La propria realizzazione è innanzi tutto un fatto personale, che riguarda me e che si realizza mediante la mia volontà: “Rimanete!”. 2. I tralci sono tanti, ma la vite è una sola. Sono legati tra loro e interdipendenti, perché ciascun tralcio è innestato nell’unica vite. Allora, la mia realizzazione non è un fatto che dipende solo da me e che riguarda solo me, ma è in relazione con tutti i tralci ed è a vantaggio di tutti. La mia realizzazione (e felicità) è anche un fatto comunitario, è un bene per tutta la Chiesa. LA VITE Il tema della vite, quindi anche della vigna, era particolarmente significativo per il popolo di Israele, perché la vigna era segno e addirittura fonte di benessere, innanzi tutto. Scrive Giuseppe Barbaglio: «Nel mondo agricolo della Palestina la vigna (o la vite) occupava un posto di estremo valore esistenziale per la popolazione: essa era sorgente di be52


nessere economico, di sostentamento, di vita». Inoltre, la vigna era vista come una concreta manifestazione di benevolenza da parte di Javhè. Acquista quindi anche, e soprattutto, un valore religioso: è segno tangibile dell’Alleanza Dio-Israele. Scrive ancora Barbaglio: «La vigna rappresenta la continua presenza della benedizione di Javhè». E più avanti: «Possiamo così comprendere come la vigna abbia assunto un valore simbolico-spirituale atto a comunicare e illuminare la profonda e singolare esperienza di fede nella quale Israele si trovava immerso». Una domanda: perché l’Antico Testamento usa l’immagine della vite, non invece l’immagine di un albero frondoso, bello e duraturo, che sfida i secoli? Penso a una quercia, a un ulivo, o a qualche altro albero secolare, che dà l’immagine della sicurezza e della continuità nel tempo. La vite non è bella a vedersi, non è robusta, non sta in piedi da sola: ha sempre bisogno di un sostegno, o di appoggiarsi a qualcosa di sicuro. Inoltre la vite è capricciosa: vuole il sole e l’acqua al momento giusto e in quantità sufficiente e non di più; vuole che si taglino i pampini ingombranti, altrimenti non produce uva come dovrebbe; ecc. ecc. Insomma, richiede una continua attenzione, lavoro e fatica da parte del vignaiolo. Però produce frutti gustosissimi e nutrienti: prima di tutto produce il vino, fondamentale per una vita sana. È vero: alla vite in sé non daresti un soldo, all’apparenza; eppure il suo frutto è indispensabile e fonte di piacere Così è Israele: un popolo ‘insignificante’ come tanti altri all’apparenza, capriccioso, infedele, perfino insicuro e assai peccatore. Eppure è l’oggetto dell’Alleanza che Dio ha stabilito liberamente con l’umanità, con tutti i popoli, proprio mediante questo popolo capriccioso e insicuro, oltre che peccatore. Dobbiamo allora riconoscere che l’immagine della vite è la più adatta, forse l’unica, per rappresentare visivamente il popolo eletto, Israele. VITE STERILE Israele è proprio una splendida vite (o vigna) e Javhè quasi gode di prestare le sue cure al popolo di elezione. Forse Dio pensa che questo popolo gli possa dare la gloria piena che Dio, perché è Dio(!), si merita e si aspetta. Purtroppo il popolo di Israele è gravemente e ripetutamente infedele all’Alleanza con Dio: continua a ribellarsi, a infrangere volontariamente il patto sacro con Dio; tal53


volta commette anche, come popolo, peccati molto gravi. Penso innanzi tutto all’adorazione del vitello d’oro. Per tale motivo Dio… perde la pazienza (Mi si perdoni l’espressione!); quasi si pente di aver scelto un tale popolo, infedele; e forse è sul punto di castigarlo, o addirittura di distruggerlo. Ma alla fine, il suo amore vincerà ancora e… “inventerà” l’Incarnazione del Figlio, per ricostituire pienamente la bellezza del Nuovo Popolo d’Israele, la Chiesa. Mi limito a riportare un brano famoso dell’Antico Testamento, che canta poeticamente, in chiave nuziale, il rapporto Dio-Israele e Israele-Dio. Parla da sé: ogni commento è inutile. È sufficiente meditarlo e… gustarlo nel proprio cuore. Si trova nel libro del profeta Isaia, si chiama “il carme della vigna”. Ecco il testo: «Voglio cantare per il mio diletto / il mio cantico d’amore per la sua vigna. / Il mio diletto possedeva una vigna / sopra un fertile colle. / Egli l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi / e vi aveva piantate viti pregiate: / in mezzo vi aveva costruito una torre / e scavato anche un tino. / Egli aspettò che producesse uva; / essa produsse invece acini acerbi. / E ora, abitanti di Gerusalemme e uomini di Giuda, / siate voi giudici fra me e la mia vigna. / Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna/ che io non abbia fatto? / Perché, mentre attendevo che producesse uva, / essa ha prodotto acini acerbi? / Ora voglio farvi conoscere / ciò che sto per fare alla mia vigna:/ toglierò la sua siepe / e si trasformerà in pascolo; / demolirò il suo muro di cinta / e verrà calpestata. / La renderò un deserto, / non sarà potata né vangata / e vi cresceranno rovi e pruni; / alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia. / Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti / è la casa d’Israele; / gli abitanti di Giuda / sono la sua piantagione preferita. / Egli si aspettava giustizia / ed ecco spargimento di sangue, / attendeva rettitudine / ed ecco grida di oppressi» (Isaia 5,1-7). Israele rimane… vite, sempre cara a Dio, ma è una vite “falsa! Per il nuovo popolo d’Israele (la Chiesa) occorre un’altra vite; ma questa volta sia una vite “vera”, sicura, fedele ed efficiente per sempre. VITE VERA (Gv 15,1-8) «Io sono la vite vera…» (v. 1) «Io sono la vite, voi i tralci…» (v. 5) 54


Pochissime parole. Chiare. Lapidarie! È Gesù in persona che le pronuncia, quindi non si possono mettere in dubbio. Mi pongo qualche domanda: In quale momento e in quale contesto Gesù le pronuncia? Perché proprio durante l’Ultima Cena, quindi immediatamente prima della sua passione e morte? Perché Giovanni pone questa parabola nel capitolo 15? Innanzi tutto Gesù si definisce “vite” e vite “vera” per il nuovo popolo d’Israele. VITE – Se ripensiamo all’importanza della vite per Israele, e al fatto che era considerata l’elemento quasi fondante il rapporto di alleanza tra Javhè e il popolo, Gesù si riappropria dell’immagine della vite per dirci che Lui è il vero e indefettibile tramite tra Israele (= tutta l’umanità) e Dio, il Padre, che è chiamato “vignaiolo”, ossia… il proprietario e il fine del rapporto Israele – Dio. VERA – Vite, sì; ma a differenza di Israele, non sarà mai abbandonato dal Padre perché è una vite “vera”, sempre obbediente e fedele alla volontà del Padre, il sommo Vignaiolo. Mentre la “ViteIsraele” non è stata fedele al patto con Iahvè, quindi è stata abbandonata, castigata dal vignaiolo, cioè Dio Padre, Io – afferma Gesù – faccio sempre la volontà del Padre, non mi separo mai da Lui. Per questo motivo Dio Padre è sempre con me e non mi rifiuterà mai ciò che gli chiedo. Una conseguenza: tutti coloro che sono uniti a me, innestati in me, non saranno mai abbandonati dal Padre e saranno amati dal Padre come sono amato io. I TRALCI Tutta la parabola converge sui tralci: sono essi il vero oggetto della parabola di Giovanni. All’evangelista interessa chi siamo noi; dove andiamo a trovare la forza vitale; come, quando e perché possiamo vivere una vita degna di essere vissuta. Ancora: come possiamo realizzarci ed essere felici, qui, durante la vita terrena? La parabola della vite e dei tralci risponde perfettamente a queste problematiche. 55


A questo punto è necessario entrare nella parabola ed esaminarla attentamente. Procediamo per punti. – SIAMO ALL’ULTIMA CENA, la sera del Giovedì Santo. L’evangelista Giovanni dedica ben cinque capitoli del suo vangelo per raccontare i fatti e gli insegnamenti che Gesù vuol lasciare ai suoi più stretti collaboratori. Sono i capitoli 13-17. La parabola della vite e dei tralci si trova al centro di questi capitoli: il quindicesimo capitolo; ed è l’unica parabola narrata nell’ Ultima Cena. Probabilmente Gesù vuol dare un’importanza speciale a quanto insegna in questa pagina evangelica. Il riferimento alla vigna era strettamente legato al momento solenne dell’Ultima Cena. Infatti, al termine della cena pasquale, davanti a un calice di vino, si ringraziava Dio per il frutto della vigna, e in particolare per questa vigna che era il popolo di Israele, trapiantato dall’ Egitto nella terra promessa (Salmo 80). Poi si pregava per la restaurazione e la crescita di questa vigna. – UN’ALTRA SOTTOLINEATURA: lo stile di Giovanni. Il suo modo di esprimersi sembra difficile e ripetitivo. Invece è particolarmente efficace: egli usa un modo di procedere che chiamerei “a imbuto rovesciato”. Ci sono alcuni pensieri portanti, quasi delle semirette, che, partendo da un unico punto, si allargano sempre più come onde che si rincorrono. Giovanni, nel suo procedere, ritorna più volte sugli stessi pensieri (o semirette), ma non passa per gli stessi punti, non si tratta di semplici ripetizioni; ogni volta che ritorna sugli stessi pensieri non si ripete inutilmente, ma approfondisce sempre più il suo pensiero. In tal modo, chi legge è aiutato, quasi costretto, a capire sempre meglio e in profondità quanto insegna l’evangelista. A me pare che un tal modo di procedere sia assai proficuo. – RIMANERE. Oso affermare che la parola centrale, il fulcro di tutta la parabola, è il verbo “rimanere”. Ben dieci volte si trova nel brano giovanneo. “Ri-manere” comprende due elementi: il verbo latino “manére”, che indica una situazione permanente, non transitoria; indica quasi una situazione, un modo di essere, non un movi56


mento. Questo ci dice che il rapporto personale con Gesù non può essere di un momento, un passaggio, ma esprime un modo di essere stabile e duraturo. Non si tratta di… fare qualcosa, di agire, ma di… stare in Gesù, esistere in Gesù! “RI…” esprime ripetizione, più di una volta. Ossia, se mi separo da Gesù, è necessario che mi rimetta subito… IN Lui! Significa inoltre “profondità”. In altre parole: il mio rapporto con Gesù non può essere superficiale: richiede profondità, addirittura dice: totalità! Ora, rileggi più volte il brano fermandoti con il cuore e la mente a quanto afferma l’evangelista ogni volta che ritorna sul verbo “rimanere”. “Rimanete IN ME” un verbo imperativo, quindi un comando, non un semplice invito. Con chiarezza ci dice: o state inseriti in me, o non combinate nulla di buono! Inoltre: è un imperativo! Ciò dice che la nostra vita, la realizzazione e la felicità della nostra vita non è solo opera di Dio: è anche opera nostra! È anche nostra responsabilità! Qui c’è tutta la grandezza e la dignità dell’uomo: l’uomo non è un automa! Qui brilla il valore della libertà dell’uomo. Sì, la felicità dell’uomo è senz’altro opera di Dio, ma nello stesso tempo è realmente opera dell’uomo. Così canta il Salmo 8,5-10: «Che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, / il figlio dell’uomo, perché te ne curi? / davvero l’hai fatto poco meno di un dio, / di gloria e di onore lo hai coronato. / Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, / tutto hai posto sotto i suoi piedi: / tutte le greggi e gli armenti / e anche le bestie della campagna, / gli uccelli del cielo e i pesci del mare, / ogni essere che percorre le vie dei mari. / O Signore, Signore nostro, / quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!». – “VITE VERA” NON “VITE FALSA”. Che significa, in noi, la vite falsa e quella vera? Vite falsa è l’uomo vecchio: egoista, egocentrico, sensuale, orgoglioso…; invece la vite vera è l’uomo “nuovo”, cristocentrico. Penso a due espressioni di S. Paolo: «Adesso non sono più io che vivo: è Cristo che vive in me» (Gal 2,20). E l’altra: «Per me vivere è Cristo» (Fil 1,21). – VIGNAIOLO. Noi diciamo: «Questa vigna è di…». Con ciò intendiamo affermare che quel determinato vignaiolo è il riferi57


mento, il proprietario di quella vigna. E ne è anche il “fine”, colui che ne riceverà un beneficio. Dire che il vignaiolo è Dio Padre, significa che quella vigna, la vite vera, fa riferimento al Padre e che è per il Padre, ossia per la sua gloria. Non è un insegnamento secondario: la nostra vita è splendida se è vissuta IN CRISTO; però è finalizzata a Dio Padre, perché Lui è il vignaiolo, cioè il fine della nostra vita. Se possiamo usare una formula, direi: Vivere IN Cristo, per giungere al Padre. S. Paolo, nella prima lettera ai Corinzi afferma che il fine di tutto il creato è la sottomissione di ogni realtà esistente a Dio Padre, ma sempre per opera di Cristo (1Cor 15,24-28). E aggiunge: con la nostra libera collaborazione. – I TRALCI. Un tralcio da sé non produce nulla, è morto. Ma, innestato nella vite, produce molta uva. «Senza di me… – afferma Gesù – voi uomini non date alcun frutto!» Non dice: poco, ma: nulla! Dunque: «Rimanete in me!»; «Chi rimane in me dà molto frutto!». Io, tralcio inserito nella vite che è Cristo, quanto produco? Con quali mezzi e con quanto impegno cerco di rimanere ben innestato in Cristo? Mi sento… tralcio unico, oppure mi vedo inevitabilmente unito con gli altri tralci? Ciascuno dia una risposta personale, sincera, con un onesto esame di coscienza. Personalmente mi limito a proporre un vero esame sul come vivo l’Eucaristia, sia come Messa, sia come Comunione, e anche nell’adorazione eucaristica. Il resto è “solo” un aiuto. Tutte le varie devozioni ricevono luce dall’Eucaristia! In questo sta l’autentica vita cristiana. Ogni tralcio non è… “solo”, isolato: è unito a tutti gli altri perché i singoli tralci sono tutti inseriti nell’unica vite (che è Cristo!) e resi sempre vivi mediante l’Eucaristia. Questa è la comunità dei cristiani: è il frutto dell’innesto personale di ogni tralcio in Cristo. Ciò significa che la Chiesa non è una realtà sociologica, bensì una realtà misterica, perché è opera di Cristo. La “potatura” non indica qualcosa di piacevole, eppure esprime una necessità. Diversamente correremmo il rischio di gongolarci dell’amicizia profonda con Gesù, quasi pensando che 58


ogni risultato positivo sia merito nostro. Che cosa sono, in concreto, le potature? In una parola direi: sono le varie “negatività”, sia esterne, sia interne alla mia persona. Mi rendo conto che sono necessarie per rendere la vita più efficiente, più fruttuosa? Gesù lo afferma con chiarezza: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24). E le “forbici” per la mietitura che cosa sono? Innanzi tutto è la Parola di Dio, che va meditata, meditata, meditata ogni giorno, e fatta risuonare nel nostro cuore. Inoltre è l’osservanza dei comandamenti – aggiunge Gesù. Non è facile accettare queste parole, eppure è la verità: senza la potatura, niente frutti! LA GIOIA La conclusione di tutta la parabola è la GIOIA! Sembra una aggiunta non conseguente con la parabola; eppure anche questa è parola di Dio: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena». A proposito della parabola della Vite e i tralci, Anastasio Ballestrero formula una preghiera che possiamo fare nostra: «Rivestici di te, Signore Gesù. / Che la nostra vita configurata alla tua / diventi manifestazione del tuo essere Figlio in noi. / Non in modo apparente e formale siamo identificati a te / ma per una realtà così vera / che il Padre, vedendo noi, vede te. / Tu plasmi tutto il nostro essere / e ci rendi compiacenza del Padre. / Ci hai chiamati dall’eternità a questa configurazione; / hai ideato ogni uomo come specchio di te, / l’uno per l’altro, il fratello per il fratello. / Donaci, Signore Gesù benedetto, il tuo Spirito / perché si manifesti in ciascuno di noi la tua vita di Figlio. / Che ognuno di noi si faccia spazio arrendevole, docile / alla mozione del tuo Spirito, / per essere resi totalmente figli, / per rispondere al progetto del Padre / che ha voluto l’uomo come sua gloria». ANCORA UNA PUNTUALIZZAZIONE È vero che la parabola della vite ci invita, quasi ci conduce, alla gioia; però personalmente colgo un insegnamento fondamentale: Gesù è la fonte di tutto il vivere cristiano! È proprio vero: non 59


sono le opere buone che rendono “cristiana” la mia vita, ma è il mio personale, vivo rapporto con Gesù, perché è “il Cristo”, l’unico salvatore di ogni uomo, di sempre. Martini ha scritto che è necessaria una “formidabile personale esperienza affettiva di incontro con Gesù”! Se anche tu mediti con calma e ripetutamente queste quattro parole, allora ti “conquista” il cuore quanto affermò il papa S. Paolo VI a Manila nel 1970: Bisogna vivere IN CRISTO! Ecco quanto disse questo Santo Papa: «Cristo! Io sento la necessità di annunciarlo, non posso tacerlo. (…) Egli è il centro della storia e del mondo; Egli è colui che ci conosce e che ci ama; è il compagno e l’amico della nostra vita; è l’uomo del dolore e della speranza. (…) A tutti io l’annuncio: Gesù Cristo è il principio e la fine; è il segreto della storia; è la chiave dei nostri destini; è il mediatore, il ponte, fra la terra e il cielo. (…) Gesù Cristo! Questo è il nostro perenne annuncio, è la voce che noi facciamo risuonare per tutta la terra, e per tutta la fila dei secoli». Nella sua prima lettera pastorale da Arcivescovo di Milano scrisse: «Tutto abbiamo in Cristo – esclama S. Ambrogio – Tutto è Cristo per noi. Se tu vuoi curare le ferite, egli è medico; se sei ardente, egli è fontana; se sei oppresso dalla iniquità, egli è giustizia; se hai bisogno di aiuto, egli è vigore; se temi la morte, egli è vita; se desideri il cielo, egli è la via; se rifuggi dalle tenebre, egli è la luce; se cerchi cibo, egli è alimento. Sì, tutto è Cristo per noi. A Lui è legato il nostro destino, a Lui la nostra salvezza». Desidero concludere la lunga riflessione sulla centralità di Cristo nella nostra vita con una preghiera “ineffabile” dello stesso papa Paolo VI: «O Cristo, nostro unico Mediatore, Tu ci sei necessario per venire in comunione con Dio Padre, per diventare con Te, che sei suo Figlio unico e Signore nostro, suoi figli adottivi, per essere rigenerati dallo Spirito Santo. Tu ci sei necessario, o solo vero Maestro delle verità recondite e indispensabili della vita, per conoscere il nostro essere e il nostro destino, la via per conseguirlo. Tu ci sei necessario, o Redentore nostro, per scoprire la nostra miseria morale e per guarirla; per avere il concetto del bene e del male e la speranza della santità; per deplorare i nostri peccati e per averne il perdono. Tu ci sei necessario, o Fratello primogenito del genere umano, per ritrovare le ragioni vere della fraternità fra gli uomini, i fondamenti della giustizia, i tesori della carità, il bene sommo della pace. Tu ci sei necessario, o grande Paziente dei nostri dolori, per conoscere il senso della nostra sofferenza e per dare ad essa un valore d’espiazione e di redenzione. Tu ci sei necessario, o Vincitore della morte, per liberarci dalla disperazione e dalla negazione e per avere cer60


tezza che non tradisce in eterno. Tu ci sei necessario, o Cristo, o Signore, o Dio con noi, per imparare l’amore vero e per camminare nella gioia e nella forza della tua carità la nostra vita faticosa, fino all’incontro finale con Te amato, con Te atteso, con Te benedetto nei secoli». Da ultimo sottolineo una “ovvietà”: quanto più vivo IN Cristo, tanto più mi vedo in… comunione con gli altri tralci. E mi sento un uomo completo. CIASCUNO RIFLETTA PERSONALMENTE Se la storia dell’uomo finisse qui, la nostra storia sarebbe solo bellezza e felicità: non ci sarebbe né male, né dolore. Purtroppo l’esperienza di ognuno ci dice che la vita non è sempre gioia, positività: a nessuno manca l’esperienza del male e anche del peccato, che è sempre causa di sofferenza. Qualcuno arriva al punto di non sopportare più la propria vita; perfino si arriva ad accusare Dio perché ci si sente abbandonati anche da Lui. E si tenta di sfuggirgli in qualche modo: o scappandogli dalle mani (o meglio: pretendendo di …), oppure sforzandosi (inutilmente) di negarLo. Il risultato è sempre lo stesso: sofferenza, rabbia, o peggio. Ma Dio, che è l’Amore, ci attende sempre con bontà; e ci ricostituisce nella nostra grandezza. Ce lo insegna efficacemente la parabola del Figlio prodigo, che invito a rimeditare.

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Dunque Al termine delle mie riflessioni mi ripropongo la domanda iniziale: “Io, o noi?”. Concretamente: qual è l’antropologia più vera? Conta solo l’uomo singolo, cioè l’“Io”, perché in sé ha già tutte le capacità e la possibilità di realizzarsi da solo grazie unicamente alla sua intelligenza e con la sua volontà? Il “Noi” (gli altri) sono solo un di più non necessario? Gli altri sono o possono essere addirittura un ostacolo alla piena realizzazione e alla felicità del singolo uomo? Oppure all’opposto ha valore solo la comunità, nel caso di noi cristiani, conta solo la Chiesa, non i singoli battezzati? Fino al punto che il singolo uomo, anche il singolo cristiano, riceve tutto il suo valore unicamente dal fatto che appartiene a un gruppo, a un popolo, a una comunità, fosse anche la Chiesa? Insomma, è solo la comunità che dà valore e che rende realizzato e felice un uomo? Ancora: l’insegnamento fondamentale della Bibbia consiste completamente e sufficientemente nell’affermazione di Genesi 1,26: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: dòmini sui pesci del mare e sugli uccelli dl cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». Oppure questa verità biblica è solo una verità iniziale, o peggio, è secondaria? Invece l’uomo creato da Dio è unicamente quello descritto in Genesi 2,18-24: «Non è bene che l’uomo sia solo, voglio fargli un aiuto che gli corrisponda…»? Quanto afferma la Bibbia in Genesi 2,18 ss. è un discorso affascinante, ma è sufficiente per esprimere la grandezza “divina” dell’uomo? E se dobbiamo mettere d’accordo le due verità del libro della Genesi, quale delle due merita il primo posto? Se invece hanno uguale dignità, ci chiediamo da ultimo: in fondo, ma proprio in fondo, chi è, o che cosa è l’uomo? Poniamoci un’altra domanda: il mutare delle varie situazioni storiche ambientali, culturali, politiche ecc. cambia il rapporto tra le due posizioni, apparentemente opposte, delle due antropologie, oppure si integrano e si completano sempre, nonostante il continuo variare delle situazioni? Continuo: qualche volta rifletto sul fondamento antropologico 63


delle varie civiltà, o delle diverse (molto diverse) forme di governo e di vita? Nella società di oggi quale forma di antropologia viene attuata nel modo di governarci? La dottrina biblica oggi incide sulla vita concreta dei popoli e sul modo di governare i popoli? Ancora: le varie forme di governo di oggi tendono a realizzare la felicità dell’uomo singolo, o di un gruppo di potere, quasi fosse una oligarchia? Sono una serie di domande (sono solo una parte!) che mi sono sorte nello stendere le mie riflessioni raccolte nel presente opuscolo. Personalmente ho trovato una valida risposta in un intervento che il nostro Arcivescovo, Mons. Mario Delpini, ha tenuto il 21 marzo 2019 al convegno del Centro Ecumenico Europeo per la Pace e delle Acli lombarde. Disse Mons. Delpini: «Dobbiamo farci carico (noi cattolici) di una operazione culturale e spirituale: questo il compito che vorrei assumermi e raccomandare alla Chiesa di Milano. Una missione culturale e spirituale: per i credenti la centralità dell’uomo non è l’esasperazione e l’importanza dell’individuo, ma è l’annuncio della dignità dell’uomo e della donna perché sono figli di Dio. È un’interpretazione dell’essere uomini e donne che ci abilita alla dignità e alla libertà, che ci impegna alla solidarietà e alla fraternità perché siamo figli di Dio. C’è un’Europa che cancella Dio dal suo orizzonte e induce persino a dire che la Chiesa è, sì, importante perché fa tante opere buone, ma il suo messaggio di speranza andrebbe detto in privato, perché parlare della vita eterna è di cattivo giusto. L’idea della dignità dell’uomo e della donna, legata non soltanto al pur doveroso riconoscimento giuridico, ma proprio a chi è la persona, questa è un’impresa spirituale e culturale. È un compito che la Chiesa deve svolgere e annunciare il Vangelo: l’uomo figlio di Dio non è considerato come l’individuo isolato, ma come un’intrinseca vocazione alla fraternità: essere persone che si vogliono bene non è un invito ai buoni sentimenti, ma è la natura dell’uomo che si realizza solo nella comunità». Nelle affermazioni dell’Arcivescovo vedo la conclusione di tutto il mio discorso: è l’uomo singolo, è l’uomo in sé che ha valore, perché ogni uomo è creato “a immagine e a somiglianza di Dio”. Ricorda che ogni uomo è creato, chiamato all’esistenza “per nome”, non … in gruppo. Però l’uomo si realizza pienamente, si completa nella comunità, nel rapporto con i fratelli; direi: si rea64


lizza pienamente come persona proprio mediante il suo rapporto vivo con i fratelli, oltre che con Dio. Addirittura, ogni uomo si completa nella sua realtà, nella sua esistenza, per mezzo della sua comunione, vissuta realmente ogni giorno, con Dio e con i fratelli. La verità è dunque questa: Non … “O io, o noi” in contrapposizione, ma: IO E NOI! Meglio: IO CON NOI!

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COLLANA GOCCE EUCARISTIA – Memoriale e segno (2012)

QUARESIMA AMBROSIANA – Vangeli delle domeniche (2012)

SEGUIMI – Spunti di vita cristiana (2013)

PASQUA – Memoriale della Redenzione (2014)

COME – Lo stile del cristiano (2014)

CHI SEI? – L’uomo nella Bibbia (2015)

FELICI SE… (2016)

La Sua e la mia VIA CRUCIS (2017)

PAROLE PARLANTI (2018)

PARTECIPIAMO! (2019)

IO, O NOI? (2020)

Puoi trovarli anche su www.issuu.com


Pro manuscripto

Finito di stampare nell’ottobre 2020



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