Parole Parlanti

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Luigi Schiatti

PAROLE PARLANTI L’uomo nella Bibbia


INDICE

Quante parole! ........................................................................... pag.

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…semplicemente in ordine alfabetico ADORARE ................................................................................ pag.

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ASCOLTARE ............................................................................ pag. 11 BEATI ......................................................................................... pag. 13 PER NOI, OGGI ...................................................................... pag. 16 CONOSCERE ........................................................................... pag. 17 CONVERSIONE ..................................................................... pag. 18 CRITICARE............................................................................... pag. 21 DEDIZIONE ............................................................................ pag. 23 DESIDERIO ............................................................................. pag. 25 DISPONIBILE.......................................................................... pag. 27 ECCOMI .................................................................................... pag. 29 FED… ....................................................................................... pag. 32 GLORIA ..................................................................................... pag. 34 LA GLORIA DI DIO IN GIOVANNI 17 ................................. pag. 36 IL VIVENTE ............................................................................. pag. 39 2


INTUITUS ET DILEXIT ....................................................... pag. 40 MEMORIALE ........................................................................... pag. RICORDO................................................................................ pag. RINNOVAZIONE .................................................................... pag. PREPARAZIONE ..................................................................... pag.

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NUOVO ..................................................................................... pag. 45 SALE E LUCE .......................................................................... pag. 47 SALE, NON ZUCCHERO ......................................................... pag. 48 LUCE, NON NEBBIA .............................................................. pag. 50 SIMPATIA ................................................................................. pag. 53 SOMIGLIANZA....................................................................... pag. 55 TENDERE ................................................................................ pag. 58 VERITÀ ...................................................................................... pag. 60 VOCE.......................................................................................... pag. 62 VOLTO ...................................................................................... pag. 64

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Quante parole! Parole, parole, parole… È un modo di dire che esprime un parlare senza badare al contenuto; è un parlare con superficialità, o addirittura… a vuoto. Quante ne pronunciamo ogni giorno? Mi chiedo se tutte le parole che dico hanno un senso, per me. Mi chiedo se, quando parlo, voglio sempre esprimere un pensiero, oppure se è solo per il piacere di dire, di… parlare! Guai se il Padreterno ci giudicherà sulle tante parole che abbiamo detto in vita. Peggio, se ci chiederà il significato di tutte le parole dette; se le abbiamo dette… così, per caso, magari senza saperne il significato. Quanti programmi televisivi o di altri mezzi di comunicazione si salverebbero? Forse pochi, pochissimi! Credo che nessun uomo dabbene ne soffrirebbe più di tanto. Ne seguirebbe perfino una vera liberazione e una opportuna purificazione della mente e del cuore: saremmo finalmente salvi da troppa vuotaggine! Lo scopo del presente lavoro è, senza presunzione, quello di aiutare a cogliere il vero significato di alcune parole che usiamo, forse, con un po’ di fretta, senza riflettere a sufficienza sul significato delle stesse. È un lavoro fatto senza alcuna pretesa; è quasi un divertimento, che però può avere una certa utilità. È scontato che le parole prese qui in esame riguardano un campo ristretto, direi… il campo spirituale, quasi un aiuto per vivere ancor più da cristiani, perché ogni parola detta responsabilmente incide sempre sulla vita concreta. Spero di non aver mancato di rispetto alla Parola di Dio, il Figlio fatto uomo per aiutarci ad essere uomini veri, proprio ‘a somiglianza di Dio’. Uno degli elementi della nostra somiglianza con Lui è proprio il dono della parola! Il Verbo (ossia la Parola di Dio) si è fatto uomo anche per dare alle nostre parole il significato che meritano, ossia: essere strumenti di comunicazione della verità, quindi via per la comunione tra gli uomini. È quasi esaltante il ricordare che ogni parola detta, con saggezza, da un uomo è un veicolo e uno strumento di manifestazione della parola per antonomasia, che è la Parola di Dio; quindi è sempre per la comunione e, in un certo senso, è parola per la vita. 5


Inoltre, nello stendere queste note, meglio, queste puntualizzazioni, ho inteso tenere sempre presente, in filigrana, la Parola per eccellenza, quasi una lode alla Parola di Dio, che è GesÚ, il Cristo. Auguro una buona e proficua lettura: occorre solo la volontà di conoscere il nostro modo di parlare e di sapere quello che stiamo dicendo, chiederci quale contenuto diamo alle parole che usiamo.

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‌semplicemente in ordine alfabetico



ADORARE È un verbo che esprime non solo profonda stima e ammirazione verso qualcuno, e nemmeno un semplice gesto di amicizia; ha un significato preciso e impegnativo. Il prefisso “ad” in latino esprime “andare verso…”. Il verbo “orare” deriva da latino “os, oris”, che significa “bocca”. Quindi “adorare” esprime “andare verso la bocca”. Può sembrare irriverente se applicato all’Eucaristia; eppure esprime un gesto umano di intimità, di amore intenso, di profondo desiderio dell’altro. In questi istanti non si dicono parole: si sta in silenzio; eppure si vive l’uno nell’altra. «Adorare Dio» esprime, a ben guardare, il gesto di una persona che ama intensamente Dio, fino al punto di voler esprimergli il suo amore con un gesto umanissimo e che tutti comprendono. Si sta, si vive alla Sua presenza; si tace perché tutta la persona vive in Dio. Allora, l’adorazione dell’Eucaristia ci invita a non accontentarci di parole belle e di soli sentimenti profondi verso il Signore, ma ci chiede di compiere gesti, atti concreti; ci invita a prendere qualche impegno di vita, anche faticoso, per esprimere il nostro amore vero, fattivo, verso Dio; per esprimergli che abbiamo davvero bisogno, desiderio, di Lui. Nell’adorazione eucaristica non occorrono tante parole: si tratta di smuovere il cuore verso l’Eucaristia per manifestare la lode e il ringraziamento a Gesù, che è Dio e che ci ama. A Gesù che è lì presente e vivo. Nell’adorazione dobbiamo imitare Gesù orante: Egli anzitutto confessa, benedice e loda il Padre suo: «Ti benedico, o Padre». Poiché tale preghiera tiene il primo posto nella vita di Gesù, anche per noi l’adorazione, il culto del “corpo” del Signore deve essere il fondamento della nostra vita. «Oggi – scrive il card. Ballestrero – la preghiera di adorazione è caduta in disuso. L’uomo moderno ha tante altre cosa da fare! E forse considera questo atteggiamento come una specie di romanticismo religioso, di esaltazione più o meno autentica. Invece dob9


biamo avere una mente, un’anima, un cuore di adoratori… Vivere come adoratori di Dio deve diventare una specie di dimensione della vita… Come siamo differenti dai personaggi della Bibbia! Come siamo sordi, atoni, di fronte all’adorazione del Signore! Forse ciò dipende da mancanza di umiltà; quando non c’è questa, si finisce per diventare adoratori di idoli. L’uomo non si stanca mai di trovare nuovi idoli da adorare… ma poi teme di compromettere la sua dignità adorando Dio! Vogliamo presentarci a Dio a testa alta, non ammettendo la nostra miseria, limitatezza, il nostro bisogno» (A. Ballestrero, Le vie della contemplazione, vol. II, pp. 181-182). Riporto la testimonianza di una ragazza di circa vent’ anni sul come si fa l’adorazione eucaristica. Ecco alcuni suoi pensieri (con il permesso dell’interessata): «Stasera ero un po’ stanca e tentata di andare a riposare prima; Qualcuno invece mi ha trattenuta senza mia volontà, fino a tardi. Niente dolcezze nella orazione! Bene, non cerco per me, ma solo a Lui la gloria. Grazie che mi dai la possibilità di farlo… Durante l’adorazione mi è parso di capire che il Signore non sia tanto contento di qualche mio comportamento, mancanza di carità nei giudizi, e questo emerge sempre nonostante i buoni propositi, quasi tutti i giorni… Quell’adorazione mi ha un po’ scossa, dandomi nello stesso tempo tanta pace e voglia di diventare più umile, più caritatevole e di allontanare presto superbia e vanagloria. Aiutami, Signor mio! … Voglio ostinatamente fissare lo sguardo in Te. Nessuna realtà che mi circonda deve prendere il sopravvento. Mai!... Sei il mio Diletto! Lo sento ancor più quando non ci sono dolcezze. Insomma, quando non mi vizi… Voglio offrirmi a Te per l’umanità! Il mondo non Ti conosce e non Ti ama! Voglio offrirmi a Te come lode. Ti consacro le mie giornate che voglio ostinatamente vivere per Te solo. Voglio consolare il tuo cuore già tanto afflitto per le mie infedeltà… Voglio che Gesù splenda in me e che sia glorificato…. Nell’adorazione di oggi sono emersi due atteggiamenti, il “silenzio” e la “pace del cuore”… Sono stata immobile e raccolta per un bel po’ di tempo… L’adorazione di oggi è stato un momento di gioia grande, nel quale ho inteso che vale la pena vivere per essere una lode a Te, Signore. Non l’ho mai capito così bene come ora, nel giro di pochi minuti. Signore mio, mi stai portando di peso, mi stai seguendo passo per passo; Ti chiedo ancora tanta umiltà e fede». Così l’adorazione personale diventa vita vissuta.

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ASCOLTARE Che differenza di significato tra “sentire” e “ascoltare”. SENTIRE dice semplicemente percepire dei suoni, un discorso, un brano di musica…; ma non chiama in causa il mio spirito, la mente e il cuore. Posso “sentire” voci, parole… anche distrattamente e senza recepirle dentro di me. Le parole o i discorsi semplicemente “sentiti” non mi cambiano la vita e nemmeno il mio modo di pensare. ASCOLTARE: quanto è diverso dal semplice sentire! Prova a ricordare momenti o situazioni in cui hai “ascoltato” qualcuno o semplicemente qualche parola. Che cosa succede in te quando dici: «Ho ascoltato un magnifico brano musicale?» Oppure: un messaggio, o un comando o un invito? Devi ammettere che in questi casi è chiamata in causa la tua mente, il tuo cuore, forse anche qualche sentimento di approvazione o di disagio, ecc. L’ascoltare interpella sempre il nostro animo: si ascolta… con il cuore! Anche se non lo vogliamo, ci coinvolge nell’oggetto di quanto ascoltato. Perfino ci costringe a prendere una posizione pro o contro. Stando così le cose, penso al… ‘peso’ di alcune pagine della Bibbia. Ne richiamo solo due. 1. Deuteronomio 6: «Ascolta, Israele…». Israele non può fare finta di nulla, non può trascurare quanto gli dice Dio, continuando a pensare a se stesso, a fare quello che vuole lui, il popolo, diversamente dal comando di Dio. Israele deve adesso eseguire quanto gli chiede Javhé; oppure agire contro la richiesta di Dio. Ora non può più esimersi dal dire… Sì, o no; faccio, oppure non voglio fare quello che Tu, Signore, mi chiedi. 2. Apocalisse 3, 20: «Sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io entrerò da lui, cenerò con lui ed egli con me». È un versetto affascinante in cui, in due parole, vengono 11


espresse due verità importanti che ci riguardano: Dove sta la felicità dell’uomo? Nel cenare con Lui – mi risponde –. Sappiamo che il banchetto è sempre occasione per rinnovare le amicizie, per fare comunione, per una eventuale riconciliazione. Lo stesso versetto ci fa brillare sotto gli occhi la grandezza divina dell’uomo. Dio è la sola causa della felicità dell’uomo; eppure, per volontà di Dio, il realizzarsi della felicità dipende dalla libertà dell’uomo! È vero: è Dio la causa della felicità dell’uomo; è Dio, sempre Lui che si muove per primo. Eppure, tutto dipende dalla libertà dell’uomo! È una verità mozzafiato! Vedo i tanti e diversi episodi del Vangelo, in cui tutti hanno “ascoltato” l’invito di Gesù, ma differenti sono state le risposte. Il giovane ricco (Mc 10, 1723) ha “ascoltato” l’invito di Gesù, ma Gli ha detto un NO deciso. Altri invece, vedi la Samaritana (Gv 4, 1-42), Gli ha detto di Sì e ha cambiato la sua vita. Sul tema dell’“ascoltare” riporto una pagina del solito A. Ballestrero: «Non è forse vero che dalla profondità del cuore il Signore parla? Parla alle volte con parole che sono miracolosamente chiare, come quelle di cui Agostino racconta nelle sue Confessioni; e alle volte parla con richiami pieni di mistero, pieni di fascino e nello stesso tempo di sgomento… Ascoltate il Signore! Ascoltare il Signore è il momento culminante della preghiera cristiana. Non sono le nostre molte parole, i nostri molti pensieri che ci rendono oranti, ma è soprattutto il silenzio adorante davanti a un Signore che parla, davanti a un Signore che sta zitto anche Lui, ma che proprio quando sta più silenzioso diventa più presente, più penetrante, più incombente nella vita» (A. Ballestrero, Le vie della contemplazione, Piemme, p. 259). N.B. A proposito della Parola di Dio, l’ascoltare è il primo elemento di un proficuo cammino cristiano, che si può riassumere in cinque A: ASCOLTARE APPROFONDIRE APPLICARE ATTUARE ANNUNCIARE.

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BEATI Molto è stato scritto sul contenuto della parola “beatitudine” e ancor più sulle beatitudini evangeliche. In questa riflessione a me basta affermare che “beatitudine” esprime oggi, come sempre, felicità: l’essere contenti e soddisfatti della propria vita, del come e dove vivo; quindi vedo espresso con questo termine una condizione o situazione anche solamente umana, senza scomodare la fede. Ma nello stesso tempo considero la felicità come conseguenza della realizzazione della propria vita: uno è felice quando, perché, quanto si vede realizzato nella vita che sta conducendo. Faccio mia la spiegazione che trovai in un libro (non ricordo più il nome dell’autore né il titolo del libro). Ne riassumo brevemente il pensiero: la terminologia latina – afferma l’autore del libro - deriva per la maggior parte dalla pastorizia perché antichissimamente i latini erano un popolo di pastori: quindi il termine beata esprimeva la pecora realizzata, quando portava in sé il suo piccolino, il suo figlioletto... Per questo era… “contenta”. È una spiegazione che ha un suo fascino e serve a riflettere seriamente sull’insegnamento delle beatitudini. Veniamo alle beatitudini proclamate da Gesù. Esse ci insegnano che la felicità non sta nell’apparire, nel successo, nella ricchezza, nella potenza, nemmeno nella quantità dei possedimenti. Questo era il modo di pensare del popolo di Israele. La felicità – afferma Gesù - ha una radice ben più profonda e al di là della materialità e dal possedere molto. La felicità è conseguenza del seguire Gesù sul serio, concretamente, anche a costo di andare contro il “mondo”. Come si vede, è una concezione nuova di felicità. Entriamo adesso nella lettura di Matteo 5, 1-12, rileggendo “cordialmente” il testo: «Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 13


Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno, e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi» (Mt 5, 1-12). Mi limito a qualche spunto per la riflessione personale. 1. Le beatitudini nel vangelo di Matteo sono 9, ossia 3 x 3. Il numero 3 indicava la perfezione; pertanto il vangelo ci insegna che qui è indicata la perfezione della perfezione. 2. Le varie indicazioni di felicità non sono solamente quelle indicate qui, in questo elenco; penso che siano degli esempi, perché la felicità non consiste nelle “negatività” ricordate qui; nemmeno sta nelle motivazioni (i perché…). Quelle ricordate qui sono degli esempi di felicità secondo il Vangelo. 3. Ciò che rende felice e realizzata la vita umana è il vivere in modo trascendente, ossia vivere pensando e tendendo al paradiso, non cercando una felicità immediata e materiale! Infatti per ben tre volte si parla del regno dei cieli. Così è scritto nella prima e nella ottava beatitudine. Anche la nona parla del “regno dei cieli”. 4. Le altre sei beatitudini (dalla seconda alla settima) sono, a mio parere, degli esempi di situazioni negative, che diventano motivo di felicità se vissute in modo trascendente. 14


5. C’è di più: la prima dice: «Beati i poveri di spirito». Chi sono? Sono coloro che sanno e accettano di dipendere da Dio; ossia sono quelli che hanno spirito di fede, quelli che non pretendono di fare a meno di Dio. La ottava dice: «Beati i perseguitati per la giustizia». Sono quelli che vivono secondo la legge di Dio e che per la loro fedeltà vengono anche perseguitati. La prima beatitudine parla di un valore interiore, del cuore dell’uomo; la ottava invece esprime una sofferenza che viene dall’esterno. Ovviamente, tutti costoro sono felici e realizzati, nonostante vivano una situazione di difficoltà, se vivono con il cuore rivolto al paradiso, o meglio, in unione con Gesù. 6. La nona beatitudine riassume tutte le altre e concentra sull’unico e autentico motivo della vera felicità e realizzazione personale: vivere IN CRISTO! Rileggila attentamente più volte e lasciala parlare liberamente al tuo cuore. Medita a lungo sulla motivazione dell’autentica felicità dell’uomo: “per causa mia!” – afferma Gesù. 7. Se le prime otto beatitudini sono in un certo senso… astratte, affermazioni di principio, la nona è molto personale e coinvolgente. Qui Gesù si rivolge direttamente agli apostoli che gli stanno di fronte e sono attenti ad ascoltarlo. Oggi valgono per ciascuno di noi che stiamo ascoltando la Sua Parola. Non è possibile tentare di ascoltarle… “da lontano” come se non ci riguardassero. Non mi pare possibile rimanere indifferenti di fronte a questa pagina di vangelo. N.B. Forse qualcuno obbietterà che sono formulazioni datate: sarebbe utile ripensarle e riformularle con un linguaggio adatto all’uomo di oggi. Certamente il testo evangelico non può essere cambiato; però sarebbe utile formulare nuove beatitudini pensando alla situazione odierna. Personalmente mi permetto di suggerire qualche esempio: «Beati gli spersonalizzati, perché accettano di vivere in una comunità». «Beato chi pecca, perché sperimenta la gioia di essere perdonato». «Beati gli “incapaci”, perché non pensano di essere loro gli autori della propria vita». «Beati voi quando…» Ciascuno continui l’elenco in base alla propria esperienza e sensibilità 15


PER NOI, OGGI Scrive il mio solito Ballestrero: «Siamo capaci di leggere la storia del mondo sulla griglia delle beatitudini del Signore? Per sentirci colpevoli di tanto egoismo, di tanto disimpegno, di tanta pigrizia, di tanta disattenzione, di tanta superficialità, e per sentirci provocati a un rinnovamento della nostra esistenza, creature nuove?... “Beati i miti” è detto da Cristo. Ma davvero noi cristiani siamo le creature miti che il Vangelo si aspetta?... “Nel mondo di oggi bisogna avere grinta, se no…”: si capisce! “Chi agnello si fa, lupo lo mangia”: un proverbio blasfemo che dal paganesimo è entrato nelle nostre lingue cristiane. E la beatitudine della mitezza, quella che convince, quando aspettiamo a proclamarla?... La trasformazione delle comunità avveniva nei primi tempi della Chiesa proprio quando la forza delle beatitudini e la proclamazione delle beatitudini rendevano la celebrazione di vicendevole perdono, solenne liturgia piena di festa e piena di entusiasmo…. Si dice sempre che la Chiesa oggi è minoranza, si dice sempre che oggi il tessuto sociale prevalente non è cristiano, si dice sempre che oggi la maggior parte dei nostri fratelli non conosce Gesù Cristo. Se siamo convinti di questo, dobbiamo renderci conto che tocca proprio a noi annunciare il Signore come novità che tutto trasforma, come prodigio che tutto illumina. È tutto lì!» (A. Ballestrero, Le vie della contemplazione, Piemme, vol. I, p. 141).

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CONOSCERE Il verbo “conoscere” esprime di solito un atto della mente: è l’intelletto che aderisce alla realtà profonda di un oggetto. Qui però uso questo verbo con un significato “umano”, direi “globale”, ma riferito soltanto alle persone. Quando dico che un determinato giovane “conosce” quella particolare ragazza, che cosa intendo dire? Senza dubbio non intendo parlare solo, né soprattutto, di una conoscenza limitata alla mente; bensì voglio esprimere una conoscenza più profonda, spirituale, di vedute, di sentimenti ecc. Si tratta insomma di una conoscenza del cuore e di tutta la personalità dell’altro. Di più: voglio dire che si tratta di conoscenza che coinvolge la persona e che tende alla comunione tra i due. Anche alla condivisione della vita, di tutta la vita, nelle grandi ma anche nelle piccole scelte quotidiane. Una tale conoscenza è solitamente, anzi… sempre, fonte di gioia. Questo vale perfettamente anche a proposito della conoscenza di Gesù, non generica, ma di Gesù il Cristo, il Dio fatto uomo per noi! Morto, risorto e glorioso, addirittura “il Vivente”. Però non può essere una conoscenza… normale, quasi asettica. Il card. Martini con quattro parole “ineffabili” esprime come deve essere una tale conoscenza di Gesù. «Chi è colui che può dire Cristo Amore se non colui che ha vissuto una formidabile esperienza affettiva di incontro con Lui?». Non è sufficiente una conoscenza della mente: deve essere un fatto di vita, una vera “esperienza”, e per giunta una esperienza che tocchi, che smuova il cuore (affettiva), e che può anche mettere paura per le conseguenze; insomma deve essere un vero incontro vivo tra persone… vive! Con parole più spirituali così si esprime il Padre Raniero Cantalamessa: «… che io riconosca Gesù come mio Signore, quindi come mio centro, mio significato, mia ragion d’essere, mio supremo bene, scopo della vita, mia gioia, mia gloria, mia legge, mio capo, mio Salvatore, colui al quale appartengo».

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CONVERSIONE “Conversione”, “convertirsi” significa: voltarsi insieme. Da un punto di vista fisico non pone difficoltà, ricordando che l’avverbio “insieme” ci suggerisce che il voltarsi da un’altra parte, il cambiare direzione inteso qui non è tanto un gesto personale, di una sola persona, ma di un gruppo. Però il termine “conversione” viene usato in tanti ambiti: politico, di pensiero, di posizione, da un punto di vista sociale ecc. In questi casi non si parla di direzione fisica, ma del modo di pensare, di leggere e interpretare i fatti della vita. Deriva quindi anche un cambiamento nel comportamento e un cambiamento delle motivazioni del nostro agire. In un ambito più specifico si parla di “conversione” nel campo religioso: consiste nel passare da una religione a un’altra, e questo è un fatto assai importante, con conseguenze che possono cambiare la vita stessa. Con un significato tutto speciale si parla di “conversione” nell’ambito della religione cristiana, addirittura cattolica. Qui il parlare di “conversione” ha un significato particolarmente chiaro e forte; significa modificare il proprio rapporto nei confronti di Gesù; addirittura significa approfondire, rendere più vivo il proprio rapporto con Gesù. E questo “nuovo” rapporto con Lui ci rende più “cristocentrici” sia nel modo di pensare, sia nel comportamento reale. Certo: si tratta innanzi tutto di un fatto intellettuale: è un “capire” più profondamente chi è Gesù, il Cristo; l’essere più convinti che Gesù è davvero Dio, il Dio fatto uomo per il nostro bene. Ma è ancora di più un fatto di cuore, un rapporto più vivo, più “caldo” nei confronti di Gesù; è un renderci conto che è Lui, proprio Lui, la fonte della mia realizzazione, quindi della mia felicità. Questo “nuovo” modo di sentire necessariamente incide di conseguenza nel modo di affrontare la vita, la quale diventa più “cristiana”, più finalizzata a Gesù, ossia alla conoscenza di Lui e alla gloria di Dio. In una parola: nell’ambito cristiano, quando si parla di “conversione”, si intende una trasformazione profonda e globale di tutta la persona, in sé e nel modo di agire. È un vero rovesciamento, interiore e di azione, che conduce sempre dall’egoismo e dall’orgoglio all’amore, dal pensare a se stessi e alla 18


ricerca del proprio interesse o all’affermazione del proprio “io” al desiderio di cercare la gloria di Dio, a ciò che in un certo senso “fa piacere” a Dio. La conversione, in ambito cristiano, ci rende amici di Cristo, “uno dei Suoi”. Scrive J. Loew: «Un’amicizia è, prima di tutto, l’opposto di un egoismo: vuol dire far passare l’amico avanti a sé, volere il suo bene; ed ecco allora l’uomo che, per essere amico di Dio, si eleva fino a volere a Dio il bene di Dio stesso. Gioisce che Dio sia Dio e ciò gli importa più della sua miseria di uomo. Vuole che Dio sia ciò che è, aderisce a quello che Dio vuole perché è il nostro amico. Aggiungergli, donargli qualcosa, è impossibile – chi potrebbe aggiungere un raggio al sole? – ma si vorrebbe essere il frammento di vetro o la goccia di rugiada che riflette il sole e si illumina di esso. “Che tu sia ovunque più conosciuto, più amato, più servito”, dice mirabilmente la preghiera della Gioventù cattolica operaia» (J. Loew, Testimoni dell’invisibile, Borla, p. 36). Quanti esempi di conversione troviamo nella Bibbia! Il convertito più famoso è senz’altro l’“apostolo” Paolo. L’ incontro con Gesù sulla via di Damasco ha letteralmente “capovolto” Saulo e lo ha reso Paolo! Dopo l’incontro con Anania Paolo ha riacquistato la vista, ma è una vista “nuova” perché è diventata una vista… cristiana: vede le stesse persone e le stesse cosa di prima, ma in modo diverso: quelli che prima erano “nemici” (i seguaci di Gesù) ora sono “fratelli”; quelli che prima erano i difensori della verità e della vera religione (i suoi soldati), ora sono i servitori dell’errore; quello che prima era l’eresia (la dottrina di Gesù), ora è la verità. Che strano! Ora il giovane “infuocato” Saulo è totalmente un altro: è proprio stravolto nel suo modo di pensare e di vivere. Così, Saulo è diventato Paolo, il convertito più eclatante. In poche parole A. Ballestrero ha… dipinto il convertito Paolo così: «Paolo non ha parlato di Cristo per sentito dire. Ha parlato di Cristo perché lo ha visto, perché lo ha conosciuto, lo ha capito, perché è stato amato da Cristo, perché ha amato Cristo e perché a lui si è consegnato vivo. Questo incontro è una realtà inesauribile. È avvenuto sulla strada di Damasco, d’accordo, però la vita di Paolo non è stata una conseguenza, ma la continuazione di quell’incontro… Incontrare Cristo è un cammino che non finisce mai» (A. Ballestrero, Saulo-Paolo, Edizioni Benedettine, p. 13 ss.). Una conseguenza… spontanea della conversione al Cristo, Il Vivente, è la gioia. Un esempio tra i tanti è Zaccheo (Lc 19, 1-10). È un esempio eccellente perché Zaccheo è un “pubblicano” (ossia un 19


peccatore pubblico, quasi di professione) e ‘ricco’ (La ricchezza era vista come il vero ostacolo al Regno di Dio). Non è uno propenso ai problemi religiosi; quindi Zaccheo ci insegna che chi incontra personalmente Gesù si trova inevitabilmente cambiato nel cuore e il vivere come Gesù vuole è fonte di gioia, anzi, dona la pienezza della gioia: «… pieno di gioia lo accolse in casa sua». Ciascuno pensi ai tanti convertiti di sua conoscenza, anche se meno noti.

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CRITICARE Il verbo “criticare” viene usato di solito per esprimere un giudizio negativo sul comportamento di una persona. Spesso si parla di “criticare” un certo modo di comportarsi senza valutare fino in fondo il perché di quel comportamento: è un giudizio negativo aprioristico o superficiale; talvolta è una pura opinione emotiva, sensibile, o addirittura mossa da pregiudizi. Insomma: il criticare è sempre qualcosa di negativo, e che si deve evitare. Va ricordato che anche questo verbo deriva dalla lingua greca ed ha un significato positivo, bello. Esprime l’atto del valutare un comportamento; più precisamente indica l’analizzare un fatto, un’azione, prendere in considerazione i vari aspetti, sia positivi sia negativi, per essere in grado di dare un giudizio il più possibile oggettivo. In questo senso si usa il verbo “criticare” non solo a proposito di un comportamento umano, ma si usa anche a proposito di situazioni o di realtà concrete, ad esempio, si usa per valutare una statua, un quadro, oppure la musica. Perfino si parla di “criticare” anche una posizione politica, o ideologica in genere. È necessario avere gli strumenti per “criticare”… responsabilmente; e ancor più è indispensabile imparare a criticare nel significato vero del termine. I farisei e i capi del popolo di Israele non usavano certamente, purtroppo, l’arte del criticare in modo autentico nei confronti di Gesù. Erano mossi solo da posizioni aprioristiche e negative nei confronti del Maestro, senza esaminare i suoi discorsi e senza impegnarsi a conoscerlo realmente, avevano già deciso di eliminarlo. I risultati li conosciamo! Quando Gesù dice: «Non criticate», invita a non usare questo verbo nel significato negativo. È necessario imparare a criticare nel modo giusto: se il criticare negativamente e istintivamente è facile (e talvolta diabolicamente piacevole), criticare nel bene è difficile perché non è naturale nell’uomo. Sempre richiede l’uso della ragione, la fatica, la costanza nel cercare gli elementi positivi; e occorre tanta libertà da se 21


stessi. Occorre anche imparare a vedere i singoli fatti, o le persone, nelle situazioni concrete e ambientali di vita. È indispensabile innanzi tutto non lasciarsi condurre dalle emozioni istintive e immediate. Gesù condanna sempre e in modo forte il vizio di criticare in senso negativo. E papa Francesco afferma che questo vizio è una vera uccisione delle persone criticate: è un peccato contro il quinto comandamento.

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DEDIZIONE “Dedizione” e “disponibilità” esprimono lo stesso atteggiamento, o comportamento? No! L’ordine alfabetico mi fa trattare prima la “dedizione”. Però nella vita viene prima la disponibilità. Per spiegare il significato della parola “disponibilità” mi servirò della scansione della parola stessa. “Disponibilità” esprime una qualità umana molto preziosa e assai ammirata dalla gente; è una qualità che realizza bene l’attenzione al prossimo. Però può restringersi anche solo a qualche episodio, o limitatamente ad alcuni aspetti: uno è disponibile in un ambito (ad esempio verso gli ammalati), un altro in un ambito diverso. Inoltre, si parla di una persona disponibile solo in certi momenti o in limitate situazioni. Invece la parola dedizione è più ampia nel tempo e nelle varie situazioni di vita. “Dedizione” è il sostantivo che deriva dal verbo latino dedo, che in gergo viene chiamato: “verbo frequentativo”. Ossia, è un verbo che esprime un’azione ripetuta più volte, anzi, tante volte; un’azione che viene ripetuta normalmente, quasi sempre in determinati ambiti. Si dice allora che una persona vive una vera dedizione quando è pronta a donarsi, anzi, è sempre pronta a donarsi per chi ha un bisogno reale, o lo fa in qualche campo particolare e lo fa quasi sempre. Di solito, si parla di dedizione quando uno si presta ad aiutare gratuitamente, non per un guadagno, o per riceverne un plauso. Sono tanti i “Santi della carità”. Non sono quelli che hanno compiuto uno o qualche gesto di carità fuori dal normale verso il prossimo, ma chi normalmente, sempre, si è dimostrato pronto ad aiutare, a spendersi per gli altri. Non oso fare nomi perché sono proprio tantissimi: ognuno faccia il suo elenco personale dei “Santi della carità”. Però cedo al desiderio di citare una grande “Santa della carità” del nostro tempo e che tutti conosciamo: la Santa Madre Teresa di Calcutta. La dedizione nel campo della vita spirituale non si limita a chi ha… agito, ha compiuto tante opere; ma vale anche per chi non ha realizzato opere a vantaggio dei fratelli, ma giorno dopo giorno ha 23


vissuto pienamente la sua dedizione verso Gesù: sono per esempio i contemplativi, le persone che vivono tutti i loro giorni in un monastero. Qui ci bastino i nomi di giovani Sante: S. Teresa di Gesù Bambino e S. Elisabetta della Trinità, da poco proclamata Santa. Al di sopra di ogni esempio “luminoso” basti pensare alle mamme, umilmente e splendidamente dedite ai propri figli. Talvolta fino alla donazione della vita!

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DESIDERIO Non do una spiegazione filologica della parola “desiderio”. Mi interessa invece una spiegazione cordiale e di vita. Innanzi tutto “desiderio” dice mancanza di qualche cosa che al presente non possiedo; esprime quindi una povertà. Gli antichi latini usavano due verbi per indicare mancanza, povertà. Erano i verbo “deficio” e “desum”. Il primo indicava il venir meno di qualche cosa; era in fondo un verbo di movimento. Il secondo, invece, il verbo “desum” esprimeva una situazione stabile, uno stato di mancanza permanente, quindi una povertà vera e sofferta. Gli antichi nostri progenitori, i latini, usavano anche due termini per indicare la povertà: “paupertas” e “desidia”, ma con una forte differenza. Il primo, “paupertas”, indicava una situazione normale di vita, almeno con il necessario per vivere. Invece con il termine “desidia”, che ha almeno una assonanza con “desum”, esprimevano una mancanza molto forte, sofferta; la mancanza di qualche bene ritenuto assolutamente necessario per la propria vita. In chiave spirituale, se il termine “desiderio” corrisponde al termine latino “desidia” e cerca di capire l’incisività per la vita dell’espressione “desiderio di Dio”, rimango del tutto senza parole. In pratica: nella misura in cui vivo il “desiderio di Dio”, riconosco che, per me, per la mia felicità, io ho assolutamente bisogno di Dio, di vivere per Lui, con Lui! Emblematica è l’espressione di S. Teresa d’Avila, che desiderava ardentemente, non solo vivere per Dio, ma bramava addirittura contemplare il volto glorioso di Dio Padre in paradiso: «Muoio perché non muoio!». S. Teresa non era una esaltata; semplicemente viveva il desiderio di Dio! Ci vorrebbe qui un’intera enciclopedia di testi di veri mistici che in vario modo hanno manifestato il loro desiderio di Dio. Ne cito solo alcuni: «Gesù, chi mi guarda, Ti veda. Gesù, chi mi ascolta, Ti senta». «Vedere sempre Dio e la sua gloria in tutto ciò che facciamo, che diciamo e che intraprendiamo; che il nostro fine sia quello di essere i più perfetti adora25


tori di Dio in questa vita, come speriamo di esserlo per tutta l’eternità… Essa (la presenza di Dio) ispira alla volontà un disprezzo delle creature e l’accende del fuoco dell’amore sacro, perché, essendo sempre con Dio, che è un fuoco che consuma, egli riduce in polvere ciò che può essergli opposto, e quest’anima così infervorata non può più vivere se non alla presenza del suo Dio, presenza che produce nel suo cuore un santo ardore, un’urgenza sacra e un violento desiderio di vedere quel Dio amato, conosciuto, servito e adorato da ogni creatura» (Laurent de la Résurrection). «O eterna verità, o amore vero, o amata eternità! Tu lo sei, o mio Dio, giorno e notte a Te sospiro» (S. Agostino, Confessioni, libro VII, cap. X). S. Paolo, totalmente trasformato nel Cristo Gesù, arriva a dire: «Non sono più io che vivo in me: è Cristo che vive in me» (Gal 2, 20). Sono tutte esclamazioni “infuocate” che esprimono un bisogno profondo e sofferto, ma mistico, di Dio. Questa è la strada sicura per la santità. Chiudo con una preghiera di A. Ballestrero: «Signore, accendi anche noi, brùciaci con questa Fiamma, avvolgici di questo ardore perché la nostra vita si consumi per Te, come la tua vita per me è data, come la tua vita per me è offerta, come la tua vita per me è divenuta crocifissa».

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DISPONIBILE Il prefisso dis- significa: andare senza un cammino prefissato e ordinato. Il suffisso -bile significa che può essere… (ad esempio “promovibile”: che può essere promosso; “mangiabile”: che può essere mangiato). Il verbo PONO: In italiano è un verbo di movimento, dice che io sposto un oggetto da qui a là; esprime l’azione per cui un oggetto… è spostato da un luogo a un altro. In latino lo stesso verbo è un verbo di… stato terminale: esprime che un oggetto, che era qui, adesso si trova là ed… è là. Rifletti adesso sul significato di disponibile A DIO, considerando il significato latino di pono. Significa: Io prendo la mia vita e la sposto in Dio, ossia: non è più mia, ma è là, in Dio, è proprietà di Dio, per cui può farne quello che vuole. E il prefisso dis- afferma che non sono io a stabilire come, con quali mezzi e modalità consegno a Dio la mia vita, e soprattutto non tocca a me decidere e suggerire a Dio in quale modo Egli potrà usare della mia persona; ma è Lui che mi sposta, mi guida come vuole Lui! Questo è vero abbandono a Dio, una reale consegna di me a Dio! Questa è una via certa di santità! Questo ci rende perfettamente liberi dal proprio egoismo, dalle proprie ostinazioni e da se stessi. Dice A. Ballestrero: «Gesù è il vero disponibile a Dio». «Se lo cercano i bambini lo trovano, se lo cercano i sapienti lo trovano, se lo cercano i peccatori lo trovano, se lo cercano gli affamati lo trovano, se lo cercano i litigiosi lo trovano, se lo cercano i poveri lo trovano, se lo cercano i ricchi lo trovano; lo trovano tutti, non dice mai di no, e questa disponibilità per gli uomini riempie la sua vita ed è sempre uguale a se stessa. Disponibilità per parlare del Regno, disponibilità per documentare che Dio è Padre, e Provvidenza, che Dio vuol bene agli uomini, perdona, guarisce. E non si tratta di una disponibilità agli uomini alternativa a quella verso Dio, no! È questa di27


sponibilità verso Dio che lo rende disponibile per gli uomini. In altre parole lui è il “Dato”, si considera un Dono: non è egli a donarsi, è il Padre che lo dona, e lui non ha altre aspirazioni… Non c’è un gesto solo della sua vita con il quale egli abbia mostrato di occuparsi di se stesso, mai!» (A. Ballestrero, Gesù, il Salvatore, p. 147).

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ECCOMI Quante volte nella vita quotidiana diciamo: «Eccomi». Siamo così abituati a usare questa parola, che forse ci sfuggono i vari elementi legati all’Eccomi. Lo usiamo con naturalezza e spontaneità, per esprimere solo la nostra presenza a una determinata situazione, o come risposta a un invito che ci viene rivolto da qualcuno. Se ci penso, mi accorgo che il mio Eccomi presuppone sempre un invito o un comando da parte di un’altra persona. E anche se rispondo Eccomi con immediatezza, magari con un po’ di superficialità, dentro di me suscita reazioni, domande, dubbi, magari paure ecc. Mi si apre anche un futuro che mi impegnerà e che probabilmente adesso non conosco. Tutto questo è capitato a Maria SS. al momento della Annunciazione. Il racconto di Luca (Lc. 1, 26 ss.) mi presenta Maria in questo momento misterioso e divino. Mi immagino la situazione interiore della Madonna di fronte a un tale annuncio; la vedo innanzi tutto unificata in se stessa: mente, cuore, sentimenti, perfino il corpo profondamente unificati, tutti tesi verso un unico punto focale: l’annuncio dell’arcangelo Gabriele. In quel momento per lei non esiste più nulla all’infuori di Dio che le parla personalmente; neppure il suo Giuseppe ora è presente nel suo cuore; nulla e nessuno la poteva interessare; era tutta protesa a quanto l’arcangelo le stava dicendo e proponendo a nome di Dio; sì, nientemeno che a nome di Dio! Immagino quanti e quali dubbi, domande, paure, reazioni avrà sentito dentro di sé in quel momento! L’evangelista Luca scrive: «A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo» (Lc 1, 29). Vedo Maria SS. un po’ tentennante, dubbiosa e quasi impaurita; non riusciva a dare subito una risposta. Solo dopo essersi ripresa, trova la forza, con l’aiuto dello Spirito Santo, di esclamare: «Eccomi…» e il Sì che completa la sua presenza-disponibilità è una conseguenza inevitabile, necessaria, perché l’Eccomi che ha pronunciato prima l’ha messa in perfetta sintonia con Dio che le comunicava una Sua divina e impensabile volontà. Davvero, non le fu proprio possibile rispondere diversamente. 29


Personalmente sono tentato di pensare che, dopo aver detto con il cuore: “Eccomi” e “Fiat”, la Madonna si sarà tranquillizzata e avrà ripreso a vivere come prima, almeno agli occhi dei compaesani. Invece un noto filosofo, Massimo Cacciari, cerca di esaminare più a fondo l’animo di Maria, spaziando di più e mettendolo a confronto con l’animo di Giuseppe assai turbato in quel frangente. Ascoltiamo quello che scrive Cacciari: «Il timore e tremore che colgono Maria di fronte a quel saluto di incomprensibile altezza: sii lieta, tu, colma di grazia, il Signore è con te. Io “kecharitomene” (=piena di grazia)? Con me, in me il “Kyrios” (=il Signore)? Ecco una elezione assolutamente inaudita. Come non restarne sgomenti? Giuseppe può rasserenarsi (come già Zaccaria, quando vede esaudita la sua preghiera), non Maria. Che significa “essere pieni di grazia”? Né Zaccaria, né Giuseppe lo sono. Quale missione comporta? E Gabriele lo spiega: concepirai un figlio e lo partorirai, sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo, il Signore Dio gli darà il trono di Davide e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe. Solo a questo punto la paura della fanciulla giunge al culmine. Io eletta a partorire il Figlio? E come se non conosco uomo?, chiede; Elisabetta è vecchia. Ma non è vergine, e il figlio che le è donato non è il Figlio. La sua domanda ha un peso infinitamente più inquietante e paradossale: che significa che Dio è con me? Non ha Egli sempre accompagnato la storia di Israele? Quale “novità” allora si annuncia? Non questo o quel miracolo, risponde Gabriele, non semplici eventi straordinari, bensì il fatto che “non esiste impossibile” presso Dio. Proprio questo la tua storia sarà chiamata a rivelare, di ciò farai esperienza, che tu ne divenga o no consapevole… Il timore non viene perciò meno, si approfondisce vertiginosamente, nell’“amen” della giovane donna, e tuttavia non la fa vacillare… Avvenga secondo la tua parola. Non cerca di nascondersi come Eva. E inizia così la sua attesa, paziente quanto carica di angoscia. L’“Amen” di Maria è essenziale nell’“economia” del divino che questi testi già presagiscono. E “Da quel dì che fu detto Ave” (Paradiso XVI,34) inizia il nuovo Evo. Se la vita intradivina si fosse manifestata nella carne soltanto per forza e virtù propria, questa carne non avrebbe potuto apparire reale, e si sarebbe trattato di una “semplice” epifania del divino, già implicita nel suo essere Logos. E se il Sì della donna apparisse scontato, un atto necessario, il suo grembo si ridurrebbe a un superfluo contenitore di quella stessa epifania. Gabriele non viene a ordinare, non comanda a una serva; è Maria che ascolta e… “diviene obbediente” alla sua Parola. Ella beve il suo calice, come farà il Figlio. La sua obbedienza non ha nulla di semplicemente remissivo, 30


quietistico. Ella “giunge” a volere la volontà divina. Soltanto dopo aver patito la “propria” sofferenza lascerà che “Dio decida per lei”…. Il primo movimento, quello del turbamento e della paura, non è qualcosa che passa e si dimentica, bensì è destinato a restare fino alla Croce e oltre» (Massimo Cacciari, Generare Dio, Il Mulino, pp. 16-19). Forse è opportuno che prima di pronunciare un’altra volta la parola “Eccomi” nella vita semplice di ogni giorno, abbiamo ad esaminarci in profondità, e ci impegniamo ad accettare le conseguenze di quell’avverbio detto forse istintivamente. Se poi si tratta di rispondere “Eccomi” a Dio, è doveroso ricordare che prima della mia risposta c’è un invito che Dio rivolge a me personalmente. È il mio “Eccomi” a Dio, magari oscuro e faticoso, che dà valore cristiano alla mia vita quotidiana.

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FED… Quante parole della nostra lingua si rifanno alla radice “fed…”: fede – fedeltà – fiducia…, perfino federazione. Tutte esprimono qualcosa di sicuro, di fermo, di stabile, di inamovibile; qualcosa che dà sicurezza. Sono tutte parole che in un certo senso costituiscono un punto fermo per la vita, qualcosa di sicuro e di inamovibile su cui appoggiarsi per andare avanti, per guardare al futuro con una certa tranquillità, almeno con coraggio e costanza. In una parola, sono tutti termini che si collegano e favoriscono la speranza. Chi potrebbe vivere senza una speranza, almeno umana, senza scomodare la virtù teologale della Speranza? Prendiamone in considerazione una, una sola: la Fede, proprio con la iniziale maiuscola. Se la radice “fed…” dice fermezza, sicurezza, allora la Fede non è una “opinione”, una delle tante, non è un credere astratto come tanti altri. È invece la conoscenza per eccellenza della verità, quella che non ammette i “sì” e i “no”, ma solo un Sì fermo e sicuro, su cui posso giocare tutta la mia vita giorno per giorno; su cui posso osare le mie scelte, anche impegnative e difficili per il mio futuro. Dire “Fede” non è un frutto dell’intelletto e della ragione; insomma non è un frutto solo della mente, ma scende nella vita quotidiana, feriale, e riguarda anche le piccole scelte di vita. La Fede, per un cristiano, è la certezza più importante, indispensabile, ed è sicurissima perché ha come origine Dio stesso: difatti la Fede è la prima delle virtù teologali! Un esempio vivissimo di Fede, forte e problematica nello stesso tempo, è Simon-Pietro. A suo riguardo scrive il card. Biffi: «Sulle rive del Giordano Simone si imbatte in Gesù di Nazaret, l’essere più misterioso e affascinante che abbia mai camminato sulla terra. Gesù, fissatolo con uno sguardo penetrante e affettuoso, gli cambia il nome, il cuore, la vita; e così lo fa diventare uno dei protagonisti della vicenda spirituale dei figli di Adamo. Se credere vuol dire essenzialmente affidarsi con integralità appassionata al Figlio di Dio incarnato, unico Redentore e unica nostra speranza, Pietro è la personificazione della fede. E come maestro di fede è stato donato all’umanità, perché nella confusione dei pareri e nell’imperversare paralizzan32


te del dubbio ci fosse un riferimento certo di verità, garantito dall’alto: “Tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli” (Mt. 16, 19)… Sono molte le parole di Pietro registrate dalle narrazioni evangeliche, a volte esitanti, a volte troppo fiduciose; parole di scoraggiamento e parole di esaltazione, parole dubbiose e parole infervorate. Su tutte però splendono parole di fede, quelle che, divinamente ispirate, colgono il mistero di Cristo e lo propongono al nostro intelletto d’amore. Sono celebri le sue dichiarazioni di fede… Sono tre queste professioni esplicite… Professione nella Sinagoga di Cafarnao: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 68). Professione a Cesarea di Filippo: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16, 16). Professione sul mare di Tiberiade: “Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene” (Gv 21, 17)… Ai nostri giorni non mancano le parole; siamo anzi sommersi e frastornati dal multiloquio. Ci mancano le “parole di vita”: le parole che davvero ci nutrano di verità, che accendano in noi una reale speranza, che ci riscaldino l’animo. Ci mancano le “parole eterne”, quelle che non appassiscano nello spazio di un mattino, quelle che ci portano l’eco di ciò che gioiosamente si dice e si canta nel Regno. Ci mancano le “parole di vita eterna”, e le hai tu solo» (G. Biffi, Pietro, mistero di forza e debolezza, Paoline, pp. 72 ss.). Così la Fede diventa veramente madre della fiducia.

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GLORIA Ci sono delle parole che ripetiamo tante, tante volte nella preghiera liturgica e nella preghiera privata, ma delle quali non ci rendiamo perfettamente conto del significato, perché siamo troppo abituati a ripeterle quasi meccanicamente. Una di queste è gloria, anzi: gloria di Dio. Un giorno, per una mia esigenza di riflessione, mi sono chiesto: Che cosa intendo io personalmente con questo termine, specialmente quando lo uso riferito a Dio? È cosa buona che anche chi legge questa riflessione se lo chieda con sincerità, prima di continuare nella lettura. Sono andato a cercare il significato originario della parola ‘gloria’ e del verbo corrispondente. Ho trovato che in latino il nostro verbo ‘glorificare’ veniva espresso con clarificare. Mi sussultò il cuore e mi si illuminò la mente. Allora – mi dissi – “glorificare” significa “rendere chiaro, manifestare, far sapere ad alta voce, proclamare…” chi è Dio! (scusate: in latino quel… “di Dio” è un genitivo oggettivo, ossia è il complemento oggetto del verbo “clarificare”!). Vi auguro di fare la mia stessa esperienza di esultanza quando feci questa scoperta. A questo punto sono inevitabili alcune domande: «Chi è Dio?»; addirittura: «Come è Dio?». Ancora: «Come posso io, così… piccolo, gridare a tutti: Chi è e come è Dio?». Una risposta mi è abbastanza facile: Dio è Padre, quindi è amore, vita, bontà, misericordia…. E poi, mi chiedo per quale fine prendere un tale impegno, quello di far sapere a tutti che Dio è Padre, è amore e misericordia. Trovo una risposta ineffabile nella grande Preghiera Sacerdotale di Gesù nell’Ultima Cena (Gv 17). Ecco in proposito qualche spunto per la riflessione personale. La splendida Preghiera Sacerdotale ci insegna che la “causa”, il realizzatore della gloria di Dio è Gesù Cristo! Pertanto mi pare evidente che il nostro modo principale per realizzarla è, ancora una volta, vivere IN Cristo! Il resto è una conseguenza, una manifestazione della nostra personale vita cristocentrica. È Gesù che in noi rende gloria a Dio Padre. Prima di fare un commento a Giovanni 17, riporto il pensiero di due personalità: uno splendido 34


inno di un mistico, S. Paolo VI, e la riflessione di un pensatore profondo e un po’ scomodo, il card. Giacomo Biffi. Paolo VI così si esprimeva a Manila di fronte a due milioni di persone: «Io, Paolo, successore di Pietro, incaricato della missione pastorale per tutta la Chiesa, non sarei mai venuto in questo Paese estremamente lontano se non fossi fermissimamente persuaso di due cose fondamentali: la prima, del Cristo; la seconda, della vostra salvezza. Di Cristo. Sì, io sento la necessità di annunciarlo, non posso tacerlo. Sono inviato… da Cristo stesso per questo. Io sono apostolo, io sono testimone. Quanto più è lontana la meta, quanto più è difficile la missione, tanto più è urgente l’amore, che a ciò mi spinge. Io devo confessare il suo nome: Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio Vivente, Egli è il rivelatore del Dio invisibile, è il primogenito di ogni creatura, è il fondamento di ogni cosa; Egli è il Maestro dell’umanità, il Redentore; Egli è nato, è morto, è risorto per noi; Egli è il centro della storia del mondo; è Colui che ci conosce e che ci ama; Egli è il compagno e l’amico della nostra vita, Colui che deve venire e che deve, un giorno, essere il nostro Giudice e, noi lo speriamo, la pienezza eterna della nostra esistenza…. Non finirei mai di parlare di Lui. Egli è il Pane, la Fonte d’acqua viva per la nostra fame e per la nostra sete… A voi cristiani io ripeto il suo nome, a tutti l’annuncio: Gesù Cristo è il principio e la fine, l’alfa e l’omega; Egli è il re del mondo nuovo; Egli è il segreto della storia; Egli è la chiave dei nostri destini; Egli è il Figlio di Dio; è il Figlio di Maria, la benedetta fra tutte le donne, madre sua e madre nostra. Gesù Cristo; ricordate; questo è il nostro perenne annuncio; è la voce che noi facciamo risonare per tutta la terra e per tutta la fila dei secoli. Ricordate e meditate: il Papa è venuto qui fra noi e ha gridato: Gesù Cristo!» (Daniel Ange, Paolo VI, uno sguardo profetico, vol. I, p. 121). Allora: è proprio Lui, Gesù, il realizzatore della gloria di Dio! Gesù Cristo non è solo il realizzatore della gloria di Dio, ma è Lui stesso la Gloria di Dio! Scrive il pensatore e maestro card. Giacomo Biffi: «Gesù Cristo è uno che non si può schivare. Presto o tardi ci si imbatte in lui. E quando lo si incontra, dopo non si è più come prima. Si può anche far finta di non vederlo, si può cambiare marciapiede, si può mettersi a guardare l’una o l’altra delle molte vetrine del mondo per non incrociare il suo sguardo. Ma non è più come se non lo si fosse sfiorato; se non altro, quando lo si è evitato apposta, resta in fondo al cuore una specie di rancore verso di lui: “Perché si è messo sulla mia strada?”, e verso i suoi: “Perché continuano a parlare di lui?”, e anche verso se stessi: “Perché non ho svoltato prima?”. Di più, a Gesù Cristo ci si inchi35


na oggettivamente, nella realtà profonda delle cose, anche se soggettivamente non lo si sa o non ci si pensa. Uno rende omaggio senza volerlo alla sua venuta tra noi, quando taglia il panettone a Natale. Chi mette in programma una gita per le feste di Pasqua, ha la sua vita segnata implicitamente dalla risurrezione di Cristo anche se le sue intenzioni esplicite sono tutt’altre. Alla domenica, quando uno si alza più tardi del solito, celebra in qualche modo la vittoria di Cristo, anche se non gli viene neanche in mente. Chi mette la data in testa alla lettera che sta scrivendo, riconosce senza saperlo che con la venuta di Gesù è cominciata la storia nuova del mondo» (G. Biffi, Spiragli su Gesù, Edizioni Studio Domenicano, pag. 13). Solo mediante Cristo e… IN Cristo collaboriamo alla gloria di Dio! LA GLORIA DI DIO IN GIOVANNI 17 Il cap. 17 di Giovanni (la Preghiera Sacerdotale) ci dona l’ultima preghiera di Gesù rivolta al Padre per i Suoi amici, gli apostoli: è il testamento che lascia agli apostoli. È la più alta glorificazione di Dio Padre realizzata dalla comunione eterna tra Dio Padre e il Figlio, affinché anche noi uomini condividiamo, in Cristo, la comunione con il Padre. In tutto il capitolo ci sono due termini ricorrenti più volte per indicare (forse: suggerire) il contenuto più profondo di una tale ineffabile preghiera; sono COMUNIONE e GLORIA. COMUNIONE È il contenuto più profondo della preghiera di Gesù: – Comunione di Gesù col Padre; – Comunione dei discepoli con Dio Padre, per mezzo di Gesù: si tratta di vivere IN Gesù; – Comunione tra il Padre e tutti gli uomini, per mezzo dei discepoli. GLORIA È giusto il detto: “Motus in fine velocior” (la corsa diventa più veloce con l’avvicinarsi della meta). La conclusione solenne dell’ultima preghiera di Gesù con ‘i Suoi’ è proprio il culmine della 36


contemplazione. Dice l’evangelista Giovanni: «La gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano una cosa sola come noi siamo una cosa sola… Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato…» (Gv 17, 24). Il fine della triplice comunione è la gloria di Dio, cioè del Padre e del Figlio, il Verbo Incarnato, cioè Gesù. All’inizio della preghiera S. Giovanni usa più volte il verbo “glorificare”, e al v. 5 usa il sostantivo “gloria”. E al termine usa ancora due volte il sostantivo “gloria” (v. 22 e v. 24) per affermare chiaramente che tutto tende alla gloria del Padre e del Figlio. Al v. 4 Gesù chiede al Padre che faccia sapere che Lui, il Figlio, ha fatto pienamente la volontà del Padre, cioè ha realizzato la salvezza degli uomini, in cui consiste la gloria del Padre: «Io ti ho glorificato sulla terra, Padre, compiendo l’opera che mi hai dato da fare». Un insegnamento per noi. Lo scopo di ogni preghiera, personale e comunitaria, è e deve essere sempre la gloria di Dio, ossia riconoscere e proclamare in ogni situazione umana che Dio è Amore. È opportuno pregare spesso con un salmo “laudativo”, uno degli ultimi del Salterio, uno come questo: «Loda il Signore, anima mia; loderò il Signore per tutta la mia vita, finché vivo canterò inni al mio Dio» (Salmo 145). Ottima preghiera è anche il Gloria della Messa, o il Magnificat, l’esplosione di lode a Dio da parte di Maria SS. Termino con una riflessione di un maestro speciale, il card. Anastasio Ballestrero, su Gesù, il vero glorificatore di Dio: «Il senso del Padre lo travolge, lo colma, lo fa vivo… Noi non riusciamo a pensare a Gesù uomo di Dio in altro atteggiamento che in questo: a livello del suo essere è talmente penetrato dal senso del Padre, dal senso di Dio, che la sua realtà umana non è altro che il frutto di questo senso dell’essere di Dio, questo senso che Dio è Dio e che lui è la creatura che lo confessa…. Gesù è il profeta di Dio, il rivelatore di Dio, il glorificatore di Dio. Se gli si levano queste occupazioni, che non sono soltanto gesti ma sono sostanza della sua esistenza, di Gesù non ci resta più niente. È per questo che noi non possiamo fare a meno di sottolineare che Gesù ha sempre dato alla sua esistenza terrena il significato di gloria di Dio…. La gloria di Dio! Renderla manifesta, testimoniarla, 37


confessarla, cantarla, lodarla. È un uomo Gesù che davanti a Dio si esalta, davanti a Dio vibra, diventa una creatura incandescente… Momento per momento gli avvenimenti della sua vita sono in funzione di Dio: lo annunzia, lo serve, lo glorifica, lo ama. Tutto nella sua vita prende significato proprio da un atteggiamento religioso verso Dio» (A. Ballestrero, Gesù il Salvatore, Piemme, p. 27). Non posso tralasciare qualche pensiero di una Santa contemplativa, S. Elisabetta della Trinità: «Una “lode di gloria” è un’anima che dimora in Dio, che lo ama di un amore puro e disinteressato, senza ricercare se stessa nella dolcezza di questo amore, che lo ama al di sopra di tutti i suoi doni come se nulla avesse ricevuto, fino a desiderare il bene dell’oggetto così amato… Una “lode di gloria” è uno specchio che riflette Dio in tutto ciò che Egli è, è come un abisso senza fondo in cui Egli può fluire ed espandersi… L’anima che conserva ancora qualche cosa nel suo dominio interiore, le cui potenze non sono tutte “incluse” in Dio, non può essere una perfetta “lode di gloria” , non è in grado di cantare senza interruzione quel “canticum magnum” di cui parla S. Paolo».

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IL VIVENTE Che differenza tra “vivo” e “vivente”! Il primo è un aggettivo ed esprime la condizione di chi non è ancora morto e conduce la sua vita “da uomo” con i vari problemi e le sue belle soddisfazioni. Anche quando uno viene fatto risorgere torna ad essere vivo, proprio come viveva prima della sua morte. È il caso di dire: prima della sua prima morte! Il Vangelo presenta diversi casi di persone fatte risorgere: vedi Lazzaro innanzi tutto; vedi il figlio della vedova di Naim e anche la fanciulla Talità. Invece vivente è un participio presente; come tale esprime qualcosa di dinamico che pensa e che agisce, non di statico, una semplice situazione. Significa addirittura che è principio di vita; che ha in sé la vita; perfino dice che trasmette la vita ad altri. Che differenza tra le due parole! Se poi si aggiunge l’articolo determinativo il, esprime che non è uno dei tanti… viventi, ma si vuol dire addirittura che è lui ‘il vivente’ per antonomasia; vuol dire che è lui, e soltanto lui, il vero e autentico vivente! È proprio il caso di Gesù! Lui stesso ha proclamato di essere Il Vivente! Lo afferma nel libro dell’Apocalisse, l’ultimo libro della Bibbia, quello che in un certo senso riassume tutto l’insegnamento della Parola di Dio. Risorgendo da sé, non fatto risorgere (perché è Dio!), sconfigge la morte, in modo speciale la Sua morte. Ritorna così, non solo a vivere, come fece Lazzaro, ma diventa nientemeno che il vincitore della morte, continua a vivere e non può più morire, perché ormai la morte è vinta. Per questo motivo Gesù, Lui solo, è IL VIVENTE! Una conseguenza ovvia: se io mi unisco a Lui, mi… innesto in Lui (mediante l’Eucaristia) anch’io divento vivente IN LUI! E divento un trasmettitore di vita, un vero missionario. Con S. Paolo posso perfino dire: «Adesso non sono più io che vivo, ma sei Tu, Gesù, che vivi in me» (Gal 2, 20).

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INTUITUS ET DILEXIT… Sono due voci verbali latine che normalmente vengono tradotte così: «Fissò e amò». A me pare che una tale traduzione sia piuttosto riduttiva. INTUITUS è il participio perfetto del verbo “intueor”, che significa: “guardare dentro fino in fondo, scrutare, scandagliare…”; nello stesso tempo “tueor” esprime anche il rendere sicuro. Quindi il significato completo dell’espressione è: “scrutare, guardare dentro fino in fondo una realtà… per renderla sicura”; quindi per darle una consistenza speciale. DILEXIT è l’indicativo perfetto di “diligo”. Questo verbo non esprime solo un amore di amicizia, un amore non interessato; ha un altro significato: “amare e scegliere, tirare fuori da…”. Se poi questi verbi sono usati da Gesù, acquistano un significato religioso: esprimono un atto di Gesù verso una persona per indicare la volontà di Gesù di mettere questo uomo in un rapporto speciale di amicizia con Lui e di “tirarlo fuori” dal gruppo degli uomini… comuni. I Vangeli ci dicono che Gesù in qualche raro caso usò questi due termini per invitare un giovane a seguirlo totalmente, forse nel sacerdozio o nella vita consacrata. Qui è necessario ascoltare ciò che dice l’evangelista Marco nell’episodio tanto noto del Giovane ricco; ascoltiamolo: «Mentre andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?”. Gesù gli disse: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”. Egli allora gli disse: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”. Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri; e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!”. Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni» (Mc 10, 17-22). 40


È un quadretto ineffabile: è necessario immaginarci con la fantasia, e con il cuore, di essere lì, con Gesù, tra la folla, magari curiosi e osservare attentamente la scena che si svolge. Vedo Gesù attorniato dai discepoli mentre sta proclamando il Regno. A un certo momento si fa avanti un giovane che gli pone una domanda: «Maestro, che cosa devo fare per avere la vita eterna?», ossia, per essere tuo vero discepolo. Gesù continua a volgere il suo sguardo su tutti i presenti, quasi per rispondere a tutti: «Osserva i comandamenti». Il giovane fa presente a Gesù che li ha sempre osservati. Allora Gesù fissò i suoi occhi negli occhi del giovane (ora gli interessava solo lui), e lo scrutò fino in fondo, quindi lo amò e gli disse: «Se vuoi, va’, vendi quello che hai, distribuisci tutto ai poveri. Poi, vieni e seguimi». Gesù guardò dentro nel cuore di quel giovane con intensità, lo scrutò e lo scandagliò fino nel più profondo della persona! Chissà che cosa provò in sé quel giovane vedendosi analizzato e scandagliato nella sua persona così com’ è, nientemeno che da Gesù stesso. «Et dilexit eum» – dice il testo latino. Qui, per indicare l’amicizia profonda e bella di Gesù verso quel giovane, il vangelo non usa il verbo “amare”, che indica un amore che esige di essere contraccambiato; usa invece il verbo “diligere”, che significa “scegliere per amare”. Ecco il significato dell’intera frase: Gesù scruta fino in fondo il cuore di quel giovane e… lo tira fuori dal gruppo perché gli vuole un bene profondo e impegnativo. Adesso guarda solo lui, fissa i suoi occhi solo negli occhi di quel giovane (pare che gli altri non gli interessino in questo momento), e solo a lui dice: «Vieni e seguimi! Se vuoi!»). Due sole voci verbali (vieni – seguimi) racchiudono tutto il cammino che Gesù propone al giovane ricco. Credo che di fronte a quello sguardo ‘unico’ di Gesù, ogni persona desiderosa di felicità, si sarebbe sentita “liberamente costretta” a dirgli: «Vengo!». Sì, è proprio così: “liberamente costretta”! Mi si presentano alla mente tanti esempi di vocazioni sacerdotali e religiose. È favoloso quel: «Se vuoi!». È sempre Gesù che propone un cammino di vita, ma in ogni caso vuole la libera risposta dell’uomo, perché l’uomo agisce “da uomo” solo quando esercita la sua libertà e responsabilità.

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MEMORIALE È una parola che nel linguaggio comune non usiamo quasi mai; eventualmente significa: richiamare alla mente, celebrare un fatto importante del passato. Già un tale uso ha una sua importanza. Niente più. Invece, memoriale è un termine oramai quasi solo di uso liturgico ed ha un significato ampio e assai importante. Comprende sempre tre aspetti, tre elementi delle varie celebrazioni liturgiche.: RICORDO – RINNOVAZIONE – PREPARAZIONE. Mi spiego. RICORDO Il primo aspetto consiste nel richiamare alla nostra mente e al cuore un fatto del passato che riguarda Gesù. È quasi un rivedere almeno con la fantasia un determinato episodio della vita di Gesù. Questo primo elemento di un “memoriale” dà concretezza alla liturgia, che in tal modo non si riduce alla pura lettura di testi sacri, o a una semplice riflessione spirituale. Ricordiamo che la liturgia è “azione”, non una semplice lettura, e tutta l’assemblea è invitata a partecipare personalmente a questa azione. Come vivere un “memoriale” sotto l’aspetto di ricordo? Innanzi tutto si tratta di… rivedere (con la fantasia) Gesù in una determinata situazione, in quel preciso luogo che vogliamo richiamare alla mente: rivedere Gesù e le persone presenti, l’ambiente ecc. Tentare anche di riascoltare quanto Gesù disse in quella circostanza. A questo scopo è necessario ascoltare la lettura di testi della Bibbia che ci riportano a quella determinata situazione e quasi ce la fanno rivedere. In un secondo momento (ed è assai più importante) si cerca di rivivere, di condividere i sentimenti che Gesù ha vissuto in quel momento, e ripensare ai motivi, alle motivazioni per cui ha vissuto quel fatto particolare della sua vita. Ancora è necessario cercare di risentire in noi i fini che Gesù si era proposto con quella azione. 42


Mi limito a un esempio che ci tocca da vicino, forse tutti i giorni: l’EUCARISTIA. Mi chiedo: Quali furono i sentimenti che Gesù visse intensamente dentro di sé nel momento in cui istituiva il… massimo sacramento che è l’Eucaristia? Al primo posto vedo la volontà di redenzione, ossia la volontà di riagganciare l’uomo a Dio, rimettere l’uomo nella dignità iniziale, perché in questo sta la gloria di Dio. Un secondo sentimento di Gesù nell’istituire l’Eucaristia è l’offerta al Padre. È una offerta libera di Gesù, non una costrizione del Padre; il Padre non gli ha detto: «Fatti uomo e muori per me, quasi per ripagarmi del peccato dell’uomo». In terzo luogo vedo l’accettazione della sofferenza come via alla redenzione. Non penso che Gesù abbia desiderato soffrire e morire in croce senza un motivo profondo. Ha accettato perché, misteriosamente, questa era la volontà del Padre. Un altro sentimento di Gesù nell’istituzione dell’Eucaristia era il desiderio di amore e di unione con i Suoi amici. È un sentimento espresso chiaramente, direi appassionatamente, nel Vangelo di Giovanni, al cap. 17. «Ut unum sint!» (affinché siano una cosa sola!). Mi chiedo: «Quante volte durante la S. Messa preghiamo così: “Padre, siamo qui a partecipare alla S. Messa ut unum sint gli uomini di oggi”?». Sarebbe opportuno rimeditare tutta la preghiera sacerdotale di Giovanni. RINNOVAZIONE Dire “rinnovazione” a proposito di un memoriale non significa ripetere l’atto compiuto da Gesù, il fatto storico, ma è rinnovare realmente, rendere attuale l’efficacia del fatto-mistero della vita di Cristo. Ogni mistero della vita di Gesù è un sacramento, ossia un segno efficace; significa che, mentre lo ricordiamo, mentre lo facciamo rivivere attraverso i gesti che compiamo liturgicamente e le letture bibliche connesse, questo ricordo ridiventa vivo nella sua efficacia, cioè ridiventa sempre efficace nel tempo, qui, ora, per gli uomini di oggi, come se Gesù compisse proprio adesso questo atto per noi. L’esempio più chiaro è ancora quello dell’Eucaristia, segno efficace della Redenzione. Mentre la vivo come ricordo, il va43


lore, lo scopo dei testi liturgici dell’A.T. e del N.T., le antifone della Messa, tutti i gesti che ripetono quelli compiuti da Gesù (prese il pane, prese il calice), le parole che Egli pronunciò, rendono attuale l’efficacia dell’atto compiuto da Gesù il Giovedì Santo. In ogni Messa rendiamo presente e attuale, grazie alla nostra personale partecipazione, la gloria del Padre e la salvezza de gli uomini. Una spiegazione esauriente ci è data da Antonio di Monda: «Il ricordo, per essere veramente efficace e rispondere allo scopo, non può essere pura e semplice rievocazione. Un “ricordo” cosiffatto è come un guizzo d’onda, che subito vi rientra, annullandosi. Come tale, anche il ricordo è una cosa morta. Per essere veramente vivo deve diventare “memoriale”. Il memoriale ha questo di diverso dal semplice ricordo: che la rievocazione è vissuta, partecipata e fatta propria. Il passato, allora, veramente tornato a vivere, è riattualizzazione; ed esso, sia pure in maniera misteriosa, continua ad operare, come se non fosse del tutto passato. È questo ciò che avviene nel culto rituale dove ricordo e celebrazione sono strettamente uniti» (A. Di Monda, L’Eucaristia: un Dio a servizio dell’uomo, Edizioni Il tesoro eucaristico, Siena, p. 27). PREPARAZIONE Preparazione a che cosa? All’incontro finale con Gesù Cristo glorioso e giudice della nostra vita. Questo è il fine della vita dell’uomo, è la “pienezza” della nostra vita. Può sembrare un po’ difficile, perché questo aspetto di un “memoriale” non lo vediamo, non lo percepiamo affatto con i sensi ed è molto lontano nel tempo; eppure ogni volta che celebriamo un “memoriale” della vita di Gesù noi facciamo un passo in avanti verso l’incontro col Cristo giudice, quindi ci avviciniamo alla meta finale, il Paradiso. Si usa dire, popolarmente, “meritiamo” il Paradiso. N.B. A questo proposito sarebbe opportuno riflettere su un brano di S. Paolo nella lettera ai cristiani di Corinto: I Cor 15, 2428. Per un ampio commento rimando al mio libretto Eucaristia, memoriale e segno, pp. 11-17.

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NUOVO L’aggettivo “nuovo” lo usiamo spesso senza riflettere molto sul suo significato completo. Siamo pertanto abituati a usarlo in tante circostanze, per cui finiamo per usarlo quasi con un po’ di… superficialità. Invece la Parola di Dio gli dà un significato più profondo, specialmente nel libro dell’Apocalisse. Ascoltiamo: «E vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo… E Colui che sedeva sul trono disse: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”» (Apoc 21, 1-2; 5). Siamo alla conclusione (meglio: siamo al completamento) di tutta la Parola di Dio: il brano è preso dal penultimo capitolo dell’Apocalisse, che è l’ultimo libro della Sacra Scrittura. Forse vuole lasciarci un insegnamento non solo riassuntivo, ma che in un certo senso voglia completare, condensare tutto quanto è contenuto nella Bibbia. “Completare” perché questa “parola” ci porta addirittura al di là della morte; anzi ci invita a spingere lo sguardo fino alla fine dei tempi, perfino oltre il tempo, ossia: nell’eternità. Per tale motivo acquista un valore speciale l’aggettivo nuovo ripetuto ben quattro volte nei pochi versetti: “nuovi cieli”, “nuova terra”, “Gerusalemme nuova”, “nuove tutte le cose”. E aggiunge che il “nuovo” è opera dell’Agnello, il Cristo glorioso. Di solito usiamo l’aggettivo “nuovo” per indicare qualcosa che prima non c’era; oppure, intendiamo che la realtà di cui parliamo adesso è diversa da come era prima. Già questo significato ha un suo valore importante, ma non è sufficiente. In latino il termine “novus” esprime contemporaneamente due elementi: diverso dal precedente, e definitivo, ossia… “per sempre”. Nell’Apocalisse acquista un “peso” ancora più forte, perché l’evangelista Giovanni lo usa in una visione… “paradisiaca”, che riguarda il paradiso, quindi la vita finale e felicissima. Trattandosi di paradiso (ossia l’eterna felicità dell’uomo nella gloria di Dio), la diversità espressa dall’aggettivo “nuovo” non può che essere bella, felice, fonte di eterna gioia! Vale la pena adesso di rileggere con calma, in profondità, le affermazioni di Apocalisse 21: “nuovi cieli”, 45


“nuova terra”, “nuova Gerusalemme”. Ed è necessario ricordare che una tale ‘novità’ non è opera dell’uomo; tanto meno si può affermare che è un fatto naturale, che si è formato da sé. L’Apocalisse insegna senza alcun dubbio che la novità del paradiso (la felicità eterna) è opera dell’Agnello, cioè di Gesù Cristo. Riassumo il tutto in tre insegnamenti fondamentali: – con la morte non finisce tutto; nemmeno alla fine dei tempi. S. Paolo dice: Con la morte la vita non è tolta, ma trasformata; – la vita continuerà per sempre e sarà eternamente felice, molto più bella dell’attuale; – tutto questo è opera di Gesù Cristo, il Vivente e unico Salvatore.

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SALE E LUCE Sale e luce sono due sostantivi che usiamo quasi quotidianamente senza approfondirne gli effetti e le condizioni. Invece il vangelo di Matteo ci invita a riflettere almeno sul contesto in cui egli li usa: subito dopo il brano basilare delle beatitudini, quasi per renderle “a misura d’uomo”, più inserite e incisive nella vita concreta, non solo come valori di principio. Ecco che cosa scrive Matteo: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5, 13-16). Perché subito dopo le beatitudini parla di sale e di luce? A chi si riferisce con quel “Voi…”? Proprio questa è la “novità” che ci interessa. Mi spiego. La nona beatitudine, rispetto alle altre otto, segna una svolta: mentre le altre possono sembrare… generiche e affermazioni di principio, quindi un po’ astratte, la nona beatitudine è rivolta, quasi con violenza, a chi gli sta di fronte e lo sta ascoltando a bocca aperta; si rivolge proprio, personalmente e individualmente, a costoro, cioè agli apostoli, estasiati e stupiti dell’insegnamento di Gesù. E li tratta male, prevede per loro sofferenze e dolori, perfino la morte, eventualmente; ma “per causa mia” – sentenzia Gesù. Questo significa: «Cari apostoli: la vostra vita ha valore perché siete miei amici, perché avete legata la vostra vita, tutta quanta, a me, fino al punto di non avere altri interessi e di imitarmi il più possibile». Proprio per questo, il “Voi…” del v. 13 è la continuazione del “Voi…” del versetto precedente, che non promette nulla di facile per i Suoi amici, gli apostoli. Anche i “Voi” diventano tre, forse per dire che «Voi siete il sale; voi siete la luce» dipendono dal primo “Voi…”, che è proprio la nona beatitudine! 47


Ovviamente la parola di Gesù arriva fino a noi! Proviamo allora a fare qualche osservazione. Innanzi tutto: Ci sentiamo chiamati in causa personalmente, oggi, da quel “Voi…”?! Inoltre, Gesù dice agli apostoli e ai discepoli presenti in quel momento: SIETE. Sì, adesso, così come siete nelle vostre caratteristiche personali, “siete” realmente, di fatto, “il sale della terra”, e Gesù li conosceva bene, sapeva che erano uomini molto limitati, litigiosi, diversi l’uno dall’altro, paurosi e perfino pigri; eppure dice loro: «Siete»! A Gesù non interessano tutti questi elementi non positivi; pare che dica loro: «Perché vi siete coinvolti con me fino al punto di essere odiati anche voi come me, anche se non lo volete o non ci pensate espressamente, voi siete testimoni di me nel mondo»! Oggi ripete a noi, a ciascuno di noi che, nonostante i nostri limiti e difficoltà personali, siamo davvero… “sale della terra”, ossia siamo l’anima della nostra attuale società… È proprio vero: «Con la vostra presenza e la vostra azione – proclama Gesù – date un significato e un valore superiore alle azioni che compite (perfino alle singole azioni) rispetto a quelle degli altri. Di più: con la vostra presenza attiva nella società voi spronate anche i distratti, i superficiali, a porsi delle domande di senso, quelle che talvolta inquietano, ma che sempre rendono la vita più frizzante, più vissuta!». Un’altra osservazione: Gesù usa l’indicativo presente (“Siete”), non il futuro (“sarete”): siamo sale adesso, nelle nostre quotidiane fatiche e dubbi, nelle differenti situazioni di vita e nel nostro ambiente di vita con la nostra fedeltà, onestà e coerenza, e lo siamo nonostante i nostri limiti e difetti. Unica condizione richiesta è: essere sale, non zucchero! SALE, NON ZUCCHERO Gesù dice: «… Ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato?…». Non vedo in questo richiamo di Gesù la necessità di essere una persona “qualificata”, umanamente parlando, con doti speciali o che occupi posizioni di prestigio. 48


Qui, “zucchero” indica pigrizia, apatia, vita trascinata, senza entusiasmo; indica una spiritualità incolore, senza una convinzione viva e senza passione missionaria; senza un rapporto coinvolgente con Gesù; oserei dire: una vita non cristocentrica. Solo quando uno ha dentro di sé il fuoco dello Spirito Santo, brucia le scorie mondane e incendia tutto con l’amore di Dio. Il papa Benedetto XVI disse che il cristiano deve avere il cuore infuocato dall’amore divino per poter incendiare il mondo intero. Anch’io mi interrogo chiedendomi: «Io, sacerdote, ho il cuore infuocato dall’amore per Gesù? Se no, il mio ministero, in sé sempre valido, è però poco efficiente». E tu, chiediti: «Sono ancora sale nella società di oggi in tutti i vari campi del vivere comune, oppure sto scivolando nel dolce sapore dello zucchero?». Abbi l’onestà di porti una tale domanda in verità e di darti una risposta sincera. Richiamo le principali funzioni del sale e le condizioni affinché il sale sia sale e non zucchero. FUNZIONI – Dà sapore ai cibi, a ciascuno il proprio sapore, non quello del sale. – Preserva dalla corruzione i cibi. – Purifica, bruciando, le ferite. Il sale compie le sue funzioni a determinate CONDIZIONI – Il sale sia… sale, non zucchero. – Non rimanga nel recipiente, ma sia… nei cibi! – Si sciolga completamente, altrimenti rovina il sapore dei vari cibi. L’applicazione alla presenza e all’azione del cristiano nella società è evidente! È necessario ricordare che una tale applicazione vale anche per l’intera comunità cristiana, non solo per il singolo. Tutta la Chiesa (o meglio: tutti i cristiani!) devono comportarsi come sale, non come zucchero nei vari ambiti della vita sociale, altrimenti scandalizziamo i fratelli, specialmente i più fragili quanto alla fede. A tale proposito mi ritorna ancora alla mente, e specialmente nel cuore, il dolore espresso dall’allora arcivescovo di Milano, Card. Montini, a un gran numero di operai di un grosso stabi49


limento milanese; disse loro con voce angosciata: «Se una voce si potesse far pervenire a voi, figli lontani, la prima sarebbe quella di chiedervi amichevolmente perdono. Sì, noi a voi, prima che noi a Dio. Quando si avvicina un lontano, non si può non sentire un certo rimorso. Perché questo fratello è lontano? Perché non è stato abbastanza amato. Non è stato abbastanza curato, istruito, introdotto nella gioia della fede. Perché ha giudicato la fede dalle nostre persone, che la predicano, che la rappresentano; e dai nostri difetti ha imparato forse ad avere noia, a disprezzare, a odiare la religione. Perché ha ascoltato più rimproveri che ammonimenti e inviti. Perché ha intravisto, forse, qualche interesse inferiore al nostro ministero, e ne ha patito scandalo… Ebbene, fratelli lontani, se è così, perdonateci. Se non vi abbiamo compreso, se non ci siamo curati di voi, se non siamo stati buoni maestri di spirito, se non siamo stati capaci di parlarvi di Dio come si doveva, se vi abbiamo trattati con l’ironia, con il dileggio, con la polemica, oggi vi chiediamo perdono» (J. Guitton, Dialoghi con Paolo VI, Rusconi, pp. 79-80). Riascoltando questa “sofferenza” di Paolo VI mi sono chiesto anch’io: Io, sacerdote, sto vivendo il mio ministero come “sale”, oppure sto diventando lentamente e senza accorgermene come lo zucchero, giustificandomi spesso o vivendo il mio ministero come una “professione”? Ogni cristiano autentico dovrebbe porsi qualche volta la domanda: «Sono davvero sale nella società di oggi, o sto scivolando nel dolce sapore dello zucchero?». Provi ciascuno a darsi una risposta vera e sincera. LUCE, NON NEBBIA È un termine molto, molto presente nella Bibbia; mi basta ricordare due citazioni tra le tante: l’inizio, proprio il primo versetto di tutta la Parola di Dio (Genesi 1,1) e l’episodio evangelico del cieco-nato guarito da Gesù (Giovanni 9,1-41). Genesi 1,1: «Dio disse: Sia la luce e la luce fu…». La prima realtà creata da Dio è proprio la luce: questo ci insegna che senza la luce non esiste vita e non esiste bellezza. Giovanni 9,3: «Io sono la luce del mondo…» Solo Gesù è la vita del mondo e rende belle tutte le realtà esi50


stenti. Anche per la luce, come per il sale, richiamo le funzioni principali e le condizioni necessarie:

FUNZIONI – La luce, anche quella artificiale, fa vedere le varie realtà esistenti, ma non le fa esistere. Il cristiano non ha la pretesa di inventare nuovi valori. Il suo compito è quello di far vedere, mettere in risalto tutto ciò che è un bene per l’uomo. Per questo il cristiano è un promotore di speranza. – Fa brillare la bellezza delle cose che esistono. Il cristiano, con la partecipazione alla vita sociale, favorisce lo scoprire il bello che c’è in ogni cosa creata proprio perché creata da Dio. – Permette di evitare i pericoli sulla strada quando siamo in cammino verso una meta precisa. Compito del cristiano è quello di indicare ai fratelli che il fine ultimo della nostra vita è il Paradiso; quindi aiuta a vivere in modo… trascendente. CONDIZIONI – Non nascondere la lucerna sotto il moggio – dice il Vangelo. Papa Francesco ripete spesso che bisogna uscire da se stessi; bisogna inserirsi nel mondo, bisogna ‘sporcarsi le mani’ con i fratelli, specialmente con quelli che hanno più bisogno di aiuto. Quindi: vincere l’egoismo e l’indifferentismo. – Sia luce piena, molto luminosa; non una penombra. Oso affermare che un cristiano incide “da cristiano” nella società nella misura in cui vive una vita “cristocentrica”, ossia fondata sulla preghiera e specialmente sull’Eucaristia. È la luce piena, forte, che fa vedere anche la polvere. Oggi occorrono testimoni autentici, dei veri… “facitori di speranza” per un mondo che vive nella penombra! Dice bene la Lettera a Diogneto, un documento del III secolo d.C., a proposito del valore dei cristiani nel mondo: «I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per la nazione, né per la lingua, né per la maniera di vestire. Non abitano città proprie, non si servono di una lingua speciale, il loro genere di vita non ha nulla di singolare… Sono sparsi nelle città greche e barbare seguendo la sorte toccata a ciascuno; si conformano agli usi locali per il vestire, il mangiare, il modo di vivere, pur manifestando le straordinarie e veramente paradossali leggi della loro repubblica spirituale… Ognuno vive nella sua patria, ma al modo degli stranieri domiciliati. Adempiono tutti i loro doveri di 51


cittadini e sopportano tutti gli obblighi come gli stranieri… In una parola, quello che l’anima è nel corpo, i cristiani lo sono nel mondo. L’anima è diffusa in tutte le membra del corpo come i cristiani nelle città del mondo. L’anima abita nel corpo, eppure non è del corpo, come i cristiani abitano nel mondo ma non sono del mondo».

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SIMPATIA È un altro termine che solitamente viene usato con un significato improprio, o in senso solo positivo. Secondo il modo popolare di parlare, la parola “simpatia” esprime intesa affettiva, istintiva e pre-razionale, talvolta anche emotiva, tra due persone. Si vuol dire che quelle due persone si “intendono” istintivamente, si sentono “amiche”, prima o indipendentemente da ogni giudizio razionale: hanno gusti simili, hanno le stesse vedute e, quasi, gli stessi pensieri e le stesse preferenze nel modo di vivere. Tutto questo facilita l’amicizia, la collaborazione e aiuta a condividere alcune scelte. Tutto in chiave positiva; ed è motivo di gioia. Invece anche questo termine è di origine greca e significa: provare gli stessi sentimenti, avere le stesse emozioni interiori, sia positive, sia anche negative. La parola “simpatia” è composta da: “sin”, che in greco vuol dire: “insieme” e dal sostantivo “pathos”, che esprime il movimento interiore affettivo, psicologico, emotivo dell’uomo. Prende tutta la parte interiore, sensibile (= dei sensi) dell’uomo. È evidente che tali movimenti interiori possono essere positivi o negativi, buoni o cattivi. Da qui si passa poi a usare il termine ‘simpatia’ con valore solo positivo; infatti il prefisso “sin”, che significa “insieme”, viene inteso solo per un fine positivo, perché, se due persone vivono “insieme”, pensano quasi allo stesso modo e tendono ad agire insieme, è naturale e ovvio pensare che vadano d’accordo. Invece, per esprimere un “pathos”, un sentimento o emozione o qualcosa di sensibile ma negativo, si usa il termine “antipatia”, ossia: provare emozioni, sensibilità interiori contrarie, avverse nei confronti di qualcuno. La “simpatia”, nella vita concreta quotidiana, è una molla importante per agire gioiosamente e sempre favorisce l’intesa tra persone. Pertanto la simpatia può facilitare perfino la comunione, perché l’agire emotivamente in base ai sentimenti è proprio naturale nell’uomo. Ovviamente l’antipatia, al contrario, porta facil53


mente, addirittura inevitabilmente, alle incomprensioni, alle divisioni e, speriamo, che non si vada più in là! Anche nel campo spirituale la simpatia serve non poco a cementare l’intesa e la comunione tra i vari componenti una comunità cristiana. Quando si parla di amare i fratelli, se riflettiamo, entra come elemento dell’amore reciproco, almeno in parte, una buona dose di simpatia. .

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SOMIGLIANZA La primissima pagina della Bibbia, il libro della Genesi (che significa “origine”), ai vv. 26 e 27 del cap. I, appena parla dell’uomo, dice con chiarezza e a voce alta (cioè “proclama”) che ogni uomo, nato o non ancora nato, sano o molto ammalato, intelligente e bello oppure no, è “immagine e somiglianza di Dio”. Se riflettiamo su questi due termini, rimaniamo davvero stupiti (lo stupore…!) per le conseguenze che derivano per la vita dell’uomo. Il termine immagine mi dice che l’uomo è in se stesso, nella sua realtà più profonda, una relazione, non un “assoluto”! Ossia, l’uomo non è mai un “a sé, in sé, per sé”! C’è da riflettere non poco su questa costatazione. Però, oggi a me interessa di più riflettere sul significato esaltante del termine somiglianza. Trovo espresso con questo termine un valore profondamente umano e spirituale, che dà significato e, direi, colore a tutta la vita dell’uomo; sì, dà valore “divino” a tutti i momenti belli e positivi, ma anche a quelli non piacevoli della vita umana. Spesso, quando parliamo di “somiglianza”, intendiamo una somiglianza dell’aspetto fisico di due persone. Invece tante volte ci riferiamo alla somiglianza di tendenze umane, di qualità, o difetti, delle due persone; somiglianza del carattere, o comunque di elementi interiori, non fisici. In una sola parola e in modo più vero il termine somiglianza esprime partecipazione alle modalità dell’essere, non alla realtà fisica del singolo. Allora, dire che “l’uomo è a somiglianza di Dio” significa che l’uomo, almeno in una certa misura, partecipa al modo di essere di Dio! Non è una bestemmia: è la pura verità. Ovviamente una tale costatazione lascia senza respiro, e mi invita, o costringe, a chiedermi: «Com’è Dio?»; quasi mi chiedo: Com’è fatto Dio? Tento di spingere il mio intelletto nell’essere di Dio; trovo che Dio è Spirito, solo Spirito: non avendo egli un corpo, non può essere limitato; quindi: DIO È LIBERTÀ; è… LA libertà; è solo e totalmente libero. Deriva una conseguenza formidabile per l’uomo: la Bibbia dice che l’uomo è spirituale, è anche spirito (leggi Gen 2,7), quindi è irrinunciabil55


mente esigenza di libertà, anche se limitatamente libero perché è una creatura, quindi è anche materia. Deriva che è dovere grave rispettare la libertà dell’uomo, di ogni uomo, perché ogni uomo (anche non ancora venuto alla luce o al termine della sua esistenza umana!) ha una somiglianza con Dio. Qui parlo di libertà in genere, senza trattare le varie forme di libertà. Ancora: DIO È CONOSCENZA e per di più è conoscenza illimitata. (Però Dio non è soggetto al ragionamento, perché il ragionare è manifestazione di limite; quindi Dio non “ragiona” ma conosce!). Ovviamente in Dio non ci può essere errore o falsità, quindi la conoscenza di Dio è sempre e solo Verità, ossia DIO È VERITÀ Anche in questo caso deriva che l’uomo, sempre perché è a somiglianza di Dio, è esigenza, necessità di conoscere la Verità! È vero: quanto più un uomo si impegna a conoscere la Verità, di se stesso, del creato, dei fatti ecc., tanto più realizza la sua somiglianza con Dio Soprattutto: DIO È COMUNIONE, AMORE (ricorda che Dio è Uno e Trino; tre Persone nell’unico Dio). Il termine “comunione” indica sempre un rapporto spirituale e coinvolgente tra persone e solo tra persone (qui non c’entrano gli animali!). Ancora una volta devo riconoscere che l’uomo, perché è a somiglianza di Dio, è esigenza di rapporti spirituali per la comunione e vive di amore! L’uomo è esigenza di comunione nell’unità della sua persona di anima e corpo, ossia l’uomo tutto intero viva la comunione; è la “persona umana” che vive di comunione: corpo e anima sono indivisibili fino alla morte (vedi ancora Gen 2,7). Qui ci si pone una domanda ineludibile: Quando c’è un uomo? Quando incomincia ad esistere come uomo? Credo che la risposta sia inequivocabile: Ogni ovulo umano fecondato è uomo!!! Il card. Giovanni Colombo affermò con forza: «Con il concepimento ha inizio un destino che non avrà mai più termine». Penso che siamo tutti d’accordo: ci bastano queste tre “qualità” di Dio (Anzi: questi tre modi di essere di Dio) per riconoscere che l’uomo, assolutamente ogni uomo, anche se non ancora nato o quando le forze non lo sostengono più, è sempre un essere divino. E se le cose stanno così, è inevitabile riconoscere che ogni… uso di un uomo, proprio indipendentemente da ogni differenza di razza, di religione, di provenienza ecc., è un atto contro Dio, per56


ché ogni uomo, essendo immagine di Dio, è realmente ed esistenzialmente relativo a Dio! Sempre, anche se non lo sa, o addirittura anche quando pretende di non esserlo! È proprio così: chi tocca un uomo, tocca Dio! Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, al numero 358, afferma con forza: «La dignità della persona umana si radica nella creazione ad immagine e somiglianza di Dio. Dotata di un’anima spirituale e immortale, d’intelligenza e di libera volontà la persona umana è ordinata a Dio e chiamata, con la sua anima e il suo corpo, alla beatitudine eterna».

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TENDERE Il verbo tendere viene usato, e veniva usato dagli antichi latini, con diversi significati. Infatti vediamo che sono tanti i complementi oggetti che si accordano con questo verbo. A me interessa sapere che il primo significato che gli scrittori romani gli attribuivano era quello di “tendere l’arco”: esprimeva l’atto dell’arciere, visto negli istanti che precedono lo scoccare della freccia. Sono proprio questi istanti che mi interessano da un punto di vista spirituale. Guardiamo l’arciere: che cosa fa, quale situazione interiore e psicologica vive immediatamente prima di scoccare la freccia? Sta fermo, o si muove, si agita? Ha già teso l’arco sotto l’azione della freccia, ma è ancora fermo, immobile fisicamente; la freccia è ancora bloccata dall’arco. Però la mente, l’interesse, il cuore dell’arciere è già là alla meta dove vuole e spera che arrivi la freccia. Insomma: fisicamente è fermo, dove si trovava prima, ma… moralmente (direi: spiritualmente) ha già raggiunto il punto desiderato, quindi, la vittoria. E la sua soddisfazione sta nel… “sentirsi” arrivato alla meta, nel vedere la freccia già fissa nel centro. È un’immagine eloquente da un punto di vista spirituale. Il cristiano vero vive in una situazione concreta, pratica, quella che la sua vita gli chiede quotidianamente. Però il cuore, l’animo, tutto se stesso è e vive IN Gesù. Lui, proprio Gesù sarà la sua gioia, la sua realizzazione piena. Quindi, ogni azione acquista un valore, un “sapore” cristiano precisamente perché è vissuta IN CRISTO. Non è una inutile ripetizione: la vita è “cristiana” solo se è vissuta in un rapporto profondo personale con Gesù. Vedo un altro aspetto: nella situazione interiore dell’arciere colto nell’istante che precede lo scoccare della freccia trovo espressa visivamente la virtù fondamentale della Speranza, vista anche semplicemente come virtù umana. A questo proposito afferma S. Paolo VI: «Non è difficile scorgere quanto la speranza è all’opera nel nostro tempo fino a caratterizzare gli aspetti salienti. Oggi ogni cosa si muove e si cambia sotto il segno e con la forza della speranza. Non è forse la speranza la spinta interiore del dinamismo moderno? Non è la speranza la radice che alimenta l’immensa fatica del 58


mondo, proteso verso la sua trasformazione e il suo progresso? Non è forse la speranza l’attrattiva apocalittica verso un avvenire da conquistare e verso un umanesimo nuovo, che dovrebbe balzar fuori dalla crisalide delle concezioni tradizionali della vita sociale?... L’uomo! È il grande e infelice figlio del secolo… È questa la vera realtà della vita. E allora, uomo fratello, dov’è la tua speranza?» (Daniel Ange, Paolo VI, vol. I, p. 112).

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VERITÀ Verità esprime qualcosa di oggettivo; dice che una realtà è… quello che è, e basta; ed è quello che è indipendentemente dal fatto che sia conosciuto da qualcuno o no, che sia accettata da tutti o no. Opinione invece è il parere personale su una determinata persona, o su un avvenimento o un fatto, o comunque su qualcosa. Pertanto la “verità” su un fatto è sempre una sola e non può essere che una sola, sempre, proprio perché esprime una oggettività. Le “opinioni”, ovviamente, sono sempre tante, perché ciascuno ha un suo modo, motivato (si spera!) di vedere, di considerare un determinato fatto o di valutare una persona. Basti pensare alle tante (troppe) “tavole rotonde” che riempiono i canali TV (per occupare il tempo delle trasmissioni). La via per non fermarsi alle opinioni, e per cercare la verità di un fatto, di una situazione o di una persona, è quella di liberarsi il più possibile dal proprio IO giudicante, ossia dal proprio modo di guardare le varie realtà; e cercare invece di conoscere la realtà in sé, per quello che è realmente, indipendentemente dai propri criteri, sentimenti di simpatia o di antipatia, dalle emozioni, dalle reazioni proprie ecc. È il raggiungere la verità delle cose, che è sempre oggettiva, che ci permette di dialogare perché così tutti conosciamo quel determinato argomento per quello che è realmente. Senza cedere ai punti di vista personali, senza i “per me”. Se invece trionfano le opinioni, non è più possibile dialogare perché ognuno vede quella realtà o quella persona a modo suo. È utile costatare che, se vediamo la verità delle persone, la loro identità, non c’è più spazio per le critiche. L’evangelista Giovanni afferma a nome di Gesù: «La Verità vi farà liberi» (Gv 8, 32). E tu, ti senti libero, interiormente libero? La “verità” è… “nemica” delle opinioni. E se è vero che la Verità non è in me, ma è qualcosa di esterno a me, quanto più mi affido a un… “metro” esterno a me e immutabile, tanto più sarò in grado di raggiungere la verità nelle singole situazioni e persone. Questo criterio esterno a me e immutabile, che conosce la verità 60


di tutto, c’è: è Gesù Cristo, il Verbo (ossia: Dio che si comunica) fatto uomo per noi, affinché noi uomini potessimo conoscere la verità delle varie “cose” e anche la verità degli uomini. Gesù ha osato dire: “Io sono la Verità!” Non c’è possibilità di errore: è proprio Lui e solo Lui la Verità! A noi il compito di vivere IN LUI. Scrive André Frossard, un grande convertito: «Per noi la verità non è altro che l’irradiarsi della sua (di Gesù) persona nella nostra vita, nel mondo, nel pensiero». Un esempio eloquente di una persona in sincera ricerca della verità è certamente la filosofa Edith Stein, ebrea, convertita e poi carmelitana, morta in un campo di sterminio. «Vivevo completamente assorta nei miei studi e nelle aspirazioni alle quali mi avevano condotta… L’impegno costante di tutte le mie forze suscitò in me il sentimento di una vita elevata che mi rendeva felice: mi pareva di essere una creatura ricca e privilegiata…» (eppure non le mancarono gravi momenti di lotta interiore, di tormento, di angoscia). Continua Edith: «… Sprofondavo sempre più in una autentica disperazione. Non riuscivo a percorrere una strada senza avere il desiderio che una macchina mi investisse. E quando facevo una gita, speravo di precipitare e restare morta». Finalmente nel 1921, Edith, trovandosi in casa di amici, prese dalla loro biblioteca un libro… «Senza scegliere, presi il primo libro che mi capitò sotto mano: era un grosso volume che portava il titolo: Vita di santa Teresa d’Avila, scritta da lei stessa. Ne cominciai la lettura e ne rimasi talmente presa, che non l’interruppi finché non fui arrivata alla fine del libro. Quando lo chiusi, dovetti confessare a me stessa: “Questa è la verità”. Il passo successivo fu il battesimo, il 1° gennaio 1921» (Madre Canopi, Lettera a Edith, Piemme, pp. 69-74).

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VOCE Prova a chiederti: che cosa è la voce e che cosa esprime? Subito ti rendi conto che la voce non ha un contenuto suo; non esprime un pensiero, né suo, né di altri. È solo uno ‘strumento’; nasce per esprimere un contenuto, un pensiero proprio o di altri. Serve per comunicare e basta. Così sembra a prima vista. Pertanto dapprima non ha nessun valore, non importa affatto come sia: squillante o rauca, flebile o altisonante, ecc. Eppure la voce ha un’importanza speciale, se ci riflettiamo. La voce esprime sempre una personalità. Può sembrare strano, eppure è vero: il timbro della voce arriva al cuore, tocca il cuore di chi ascolta e sollecita normalmente un sentimento positivo o negativo, di gioia e di entusiasmo, oppure di stizza e ripulsione. Uno sente palpitare, vibrare il cuore non per quello che un altro dice, ma proprio per la voce, per il timbro particolare della voce con cui l’altro si esprime. È proprio così: la voce si ascolta con il cuore; il contenuto, il messaggio comunicato è… roba della mente. Mediante il timbro della voce si percepisce spesso che tipo è chi parla; quindi ci rivela la personalità di chi parla. Anche l’amore umano, il rapporto tra amanti, è una prova della verità di quanto ho detto. È significativo il grido dell’innamorata del Cantico dei Cantici: «Una voce: il mio diletto!» all’apparire dell’amato; oppure quanto afferma l’evangelista Giovanni: «Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo» (Gv 3, 29). Un altro esempio, davvero eloquente, del valore della voce nei rapporti interpersonali, lo trovo nel libro dell’Apocalisse. Si legge nel cap. terzo: «Sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io entrerò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Apoc 3, 20). Mi pare che il punto focale del discorso stia proprio nella “voce”. «Chi ascolta la mia voce…» significa in realtà: quando uno apre il suo cuore a me, allora mi conosce realmente, si interessa a me, mi accoglie. Solo a questo punto – dice il Signore – entrerò in casa sua, nella sua vita, ed egli sarà felice! Difat62


ti, il cenare insieme esprime proprio comunione, amicizia, quindi felicità. È proprio così: ogni neonato, prima di parlare, conosce la mamma e il papà dalla voce! Penso che la voce di Gesù abbia un timbro specialissimo e ineffabile; sempre coinvolgente e affascinante! Rifletti sulla commozione della sposa del Cantico dei Cantici, vedendo nella sposa l’uomo che cerca Gesù, e nello sposo lo stesso Gesù: «Una voce! L’amato mio! Eccolo, viene saltando per i monti, balzando per le colline… O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso è incantevole» (Cantico dei Cantici, 2, 8 e 14). Allora si è “liberamente costretti”, sì, proprio… liberamente costretti a dirgli: «Vengo!».

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VOLTO C’è differenza tra “faccia” e “volto”: la faccia esprime l’aspetto puramente fisico, solo i lineamenti visibili della faccia stessa, e niente più. Con questo termine non si vuol affatto esprimere alcun sentimento della persona. Invece, quando parlo del volto di una persona, intendo proprio indicare qualche cosa di interiore, qualche sentimento di quella persona, quasi prescindendo dall’aspetto fisico. Quindi, il termine volto ha un valore… umano, oserei dire: ha un valore… spirituale. A proposito degli animali, invece, si parla solo di “faccia”, non di “volto”. Invece di esporre un mio pensiero a riguardo del volto umano, preferisco riportare una bella riflessione di un autore di valore a proposito del volto di un grande papa, S. Paolo VI, che, spero, venga stimato e apprezzato come merita. L’autore sa leggere nel volto di Paolo VI il cuore, l’animo profondo, i tanti bellissimi sentimenti che hanno arricchito la personalità di un tale grande uomo. La faccia è solo lo strumento fisico, direi, lo specchio attraverso il quale D. Ange contempla la ricchezza e la grandezza d’animo del Papa. È vero: è sempre il volto di una persona che ci affascina, cioè la ricchezza interiore, non il volto in sé, quello che si vede fisicamente. Ecco quanto scrive Daniel Ange: «Il volto è la prima espressione dell’uomo, il primo messaggio che egli rivolge a chi lo avvicina: il suo giudizio non dovrebbe pertanto soffermarsi sull’immediata impressione emotiva e quindi spesso superficiale, ma sarebbe necessario lasciasse costruire in sé, con chiarezza, ciò che il volto dell’altro gli trasmette via via che la sensazione lo porta a scoprire la reale profondità dell’altra persona. Se si ha la paziente umiltà di voler approfondire la propria impressione per meglio leggere la realtà della persona che ci sta vicino, il volto diventa a poco a poco un lungo discorso che non si osa interrompere, un dialogo che entra più nel profondo sia di chi si presenta come di chi riceve. Così è avvenuto nel quotidiano colloquio di Paolo VI col mondo intero, nel suo presentarsi ai fedeli e agli uomini di buona volontà, nel suo ministero di sommo pastore come in quello di vescovo di Milano o di Sostituto alla Segreteria di Stato. Chi voleva leggere in quella espressione che si colorava ogni giorno dei riflessi della storia umana con tutto il suo carico di dolore e di gioia, di speranze e di delusioni, 64


chi vi cercava il messaggio dell’uomo di Dio poteva coglierlo senza tanta fatica: era un messaggio di fede profonda e sicura, di fiducioso abbandono alla volontà del Padre, di amorosa attenzione a quell’uomo che comunque e dovunque è sempre figlio di Dio, che soffre nella sua condizione a causa della devastazione che il male produce nel mondo. Chi l’ha capito, seguendolo fedelmente nel suo lungo ministero, ha potuto notare segni e tracce di tale straordinaria presenza che ora vengono offerte in questa riflessione affettuosa non come orazione commemorativa, ma quale testimonianza di un magistero ancora eloquente che ci invita a sostare nel ricordo di un Papa che lascia a tutti i suoi figli imponenti ricchezze spirituali» (Daniel Ange, Paolo VI, uno sguardo profetico, vol. I, Editrice Ancora Milano, pp. 9-10) E il volto di Dio? Sì, esprime la realtà profonda, il cuore stesso del Padre; per questo motivo nessun uomo, neppure il più grande giusto come Mosè, poté vederlo: gli fu concesso solo di vederne il dorso, perché nessun vivente può rimanere in vita dopo aver visto il volto del Signore (Es 33, 20-23). Solo dopo la risurrezione finale i salvati vedranno Dio faccia a faccia, ossia contempleranno Dio nella sua realtà profonda. Scrive S. Paolo: «Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto» (I Cor 13, 12). Penso al bellissimo volto di Gesù durante il cammino verso il Calvario; vedo i soldati inferociti contro il volto di Gesù, perché così facendo volevano umiliarlo e, se fosse stato possibile, volevano annientarlo; penso alla terribile incoronazione di spine e ancor più agli orrendi sputi sul suo volto. È per me il disprezzo supremo verso l’Uomo-Gesù. D’altra parte ammiro in silenzio l’atto coraggioso e dolcissimo della Veronica. Ma alla fine, nella Gerusalemme celeste contempleremo la gloria dell’Agnello e il volto di Dio. Così afferma il libro dell’Apocalisse: «Nella città vi sarà il trono di Dio e dell’Agnello: i suoi servi lo adoreranno; e vedranno il suo volto e porteranno il suo nome sulla fronte» (Apoc 22, 3-4).

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COLLANA GOCCE EUCARISTIA – Memoriale e segno (2012)

QUARESIMA AMBROSIANA – Vangeli delle domeniche (2012)

SEGUIMI – Spunti di vita cristiana (2013)

PASQUA – Memoriale della Redenzione (2014)

COME – Lo stile del cristiano (2014)

CHI SEI? – L’uomo nella Bibbia (2015)

FELICI SE… (2016)

La Sua e la mia VIA CRUCIS (2017)

PAROLE PARLANTI (2018)

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Pro manuscripto

Finito di stampare nel settembre 2018



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