Libro ROSE ROSSE

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ISTITUTO TECNICO ECONOMICO “A. DE VITI DE MARCO” Casarano (LE)

Rose Rosse …amare significa non dover dire mai : “ Mi dispiace !”

in collaborazione con


Non commerciale Licenza Digital Online Commons

“Rose Rosse” è un libro realizzato dagli alunni dell’Istituto Tecnico Economico “A. De Viti De Marco” - Casarano (LE) Anno scolastico 2013/2014 Pubblicato on line a giugno 2014 www.itecasarano.gov.it Editing: Laura Marzo e Giuseppe Manco Illustrazioni, foto e ottimizzazione: Alessia Anna Carpilli, Irene Capone, Federica De Medici, Vanessa Lezzi, Giulia Mele, Valeria Minisgallo, Sara Scarlino, Matteo Scevola e Federica Sparascio.

Promo e comunicazione: ADSUM, Organismo Formativo, accreditato al M.I.U.R. e alla Regione Puglia via Brenta, 148 Surbo (LE) Tel e fax 0832.362903 Direzione: 392.1037655 mail: info@adsum.it dott.ssa Simona Greco Referente per la comunicazione grafica www.adsum.it


Et pourtant aimez-moi, tendre coeur! soyez mère, Même pour un ingrat, même pour un méchant; Amante ou soeur, soyez la douceur éphémère D’un glorieux automne ou d’un soleil couchant … amami, tuttavia, tenero cuore; come una madre, anche se un ingrato ed un perfido sono; amante oppure sorella, sii l’effimera dolcezza d’un autunno glorioso o d’un tramonto… Charles Baudelaire

Da “ Canto d’Autunno” (“Les fleurs du mal”)

… e le donne che stanno lì con te son tante, amica mia, sono enigmi di dolore che noi uomini non scioglieremo mai. Come bruciano le lacrime come sembrano infinite nessuno vede le ferite che portate dentro voi…

Alda Merini

Da “ Il Regno Delle Donne”


PRESENTAZIONE Tutte le volte in cui si propone ai ragazzi una qualsiasi attività, è necessario chiedersi quale sia la valenza formativa della proposta. Cosa in sostanza desideriamo che i nostri ragazzi conoscano e riescano a fare, sfruttando e utilizzando nella vita di tutti i giorni ciò che imparano a scuola? Come fare a motivarli ? Quali stimoli possono spingerli ad affrontare con entusiasmo il quotidiano lavoro scolastico? La risposta è indubbiamente da ricercarsi nello spirito pedagogico che ha tanto animato l’iniziativa di sperimentazione didattica. Questa pubblicazione è, infatti, il frutto del lavoro, svolto da un gruppo di docenti del nostro Istituto, all’interno di una sperimentazione di scrittura creativa, tesa a coniugare la didattica per competenze con la didattica laboratoriale. Ciò ha permesso di fornire agli studenti i mezzi alternativi adatti per l’apprendimento della lingua italiana, attraverso un’esperienza diretta della scrittura narrativa e della sua fruibilità. Il lavoro, svolto all’interno del laboratorio, ha consentito agli studenti non solo di diventare più consapevoli della propria voce narrante, ma anche di accrescere la capacità di mettersi in gioco, ascoltare, confrontarsi, sviluppare quella sensibilità necessaria per gustare e valutare criticamente un testo di letteratura. Tutto ciò ha permesso di dimostrare che è possibile insegnare la creatività letteraria alle generazioni digitali della nostra epoca che, come è noto, si contraddistinguono per la velocità di comunicare tra di loro, condividendo o scambiando opinioni e pensieri con un semplice sms, con un generico Mi piace o con un banale twitt. Scrivere, invece, è indubbiamente un atto creativo, ma la scelta di come esprimersi è questione di organizzazione. Ce ne accorgiamo tutte le volte che ci capita di scrivere una lettera, di svolgere un tema e, a maggior ragione, quando decidiamo di raccontare una storia. Si è soliti pensare alla scrittura come a un percorso personale e unico, che attinge all’esperienza, alla memoria, ai sentimenti e alle dinamiche mentali di un individuo. Questo è vero, ma la creatività letteraria non è un fiume in piena senza controllo. Deve organizzarsi all’interno di procedimenti logici di cui possono essere individuate le fasi, le tecniche, la struttura. Non si esaurisce al momento dell’ispirazione, bensì possiamo dire che cominci proprio in quel momento e percorre ogni centimetro del successivo lavoro. La

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scrittura creativa è un’attività che include la complessità del pensiero in un percorso dialettico che oscilla tra la parte intuitiva e quella razionale della mente. La domanda che ci poniamo, dunque, è : si può insegnare a scrivere un romanzo? Sì e no. Infatti, se è vero che la predisposizione per la scrittura è un’ attitudine personale, è altresì vero che il talento non si presenta sempre in maniera evidente. Il talento è una qualità sottile, spesso nascosta, che va coltivata e sviluppata una volta scoperta. La scuola ha soprattutto questo compito. E’ pertanto con immenso orgoglio che presento il frutto del lavoro di docenti e alunni che, profondendo in maniera sinergica impegno e determinazione, sono riusciti a costruire qualcosa di importante. Il volume esula dalla semplice pagina scritta perché, al di là della forma e dei contenuti, ha fatto comprendere ai ragazzi il vero significato del fare scuola oggi: non solo lezioni, compiti, verifiche, interrogazioni, ma anche voglia di costruire qualcosa insieme, lavorando e collaborando alla realizzazione di un progetto comune, che contribuisca alla crescita collettiva. Il progetto, di cui il presente volume costituisce il prodotto finale, è stato realizzato tra i mesi di gennaio e febbraio 2014 ed ha coinvolto 21 alunni provenienti da tutte le classi, sia del biennio che del triennio. In tal senso, colgo l’occasione per ringraziare la prof.ssa Laura Marzo, il prof. Giuseppe Manco, la prof.ssa Anna Maruska Monteduro, la prof.ssa Eugenia Petracca e la prof.ssa Loredana Isernio per la professionalità profusa, mirata al raggiungimento di tale obiettivo. Giunti a conclusione del percorso, il volume, così realizzato, rappresenta il degno emblema delle infinite potenzialità dell’Istituto Tecnico Economico “A. De Viti De Marco”, nonché la traccia indelebile di un’esperienza dimostratasi proficua per la scuola, considerata in tutte le sue brillanti e indissolubili componenti. Prof. Bruno Contini Dirigente Scolastico Istituto Tecnico Economico “A. De Viti De Marco” - Casarano

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PREFAZIONE C’era una volta, …” parole magiche che promettono mondi fantastici e avventure entusiasmanti, che ci ri-portano indietro nel tempo, quando eravamo bambini e con gli occhi sognanti ascoltavamo il susseguirsi di personaggi, situazioni, paesaggi. C’era il lupo cattivo, l’uomo nero, la strega, ma alla fine c’era sempre il cacciatore o il principe azzurro che ci salvava… finché “ Tutti vissero felici e contenti”. Questa volta il libro di storie che ho davanti e che ho letto con i miei occhi, purtroppo mi riporta ad immagini proposte dalla TV, dalla cronaca nera di tutti i giorni, … e alla fine di ogni storia non c’è sempre un salvatore che ci rassicura che vissero tutti felici e contenti. Le esperienze qui narrate dai giovani scrittori, sono storie di donne che hanno vissuto violenza, fisica, psicologica, economica da parte di un uomo che sia stato il padre, il marito, un amico, un parente, uno sconosciuto. Storie vere e riflessioni da chi la violenza ha attraversato. Ogni giorno in tutto il mondo migliaia di donne sono picchiate, violentate, uccise. È un’emergenza che nessuno può ignorare; si tratta di un problema di diritti umani e civili che riguarda tutti noi. Pertanto la scuola, luogo di educazione, non può non realizzare attività, di sensibilizzazione e di informazione per prevenire e contrastare ogni forma di violenza e di discriminazione. Leggendo questo libro uno dei valori che prima emerge è quello sociale, racconta uno spaccato della comunità odierna fatta di relazioni malate o mancate, di mancanza di rispetto della dignità dell’essere donna, di solitudine e di solidarietà. Parla di emozioni: paura, rabbia, odio, amore. I racconti sono un unico grido che vuole squarciare il silenzio … Poi fai un gran respiro e pensi che quel lavoro è stato realizzato in una scuola da un gruppo di giovani studenti. E allora sempre con questo peso sull’animo incominci a lasciare per un momento le storie scritte e immaginare il gran lavoro fatto dal Dirigente Scolastico, dei suoi collaboratori: professori che hanno creduto e fatto si che il lavoro si avviasse e si portasse a temine grazie al magnifico coinvolgimento dei ragazzi.

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Non puoi non fare delle riflessioni pedagogiche e mi ritorna il concetto di coinvolgimento. Ho immaginato con quanto slancio hanno incominciato e portato a temine il proprio lavoro. E’ risaputo che elementi indispensabili per l’apprendimento sono il coinvolgimento emotivo e il desiderio di impegnarsi per raggiungere un obiettivo personale. Qui, l’esperienza formativa è stata rafforzata ed efficace tramite l’azione (situazione di apprendimento” che consente al discente di mobilitare le sue risorse: capacità, saperi, abilità, per raggiungere vere competenze). L’apprendimento si è realizzato attraverso dei compiti reali. Il discente attraverso l’azione ha potuto sperimentare situazioni, compiti e ruoli, è stato soggetto attivo e protagonista principale dell’apprendimento. E’ stato un apprendimento di tipo esperienziale che ha consentito di sviluppare abilità di problem solving, abilità creative e non solo di scrittura, capacità di gestire la propria emotività e acquisire comportamenti costruttivi. Il discente ha sentito la responsabilità di portare a termine il suo lavoro in quanto parte di un compito complessivo. Il prodotto realizzato è pregevole, è il risultato di una forma di apprendimento cooperativo, una nuova visione pedagogica e didattica che utilizza il coinvolgimento emotivo e cognitivo del gruppo come strumento di apprendimento ed alternativa alla tradizionale lezione accademica frontale. La creazione di storie e la realizzazione di questo libro, ha svolto minimo una triplice funzione: sviluppo di sensibilità di cittadinanza sociale al problema trattato, maggiore capacità linguistica e sviluppo di competenze relazionali. L’idea di farne un e-book lo trasforma in uno strumento innovativo, economico e versatile, che comodamente potrà essere utilizzato da docenti, studenti, genitori, privati cittadini, istituzioni per ripercorrere il lavoro fatto nelle classi. Nuove didattiche che favoriscono la creatività, la ricerca e la scoperta, la sperimentazione e la creatività, il coinvolgimento e la motivazione degli studenti. Dott. Rudy Russo Direttore di ADSUM e Ideatore del metodo KHR

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INTRODUZIONE Aiutiamo le donne a raccontarsi, aiutiamo le donne a parlare, a non arrendersi mai, soprattutto quando dimenticano che anche le rose più belle e delicate possono avere le spine più appuntite e taglienti. E’ forse questo lo spirito che ha spinto un gruppo di docenti e studenti dell’Istituto Tecnico Economico “A. De Viti De Marco” di Casarano a trasformare un progetto didattico in una vera e propria esperienza editoriale. C’era la voglia e il desiderio di spingere le donne a scavarsi dentro, a cercare nella propria coraggiosa femminilità quella forza interiore che, spesso, solo dal confronto con altre donne può scaturire ed emergere con maggior vigore. Il momento storico che stiamo vivendo, questi anni così caotici e tormentati, dove tutto è “liquido” e tutto scorre nella più totale assenza di punti fermi di qualunque genere, hanno portato le coscienze ad un inevitabile crollo motivazionale e morale. Tutti sono sempre più spesso portati a cercare sfogo in una violenza dalle mille sfaccettature, non solo fisica, ma, molto più spesso, sottile, psicologica, morale, mentale, verbale. E’ un momento di crisi, quello attuale, in cui netta appare la contrapposizione tra dominatori e dominati, prevaricatori e succubi, uomini fragili e donne virago, che, spesso, nelle relazioni di coppia, invertono i loro ruoli senza neppure accorgersi della metamorfosi. Essere donna oggi è qualcosa di estremamente complesso, di difficile da definire. Comprendere il significato dell’essere donna implica un’analisi nel profondo, che spesso squarcia quel sottile velo divisorio tra l’essere e l’apparire; è un’analisi che ci immerge quasi nel subconscio di tutte le donne che, per quanto emancipate, libere, indipendenti, lavoratrici, sono pronte a ribadire con forza e determinazione le loro “pari opportunità”, ad esibire sfacciate e trasgressive nudità e relazioni “poliamorose”, mentre, in realtà, continuano a nutrire il sogno di incontrare un uomo da cui essere amate e protette per tutta la vita, al quale dedicarsi, votarsi per l’eternità e per il quale valga la pena sacrificare tutto, perfino se stesse ! E’ nel sogno di ogni donna un destino di sposa e madre felice, pienamente realizzata nelle quattro mura domestiche, anche se ciò deve comportare il sacrificio di una carriera tanto dif-

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ficilmente conquistata. E non raccontiamoci bugie: la donna, che tanto difende la carriera e la propria libertà e indipendenza, sarebbe pronta a sacrificarle in un attimo, dinanzi ad un uomo che concretizzi quel senso di appagamento! Molte donne lamentano spesso l’attuale assenza di uomini veri, poiché di uomini veri, quelli di un tempo, forti e determinati, al tempo stesso gentili, galanti e pronti a “cedere il passo”, forse al giorno d’oggi non ne esistono più, oppure si sono ridotti ad essere pallide fotocopie degli eroi di un tempo: ostentano forza e bicipiti, ma, di fatto, sono deboli e confusi bambini mai cresciuti. Chi è l’uomo di oggi? Com’è realmente fatto dentro? Vediamo uomini sempre più palestrati e attenti alla cura del proprio corpo, tra bilancieri e interminabili sedute estetiche. L’uomo dà un’idea di forza esteriore che, nella realtà, è solo un bell’involucro che racchiude, sempre più spesso, fragilità e insicurezza. Stare accanto ad un uomo debole e psicologicamente vulnerabile è forse diventato il vero rischio per la donna, in ogni rapporto di coppia. Non più il tradimento, non più la fine del sentimento o l’esaurirsi della passione le donne sono ormai frequentemente chiamate ad accettare, bensì il sacrificio materiale e morale e di ciò non sembrano del tutto consapevoli, o almeno non lo sono subito. Quando finalmente si rendono conto di quanto sta accadendo e di essere diventate vittime di un gioco perverso, le donne non riescono più a reagire e finiscono con l’accettare passivamente il proprio destino. I 20 personaggi femminili, di cui questo libro racconta le storie, rappresentano aspetti diversi della condizione femminile, ma hanno tutti in comune la dedizione, l’annullamento della personalità, il destino di “escluse” dalla vita. Il processo di emancipazione della donna, già di per sé lungo e difficile nel corso dei decenni, ma mai realmente concluso, continua a scontrarsi, molto più spesso di quanto si creda, con le resistenze di una mentalità radicata anche in uomini che si ritengono aperti ad idee progressiste o rivoluzionarie e che fingono soltanto di accettare una donna emancipata negli atteggiamenti e nel modo di pensare, mentre, di fatto, con sempre maggior difficoltà, accettano le reali implicazioni di un rapporto “alla pari”. Per quanto concerne l’impostazione del volume, abbiamo voluto costruire un’opera il più possibile moderna e vicina ai gusti di tutti i potenziali lettori, con la certezza che il messaggio, leggibilissimo, potesse arrivare a tutti, attraverso la freschezza dei giovani scrittori.

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L’insieme che ne costituisce il risultato finale offre spesso descrizioni della realtà crude ed esplicite, ricordi e considerazioni spesso filtrati attraverso i giudizi severi degli adolescenti. Le ricostruzioni e le narrazioni, sovente malinconiche ed intrise di amarezza, scaturiscono dalla consapevolezza che l’amore vero incatena e disarma inesorabilmente chi lo prova, rendendo la donna sempre più incapace di reagire e ribellarsi al proprio compagno. Educata fin dalla tenera età alla prudenza, al rispetto del coniuge e alla strenua difesa del focolare domestico, la donna diviene progressivamente, e inesorabilmente, vittima inconsapevole della paura di essere esposta alle critiche e dicerie della gente, al giudizio altrui e allo “scandalo” di una separazione, paura che supera spesso quella delle violenze fisiche e morali che possono provenire da un marito-padrone. Il lavoro che qui presentiamo non vuole certamente avere la pretesa di insegnare qualcosa alle donne o di mutarne il destino o la mentalità, ma, più semplicemente, si propone di raccontare l’universo donna dal punto di vista dei nostri ragazzi: uomini e donne del presente, uomini e donne del futuro, che si relazionano costantemente con altre donne ed altri uomini. L’intento è pertanto quello di trattare problemi non ancora risolti e che, probabilmente, non lo saranno mai del tutto. C’era la volontà di collegare la delicata tematica del femminicidio ad un discorso più vasto di emancipazione sociale e di lotta contro un’ipocrisia borghese, che spesso rappresenta realmente il cuore del problema. La violenza sulle donne non è solo una questione di etnia, religione o di contesti socialmente degradati, dove in genere regnano l’ignoranza e la povertà; non sempre la violenza contro le donne si consuma in condomini sovraffollati o nei quartieri popolari della città, dove tutti sanno, mormorano, ma fanno finta di non sapere; spesso, inaspettatamente, la violenza sulle donne ha il profumo di alberghi lussuosi e lenzuola di seta, vasche idromassaggio, abiti firmati e ville isolate, con giardini, piscine e campi da tennis, dove le urla di violenze, che si consumano giornalmente e in tutte le ore, vengono attutite da interminati spazi, dove nessuno può vedere o curiosare…. Tutte le esperienze narrate nel volume concorrono a formare quel quadro, sociale e di costume, sempre più tristemente confuso, instabile e deviante. I giovani scrittori hanno voluto

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raccontare il problema femminicidio a modo loro, in assoluta libertà , osservandolo da punti di vista differenti, attraverso l’esperienza diretta di donne, le vere protagoniste delle storie raccontate, che, sicuramente, offriranno ad altre donne motivo per riflettere sulla propria condizione, prima che sia troppo tardi.

Prof.ssa Laura Marzo

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Presentazione Prefazione Introduzione

Prof. Bruno Contini Dott. Rudy Russo Prof.ssa Laura Marzo

PARTE PRIMA LE DONNE SI RACCONTANO … pag pag pag pag pag pag pag pag pag

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Matteo Gabriele

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Prof. Giuseppe Manco Prof.ssa Loredana Isernio Antonio Stefanelli Sara Scarlino Prof. Giuseppe Manco

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Otto Marzo Prof. Giuseppe Manco Alisia Vanessa Lezzi Angela Maria Rosaria Buccarello Anna Martina Morciano Aurora Federica De Medici C. Irene Capone Carmen Maria Indraccolo Giulia Alessia Anna Cappilli Lucrezia Miriam Margherito Crespino Lorenza Serra Ludovica Luigi Lorenzo De Nuzzo Luisa Matteo Scevola Mariangela Luca Toma Marina Maria Vittoria Portaccio Maya Valeria Minisgallo Miriam Mery Silvana Malcarne Samantha Sara Scarlino Serena Rosanna Coletta Sonia Sara Cantoro Stella Giulia Mele Valentina Anna Chiara Schivano Per ricostruire un volto e una storia : Sarah Scazzi

PARTE SECONDA

RIPENSARE…IL FEMMINICIDIO Affresco Rose spezzate L’amore malato Basta violenza! Conclusioni

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PARTE PRIMA le donne si raccontano ‌

Disegno di Federica De Medici

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OTTO MARZO L’Otto Marzo si tinge di giallo e la donna n’è lieta. Increspa talvolta solitari richiami d’amare avventure, ma ora è vittoria, una vittoria che costa, che vale la sua dignità. La donna è un eroe: subisce, protesta ripiega, si rinchiude in se stessa: qualcuno l’ha amareggiata. C’è ancora violenza, la violenza brutale che sevizia le membra e forse un’anima in fiore. Infiniti cortei hanno il volto di donna e il giallo l’adorna con luci di stelle. Ancora grida una donna contro un cielo al tramonto e col celeste negli occhi cercherà Primavere.

Giuseppe Manco

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alisia Vanessa Lezzi Carissimo diario, sono Alisia, ho 17 anni, vivo nel Sud Africa e finalmente ho un appuntamento! Sono appena tornata dai campi con una bellissima sorpresa: ti ricordi quel ragazzo di cui ti avevo parlato una settimana fa? Che lavorava nei campi vicino a quelli della mia famiglia? Oggi mi ha parlato! E, prima di andarsene, mi ha chiesto se domani potevamo vederci al mercato. Ancora non ci credo, non pensavo neanche mi avesse vista! So già cosa mettermi, ma rimane sempre un problema: cosa dico a mio padre e alla mia famiglia? Se mi vede una persona del villaggio, lo sapranno tutti. Come posso fare? Aiutami tu, diario! Ora devo andare a sistemare il pranzo per i miei otto fratelli, ti aggiorno appena posso... Non mi pesava andare a lavorare nei campi, anzi, da quel giorno non vedevo l’ora di ritornarci! Il giorno dopo non l’ho visto, nonostante avessi tenuto d’occhio tutta la zona. Qualsiasi cosa facessi, dicessi o guardassi il mio pensiero era sempre lì... ! Mi sono sbrigata a terminare il lavoro e, andata subito a casa, mi sono preparata per andare al mercato. Appena arrivata, ho iniziato a cercarlo e, dopo aver girovagato, ho cominciato a pensare che non sarebbe venuto, anzi, che si era pure dimenticato; invece lui era vicino all’ultima bancarella con degli amici, a sorseggiare non so cosa. Passai di là e mi vide. Trascorremmo cinque minuti a parlare e poi lui raggiunse nuovamente i suoi amici. Tornai subito a casa per preparare il pranzo e continuai a chiedermi cosa fossi andata a fare lì. Ero stata proprio una sciocca! Aggiornai il mio diario e, mentre scrivevo l’ultima frase, mio padre gridò il mio nome, così ad alta voce che pensai che la capanna mi sarebbe crollata in testa! Era giunta la mia fine! Qualcuno mi aveva vista al mercato e aveva detto tutto a mio padre. E ora si parlava di matrimonio! MATRIMONIO! MATRIMONIO! MA-TRI-MO-NIO! Volevo gridare, sbattere tutto e andarmene via! Mi chiedevo cosa ne avrebbe pensato lui. Per soli cinque minuti di conversazione si prospettava già un matrimonio! Quale fosse stata la sua reazione, e come si misero d’accordo le nostre rispettive famiglie, non l’ho mai saputo; so solo

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che, di lì a poco, mi ritrovai sposata con cinque figli. La mia vita era cambiata; non potevo più uscire, non andavo più a lavorare nei campi, mio “marito” non c’era mai nella capanna e quelle poche volte che c’era o era ubriaco o voleva picchiare ogni essere umano si trovasse dinanzi o cercava di mettermi incinta! Per quanto potessi fare, cercavo di proteggere i miei figli, preservandoli dall’ira e dall’aggressività del padre, ma non era facile. Ormai la mia famiglia non la vedevo più, non so neanche se continuavano a vivere lì e se lavoravano ancora in quei campi. Nessuno mi veniva mai a trovare! Mi domandavo chi preparasse il pranzo ora, mia sorella Ariell ? Ora la mia unica famiglia erano i miei figli e la mia vicina di capanna Corinne, che, ogni tanto, veniva a trovarmi per far giocare i suoi figli con i miei e per scambiare due parole. Un pomeriggio, mentre i bambini erano nella capanna di Corinne, sentii un insieme di voci nella mia capanna: c’era mio “marito” assieme agli anziani della tribù, tutti ubriachi. Mi presero e, nonostante i miei calci e le mie implorazioni, mi strinsero e si divertirono uno ad uno. Appena se ne andarono, ero in lacrime, mi sentivo impazzire, così decisi di scappare, di andare via, per cercare di ricostruirmi una vita lontano dalle sottomissioni di mio “marito”. Presi i miei figli e camminai, camminai lontano, senza lasciare tracce. Nascosi il mio diario nella capanna di Corinne, l’unica che mi dispiaceva lasciare e che, negli ultimi anni, mi aveva trattata da essere umano. Chissà se l’avrà mai trovato o se uno dei suoi figli, per giocare, non lo avrà già distrutto, cancellando l’unica traccia della mia esistenza...

Illustrazioni di Vanessa Lezzi

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ANGELA Maria Rosaria Buccarello La violenza è la peggiore arma che un uomo possa esercitare nei confronti di una donna! Uno dei casi peggiori, poi, è quello in cui è il proprio partner ad esercitare atti di violenza nei confronti della propria moglie o fidanzata, perché è proprio la persona che avrebbe dovuto amarti sopra ogni cosa a provocarti un dolore tale da demoralizzarti, da ucciderti dentro, da farti sentire una perdente, un dolore così forte che ti porta a preferire la morte a questa vita insignificante. BASTA restare in silenzio, BASTA subire, iniziamo a fermare queste orribili persone. Siamo ormai in troppe a subire la loro ira, RIBELLIAMOCI! Io stavo quasi per non farcela, stavo quasi per morire. Grazie all’aiuto dei miei genitori sono, però, riuscita a ricominciare una nuova vita lontano da quel mostro, ma nessuno potrà mai togliermi dalla mente tutto il male che mi ha procurato. E, per questo motivo, oggi ho deciso di raccontarvi la mia storia. Tutto ebbe inizio circa quindici anni fa. Ero una giovane ragazza di diciannove anni, quando io e il mio fidanzato delle medie decidemmo di sposarci. Lo amavo più di tutto, credevo che mi avrebbe reso la donna più felice del mondo. Era bello, solare, un gran dongiovanni. Le donne erano tutte ai suoi piedi ! Questa era la cosa che più mi rendeva fiera, perché, tra tutte, lui aveva scelto proprio me. Mi faceva sentire una regina. Dopo circa un mese dal matrimonio, però, iniziò a trascurarmi. Mi lasciava sempre sola. Una sera pensai di seguirlo di nascosto e così scoprii che, in realtà, mi tradiva con un’altra. Ero delusa, mi sentivo in colpa, credevo di non avergli dato abbastanza. Appena tornò a casa, gli chiesi delle spiegazioni, ma purtroppo non ottenni le risposte che avrei voluto. Lui si infuriò e iniziò a urlarmi che non ero io la donna della sua vita, che non gli davo nulla e che non voleva più vedermi. Quella stessa sera andò via di casa. Stette via per un mese, poi tornò da me, dicendomi che si era pentito di ciò che aveva fatto e detto quella sera e che voleva farsi per-

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donare. Da ingenua donna innamorata, quale ero sempre stata, lo perdonai subito e ritornai a vivere insieme a lui. Da quel giorno, la mia vita cambiò completamente. Lui iniziò a dirmi di abbandonare il lavoro e di non preoccuparmi: non era necessario che io lavorassi, visti i suoi ottimi guadagni. Così, dopo circa una settimana, lasciai il lavoro. Mi fece allontanare da tutte le mie amiche, mi staccò il telefono di casa e mi fece vedere i miei parenti sempre meno. Diceva che tutto ciò era per il mio bene. Presto mi ritrovai rinchiusa in casa, mi faceva uscire solo raramente e quando lo decideva lui. Mi sentivo sola e infatti lo ero. Sì, ero completamente sola, non mi era più rimasto nessuno. Sentivo che nessuno mi amava. Circa sette mesi dopo, lui mi costrinse a violenti rapporti sessuali contro ogni mia volontà. Diceva che dovevo dimostrargli di amarlo come una vera donna sa fare e l’unico modo per farlo era questo. Ogni volta che provavo umilmente ad oppormi alla sua volontà, lui iniziava ad infuriarsi e a picchiarmi. Dopo alcuni mesi, cominciai ad avvertire sensi di nausea al mattino, accompagnati dalla totale scomparsa del ciclo. Insospettita, ma al tempo stesso preoccupata, acquistai un test di gravidanza di nascosto da mio marito: il test risultò positivo! Ero incinta! Nonostante tutto, quello fu il giorno più bello della mia vita. Pensai subito che tutta la violenza che avevo subìto aveva portato almeno qualcosa di buono. O meglio: qualcuno! Da allora, non avrei mai più potuto dire di sentirmi sola. Speravo che, dopo questa magnifica notizia, tutto quanto stavo subendo sarebbe finalmente terminato. Così però non fu! Appena lui tornò a casa, gli corsi incontro, felice e soddisfatta; avevo gli occhi pieni di lacrime di gioia. Gli dissi che aspettavo un figlio suo, ma la sua reazione non fu quella che mi aspettavo e che ogni marito innamorato della propria moglie dovrebbe avere : iniziò ad urlarmi contro e a lanciare oggetti per aria; non voleva nessun figlio da me e, se ciò era accaduto, la colpa era solo mia. Quella stessa sera andò via di casa e dormì fuori. La mattina seguente mi telefonò, aveva una strana voce, sembrava pentito di tutto. Io ero letteralmente distrutta, mi sentivo frustrata, sola, abbandonata, insignificante. Mi disse che, tra meno di un’ora, sarebbe tornato a casa e che dovevo prepararmi, perché aveva in serbo una bellissima sorpresa per noi. Forse non ero ancora

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perfettamente a conoscenza della persona squallida che era e mi illusi che fosse realmente pentito e volesse festeggiare con me la bella notizia. Appena arrivò a casa, mi diede un enorme mazzo di rose rosse. Disse che rappresentavano l’amore che provava nei miei confronti e in quelli della piccola creatura che presto sarebbe venuta al mondo. I momenti belli, però, durarono ben poco. Iniziò lentamente ad avvicinarsi al mio corpo, a toccarlo, a spogliarmi. Iniziò a baciarmi. Mi spinse sul letto e lì iniziò a consumarsi l’ennesima violenza. Pretese, come sempre, da me puro e squallido sesso. Cercai di oppormi con tutte le mie forze, non volevo assolutamente provocare danni alla piccola creatura che portavo in grembo. Io ormai ci ero “abituata”, ma per lei ora dovevo combattere, lei non doveva assolutamente soffrire. Le mie forze non furono tuttavia sufficienti a fermarlo, lui continuò comunque ad abusare di me, senza alcun ritegno o senso di colpa. Nei giorni seguenti all’ultimo abuso, avvertivo delle forti fitte al ventre che, col tempo, divennero sempre più forti e frequenti. Iniziai a preoccuparmi, ma non volevo confidarmi con mio marito. Pensai allora di recarmi dal ginecologo. Così feci! Appena mio marito andò a lavorare, mi precipitai in auto. Quel giorno ero molto preoccupata e lui se ne era sicuramente accorto, infatti fece solo finta di andare via. In realtà spiava i miei movimenti, proprio per vedere cosa avevo in mente di fare. Mi seguì fino in ospedale, ma io, da ingenua, non mi accorsi di nulla. Giunta in ospedale, mi sottoposi a visita di controllo. Mi fu consigliato assoluto riposo, per il bene del bimbo che cresceva dentro di me. Soprattutto non dovevo stressarmi troppo e dovevo evitare tutte le situazioni che potessero essere fonte di preoccupazione e angoscia. In realtà, sapevo che le violenze non sarebbero cessate. Arrivata a casa, feci appena in tempo a varcare la soglia e a percorrere un tratto del corridoio d’ingresso: mi stava aspettando. Era furioso, come mai prima di allora, sembrava proprio fuori di sé. Cominciò a picchiarmi. Ero mortificata. Ad un certo punto, afferrò un vaso e me lo lanciò contro. Mi colpì in pieno ventre, provocandomi un sordo dolore che mi face quasi perdere i sensi. Questa volta fu lui a portarmi in ospedale, non certo spaventato per le mie condizioni, ma preoccupato che la sua vera natura potesse in quella circostanza venire a galla. Ai medici

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non l’avrei fatto.” In quel momento vidi che era completamente pentita di aver messo a repentaglio il rapporto con i suoi genitori per lui, lui che qualche anno dopo….. “Insomma, poi siete tornati e che è successo? ” “Nulla, siamo tornati, ma la situazione non cambiò e i miei ci volevano lontani a tutti i costi.” Nei suoi occhi si vedeva un filo di tristezza, di insoddisfazione. Avevano fatto tanto, erano scappati insieme e non avevano risolto nulla. Quindi continuarono a vedersi di nascosto, ma poi….. “Sì, continuammo a vederci di nascosto, anche se alla fine tanto nascosto non era, perché venivamo perennemente scoperti.” E sorrise. “Come avete risolto questa situazione?” “Degli amici ci consigliarono di fare un figlio, e così facemmo.” Nacque il loro primo figlio, che al momento ha ventisette anni, quindi aspettarono i diciotto anni di lei e si sposarono; così facendo, pensarono, nessuno avrebbe più potuto separarli. Andarono anche a vivere insieme, la vita per Camilla era cambiata radicalmente, aveva tutto quello che desiderava: lui, il figlio, una casa tutta per loro e, dopo otto anni, arrivò anche un’altra figlia. Da quando si trasferirono, fino ai successivi ventotto anni, in quella casa non tutto fu però normale. “Lui si rivelò per quello che era” disse. “Cosa vuole dire?” “Ebbe un cambiamento incredibile : il ragazzo semplice, timido, un po’ geloso e tanto dolce svanì e si trasformò in un vero e proprio mostro, possessivo, violento, attaccato al sesso.” “Come lo definirebbe in una sola parola?” “Non credo che esista una parola per descriverlo.” “No?” “No! Nessuno ne avrebbe, se fosse stata al mio posto. Lo amavo tanto, eppure lui è riuscito a farsi odiare.” “Non vorrei essere invadente, ma è il mio lavoro : potrebbe raccontarmi quali erano i vostri problemi?”

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“Ma certo, capisco. Il problema principale era lui, con le sue fissazioni, la sua mania dei soldi e del sesso, la sua possessività. Economicamente, io non ho mai avuto nulla da lui, ho dovuto iniziare a lavorare per mantenere me, la casa e i miei figli. Mai un gesto d’affetto, un regalo di compleanno, neanche gli auguri, solo indifferenza. La sua gelosia mi opprimeva, non avevo più amici, non avevo più una vita (se vita si può definire) al di fuori di quella con lui.” “Mi ha detto che era violento, in che occasioni?” “Praticamente sempre. Lui usciva fuori di sé soprattutto quando rifiutavo di andare a letto con lui. Per esempio ogni anno era sempre la stessa storia: la settimana di Natale io andavo in chiesa per la novena, quando tornavo a casa erano botte, perché io la notte prima lo rifiutavo, dicendo di essere stanca e lui non sopportava il fatto che io mi alzavo presto per andare in chiesa, mi diceva che ero stanca solo quando si trattava di lui e subito dopo mi picchiava.” “Quando ha raggiunto il limite?” “Maggio 2013. Presi questa decisione insieme a mia madre e andammo dai Carabinieri per denunciare tutto. Poi andammo dall’avvocato e, ad ottobre ci fu il processo. Lui fu obbligato a pagarmi trecento euro al mese e ad uscire da questa casa.” “Lo fece subito?” “Ovviamente no. Però un giorno, essendo stanca di tutte le sue prese in giro, buttai tutte le sue cose fuori e cambiai la serratura della porta.” In quel momento la vidi realmente soddisfatta, non potrà mai pentirsi di questa scelta. Ora finalmente potrà iniziare a vivere.

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ANNA Martina Morciano Sono Anna, ho quasi quarant’anni e oggi sono qui a raccontarvi qualcosa che non ho mai confidato a nessuno. Ero piccola, vivevo in un paesino di montagna con i miei genitori. Vedevo mia mamma stare male ogni sera, la sentivo piangere dalla mia stanza, ma non avevo l’età per capire cosa le succedesse. Un giorno, tornando da scuola, vidi che mia mamma non era a casa, aveva lasciato mio padre: le faceva del male. Io vivevo con lui e con mia sorella più piccola, di sette anni. Non andavo più a scuola, perché mio padre non voleva. Avevo dodici anni e, ogni sera, lui mi obbligava a dormire nel suo letto: mi spogliava, mi toccava e abusava di me. Così mi costringeva a fare qualcosa che io non sentivo normale in un rapporto fra un padre e una figlia. Passarono gli anni, mia sorella iniziava “a diventare grande”, a trasformarsi; io sapevo che quell’uomo, prima o poi, avrebbe iniziato ad approfittare anche di lei e, solo al pensiero, provavo odio nei suoi confronti. Infatti accadde l’inevitabile: lui iniziò a portarla in camera con sé. Ogni mattina, mia sorella tornava da scuola turbata perché, parlando con le amiche, percepiva che nel rapporto con nostro padre c’era qualcosa di insano, di malato. Quando le veniva chiesto anche semplicemente di che cosa parlasse con quel genitore, sentiva un nodo in gola e provava un senso di vergogna. Decidemmo finalmente di andarcene da casa; mia sorella era contenta. Organizzammo tutto di nascosto, senza destare il minimo sospetto, poiché sapevamo che, se papà se ne fosse accorto, avrebbe potuto farci ancora del male. Appena fummo libere, cercammo nostra madre, rifattasi nel frattempo una vita con un altro uomo, che l’amava e la rispettava. Lei ci accolse con gioia, come se già sapesse che, prima o poi, quel momento sarebbe arrivato, così andammo a vivere con lei. Sono trascorsi gli anni, ma non siamo mai riuscite a dimenticare l’orrore che abbiamo vissuto nel corso della nostra infanzia e adolescenza. Dopo tanta sofferenza ed un lungo percorso,

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io sono riuscita a crearmi una famiglia, ma è stato molto difficile, poiché, in ogni uomo che mi si avvicinava, vedevo colui che mi aveva rovinato l’infanzia. Adesso ho due bellissimi figli e un marito che amo e stimo. Solo ora che ho conosciuto l’amore vero posso dire che un maschio, che compie simili atti di violenza su una donna, non è da considerarsi vero uomo.

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AURORA Federica De Medici Eccomi qui ... 30 ottobre 2013, in un altro dei miei viaggi alla ricerca di interviste e di risposte a tante questioni banali, che la gente d’oggi molte volte sopravvaluta, ignorando o soprassedendo su questioni che meriterebbero maggiori attenzioni. Io, reporter di una rivista d’attualità, un lavoro che, nonostante i frequenti viaggi e incontri con paesaggi stupendi e persone importanti, non svolgo con tutta la passione che dovrei! Un lavoro basato sull’immagine e sulla superficialità, sulle apparenze e non su quello che una persona, molte volte, ha bisogno di sentirsi dire. Eccomi qui... stazione di Lecce, una valigetta in mano e un treno da prendere, mentre attraverso il sottopassaggio dirigendomi verso il terzo binario. La gente intorno sembra contenta, giovani coppie si tengono per mano, mentre si salutano prima di separarsi; una donna solitaria fuma nervosamente una sigaretta appoggiandosi al muro, un padre aspetta il treno da cui, tra pochi minuti, scenderà il figlio; un uomo tatuato con addosso una catena al collo, talmente grande e luccicante che sarebbe impossibile non notarla. E poi... lì... in quell’angolo della stazione, una donna. Ed eccomi a rivivere questa scena... un’altra volta... un’altra volta nella stessa stazione, stesso colore di capelli, stessi segni sul corpo... ma questa volta, negli occhi di quella donna, qualcosa era diverso. Ricordo ancora undici anni fa: 20 luglio 2002, treno per Milano alle 9:30: valigie in mano e tanti sogni negli occhi, i miei migliori amici accanto e il mio primo serio lavoro che mi aspetta a … km di distanza. Sempre accanto, dopo anni di studi insieme, si erano offerti di accompagnarmi alla stazione due soli giorni dopo il diploma. 9:15 - li saluto mentre si allontanano nell’Opel di Sandro e spariscono dietro l’angolo. Dopo aver preso una grossa boccata d’aria mi decido finalmente ad entrare nella stazione e a raggiungere il binario 3: il numero che mi accompagna da sempre. Nato il 3 marzo del 1983, maglia numero 3 nella biciclettata dell’anno in cui vinsi, numero 33, stanza dell’albergo in cui capitai durante una vacanza con i miei pazzi e scatenati amici, 3° posto alle olimpiadi

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di matematica, posto 383 al teatro dove... cos’è? Assorto nei miei pensieri, avevo raggiunto il binario e qualcosa risaltò alla mia vista, o meglio, alle mie orecchie. 9:23, avevo ancora qualche minuto per dare un’occhiata. Cercai di avvicinarmi il più possibile a quel suono stentato che, pian piano, si faceva sempre più chiaro e distinto tra le labbra di una donna che piangeva. Mi avvicinai, finché anche la mia vista poté rendersi conto di ciò a cui stavo andando incontro. Ma non ne distinsi i lineamenti fino a quando, avvicinandomi, lei alzò lo sguardo. Era giovane, più o meno della mia età, ma malmessa, i capelli scompigliati e sporchi, graffi sul viso, lividi sul collo e ai polsi, uno zainetto quasi vuoto, e negli occhi tanta paura, tanta stanchezza e tanta nostalgia della felicità. Una voce avvisò che il treno per Milano era in arrivo. Guardai l’orologio, 9:33, e tornai a guardare la ragazza che ancora piangeva. Non aveva paura di me, sembrava abbandonata alla vita. Guardandomi, si schiacciava contro il muro a cui era appoggiata. Mi inginocchiai a fianco a lei, proprio mentre il treno arrivava e un vento improvviso accarezzava i suoi capelli. Le porte si aprirono... sì, ero in tempo per salire, ero ancora in tempo per andare via... mentre, alzandomi, vedevo la mano della ragazza tendersi verso di me. Chissà, forse ero davvero in tempo per prenderlo quel treno, ma ricordo che, in quel momento, ero in preda a due forze contrastanti: una che mi attirava a correre verso il mio futuro e a inseguire i miei sogni, il lavoro che sognavo da sempre, per cui avevo studiato e mi ero sacrificato per anni, l’altra, totalmente opposta, che mi attirava verso quella donna, che mi diceva esplicitamente di prendermi cura di lei, rispettando il credo in cui ero cresciuto. Mio padre amava mia madre e mia madre amava mio padre; ciò nella mia famiglia faceva dell’amore il senso di tutto, l’acquario in cui io, pesciolino rosso, nuotavo totalmente immerso. Restai a guardare le porte del treno richiudersi e sparire, mentre la fragile mano della ragazza si aggrappava alla manica del mio giubbotto. Il ricordo dei giorni che seguirono rimangono del tutto sfocati e confusi: il taxi in cui salii con Aurora tra le braccia, l’ospedale dove la curarono, lo stupore dei miei genitori e dei miei amici nel vedermi tornare a casa. Ma se ci sono ricordi che conservo ancora chiari e nitidi, sono il

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primo sorriso che vidi sul suo viso quando si svegliò in ospedale, o quando, due mesi dopo, si presentò a casa mia con la fotocopia del mio curriculum , che aveva spedito al reparto giornalistico di Bari, il bacio che le rubai e l’inseguimento tra gli idranti del parco, lei che mi saltava addosso, noi che rotolavamo sull’erba, i suoi capelli gocciolanti sul mio viso. Ripensandoci, no... non ho rimpianti per aver scelto di amare. “Il primo lavoro di un uomo è quello di amare la propria donna”, così mi difese mio padre quando mia madre si arrabbiò, vedendomi tornare a casa. A undici anni di distanza, nonostante Aurora sia diventata mia moglie, ancora non so perché il 20 luglio 2002, alle 9:23 si trovasse lì. Ricordando oggi i segni che aveva sul corpo, non trovo ancora il coraggio di chiederle il perché, il come mai. Sembra incupirsi, quando parlo del nostro primo incontro: la stessa ombra, la stessa insicurezza di allora. La rivedo fragile, in preda all’abbandono; solo quando le chiedo di guardarmi negli occhi, lei mi sorride. Ed eccomi qui, oggi, 30 ottobre, a lanciare la valigetta in aria, a prendere il telefono in mano, a digitare il numero del pronto soccorso, a vedere ancora una volta il treno andare via, mentre i medici dichiarano la morte della donna immersa in una pozza di sangue; eccomi ancora qui a cercare nelle tasche del giubbotto le chiavi della macchina, per tornare a casa da mia moglie. E poi mia figlia che mi corre in contro e mi abbraccia, io che la sollevo da terra e le do un bacio sulla fronte, Aurora che esce dalla cucina e mi chiede come mai sia tornato a casa, e che scoppia a piangere sentendo la notizia. Ed ecco la verità che affiora dalle stesse labbra tremanti, che undici anni prima si erano serrate per nasconderla: un padre troppo possessivo, una bambina cresciuta troppo in fretta, la madre che tace e ne subisce la conseguenze in silenzio. Una volta Aurora mi disse: “Con te posso amarmi”. Non ho mai capito cosa volesse dire, ma oggi tutto è più chiaro. Si parla di “femminicidio” di questi tempi: violenza fisica, psicologica, rivolta alle donne in quanto donne. 12 ottobre - “un solo sparo e Stefania muore sul colpo”; 22 ottobre -”uomo, in provincia di Venezia, aggredisce e getta sul volto della moglie del liquido infiammabile, appiccando poi il fuoco”; 26 ottobre - “donna uccisa a coltellate: arrestato il compagno”. Ecco,

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questo è ciò che si legge sui giornali. La donna sembra ormai essere diventata il bersaglio più frequente nel mirino dell’uomo. Come si fa a pensare alle donne come a degli oggetti? Una sera un uomo ubriaco al bar si vantava gridando di aver picchiato sua moglie e, alla mia domanda sul perché l’avesse fatto, mi disse “perché non mi ha cucinato e... , se ora torno a casa e l’ha fatto di nuovo, stasera finisce male!” e la notizia il giorno dopo era su tutti i giornali. E’ lo scandalo dei diritti umani, la sofferenza di donne private del più semplice diritto all’esistenza, soggette al controllo, al tormento di uomini possessivi e assillanti. Violenza sulle donne è credere che le donne si possano possedere, invece che amare. La violenza sulle donne va contro i principi di tutta la storia; mai in letteratura un uomo ha osato scrivere di aver picchiato la sua donna, mai un vero cristiano oserebbe far del male ad un’altra creatura, mai un uomo libero e sano di mente vorrebbe la prigionia, morale o fisica, di un suo simile. Ciò andrebbe contro tutti i principi morali, religiosi e anche politici. Quel giorno, avevo scelto di prendere la sua mano tesa che mi chiedeva aiuto, di aver cura di quella donna, ignorata dalla gente, che non aveva nessuno. Amare mia moglie, pur non conoscendo il suo passato, è stato un atto di infinito amore. L’ho accettata non per pena, non per pietà... perché mi sono reso conto che quel 20 luglio, anche se non si fosse aggrappata a me, io sarei rimasto lì, incatenato dai suoi occhi troppo penetranti per permettermi di salire sul mio treno. L’ho amata e ancora l’amo e, sì... come in tutte le coppie, anche noi ci arrabbiamo e abbiamo i nostri alti e bassi; ancora adesso mi irrita quando vuole avere sempre ragione lei. Amo il suo viso che non dimostra rimpianti e la sua voce priva di nostalgia nel racconto della sua vita prima di noi. Spesso ho pensato e ipotizzato. E... sì, ho avuto dubbi. Ma non ho mai dubitato della sincerità del suo amore. E, se c’è una certezza che mi accompagna e mi accompagnerà sempre, è che mai, mai ho sfiorato mia moglie. Mai a donna alcuna avrei osato arrecare ferita con l’intenzione di farle del male, neanche con il pensiero!

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913 Disegno di Federica de Medici

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c. Irene Capone Mi aprì la porta ed io entrai. Appena entrata, capii già la situazione di ostilità che c’era da parte dei due figli, probabilmente contrari al fatto di raccontare la loro storia ad una sconosciuta. Rimasi impressionata dalla sua semplice bellezza. Una donna alta, molto magra, con i capelli ricci e neri e il viso pallido, sofferente. I suoi occhi erano spenti, segno di una donna stanca, stanca di lottare. Tuttavia, lei fu sin da subito molto gentile con me, offrendomi biscotti e un caffè. Mi chiese come mai volessi a tutti i costi intervistare una donna violata e come mai l’avessi scelta. Fu una strana situazione: ero andata per farle delle domande, ma i ruoli si erano invertiti. Fu vaga nel rispondere. Iniziai chiedendole di raccontarmi come si fossero conosciuti e lei, prima di rispondere, tirò un sospiro. Poi disse: “Lo vidi la prima volta nella primavera del 1985, mentre facevo una passeggiata con mia madre. Era seduto su un muretto a fumare una sigaretta con i suoi amici. Io avevo solo quindici anni, lui venticinque. Appena lo vidi, pensai che fosse un bellissimo ragazzo; lui, qualche giorno dopo, venne a trovarmi a casa, mentre i miei genitori erano fuori, e tutto ebbe inizio”. Fin qui nulla di strano, a parte la differenza d’età, un problema tuttavia superabile, ma che, a quel tempo, poteva dare non pochi problemi. Appuntai tutto sul mio taccuino, dopo di che dissi: “Bene, immagino che dopo abbiate intrapreso una relazione, giusto?”. Lei arricciò il naso e rispose: “Di nascosto. I miei genitori, ovviamente, non mi permettevano di vederlo e ogni volta che ci scoprivano insieme erano dolori seri per me.” “Per quanto andò avanti questa storia?” “Circa un anno.” “E dopo ?” “Eh, dopo facemmo una pazzia: scappammo insieme.” “E lei aveva ancora solo sedici anni, giusto?” “Sì, ero ancora piccola e non sapevo quello che facevo. Magari, se ci avessi pensato bene, non

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l’avrei fatto.” In quel momento, la vidi completamente pentita di aver messo a repentaglio il rapporto con i suoi genitori per lui, lui che qualche anno dopo….. “Insomma, poi siete tornati e che è successo? ” “Nulla, siamo tornati, ma la situazione non cambiò e i miei ci volevano lontani a tutti i costi.” Nei suoi occhi si leggeva un filo di tristezza, di insoddisfazione: avevano fatto tanto, erano scappati insieme e non avevano risolto nulla. Quindi, avevano continuato a vedersi di nascosto, ma poi….. “Sì, continuammo a vederci di nascosto, anche se, alla fine, tanto nascosto non era, perché venivamo perennemente scoperti.” E sorrise. “Come usciste da quella situazione?” “Degli amici ci consigliarono di fare un figlio, e così facemmo.” Nacque il loro primo figlio. Quindi aspettarono che lei raggiungesse la maggiore età e si sposarono, pensando che nessuno avrebbe più potuto separarli. Lei aveva tutto quello che desiderava: l’uomo dei suoi sogni, un figlio, una casa accogliente e, dopo otto anni, ebbe anche una figlia. In quella casa, però, l’armonia durò poco. “Lui si rivelò per quello che era” disse. “Cosa vuole dire?” “Ebbe un cambiamento incredibile : il ragazzo semplice, timido, un po’ geloso e tanto dolce svanì e si trasformò in un vero e proprio mostro, possessivo, violento, attaccato al sesso.” “Come lo definirebbe in una sola parola?” “Non credo che esista una parola per descriverlo.” “No?” “No! Nessuno ne avrebbe, se fosse stato al mio posto. Lo amavo tanto, eppure lui era riuscito a farsi odiare.” “Non vorrei essere invadente, ma è il mio lavoro: potrebbe raccontarmi quali erano i vostri problemi?” “Ma certo, capisco. Il problema principale erano le sue fissazioni, la sua mania dei soldi e del sesso, la sua possessività. Economicamente, io non ho mai avuto nulla da lui, ho dovuto

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lavorare per mantenere me, la casa e i nostri figli. Mai un gesto d’affetto, un regalo di compleanno, neanche gli auguri, solo tanta indifferenza. La sua gelosia mi opprimeva, non avevo più amici, non avevo più una vita (se vita si poteva definire) al di fuori di quella con lui.” “Mi ha detto che era violento, in che occasioni?” “Praticamente sempre. Usciva fuori di sé soprattutto quando rifiutavo di andare a letto con lui. Ogni anno era sempre la stessa storia: la settimana di Natale io mi alzavo presto e andavo in chiesa per la novena; quando tornavo a casa erano botte, perché la notte prima l’avevo rifiutato, dicendo di essere stanca; e subito dopo mi picchiava !” “Quando ha raggiunto il limite?” “Maggio 2013. Presi questa decisione insieme a mia madre e andammo dai Carabinieri per denunciare tutto. Poi andammo dall’avvocato e, a ottobre, ci fu il processo. Fu obbligato a pagarmi trecento euro al mese e a uscire da questa casa.” “Lo fece subito?” “Ovviamente no. Però un giorno, essendo stanca delle sue prese in giro, buttai tutte le sue cose fuori e cambiai la serratura della porta.” In quel momento la vidi realmente soddisfatta. Non potrà mai pentirsi di aver fatto quella scelta. Ora finalmente potrà ricominciare a vivere.

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CARMEN Maria Indraccolo Sono in commissariato. Ce l’ho fatta, finalmente! Tremo tutta, ma non riesco a farne a meno; ho le lacrime agli occhi e una luce nuova sul volto. Si avvicina un poliziotto e mi chiede il motivo per il quale voglio sporgere denuncia verso mio marito. Basta scoprire un po’ le braccia, per trovare un corpo esile, ricoperto di macchie violastre; sono piena di lividi dappertutto, ma tanto basta per far impallidire l’uomo davanti a me e farlo rimanere senza parole. Non sa più come comportarsi e come parlarmi. Si fa coraggio e mi dice che non ha mai visto una cosa del genere e si affretta a compilare un foglio che firmo. Mi tremano le mani e la firma mi esce poco nitida, ma ora sto meglio. Non voglio tornare più a casa, preferisco andare a trovare i miei genitori, che ormai non vedo da molto. Voglio dire la verità. Loro non sanno nulla. Come spiegare tutta questa storia? Si tratta di giorni e giorni di violenza. Tutto è iniziato una mattina d’estate, cinque anni fa, qualche giorno dopo il mio matrimonio. Ero in spiaggia, prendevo il sole e qualche ragazzo mi fissava più del dovuto, così mio marito se ne accorse e allora, tutto irritato, decise che dovevamo tornare a casa. Durante tutto il tragitto non mi rivolse la parola. Giunti a casa, mentre mi affrettavo a preparare qualcosa da mangiare, lui sbottò: -Sei una poco di buono, ti piace mostrare il tuo corpo a tutti, no?- E mi tirò uno schiaffo. Io non ci potevo credere, prima di sposarci non mi aveva mai alzato le mani. E’ sempre stato un uomo geloso, ma non credevo potesse arrivare a tanto. Si dice che al primo schiaffo bisogna subito denunciare e anch’io la pensavo così, ma non lo feci e, da quel momento, andò sempre peggio. Io non riuscii a parlargli tutto il giorno; me ne stavo silenziosa e mi dedicavo alle faccende domestiche. L’amore dovrebbe riempire, mentre questo mi lasciava un grande vuoto dentro. Non volevo, ma non riuscivo neanche ad allontanarlo, perché avevo troppa paura. Mi sembrava un estraneo ormai: era così diverso da quell’uomo di cui mi ero perdutamente innamorata; avevo scoperto di avere accanto un’altra persona. Dopo quell’episodio, mi svegliava la mattina portandomi il caffè a letto. Trovavo un vas-

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soio sul mio comodino con una tazzina, un cornetto, una rosa rossa e lui accanto che mi guardava. Mi ripeteva che aveva sbagliato e che non sarebbe mai più successo. Si giustificò dicendomi che era stressato per il lavoro, la casa da pagare e una serie di altre scuse. Ta le sue braccia, mi sentivo di nuovo sicura. Mi ripromisi di non pensarci più. Passò una settimana circa e arrivò un secondo schiaffo, seguito ancora da un altro. Con il passare del tempo le violenze fisiche furono seguite da quelle morali, sempre più devastanti. Dapprima non potevo uscire con le amiche, poi non potevo andare da sola a fare spesa o addirittura a trovare i miei genitori e non potevo rispondere neanche al telefono. Era padrone lui di tutto, soprattutto di me. Quando andavamo a trovare i miei, molto raramente ormai, lui faceva finta di riempirmi di attenzioni. Non mi lasciava cinque minuti sola con loro, forse per paura che dicessi tutto. Eppure sono sicura che, guardandomi negli occhi, loro coglievano il mio sguardo triste e spento, anche se mi sforzavo di sorridere. Ero anche dimagrita molto e avevo iniziato a fumare di nascosto. Speravo di riuscire a sfogarmi in qualche modo. Passavo molto tempo sola in casa, mentre mio marito era a lavoro. Quando i pensieri diventavano troppo forti e non riuscivo a mandarli via, leggevo un libro, immedesimandomi in uno dei personaggi della storia e, per un po’, vivevo un’altra vita. Poi, chiuso il libro, ritornavo alla dura e triste realtà. Volevo fuggire, ma, allo stesso tempo, mi sentivo legata a lui. Forse il ricordo dei momenti felici, prima del giorno in cui avevamo detto il ‘’Sì, lo voglio!’’ sull’altare. Era stata una giornata stupenda, la più bella della mia vita, ma anche l’inizio di un incubo dal quale tutti i giorni speravo di risvegliarmi. Ero diventata così brava a dire bugie su bugie, per non soffrire. Avevo mentito ai miei genitori, ai miei amici, ai vicini e al mondo intero e soprattutto a me stessa. Mi illudevo e basta. Ma questa situazione, se non avessi fatto qualcosa, non sarebbe mai cambiata. Ora sono davanti a casa dei miei, mi faccio coraggio e suono: apre mia madre e mi abbraccia commossa. Entro in casa e, immediatamente, il mio sguardo si posa sul poster appeso alla parete, sempre nello stesso posto e sempre uguale da anni. Eppure ora così diverso. Ci sono io in abito da sposa. Mia madre mi abbraccia e mi stringe forte.

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Foto a cura di Maria Indraccolo

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GIULIA Alessia Anna Cappilli Quella che sto per raccontarvi, è la storia di una ragazza di poco più di 18 anni, rinchiusa nella “gabbia del terrore”. Una ragazza che non sa cosa vuol dire spensieratezza, allegria, amicizia, uscite; insomma, una ragazza che non conosce il vero significato della parola VITA. Ebbene sì, questa sono proprio io, in tutte le mie sfaccettature. Pensavo di aver incontrato il grande amore della mia vita, fino a quando non ho conosciuto realmente il “lato oscuro”, la parte cattiva dell’amore. I suoi occhi, quei suoi occhi che mi avevano da subito conquistata all’età di 16 anni, il suo sorriso, che rallegrava le mie giornate, di colpo erano mutati. Lui era cambiato, come pure il suo comportamento. L’alcool, il fumo, le cattive compagnie lo avevano reso la persona più cattiva di questo mondo. E la cosa che più mi faceva stare male era che io, ragazza forte, con un temperamento da “guerriera”, non riuscivo più ad aprire bocca. Preferivo tenermi tutto dentro, ammutolita, per paura che, suonando alla porta di casa, invece di darmi un abbraccio, mi avrebbe “scaraventata” per terra, come aveva fatto innumerevoli volte. Voglio ringraziare mia madre e mio padre, perché mi hanno incoraggiata a gridare al mondo la “bestia” che lui era. Ora sono felice. La mia vita è cambiata, ho ritrovato la serenità. Ho intorno a me persone stupende e sono di nuovo io!!!!!

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Foto a cura di Alessia Cappilli

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LUCREZIA Miriam Margherito Crespino Lorenza Serra

Tutto è iniziato quell’8 Marzo 2011, non lo dimenticherò mai. Sì, avete capito bene, era proprio la festa della donna! Era un giorno come tanti altri, un giorno triste. Tornavo a casa dopo quella serata trascorsa con le amiche di sempre. Lui mi stava aspettando impaziente. Appena varcata la soglia, iniziò a urlare, a dire che l’avevo tradito, che mi ero divertita, mentre lui era rimasto a casa. Da quel giorno iniziò a dubitare di ogni mio gesto, di ogni mio movimento; non potevo più uscire. Non stiamo parlando di “gelosia”, di quella sana preoccupazione nei confronti della donna che si ama, ma di una vera e propria ossessione. Giorno per giorno, ora dopo ora, diventava sempre più pazzo; non era più l’uomo che avevo sposato. Ogni sera pretendeva sempre di più, senza amore. Non ero più una donna, ma una bambola con cui giocare. Non avevo più un corpo, ero solo un insieme di lividi e graffi. Andavo avanti e sopportavo solo per mia figlia, per proteggerla, ma avevo capito che non poteva più continuare così. Una sera arrivò perfino a minacciarmi :“Se racconti qualcosa a qualcuno, uccido nostra figlia!”. Come potevo ribellarmi? Non potevo fare nulla. Mia figlia era la persona che amavo di più al mondo ! Una sera, tornato dal lavoro, durante l’ennesimo litigio, afferrò qualcosa, non so precisamente cosa, forse un’ascia, sicuramente un oggetto tagliente, che mi colpì. Ero lì, a terra, potevo ancora respirare, ma anche lui era lì e mi guardava senza pietà, senza nessun senso di colpa, senza far nulla. Fu lui stesso, quando ormai era troppo tardi, a chiamare il 118: ero già morta. Per fortuna, la piccola dormiva e non vide sua madre ridotta in quello stato, esanime. Questa è la mia storia. Spero che voi, a differenza di me, abbiate il coraggio di parlare, di denunciare. Ora, da quassù non posso fare altro che parlare con voi, con voi donne. Può sembrare assurdo che tante donne, pur consapevoli del male che subiscono e che fanno subire ai propri

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figli, non reagiscano, non denuncino i propri aguzzini, non fuggano dall’inferno in cui si trovano. Ogni donna dovrebbe cercare la felicità, evitando la paura, quella stessa paura che quel giorno mi ha uccisa e che, spesso, è più forte di tutto!

NESSUN’ALTRA DONNA DEVE AVER PAURA DI REAGIRE ALLA VIOLENZA.

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LUDOVICA

Luigi Lorenzo De Nuzzo

Casarano, 15/04/2013

Caro diario, ci risiamo! Anche oggi, la mia amica Ludovica è venuta a raccontarmi l’ennesima violenza che ha dovuto subire da parte di quel MOSTRO di suo “padre”. Non riesco ancora a crederci… come può un padre violentare la propria figlia ?? Proprio lui…, il padre, l’uomo che le ha donato la vita, ora gliela sta distruggendo… Durante il racconto, Ludovica non smetteva di piangere. Io cercavo inutilmente di consolarla, ma non serviva a nulla. In fondo, come si può fare a consolare qualcuno che si trova in questa situazione? Non credo sia possibile.. neanche le parole di una psicologa esperta avrebbero fermato quel fiume di lacrime! Purtroppo, caro diario, la cosa più orribile è che queste violenze vanno avanti da ormai sei anni. Già, da quando Ludovica aveva solo 11 anni; infatti, il “padre” le comprava giocattoli nuovi, quelli che più le piacevano e la ricopriva di carezze. In cambio, però, il mostro poteva palpeggiarle le parti più intime. A quell’età la ragazzina non capiva la gravità di quei gesti, era attratta solo dai giocattoli, come qualsiasi altra bambina di 11 anni. Con il tempo, però, i palpeggiamenti sono diventati qualcosa di più grave. Ludovica è diventata vittima di violenza psicologica e fisica. “L’orco”, infatti, la minacciava, la ricattava, la insultava verbalmente e la umiliava in continuazione. Occorreva subire, allora; subire solo subire, senza mai dire nulla a nessuno. Ora, non ha nemmeno la possibilità di sfogarsi con la madre, in quanto è venuta a mancare qualche anno fa, prima che l’incubo avesse inizio. L’unica persona di cui si fida sono io; mi ha fatto giurare di non raccontare nulla a nessuno, altrimenti non mi rivolgerà più parola. Ho provato più volte a convincerla a raccontare tutto alla polizia o a chiunque sarebbe in gra-

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do di aiutarla, ma niente. Secondo lei, non la crederebbe nessuno, poiché suo padre è un uomo di spicco, sai, un uomo in vista, di cui nessuno mai sospetterebbe niente. È rispettato e amato da tutti, perciò lo scandalo si unirebbe allo scandalo e per Ludovica sarebbe la fine! Nessuno sa, però, che quell’uomo, che a tutti appare come un uomo perbene, in realtà non è altro che un orco che tratta la propria figlia come un oggetto, una figlia costretta a subire calci, schiaffi, pugni, colpi alla testa e, nonostante continui ad urlare e ad implorarlo, lui continua a picchiarla e sul viso ha stampato un sorriso di goduria, come se violentare la propria figlia fosse la cosa più bella che ci sia al mondo. Caro diario, questo è agghiacciante ! A sentire i racconti di Ludovica mi viene la pelle d’oca e una rabbia che neanche immagini. Non si può trattare così una figlia. Non si può calpestare così una donna. NESSUNA DONNA deve essere trattata in questo modo, per nessuna ragione al mondo … Tutte le bambine, le ragazze, le donne vittime di violenze dovrebbero denunciare senza paura quello che sono costrette a subire, senza tenersi tutto dentro, perché, in questo modo, non otterranno mai né libertà né dignità. E Ludovica è proprio una di quelle donne, e io l’aiuterò a tutti i costi a liberarsi da quel mostro che è un “padre”. Costi quel che costi ! Te lo prometto ! Per oggi, caro diario, credo di averti scritto abbastanza. Vado a dormire. Forse ci riuscirò! A presto. Tuo Luigi

Casarano, 25/05/2013

Caro diario, oggi sono finalmente felice. Il “padre” di Ludovica è stato arrestato, grazie ad un filmato prodotto da lei stessa, un filmato in cui riprende le violenze subite. Nella perquisizione a casa del mostro, inoltre, i carabinieri hanno ritrovato gli oggetti utilizzati dal violentatore e anche alcune foto scandalose e orrende. Sarebbero da bruciare, da incenerire. Sì, perché un passato simile va distrutto, cancellato, dimenticato. Anche se dimenticare è difficile.

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Ora Ludovica vive a casa mia e, da qualche giorno, sul suo volto è tornato a risplendere il sorriso. È davvero bella quando sorride! Spero che presto dimentichi tutto ciò che le è capitato. È difficile, ma so che, un po’ per volta, ce la farà. Lo so. Perché Ludovica è una donna forte e tenace. Tutte le donne sono forti e tenaci. Sai, caro diario, a volte crollano, ma poi sono pronte a rialzarsi per lottare di nuovo, se necessario, per un ideale in cui è bello credere, in cui è bello ed entusiasmante sperare. Ed io, come uomo, voglio che sia così. Voglio che ogni donna, guardandosi attorno, non si senta solo osservata e sgranata da sguardi virili e compiaciuti. Voglio, invece, che sia ammirata e amata come qualsiasi essere venuto al mondo, come un filo d’erba, una rosa, un ramo fiorito, un gabbiano che aleggia sull’onda, una bianca colomba che, librandosi nel cielo sereno e tra le nuvole scure, non si stancherà mai di continuare il suo volo. Ora vado, perché io e Ludovica abbiamo tante cose divertenti da fare e non abbiamo tempo da perdere. Tanto, caro diario, so che pazientemente mi aspetterai! Un abbraccio.

Tuo Luigi

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LUISA Matteo Scevola Quando i vicini di casa entrarono, Luisa aveva il viso riverso sul tavolo della cucina, il suo ex compagno le impediva di muoversi. «Ricordo che uno di loro ha guardato il coltello del pane sul lavello: ha pensato che avrebbe potuto ammazzarmi !». Ora Luisa, 38 anni, toscana, lo racconta «senza vergogna». Nel momento peggiore aveva addirittura perso la voce. «Un’afonia senza spiegazioni, secondo i medici. Non riuscivo a dire a nessuno quello che mi era capitato. Non riuscivo nemmeno a capacitarmi che fosse successo proprio a me: noi eravamo persone normali». Spesso i maltrattamenti vanno avanti per anni, prima che le donne riescano a lasciarsi alle spalle queste situazioni angosciose. Oppure si concludono con un omicidio: succede ogni tre giorni, in Italia. I cosiddetti « raptus » sono rari: nel 70% dei casi gli uomini uccidono dopo lunghi periodi di vessazioni e stalking. Il compagno di Luisa era un dirigente d’azienda. All’inizio era stato un idillio, poi erano arrivate le botte: «La prima volta è stato perché avevo messo al posto sbagliato un mestolo. Sento ancora il rumore dei colpi sulle orecchie. Dopo mi ha detto: mi devi ringraziare, ti ho picchiata dove hai i capelli, così non si vede». Luisa aveva chiamato il numero antiviolenza della Casa della Donna. Aveva paura. «Il primo istinto è startene buona: ti convinci che se non fai storie lui si calmerà, che devi solo aiutarlo a cambiare». Poi era arrivato il sostegno del Centro antiviolenza: «Non mi hanno mai detto : “Lascialo! ”, ma mi hanno dato le informazioni e gli strumenti per farlo». Denunciare è stato il passo successivo. Una scelta difficile, che viene fatta solo dal 7% delle donne. E solo tre su dieci si confidano con qualcuno. Solitudine e isolamento, dunque, sono tra le cause del silenzio. Spesso le donne non osano denunciare i loro compagni, perché non incontrano sul loro cammino avvocati o operatori sociali preparati e, ancor più frequentemente, le denunce non si concludono con condanne, perché gli avvocati non portano in aula le testimonianze giuste».

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Foto a cura di Matteo Scevola

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MARIANGELA Luca Toma

Tutto ebbe inizio il 13 gennaio. Non potrò mai dimenticare quella data, così agghiacciante per me. Era una serata fredda; io e i miei due bambini, Marco di nove anni e Paolo di sette, eravamo rimasti a casa. Aspettavamo l’arrivo di mio marito, che doveva ancora tornare dal lavoro e stava tardando. La casa in cui abitavamo era così piccola e angusta, che solo il vedere quelle pareti così scure suscitava un senso di indescrivibile angoscia. Decidemmo di scaldarci un po’ e, per ravvivare l’ambiente, accesi il fuoco. Mentre preparavo la cena, i bambini finivano di fare i compiti sulla loro piccola scrivania. Erano ormai le 20.00, quando lui chiamò per avvisarmi che tardava ad arrivare: aveva ancora del lavoro da svolgere, quindi potevamo cominciare a mangiare senza la sua presenza. Rimasi perplessa, tuttavia chiamai Marco e Paolo e ci sedemmo a tavola. Quando i piccoli mi chiesero dove fosse il padre, provai un senso di disagio nel rispondere a quell’ingenua domanda. Dopo cena, guardammo la televisione tutti insieme e poi portai i bambini a letto, con la promessa che il giorno seguente, dopo la scuola, li avrei accompagnati al parco. Trascorse ormai le 22.30, non v’era ancora nessuna traccia di mio marito, così decisi di andare a dormire. Non avevo ancora posato la testa sul cuscino, quando sentii suonare ripetutamente il campanello. Come aprii la porta, lo vidi steso per terra, con gli occhi infuocati di rabbia, che mi implorava di aiutarlo ad alzarsi, lamentando di non avere la forza per farlo da solo. Capii subito da dove stava venendo. Era sicuramente passato dal solito bar dietro l’angolo, dove la sera si ritrovavano avventori non sempre molto raccomandabili. Non aveva avuto del lavoro da sbrigare, non si era attardato in officina; sicuramente si era intrattenuto con i suoi amici per “ il solito bicchierino”. Lo sollevai con fatica, essendo io una donna non molto robusta. Senza darmi la minima spiegazione, mi comunicò che voleva cenare. La sgradevole puzza di alcool che uscì dalla sua bocca non mi lasciò dubbi : era Chivas, il suo liquore preferito; ogni

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sera, dopo cena, ne mandava giù un bicchiere dietro l’altro e dopo si addormentava sul divano. Non fu facile trasportarlo come un peso morto fino al tavolo della cucina, non riusciva a reggersi in equilibrio neanche seduto e, per poco, non cadde a terra. Non aveva neanche la forza di prendere in mano una posata, così fui costretta ad imboccarlo. Quando gli effetti della sbornia cominciarono a svanire e iniziò a sentirsi meglio, provai a chiedergli come gli fosse andata la giornata di lavoro, ma mi pentii subito di avergli fatto quella domanda, perché, in un solo istante, senza che io potessi minimamente rendermi conto di quanto stava accadendo, lui afferrò una bottiglia di vetro e la scaraventò contro il muro. Lo stesso fece con bicchieri, piatti, posate, tutto quello che gli capitava a tiro. Facevo appena in tempo ad evitare un oggetto, per non essere colpita da un altro. Come se ciò non bastasse, mentre dava in escandescenze in quell’assurdo modo, mi gridava in faccia che l’avevo stancato, che era colpa mia se non gli andava bene niente, soprattutto sul lavoro. Ad un certo punto, venne verso di me come una furia e ci trovammo faccia a faccia. Mi sbatté a terra con una spinta e iniziò a prendermi a calci con cattiveria. A causa delle botte che stavo ricevendo, iniziai a vedere tutto nero. I bambini, nel frattempo, si erano svegliati e, nascosti dietro la porta del salotto, assistevano alla scena quasi pietrificati. Era un segno di impotenza: avrebbero voluto correre in mio aiuto, ma non potevano fare niente contro la forza bruta del padre. Con le ultime forze che avevo, feci loro cenno di andare via, ma non mi ascoltarono e si gettarono su mio marito, cercando di fermarlo. In quegli attimi, solo dolore e buio intorno a me. E le grida dei miei due angeli innocenti, che imploravano: “papà, lascia stare la mamma, le stai facendo male !”. Mi scappò una lacrima. Non avrei mai voluto che i miei figli vedessero tutto quell’orrore. Non avrebbero dovuto scoprire in quel modo di cosa fosse capace il loro padre quando beveva. Adesso che ripenso a quei terribili momenti, è come se le mie orecchie stessero ancora ascoltando il grido dei miei bambini; un grido atroce, che non mi abbandonerà mai. Quella sera, mentre lui mi colpiva, pensavo allo scorrere lento del tempo, un quarto d’ora d’inferno che, tuttavia, mi sembrò un’eternità. Quando ebbe sfogato tutta la rabbia che aveva in corpo, mi sollevò sulle spalle e mi portò

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in camera da letto. Non volevo, ma come potevo fermarlo? Non avevo più la forza di reagire, ero lì, sola, totalmente annientata. Fece ciò che volle e gli piacque fare su di me e, quando terminò, mi urlò con rabbia : “Non sai neanche rendermi felice !”. Piansi tutte le mie lacrime, in un angolino, da sola, umiliata. Sapevo che nessuno poteva accorrere in mio aiuto. Una catapecchia sperduta nella campagna: quella era la mia casa; anche volendo, chi avrebbe potuto accorgersi della tragedia che stavo vivendo? Lo implorai, piangendo, di lasciarmi andare. Niente. Continuò ad umiliarmi, ad infierire sul mio corpo ormai esanime. Doveva farmi del male, era il suo unico scopo e nessuno poteva fermarlo. Ad un tratto, quando ormai temevo di essere davvero vicina alla fine e l’alba non sembrava arrivare mai, suonò il campanello: era ancora notte fonda. Chi mai poteva essere a quell’ora così strana e insolita? Mio marito, come se niente fosse, si rivestì e scese ad aprire la porta, forse per non destar sospetti. Erano i Carabinieri e furono la mia salvezza. Devo a loro e a mia sorella Marta, se oggi sono qui a lasciare la mia testimonianza. Proprio mia sorella, l’unica ad essere a conoscenza dell’inferno in cui vivevo, quella sera mi aveva chiamata diverse volte al telefono, ma non avendo mai ricevuto risposta, aveva capito subito che stava succedendo qualcosa di grave. Intanto, aveva continuato a riprovare, fino a quell’ultima telefonata, la più importante, che mi avrebbe salvato la vita : “Zia, corri subito a casa, papà sta picchiando la mamma e lei non riesce a muoversi ! “. Ringrazio ancora i miei due angeli, che, nonostante il trauma che stavano vivendo, quella sera hanno avuto il coraggio di difendermi, di cercare aiuto. Sono stati loro a darmi la forza di prendere la decisione di denunciare mio marito. Troppe volte ci avevo provato, ma non ci ero mai riuscita. Dopo quella sera, ho finalmente trovato la forza di reagire, di ricominciare. Ora viviamo tutti e tre in città. Ho ritrovato la gioia di vivere accanto a un nuovo compagno, quello stesso avvocato che mi ha assistita nella causa per maltrattamenti contro mio marito e che, dopo due anni ed un lungo doloroso percorso, mi ha chiesto di sposarlo. Finalmente Marco e Paolo hanno un vero papà, che li porta al parco, li fa ridere ed ha restituito loro la spensieratezza che non avevano mai conosciuto. I miei figli sono e rimarranno sempre i miei angeli custodi.

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MARINA Maria Vittoria Portaccio

Ne ho piante di queste lacrime e io sola so quanto mi è costato finora trattenerle, figlia mia. Non serve che tu fugga, non serve che tu finga ogni mattina che gli occhi rossi siano effetto dell’allergia di primavera, perché sai bene che la primavera è passata da tempo. Finora ho sempre evitato di parlarti di quello che tuo padre nasconde dietro quell’aspetto d’uomo integerrimo, tutto d’un pezzo; ogni giorno in giacca e cravatta con l’espressione da diligente buon padre e perfetto marito. Credo sia giunto il momento di parlarti sinceramente, da donna a donna, perché penso possa servire a farti riflettere. Sono stata adolescente anch’io e, come te, ho dovuto affrontare i problemi che quest’età inevitabilmente comporta; quindi sono abile a riconoscerne i segni. Ero solo una quindicenne, quando presi la prima cotta per tuo padre e lui per me. All’inizio, lui sembrava ai miei occhi la persona più dolce di questo mondo; così cominciai a idealizzarlo, al punto tale che questo concetto mi entrò così tanto nella testa e nel cuore, che, anche quando nella realtà lui aveva già smesso di essere così, io lo guardavo ancora con gli occhi dell’amore. Al nostro primo appuntamento era lì, sotto casa, ad aspettarmi con lo sportello della macchina già aperto; al mio sedicesimo compleanno mi regalò un rosa rossa, profumatissima, che conservo ancora tra le pagine di un vecchio libro. Eravamo ancora al liceo, quando arrivò, però, anche la prima scenata di gelosia, a causa del mio compagno di banco: tuo padre mal sopportava che non fossi seduta accanto ad una ragazza. La seconda scenata la provocò il giardiniere che lavorava nel mio palazzo: vedendomi rientrare a casa, mi aveva semplicemente chiesto un bicchier d’acqua. Ne seguì per me l’obbligo di non uscire più da casa dalle 16.00 alle 18.00, insieme ad intimidazioni, ricatti morali ed altri ordini, sempre più assurdi e insensati. Un giorno, era aprile, una bella giornata di primavera, tuo padre mi chiese di sposarlo ed io, come ogni donna innamorata del suo uomo, accettai, felice più che mai. Ci sposammo di lì a

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poco. Con il passare del tempo, la nostra vita coniugale cominciò pian piano a deteriorarsi: lo spunto più banale diventava ragione valida per inveire continuamente contro di me, umiliarmi e sminuirmi anche nei luoghi pubblici, perfino in presenza di estranei. Le liti, provocate quasi sempre da lui, venivano spesso accompagnate da violenti ceffoni, che tuo padre non esitava a sferrarmi in pieno viso, anche quando rimasi incinta. Intanto vivevo la mia tragedia nella più totale solitudine e me la sono portata dentro per tutti questi anni, durante i quali ho cominciato, lentamente ma inesorabilmente, a convincermi che, forse, meritavo davvero tutto questo e, forse, ero addirittura io a provocare tuo padre, a farlo infuriare. Per tutti questi anni, questa mia convinzione mi ha fatto rinchiudere in una gabbia quei sogni di donna libera e autonoma che nutrivo, perché, più il tempo passava, meno ero libera di agire e di pensare con la mia testa. Ero diventata una schiava, totalmente soggiogata, sottomessa alla sua volontà. Tuo padre mi aveva fatto convincere che quella era la vita che volevo! Se solo qualcuno mi avesse fatto vedere la realtà che stavo vivendo per quella che era davvero, le cose sarebbero andate diversamente ed ora non mi porterei dietro il pesante fardello di tante ferite fisiche, ma soprattutto psicologiche, che ancora nascondo sotto gli abiti e dentro l’anima. Ecco perché, figlia mia, oggi ho trovato il coraggio di scriverti, di confidarti quella verità che ti avevo sempre taciuto. Spesso si dice che “la storia si ripete”, ma io farò tutto il possibile affinché a te non succeda. Mi preoccupano soprattutto i traumi che un donna finisce col portare per sempre con sé, perché ti cambiano radicalmente a vita. Con il tempo, ho imparato, e vissuto sulla mia pelle, che noi donne siamo proprio come i fiori: se cercano di aprirci con la forza, i nostri petali restano nelle mani di chi ci maltratta e così moriamo dentro, proprio come muoiono i fiori, quando vengono strappati con forza. Ricorda, figlia mia, che io sono e sarò sempre qui per te, pronta ad ascoltarti, se e quando vorrai parlarmi. Sarò pronta ad offrirti il mio aiuto e il mio sostegno, qualunque consiglio tu voglia chiedermi. Spero ti rivolgerai a me, qualora un giorno, spero mai, dovessi averne bisogno. La tua Mamma

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MAYA Valeria Minisgallo

All’inizio non avevo fatto caso ai suoi occhi, eppure erano così belli. Potevano essere circa le 16.00, ero da poco arrivata sul posto di lavoro, quando quei due occhi azzurri mi chiesero un caffè macchiato. Una delle mie difficoltà, da quando lavoravo in quel bar, era scaldare il latte, perciò gli chiesi : “Macchiato strano può andar bene lo stesso? ”; lui con un sorriso annuì e, dopo aver bevuto il suo caffè, andò via. Lo rividi il giorno dopo: le sue vacanze erano finite e il lavoro lo aspettava. Essendo fidanzata, avevo cercato di non interessarmi più di tanto ai suoi discorsi; ci salutammo cordialmente e non pensai più a quell’incontro, finché una sera non mi contattò su Facebook e, dopo qualche giorno, ci scambiammo i numeri di telefono. Le nostre conversazioni telefoniche divennero sempre più frequenti: io gli raccontavo di me, del mio ragazzo, della mia vita, dei miei interessi e lui faceva lo stesso. Danilo, così si chiamava, aveva 24 anni, viveva a Roma, lavorava in una fabbrica ed era appassionato di calcio. Io avevo solo 17 anni e non mi sarei mai aspettata che lui potesse innamorarsi di me. Ci separava la distanza; lui, a Roma, aveva le sue storie; io qui, nel mio piccolo paese della Puglia, portavo avanti la mia monotona esistenza. Alla fine fu inevitabile: decisi di lasciare il mio ragazzo. Per parecchi mesi, io e Danilo continuammo a sentirci solo telefonicamente, anche se entrambi nutrivamo la voglia di rivederci appena possibile. Poi, un giorno, mi chiamò e mi disse: “Sono proprio di fronte al bar dove ci siamo conosciuti”. Incominciai a tremare dall’emozione : avevo aspettato quel momento per tanto, troppo tempo. Lui era seduto al tavolino e mi aspettava con una rosa rossa in mano. Appena i nostri sguardi si incrociarono, non fui più in grado di ragionare : gli corsi incontro e ci abbracciammo forte, come due innamorati che si ritrovano dopo una lunga separazione. Rimase con me per tre giorni; tre giorni che dedicammo solo a noi. Persi completamente la testa per lui, per quei suoi occhi trasparenti, che, sin da subito, mi avevano quasi tramortita. Il

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suo accento romano mi faceva ridere come una bambina. Danilo mi faceva sentire importante, sicura e protetta. Continuammo a sentirci telefonicamente e a vederci quando gli era possibile scendere in Puglia. Purtroppo io non potevo raggiungerlo a Roma, poiché andavo ancora a scuola e, durante le vacanze estive, lavoravo. Dopo quasi due anni dal nostro primo incontro, finalmente mi diplomai. Continuavo ad essere follemente innamorata di lui; pensavo potesse essere l’uomo della mia vita, così feci un passo veramente importante: mi allontanai dai miei familiari, dai miei amici, dal mio paese e, poco dopo, mi trasferii a Roma, solo per potergli stare accanto. Decidemmo quasi subito di andare a vivere insieme e affittammo una piccola casa tutta per noi. Per la prima volta, stavo assaporando il vero senso della felicità, dell’amore. Non eravamo come quelle coppie noiose, sempre appiccicate, ognuno aveva i suoi spazi; ogni tanto litigavamo, ma poi facevamo subito pace. Stavamo veramente bene! Ogni tanto ci concedevamo la possibilità di uscire ognuno con i propri amici, di svagarci al di là della coppia; lo facevamo per non stare sempre incollati, per non diventare monotoni, pesanti; non volevamo stancarci l’uno dell’altra. Quel giorno non era accaduto nulla di particolare: tutto come al solito; avevamo stabilito che la sera avremmo incontrato i nostri rispettivi amici, sebbene il tempo non fosse dei migliori. Non so ancora dire come, né perché, ma quella serata segnò l’inizio del mio calvario. Rientrai a casa prima del solito, perché la pioggia era divenuta sempre più forte; faceva freddo e mi sembrava di avere la febbre. Prima di aprire la porta di casa tolsi le scarpe, per non far rumore con i tacchi, semmai Danilo fosse tornato ancor prima di me. Appena entrai, vidi il suo giubbotto sul divano; lui era in camera a dormire, almeno così sembrava. Indossai il pigiama e mi accesi una sigaretta. Prima di andare a dormire, per rilassarmi, decisi di navigare un po’su Facebook. Improvvisamente, nel buio e nel silenzio della notte, irruppe la sua voce alterata: “Sarei curioso di conoscere il fortunato di questa sera !” Non capivo, o meglio non volevo capire. Danilo era convinto che avessi conosciuto un altro e, per di più, che volessi contattarlo su Facebook. Ma come poteva anche solo sospettare una cosa simile ? Non mi mancava nulla, con lui ero felice,

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stavamo bene insieme e io non desideravo altro! Per la prima volta, ebbi paura di quegli occhi che tanto amavo. Lo vedevo diverso, i lineamenti del volto completamente stravolti. Gli chiesi se, per caso, avesse bevuto; non mi rispose. A quel punto, me ne andai in camera e lo lasciai lì, in salotto, da solo. Volevo evitare inutili discussioni: le sue erano probabilmente paranoie dovute a qualche cocktail di troppo bevuto con gli amici, sicuramente! Dal canto mio, ero tranquilla: non avevo nulla da rimproverarmi! La mattina dopo avremmo fatto pace, come sempre. Delusa e alquanto preoccupata, stavo per infilarmi sotto le coperte, quando, improvvisamente, la porta della stanza si spalancò. Danilo, in una frazione di secondo, mi afferrò violentemente e mi scaraventò sul letto, con rabbia. Cercai di respingerlo con tutta la forza che avevo, ma più cercavo di divincolarmi, più lui cercava di tenermi stretta e mi faceva male. Gli urlai di smetterla e, per qualche strana ragione, come se si fosse reso conto solo allora di ciò che mi stava facendo, tornò in sé e allentò la presa. Non scappai: ero stanca e non riuscivo a fare altro che guardarlo, quasi paralizzata. Non era il mio Danilo, non era l’uomo che amavo. Andammo a dormire, mentre intorno a noi calava un silenzio quasi spettrale. In seguito, non riuscii a chiudere occhio per svariate notti, finché non chiarimmo l’accaduto e tutto tornò alla normalità. Primi segni di violenza? Non potevo, o forse non volevo darmi una risposta. La spiegazione che diedi a quel comportamento fu gelosia, paura di perdermi, repressa forse troppo a lungo. “Tutti possono sbagliare”, pensavo. Così quella sera divenne per me soltanto un “incidente di percorso”, una parentesi rapidamente aperta e richiusa, che ormai apparteneva al passato. Intanto la nostra vita procedeva come già da due anni e mezzo a quella parte; eravamo sempre felici e contenti. Stavano per arrivare le ferie, finalmente, e così insieme prendemmo la decisione di passarle nel mio paese, nel Salento. Due settimane meravigliose, trascorse tra spiaggia, discoteche, i soliti giretti per salutare i parenti. Mi sentivo di nuovo a casa! Nel Salento avevo trascorso la mia infanzia, la mia adolescenza, avevo vissuto i primi amori, perciò era sempre un’emozione grande ritornare nel mio paese, sebbene mi fossi perfettamente ambientata anche a Roma. Terminate le ferie, tornammo alla nostra solita vita, comunque meravigliosa per me, che

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continuavo ad amare perdutamente Danilo, nonostante tutto. Il primo giorno di lavoro dopo le vacanze fu molto stressante. C’era qualcosa che non andava quella mattina. Appena sveglia, avevo avvertito uno strano senso di angoscia: “Sarà il fatto di dover ritornare al lavoro”, avevo pensato. Al lavoro tutto si era svolto come sempre: i soliti clienti, il solito movimento, le solite chiacchiere. Tuttavia, il solo pensiero di ritornare a casa a fine giornata, non so perché,

mi

bloccava. Erano le 18.30, il mio turno stava per finire. Chiamai Danilo, per avvertirlo che stavo arrivando; mi disse laconico che mi aspettava per andare a mangiare qualcosa insieme. Come entrai in casa, sentii un brivido attraversarmi la schiena: Danilo era seduto sul divano, con le luci spente, la sigaretta appena accesa e la fiamma dell’accendino che si rifletteva sul suo volto inespressivo. Vedendolo così, riuscii solo a dirgli timorosa : “Ciao, amore, come va? Perché sei al buio?” e la sua risposta fu : “Leggero mal di testa! Vai a prepararti, perché voglio uscire!”. La sua voce era fredda; la sua posizione, su quel divano, rimase sempre la stessa, non sollevò lo sguardo nemmeno per salutarmi. Io non sapevo che la breve vacanza, dalla quale eravamo appena tornati, aveva regalato alla nostra storia gli ultimi momenti di vera serenità. Da quella sera, iniziai a vivere un incubo, durato più di due anni. Non sapevo si potesse passare così repentinamente dall’amore all’odio, eppure, quando quella sera ritornammo a casa e le sue mani sfiorarono il mio corpo, iniziai a sentire ribrezzo e repulsione per quell’uomo che avevo tanto amato e che ora mi faceva solo paura. Più passavano i giorni e più Danilo prendeva il sopravvento sulla mia vita; aveva il comando assoluto su tutto, mi diceva cosa potevo e non potevo fare; era diventato ossessionante e possessivo, controllava tutti i miei movimenti e il cellulare. Mi accompagnava sempre al lavoro e mi aspettava all’uscita, spesso senza spostarsi, per intere giornate. Era diventato rissoso e aggressivo con chiunque mi guardasse e se io, involontariamente, guardavo qualcuno, a casa le urla e i ceffoni non finivano più. “Sei roba mia, mia e soltanto mia! Ti ammazzo, se solo guardi un altro!”, mi minacciava, mentre la sua mano afferrava con rabbia le mie guance, stringendole sempre più forte, finché le lacrime non scendevano calde sul mio viso.

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Non era più l’uomo sicuro di sé che avevo conosciuto e, più passava il tempo, più la situazione peggiorava. Alla fine persi il lavoro. Non riuscivo a concentrarmi, ero sempre più triste e disattenta, sovrappensiero; cercavo in qualsiasi modo di nascondere quel dolore che mi dilaniava l’anima, inoltre le scenate davanti ai clienti erano ormai all’ordine del giorno. Ciononostante, non volevo allontanarmi da lui, pensavo avesse bisogno di me, che presto tutto si sarebbe sistemato e Danilo sarebbe ritornato quello di sempre. Invece no, entravo in casa e vedevo il suo sguardo che mi fissava e le sue mani, pronte a colpirmi appena avessi detto qualunque cosa potesse apparirgli come una provocazione da parte mia. E ogni volta la conclusione del dramma era sempre la stessa : dopo le botte, gli schiaffi e le ripetute violenze, lui continuava a ripetermi che mi amava e non voleva perdermi !

Foto a cura di Matteo Scevola

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Nessuno sapeva niente di tutto questo! Mi vergognavo di ciò che la gente avrebbe potuto pensare se avessi parlato. Lui era sempre presente, ascoltava perfino quelle poche telefonate che ricevevo dalla mia famiglia, preoccupata perché non mi facevo sentire ormai più. Con la faccia quasi sempre livida e tumefatta,

trascorrevo

le mie giornate chiusa in casa, cercando di evitare la gente: non volevo essere vista in quello stato. Un

giorno,

finalmente,

come se mi fossi svegliata da un lungo torpore che mi aveva resa incosciente, trovai la forza di scappare da quell’inferno. Fu un attimo: quasi spinta da una forza che non avevo mai trovato prima, aprii la porta e volai verso la libertà. E’ strano doverlo ammettere,

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ma quando ci si abitua a vivere in un simile clima di terrore, anche trovare la forza per fuggire sembra una cosa impossibile; la paura e il terrore rendono quasi immobili, come pietrificati. Nonostante abbia trovato la forza di reagire, di voltare pagina, ancora oggi io faccio fatica a raccontare l’esperienza che ho vissuto. Ricordo solo la mia sofferenza. A causa di tutto il male che mi ha fatto, ho avuto per tanto tempo un blocco psicologico, dal quale sono riuscita a venir fuori, ma con tanta fatica. All’inizio non provavo nulla, ero come anestetizzata, non riuscivo neanche a piangere.

Ancora oggi, mi chiedo come il mio uomo abbia potuto anche solo credere di amare tanto quella rosa che, un giorno, ha spezzato senza pietà, forse per sempre ! A distanza di tempo, sono ancora troppo ferita, delusa, impaurita e vulnerabile. Trovo difficile perfino pensare di poter iniziare un’altra storia. Parecchie donne, che hanno subito ciò che ho subito io, sentendosi sole, cercano subito l’affetto di qualcun altro. Io credo invece che, dopo

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un simile trauma, bisognerebbe ritrovarsi, ascoltare la voce di quei bisogni troppo a lungo sacrificati; bisognerebbe ritrovare dentro di sé la fiducia e la forza per andare avanti, per ricominciare a vivere, perché la nostra serenità è troppo preziosa e dobbiamo difenderla ! Tutto questo può succedere alle donne che amano troppo e che, al primo segno di violenza da parte del proprio uomo, non chiedono aiuto, sperando si tratti solo di un episodio passeggero, di un solo attimo di follia, che non si ripeterà. Dopo una lunga terapia, Danilo ora sta bene. Sapevo che non era in sé quando mi alzava le mani, per questo non l’ho mai denunciato. Forse ho rischiato, ma, nonostante il male che mi ha fatto, ho continuato a sperare che, facendosi aiutare, potesse risollevarsi da quello stato, perché recuperare un essere umano e restituirlo alla sua dignità è sempre un grande traguardo! Mi hanno riferito che, qualche tempo fa, ha provato a contattarmi. Mi sono arrivate le sue lettere con richieste di perdono, insieme a tante rose, ma ho cestinato tutto senza rimpianti. Ho ancora contatti con alcuni amici che avevamo in comune e loro mi dicono che spesso chiede di me e vorrebbe rivedermi, ma non osa cercarmi, perché sa bene che per lui non c’è e non ci sarà più posto nella mia vita. Foto a cura di Valeria Minisgallo

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MIRIAM Mery Silvana Malcarne

Sono trascorsi 5 anni, 6 mesi e 21 giorni dall’ultima volta che l’ho visto e oggi viene concessa la libertà ad un essere che, a mio parere, non merita di vivere. Chi sono io per giudicare? Sono la prima persona a cui questo compito spetterebbe di diritto, perché quello che mi ha fatto quell’uomo, gli altri non lo possono capire. Stamattina sono uscita solo per prendere le cose essenziali: pane, latte, biscotti e tanto caffè, perché ne avrò bisogno. Conoscendomi, passerò di nuovo molte notti in bianco. Sono le nove di sera e mi sono stesa tranquilla sul divano, cercando di resistere all’assalto dei miei inquietanti pensieri. Le finestre sono serrate e la porta di casa è chiusa a chiave. Mi sono trasferita in questo nuovo appartamento subito dopo l’accaduto, dopo aver adottato una bella femmina di pastore tedesco, di nome Lela, per sentirmi più sicura. Come accade ogni notte, ormai, nel letto non riesco ad addormentarmi. Mi convinco che è la leggera luce delle lanterne a darmi fastidio, quindi decido di chiudere tutte le tende. Inevitabilmente, lo sguardo si posa sulla strada, dove vedo passare una giovane coppia, mano nella mano, lo sguardo uno verso l’altra, pieno d’amore, di quell’amore che non ti interessa dove sei o con chi stai, basta solo lui al tuo fianco. Fin quando, un giorno, non succede l’impensabile! Sento ancora il suo respiro sulla mia pelle, le sue mani che mi stringono i polsi e sfioro con le dita la cicatrice che mi è rimasta dopo quella notte. Se ne sta lì, come se dovesse dire: “Non dimenticare ! Brucio ancora dentro di te !”. Scuoto velocemente la testa, per mettere a dormire i pensieri, per fare stare immobili i ricordi massacranti. Inizia un nuovo giorno: Lela mi sveglia alle 7:00, salta sul letto e mi trascina in cucina. Il mio cervello si è svegliato e rimpiango quegli istanti, poco dopo aver aperto gli occhi, in cui si è ancora immersi nei sogni e si gode il piacevole tepore delle coperte, quando non si è ancora in grado di percepire la realtà che, pian piano, si fa sentire e si realizza a malincuore che è ora di alzarsi. Lela, per quanto angelo possa sembrare, è sempre un cane, quindi ha bisogno di

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uscire, di giocare e far fare alla natura il suo corso. La invidio: vorrei tanto essere al suo posto, vorrei anch’io riprendere a vivere. Sono pronta per uscire; lei mi aspetta scodinzolando. Resto immobile davanti alla porta e mi dico che è ora di aprire la serratura, di affrontare il mondo, di combattere con la stessa forza con la quale ho superato la mia esperienza. “Esperienza”: mi hanno detto di chiamarla così nella terapia di gruppo. Devo riconoscere che, all’epoca dei fatti, la psicanalisi mi è servita molto, ma ora non ne ho più bisogno, sono più forte, o almeno credo di esserlo. Apro la porta e affronto la vita per quello che è, non per quello che avrei voluto che fosse. Il solo pensiero che lui sia fuori, da qualche parte, a ridere, a godersi il sole, la pioggia, la spiaggia, la neve, i sorrisi della gente, mi rende la vita rivoltante. Sorridere……, è qualcosa che ormai ho imparato a fingere benissimo. Il mio sorriso sincero lo ha ucciso lui, lasciando a me solo ombre negli occhi. Quella sera, avevo firmato un contratto per presentare la sfilata a Milano, città della moda, piena di belle ragazze che sprizzano felicità e vitalità da tutti i pori, come me un tempo, con gli occhi che brillano, la camminata sicura di chi sa quello che vuole. Lui mi aspettava a casa: non vedevo l’ora di riferirgli la buona notizia, per poi festeggiare insieme. Ricordo tutto perfettamente, purtroppo! Vorrei prendere quella parte della mia vita e cancellarla completamente; vorrei non averlo mai incontrato; maledico il giorno in cui ci siamo conosciuti. Quella sera entrai a casa entusiasta e lo raggiunsi subito in salotto: “Amore, ho grandi notizie da darti !” Alle mie parole, rimase impassibile sulla poltrona, con il bicchiere colmo di liquore in mano e la bottiglia vuota sul tavolo. Avrei dovuto accorgermi subito che qualcosa non andava. Sorvolai sul suo fare indifferente e continuai a parlargli, sperando di attirare la sua attenzione, ma lui continuava a rimanere immobile su quel divano. Gli chiesi cosa fosse successo, se si stesse sentendo male. Mi raccontò che lo avevano licenziato. Cercai di consolarlo, di dimostrargli con tutto il mio amore quanto gli fossi vicina, ma non me ne diede modo. Visibilmente ubriaco e alterato, appena mi avvicinai, mi mollò un ceffone così violento che caddi a terra. Fui assalita da una sensazione di terrore e, al tempo stesso, incredulità per quanto stava acca-

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dendo: proprio lui, il mio uomo, simpatico, intelligente, bello da impazzire, mi aveva picchiata come non aveva mai fatto e chissà cosa avrebbe potuto farmi ancora, se fossi rimasta lì ! Mi risollevai a fatica, mentre lui, in preda a un’ira incontrollabile, cercava di afferrarmi per un braccio. Mi divincolai. Corsi lungo il corridoio, cercando di raggiungere l’ingresso; riuscii ad afferrare le chiavi della macchina: desideravo solo scappare da quella situazione. Essendo in preda al panico, i miei movimenti diventavano sempre più lenti e scoordinati; le chiavi mi caddero dalle mani, mentre lui era già dietro di me e cercava di trattenermi, urlandomi che non sarei arrivata viva da nessuna parte e che non potevo lasciarlo. Con le poche forze che mi erano rimaste, volevo solo uscire da quella casa, andarmene più lontano possibile, ma lui era troppo più forte di me e, in un attimo, mi ritrovai con la faccia contro il muro. Ciò che seguì fu di una violenza inaudita: cercavo di liberarmi, urlavo, nella speranza che qualcuno mi sentisse, ma le mie urla venivano soffocate dalla sua mano. Caddi nuovamente a terra e, a quel punto, cercai qualcosa da afferrare, ma non feci in tempo, perché lui era già sopra di me. Nella mia mente, un vorticoso tornado di mille pensieri: non riuscivo a credere che stesse accadendo davvero e senza una spiegazione che giustificasse quell’improvvisa furia omicida. Non potevo fuggire e non mi erano rimaste più forze in corpo per oppormi; potevo solo subire, in silenzio, e aspettare che il massacro finisse. Dopo circa mezz’ora, forse stanco e certamente soddisfatto per aver annientato completamente la mia dignità di donna, si staccò da me. Rimasi accasciata a terra, vicino alle scale. Le lacrime che scendevano sul mio viso erano il sangue della mia anima, svuotata, sfruttata, i miei sogni polverizzati dal suo sudore, che mi aveva insudiciata; ero spezzata! Solo un miracolo avrebbe potuto salvarmi, mentre i sensi si disperdevano e le ombre mi avvolgevano, divenendo un tutt’uno con me. Trascorsero istanti interminabili; non riuscivo a risvegliarmi da quello stato, sebbene fossi ancora cosciente, nonostante tutto. Cercavo di raccogliere quel poco di vita che ancora mi restava, per uscire da casa e raggiungere la casa più vicina, distante meno di un chilometro da noi, che abitavamo in una desolata campagna. Cercai di trascinarmi fino alle chiavi; le vedevo ancora, erano a terra, a pochi centimetri da me. Riuscii ad afferrarle e, trascinandomi

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a fatica, provai ad aprire la porta e ad uscire da casa, ma sentii i suoi passi avvicinarsi a me e, in un attimo, avvertii un dolore atroce dietro la nuca: mi aveva colpita con qualcosa, forse un posacenere. Squarciai il silenzio con un grido di disperazione, mentre il dolore diventava sempre più intenso e un rivolo di sangue caldo mi scorreva sul collo, illuminato dalla luce della luna. Non so dire cosa accadde dopo, perché mi risvegliai dal coma solo due mesi più tardi: ero in un letto d’ospedale, priva di ricordi, quasi un vegetale. Oggi, dopo ben 5 anni, 6 mesi e 21 giorni, nonostante le prove a suo carico e la mia testimonianza, lui non è stato condannato ed io non posso ancora aprire la porta di casa senza provare il timore di ritrovarmelo davanti. Una luce immensa e il profumo della vita tuttavia mi avvolgono, infondendomi un senso di speranza in una giustizia nella quale credo e nella quale, nonostante tutto, ancora confido. Ringrazio i medici, gli specialisti e tutti coloro che mi hanno aiutata a sopravvivere, a recuperare i miei ricordi e a ricostruire il mio passato. Non so ancora bene dove sto andando, né che direzione prenderà la mia vita, ma, in fondo, non mi importa, perché, grazie a chi quella sera mi ha salvata, pur rimanendo nell’anonimato, ho di nuovo un presente e un futuro dinanzi a me.

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SAMANTHA Sara Scarlino

“Ma sì, insomma, alla fine non può averlo fatto per farmi del male; ho sbagliato io a girarmi in quel modo, anzi forse ha fatto addirittura bene. A me mio padre non ha mai tirato un ceffone! Se l’avesse fatto, magari oggi sarei una persona migliore, con la testa sulle spalle e la vita splendida, per le giuste decisioni prese. Magari, ora che ci pensa lui a tirarmi su, migliorerò la mia vita, il mio comportamento e le mie scelte. Sicuramente l’ha fatto per farmi capire il concetto a pieno, forse ho alzato troppo la voce con lui e non sta bene fare così. Sì, l’ha fatto perché mi vuole bene, per aiutarmi nel mondo. È sicuramente così !” “Ah davvero? L’altro giorno ho visto un film, di quelli d’amore, belli, sentimentali, forse troppo melensi, ma pur sempre belli. E c’era un ragazzo, che era innamorato di una bella ragazza, ma non mi pare la picchiasse per dimostrarle il suo amore. Magari a lei facevano male le labbra per i troppi baci, e non è che se ne lamentasse ! Eh, ma in quel caso credo valesse la pena di provare quel dolore, non era certo causato da un cazzotto !”. “Sì, ma che c’entra? Nei film è tutto diverso. E poi ognuno è fatto a modo suo!”. “Sì, certa gente ha delle mani che sembrano marmo, e tu lo sai bene !”. - Ed ecco che partiva un singhiozzo, seguito da un pianto strozzato. Faceva sempre così Samantha, ogni volta che arrivava alla conclusione dei suoi litigi interiori, quando arrivava alla verità e non riusciva ad autoconvincersi che tutto andava bene. Gianni lo aveva conosciuto alle superiori: bello, alto, biondo; appena poteva, cercava di attaccare bottone con lei e di invitarla ad uscire. E lei, già al primo tentativo, aveva accettato felice. I primi tempi era stato tutto meraviglioso, come in tutte le coppie del resto. Quando iniziarono i primi litigi, lui alzava un po’ troppo la voce, esigendo rispetto, data l’età (in realtà, si toglievano appena due anni).

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Dopo un po’ di tempo, iniziò a tenerla ferma quando lei cercava di far valere le proprie ragioni, stringendole i polsi e dicendole che doveva star zitta. Lo amava troppo Samantha, anche lei molto bella, con folti capelli color miele, che non aspettavano altro che di essere accarezzati, non certo strappati. Erano ormai quattro anni che stavano insieme e, da qualche mese, avevano deciso di convivere. Era già la settima volta che Gianni le alzava le mani, ma stavolta aveva proprio esagerato: le aveva anche tirato un calcio nello stomaco. E allora Samantha faceva ciò che per lei era diventata routine : si alzava, si dirigeva lentamente verso la vetrinetta degli alcolici, prendeva la solita bottiglia di whisky, il solito bicchiere e ci dava giù, ripetendosi, quasi a volersi consolare :“Su i bicchieri giù i pensieri!”. Samantha non riusciva a spiegarsi perché l’idea di poterlo lasciare le facesse tanta paura. Forse temeva le conseguenze di quella decisione, forse aveva paura che un giorno le sarebbe mancato, forse, in fondo, le dispiaceva lasciare tanti ricordi e quel pezzo di vita che aveva condiviso con lui. Tuttavia, le risposte ai suoi dilemmi non poteva certo trovarle nel fondo di quel bicchiere, ma quella sensazione di offuscamento della mente, seppur temporanea, bastava almeno a dare un minimo di tregua ai pensieri inquieti che, da troppo tempo ormai, non le davano pace. “Forse ho esagerato un po’ questo pomeriggio; scusami Sammy, ma sai che ti odio quando mi manchi di rispetto !” Allora, come al solito, con gli occhi lucidi e lo sguardo dimesso, Samantha rispondeva docile : “Non fa niente, non preoccuparti, mi è già passato. Fanno un bel film questa sera in televisione, finisco di lavare i piatti e ci mettiamo sul divano insieme.” - “Dopo, dopo.”- era quasi sempre la laconica risposta di lui. Allora la afferrava, come solo un padrone può prendere la propria schiava, ovunque si trovassero, senza il minimo ritegno e, mentre lei faceva l’amore, per lui era solo possesso. Tra i due, ormai, c’era solo una perversa ipocrisia, che non poteva più chiamarsi amore. Gianni la illudeva, dicendole che quello era il suo modo di amarla, mentre la picchiava a sangue; lei si era autoconvinta di essere troppo amata da lui e che, in nome di quell’amore, lui fosse legittimato a farle di tutto!

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Dopo qualche tempo, preoccupata per dei piccoli disturbi, Samantha fece un test di gravidanza: era incinta! Il giorno della scoperta, pensò di fare una sorpresa a Gianni, preparando con cura la tavola, così da creare la giusta atmosfera per dargli la bella notizia. “Amore, pranziamo insieme oggi? Devo dirti una cosa bellissima! ”- gli aveva telefonato in ufficio, per assicurarsi che lui la raggiungesse a casa. Desiderava che tutto fosse perfetto! Alle 13:35, come previsto, Gianni rientrò: Samantha lo attendeva con ansia. La tavola del soggiorno era romanticamente apparecchiata, con candele profumate e rose rosse. “Ciao, amore!” “Che profumino! Cosa mi hai preparato di buono ? ” “Lasagna al forno, il tuo piatto preferito!” “Mmh! Ti vedo stranamente agitata, cosa volevi dirmi di così urgente ? ” Con un sorriso, schiarendosi la voce, Sammy rispose : “Sono incinta, Gianni!” e, mentre gli comunicava la notizia, le vennero gli occhi lucidi e iniziò a tremare dall’emozione. Circa 40 minuti dopo, Samantha aprì gli occhi: era per terra, dolorante, con il naso gonfio e il labbro rotto, che colava sangue. Iniziò a piangere disperata e al tempo stesso incredula. Il giorno dopo, un’ecografia le rivelò una triste realtà: quel feto, che fino a poco prima aveva portato in grembo, non esisteva più. Entrò in macchina e iniziò a piangere disperata, come non aveva mai pianto. Si precipitò da Gianni, irrompendo come una furia nel suo ufficio. Quando lui la vide arrivare, trasfigurata in volto, non fece in tempo ad andarle incontro che si sentì colpire violentemente in pieno volto. “Bastardo! Sei un bastardo! Me l’hai ucciso!” “Ma che dici? Che fai, Samantha? Datti un contegno, altrimenti sarà peggio per te!” Nel frattempo, altri dipendenti dell’ufficio, attirati da quel trambusto, si precipitarono per dividere i due. Samantha urlava tutto il livore che aveva represso in anni e anni di violenze e sevizie subite : “Lasciatemi! Quel bastardo deve pagare per tutto quello che mi ha fatto! Ha ucciso il nostro bambino! Ora non potrai più nasconderti, Gianni, perché ti vedo finalmente per quello che sei: solo un lurido, pervertito egoista! È finita per sempre ! Ti denuncio! Ti faccio finire in ga-

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lera! ”. “Vai a curarti, sei pazza !” – Furono le uniche parole che lui riuscì a pronunciare, con una freddezza quasi glaciale. Sette mesi dopo, sul viso di Samantha ricominciava a splendere il sole. Gli unici litigi interiori che quotidianamente affrontava riguardavano la scelta di un abito da indossare o della giusta scarpa da abbinare. Gianni l’aveva tormentata ancora per alcuni mesi, ma, alla fine, aveva ricevuto un’ordinanza restrittiva dal Tribunale e aveva ritenuto opportuno fare un passo indietro, se non voleva finire in carcere. Ora Samantha viveva da un’amica e non beveva più da sola per consolarsi; gli unici bicchierini che si concedeva accompagnavano liete e spensierate serate con gli amici di sempre, che non l’avevano mai abbandonata e si erano stretti tutti intorno a lei, per aiutarla a superare quel difficile momento e farle ritrovare quella gioia di vivere che a lei sembrava svanita per sempre. Samantha provava un’indescrivibile soddisfazione per aver trovato il coraggio di chiudere con il passato, ma, nonostante ciò, continuava a chiedersi come avesse potuto vivere per tutto quel tempo nella più totale cecità e, soprattutto, come avesse fatto a scambiare per amore ciò che invece era solo sottomissione e dipendenza.

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SERENA Rosanna Coletta

E’ tutto finito? Sì, l’incubo è finito! Questa mattina vorrei starmene qui, nel letto. Invece no! Devo alzarmi, reagire ! Ma come? E’ ancora tutto così vivo dentro di me, mi sento ancora così fragile. Tutto quel che ho sofferto mi ha cambiata. Una parte di me è morta per sempre e non sarò mai più la stessa! Come ho fatto a mettermi in questa situazione? Sono sempre stata una ragazza un po’ diffidente. Fin da piccola, sognavo il principe azzurro; ero sicura di me, indipendente, perché la vita mi aveva insegnato che dovevo farcela da sola. Poi, quattro anni fa, ho incontrato un ragazzo poco più grande, carino, socievole. Abbiamo iniziato a frequentarci e io, pian piano, ho iniziato a mettere da parte le mie barriere, a fidarmi di lui. Era sempre presente, premuroso, come mai nessuno era stato fino ad allora. Ricordo perfettamente il giorno in cui mi chiese di diventare la sua ragazza. Mi ero innamorata, forse troppo presto o forse no. Inutile dire che i primi mesi erano stati bellissimi, quasi una favola : lui era così attento a tutto quello di cui avevo bisogno, che credevo di aver finalmente trovato ciò che cercavo. Non molto tempo dopo, però, accadde qualcosa di strano. Passeggiavamo in riva al mare, io avevo salutato un mio vecchio amico, incontrato lì per caso; lo avevo salutato come si può salutare un amico che si conosce da sempre. Ed ecco che lui aveva cambiato subito umore, era diventato ombroso. Mi portò a casa sua, dove abitava da solo, e lì tutto ebbe inizio. Senza una spiegazione, senza la minima discussione che potesse in qualche modo preannunciare ciò che seguì, mi arrivò uno schiaffo e poi un altro ancora. Gli chiesi il perché di quella reazione; mi disse che non dovevo permettermi di dare confidenza a nessuno, perché era geloso. Alle sue spiegazioni rimasi lì, attonita e immobile; avevo perfino paura di parlare, tuttavia trovai la forza di chiedergli di riaccompagnarmi a casa e lui mi accompagnò. Entrata in casa, mia madre si accorse subito che qualcosa non andava, ma cercai di rassicurarla che tutto era a posto, sebbene io per prima non ne fossi molto convinta. Mi chiusi nella

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mia stanza e, rimasta sola, cominciai a riflettere sull’accaduto. “Geloso? In questo modo si dimostra la gelosia?” Scoppiai in lacrime. Avevo deciso di non vederlo più, quando mi arrivò un suo sms : “Perdonami, amore, non so proprio cosa mi sia preso!”. Non volli rispondergli. Ero troppo delusa! Mi addormentai a fatica e la mattina seguente mi svegliai cercando di convincermi di aver avuto un incubo. Dovevo andare a lavoro, così mi alzai e iniziai a prepararmi, ma il cellulare squillava ininterrottamente: era ancora lui. All’uscita dal lavoro, me lo ritrovai davanti, con l’aria distrutta, che mi chiedeva perdono, e io, da ragazza innamorata quale ero, lo perdonai. Credevo fosse tutto risolto, invece andò sempre peggio. Cominciò a proibirmi di uscire con le amiche, non potevo fare nulla senza la sua approvazione. Lo amavo e, per questo, accettavo tutto quello che mi diceva e mi chiedeva. Non so per quale insania follia, ma andai a vivere con lui. Nonostante avessi ancora un lavoro, ero diventata una perfetta donna di casa. Mi occupavo volentieri della cucina e delle faccende domestiche, perché sapevo di renderlo felice: era un modo per farlo sentire amato. Un giorno, lo aspettavo per cena; erano le otto di sera e, appena arrivò, ci sedemmo a tavola; non gli piaceva ciò che avevo cucinato e così, in una frazione di secondo, mi ritrovai le sue cinque dita in faccia. Stava succedendo di nuovo: mi stava picchiando e per un nonnulla! Quella sera, però, non si concluse tutto lì. Nonostante piangessi e lo implorassi di lasciarmi stare, mi portò di peso in camera da letto e abusò di me contro la mia volontà. Non potevo parlare, non potevo difendermi! Ancora una volta lì, ferma, immobile: potevo solo aspettare che quell’uomo, che stentavo a riconoscere, finisse di fare quello che voleva sul mio corpo impotente. Quando finalmente quella lunga notte terminò, pensai che potesse essere un episodio isolato, forse dovuto allo stress del lavoro; in fin dei conti, dopo i fatti della spiaggia, non era più successo nulla, a parte le solite discussioni per una gonna troppo corta o un pantalone troppo aderente, o perché non gli avevo risposto al telefono abbastanza presto o mi ero soffermata troppo a lungo con qualche amica. Invece no: quella dei ceffoni e delle successive violenze

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divenne un’abitudine quasi ricorrente, ogni volta che lui rientrava a casa di cattivo umore, per qualsiasi motivo, e la storia andò avanti per mesi. Non vedevo più nessuno, né le amiche, né la mia famiglia. Ero diventata come il sacco sul quale il pugile si allena, sempre pronta, in qualunque momento lui lo volesse, a subire i suoi colpi e la sua necessità di sfogarsi e, cosa peggiore, ne ero perfettamente consapevole, ma non riuscivo a prendere una decisione definitiva. Perché, nonostante tutto, continuavo a stare con lui? Temevo che, se lo avessi lasciato, me l’avrebbe fatta pagare! Ero sua proprietà, aveva questa concezione di amore. Ma poteva mai essere amore questo? Era diventato un mostro, che aveva trovato la preda sulla quale accanirsi. Mia madre, che da tempo aveva capito tutto, ma rispettava i miei silenzi, cercava di indurmi a confidarle la mia pena, ma io negavo sempre, negavo tutto. Avevo troppa paura di ammettere con che razza di bestia ero finita e non volevo ci andasse di mezzo anche lei. Ho vissuto quest’inferno per quattro lunghi anni, finché una notte ebbi davvero paura di non riuscire a sopravvivere. Mentre lui consumava l’ennesima violenza su di me, capii di essere arrivata al limite, così, il mattino seguente, invece di recarmi come al solito al lavoro, mi precipitai da mia madre e finalmente le raccontai tutto. Scoppiammo in lacrime e lei mi abbracciò talmente forte, che in quell’abbraccio trovai tutto l’amore, la protezione e la forza del mondo per denunciarlo. Andammo subito in Commissariato e gli agenti di Polizia andarono a prelevarlo sul posto di lavoro. Adesso quel mostro non è più libero. Sono riuscita ad essere forte nel momento più difficile della mia esistenza e cercherò di continuare ad esserlo anche in futuro, soprattutto ora che so che lui non potrà più farmi del male. Nel periodo trascorso con lui ho perso tutto: non ho più amiche e, a parte il mio lavoro, da quattro anni non ho più una vita. Non credo riuscirò più a fidarmi di un uomo, perché quest’esperienza mi ha segnata dentro, per sempre. Ricominciare ad aprirmi al mondo non sarà facile, soprattutto perché, già prima che mi accadesse tutto questo, avevo tante difficoltà; ho deciso perciò di farmi aiutare da uno specialista, il quale mi ha consigliato di guardarmi dentro, perché è da lì che si comincia a riprendere in mano la propria vita e, anche se adesso mi sento ancora tanto fragile, almeno di una cosa sono certa: è proprio da me stessa che dovrò ricominciare!

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SONIA Sara Cantoro

Sono Sonia, ho 42 anni, ma ciò che voglio raccontarvi risale a quando ne avevo appena 18. Era il primo settembre, ricordo quel giorno come fosse ieri. Partivamo per Praga, era la gita di quinta superiore; io e le mie amiche eravamo contentissime e non stavamo più nella pelle. Durante il viaggio, notai un ragazzo mai visto, eppure frequentava la mia stessa scuola! Per me fu un colpo di fulmine. Per tutta la durata della gita, non ebbi il coraggio di parlargli e nemmeno lui lo fece, anche se non smetteva di fissarmi; questo già mi rincuorava. Rientrati a casa, non facevo altro che pensare a lui; parlavo di lui in continuazione con le mie amiche, che ormai non mi sopportavano più ! Dicevano che, ogni volta che lo vedevo, i miei occhi brillavano, le mie gote innocenti arrossivano e il mio sorriso.. beh, non c’erano parole per descriverlo ! I giorni trascorrevano lentamente e non succedeva mai niente, finché non ricevetti un biglietto, in cui lui mi chiedeva un appuntamento per il sabato seguente. Non immaginate la gioia che provai in quel momento, ma l’ansia prese subito il sopravvento. Finalmente arrivò il Sabato tanto atteso ! Quella sera ero bellissima, volevo stupirlo. Organizzò una cena romantica, fu tutto perfetto, tanto che, a fine serata, ci fu il primo dolcissimo bacio tra noi. Il cuore mi arrivò in gola, quasi piangevo per la felicità: finalmente, avevo ottenuto ciò che avevo tanto desiderato. Ricordo che la notte non riuscii a chiudere occhio; pensavo e ripensavo a quella serata meravigliosa e mi chiedevo se ce ne sarebbero state altre o se lui si fosse già dimenticato di me. Ebbi subito la risposta, quando mi telefonò e mi disse che voleva rivedermi! Ero felice! Forse avrei avuto un compagno speciale al mio fianco, pronto a prendersi cura di me, con premure e attenzioni. Iniziò la nostra relazione e tutto sembrava andare a gonfie vele tra noi, fino a quando, un giorno, si rifece vivo in città un mio vecchio compagno di scuola. Doveva ripartire subito, perciò mi invitò a raggiungerlo al bar di fronte alla scuola, per bere un caffè insieme e chiacchierare dei vecchi tempi. Accettai. In fin dei conti, cosa c’era di male? Non saprei dire il perché, ma non

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dissi nulla al mio ragazzo: non volevo si ingelosisse. Dopo il nostro incontro al bar, però, accadde qualcosa di imprevisto: Alberto (così si chiamava il mio ex compagno di scuola) cominciò a telefonarmi sempre più spesso e, ogni volta che tornava in città, mi chiedeva di incontrarci. Gli dissi subito che avevo una relazione solida e che tra noi non avrebbe potuto esserci nulla di diverso dalla semplice amicizia. Decisi di raccontare tutto a Gianluca, anche perché qualcuno gli aveva riferito di avermi vista in compagnia di un altro. Lo amavo troppo e non volevo rischiare di perderlo per degli stupidi pettegolezzi e le inevitabili incomprensioni che ne sarebbero derivate. Gianluca mi lasciò parlare, rimanendo immobile e muto, come un pezzo di ghiaccio. Quando ebbi finito di raccontargli e di spiegargli come erano andate le cose, avrei voluto abbracciarlo, baciarlo, credendo volesse essere solo tranquillizzato, rincuorato sul fatto che i miei sentimenti per lui non erano cambiati, ma non mi diede neanche modo di avvicinarmi. Si alzò dalla sedia di scatto e, in appena una frazione di secondo, mi arrivò uno schiaffo, fortissimo. Ero stranita, dolorante, ma pensai che la sua reazione fosse pienamente giustificata: avevo incontrato un altro uomo e, per di più, di nascosto! Sapevo di aver sbagliato, perché Gianluca era molto possessivo, inoltre avevo fatto proprio ciò che lui detestava maggiormente : gli avevo mentito. Con gli occhi lucidi e la voce rotta dai singhiozzi, riuscii solo a dire: “ Perdonami, amore, era solo un amico. Non succederà più!” Non feci in tempo a finire la frase, che subito mi arrivò un altro schiaffo e ancora un altro e un altro ancora. E per ogni parola che tentavo di pronunciare, lui mi colpiva, fino a quando non lo implorai di smettere! Andai via, come un cane bastonato, umiliata e distrutta. L’indomani si comportò come se nulla fosse: era il solito ragazzo dolce e premuroso. Lì per lì, credetti di aver espiato abbastanza. Dopo qualche mese, scoprii di essere incinta. Non ci voleva! Eravamo troppo giovani, con tutta la vita ancora davanti, ma era successo. Mi feci coraggio e gli annunciai che aspettavo un bambino. Quello fu forse il momento peggiore della mia vita. Si avventò su di me, incurante del mio stato, e cominciò a sferrarmi calci ovunque, mentre urlavo e lo supplicavo di

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smettere. Era convinto che il bambino non fosse suo, ma del mio vecchio compagno di scuola. Reso così cieco da un’ insana gelosia che non era mai riuscito a sopire, ma che, in realtà, aveva solo represso per tutto quel tempo, cercava di annientare me e la creatura che portavo in grembo, con tutta la cattiveria di cui un uomo può essere capace. Nonostante il dolore cagionato dalle botte e il sangue che mi colava dal naso e dalla bocca, continuavo a implorarlo di credermi: non avrei mai potuto mancargli di rispetto o mentirgli su una cosa così importante. A un certo punto, lui sembrò ritrovare la calma e la lucidità e così sperai che il peggio fosse passato. Se ne andò in cucina, mentre io, stesa sul divano, singhiozzavo ancora. Quando lo vidi tornare, aveva in mano una bottiglia verde. Pensai che, mosso a compassione, mi avesse portato qualcosa per disinfettare le ferite o tamponare l’emorragia. Ma lui si avvicinò a me con uno sguardo che non riuscirò mai a dimenticare. Quando mi resi conto che le sue intenzioni non erano affatto buone, era ormai troppo tardi, anche solo per chiedermi quale fosse il contenuto della bottiglia che agitava davanti al mio viso. Senza parlare, mi gettò in faccia quel liquido freddo e maleodorante. Sentivo la mia pelle bruciare, come se mi avessero appoggiato sulle guance un ferro arroventato. Ormai non capivo più nulla, riuscivo solo a realizzare che non era profumo o disinfettante ciò che mi stava sciogliendo la pelle del viso, fino a consumarmi la carne. Dopo averla svuotata sulla mia faccia, lui gettò la bottiglia nel lavabo della cucina e scappò via. Solo allora trovai la forza di avvicinarmi allo specchio. Il mio viso non aveva più forma: ero un’orribile maschera di sangue. Da quel giorno, la mia vita è stata un susseguirsi di interventi chirurgici. Per fortuna, ho avuto la mia famiglia accanto, che mi ha dato il coraggio per superare tutte le sofferenze fisiche e psicologiche che tuttora patisco. Nel frattempo, è nata Chiara, che accarezza, con le sue tenere mani di bimba, il viso della sua mamma ancora devastato dalle cicatrici. Chiara mi ha sempre vista così, orribilmente deturpata, nonostante i tentativi della chirurgia estetica di restituirmi un volto “umano”. Mi dà tanta gioia sapere che la mia piccola mi ama comunque, anche se sono diversa dalle altre mamme delle sue amiche Oggi, grazie al riconoscimento giuridico del femminicidio, come reato e crimine contro l’umanità, Gianluca sta scontando la giusta condanna per ciò che mi ha fatto.

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STELLA Giulia Mele

Quella che vi racconto non è una delle solite favole, dove tutti, alla fine, “vissero felici e contenti”, ma un incubo, nel quale sono entrata quando ho conosciuto lui e dal quale è stato difficilissimo svegliarmi. Era una storia bellissima la nostra, io avevo solo sedici anni e lui diciotto; era una persona stupenda e mi faceva stare davvero bene. Quando stavo con lui, ero me stessa, avevo sempre il sorriso sulle labbra e mi sentivo protetta; avevamo perfino progettato come sarebbe stato il nostro futuro insieme. Terminata l’università, Giacomo mi chiese di vivere insieme ed io accettai subito: ne ero pazzamente innamorata e desideravo trascorrere ogni istante della mia vita con lui. Così, iniziò la nostra convivenza in una splendida casa, non grandissima, ma perfetta per noi. Ricordo ancora la nostra prima sera da “quasi sposati”, e come potrei dimenticarla? Avevamo appena finito di cenare e lui andò a fumare in salotto, mentre io rassettavo la cucina; ad un tratto, sentii il mio cellulare squillare: era un “numero privato”, quindi non risposi, per evitare le solite scocciature promozionali, e appoggiai il cellulare sul tavolo. Ad un tratto, vidi un’ombra dietro di me; mi girai di scatto e incrociai lo sguardo cupo di Giacomo. Gli chiesi subito cosa avesse; lui, visibilmente alterato, mi chiese con tono secco chi fosse al telefono e perché non avessi risposto. Provai a spiegargli che, semplicemente, avevo voluto evitare che qualche call center turbasse la nostra nuova intimità domestica, ma lui mi interruppe, afferrandomi per un braccio e stringendomelo forte. Disse che non dovevo neppure provare a mentirgli, che nessun uomo doveva osare cercarmi o anche solo telefonarmi, perché ormai ero divenuta di sua proprietà. Cercai di calmarlo, di rassicurarlo, insistendo che non stavo cercando di nascondergli nulla, semplicemente ignoravo chi mi avesse telefonato. Lui, per niente convinto, dapprima mi diede uno schiaffo, poi, tenendomi bloccate entrambe le mani, mi afferrò per i polsi, così forte da farmi quasi svenire dal dolore. Non cercai neppure di op-

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porre resistenza, perché temevo che, se solo avessi tentato di svincolarmi dalla sua presa, avrebbe potuto rompermi le ossa. Ero terrorizzata, non avevo mai visto il mio compagno così rabbioso; non era lui, non era l’uomo che avevo conosciuto e con cui, da quella sera, avevo cominciato a condividere tutto: era la prima volta che mi alzava le mani ! Quando Giacomo tornò in sé, calò il gelo tra noi; andammo a letto e lui provò ad avvicinarsi a me, sussurrandomi nell’orecchio le sue ipocrite scuse, ma io non gli risposi. La mattina seguente, appena ci svegliammo, lui mi abbracciò e mi chiese di nuovo scusa per quanto era successo la sera prima. Mi disse che aveva perso il controllo, perché era stato licenziato e non aveva avuto il coraggio di dirmelo, per non rovinare l’inizio della nostra vita insieme che, ovviamente, non stava cominciando sotto i migliori auspici. Lo abbracciai forte, anche se, dentro di me, c’era solo tanta rabbia e delusione. Mi sforzai di dimostrarmi comprensiva, rassicurandolo che presto avrebbe trovato un lavoro migliore e che non doveva preoccuparsi: al momento, il mio lavoro bastava ad entrambi per andare avanti. Trascorsero i mesi, ma Giacomo non riusciva ancora a trovare un nuovo impiego, solo qualche lavoretto saltuario, che lo faceva sentire sempre più frustrato e insoddisfatto. A peggiorare la situazione, si aggiungeva tra l’altro che, quando tornavo a casa stanca dal lavoro, lui non c’era quasi mai: trovavo solo il caos dappertutto, i suoi vestiti sparsi ovunque e ogni stanza invasa da una gran puzza di alcool e fumo. E lui dov’era? Sempre in qualche bar, a sprecare i soldi che io mi sudavo, tra un bicchiere e l’altro ! E mentre i giorni passavano, sempre tristi, sempre uguali, aumentava l’angoscia e cresceva la paura delle sue inaspettate reazioni. Vivere insieme a lui era diventato per me un vero incubo. Era una delle solite sere che ormai trascorrevo, rassegnata, in totale solitudine; ero già andata a dormire, quando sentii il rumore del portone condominiale che si apriva. Distinguevo chiaramente il tintinnio delle chiavi di Giacomo : era lui che saliva le scale e, ad ogni gradino, il mio cuore batteva sempre più forte, perché non sapevo mai cosa aspettarmi ogni volta che rientrava ubriaco. Appena aprì la porta di casa, si precipitò nella nostra camera da letto, dove io facevo finta di dormire. Ebbi subito l’impressione che stesse peggio del solito, ma

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non feci neppure in tempo a rendermi conto di quali fossero le sue intenzioni, che lui mi afferrò e, tenendomi bloccata con tutta la forza disumana del suo corpo imbevuto di whisky, cercò di violentarmi. Provai a scappare terrorizzata, ma non ci riuscii, perché lui era troppo robusto e, ovunque andassi, riusciva a sbarrare il mio passo, afferrandomi per le braccia, per le caviglie, per il collo o per i capelli. Visibilmente in preda ad una crisi isterica, urlavo e piangevo, sperando che qualcuno mi sentisse e accorresse in mio aiuto; ma nessuno sentiva, nessuno arrivava. Giacomo mi scaraventò a terra e iniziò a darmi così tanti calci, che non riuscivo neppure a respirare. Si fermò solo quando non ebbi più la forza di muovermi. Sulle mie labbra e nella mia gola il sapore del sangue, lo vedevo sgocciolare a rivoli sui miei vestiti: è l’ultima immagine di cui ho coscienza. Non provavo più neppure dolore, quasi fossi anestetizzata dai colpi che lui mi aveva inferto. Sentivo il mio cuore battere, sempre più lentamente, mentre lui continuava a parlarmi e mi percuoteva la faccia da entrambi i lati. Alla fine, chiusi gli occhi e mi lasciai andare, mentre la mia vita si affievoliva, fin quasi a scomparire. La mattina dopo, ero ancora viva per miracolo e Giacomo era lì, accanto a me, pronto come sempre a chiedermi scusa, fingendosi pentito e amareggiato. Provò ad abbracciarmi, con quel suo fare ipocritamente amabile e paterno, che tanto avevo amato e che ora odiavo con tutta me stessa. Io, con il volto orribilmente tumefatto, piena di ematomi e fratture in tutto il corpo, non riuscivo nemmeno ad alzare lo sguardo verso di lui. Ero un pezzo di ghiaccio e provavo solo schifo nei suoi confronti. Eravamo in camera da letto, mi aveva preparato la colazione e una rosa rossa spiccava sulla tovaglietta candida che ricopriva il vassoio, ma io ero paralizzata, non potevo muovermi e non avevo neppure la forza di piangere. Per me, Giacomo era ormai il nulla più insignificante, sebbene mi rendessi conto che da quel nulla dovevo riuscire in qualche modo a mettermi in salvo. Fu un attimo: afferrai dal vassoio della colazione una forchetta e lo colpii alla gola. Mentre si dissanguava e cadeva a terra esanime, mi gettai giù dal letto, trascinandomi per terra con tutta la forza che avevo ancora in corpo. Arrivai a fatica vicino al telefono e riuscii a comporre quel numero che mi salvò la vita.

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Foto a cura di Giulia Mele

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Valentina Anna Chiara Schivano

Non so dove ho trovato il coraggio di scrivere queste parole; la psicologa sostiene che è la miglior cosa da fare, per cercare di superare il trauma psicologico subito. Raccontare la mia storia non è assolutamente facile, queste righe bianche mi ricordano il vuoto che ho dentro. Ho diciott’anni, eppure, dopo tutto quello che ho passato, per me la vita non ha più un senso. Soffro d’insonnia, ogni notte rivedo sempre la stessa scena e ogni volta credo di morire. All’età di quindici anni, tutte le mie coetanee hanno già avuto le prime cotte adolescenziali, mentre io aspettavo il ragazzo serio, quello “giusto”. Così, fra le stelle cadenti della notte di San Lorenzo di tre anni fa, conobbi l’amore della mia vita: Marco. Lui, cinque anni più grande di me, mi fece innamorare fin da subito dei suoi atteggiamenti gentili e romantici e del suo bel viso dolce. Ogni giorno m’innamoravo sempre di più e sentivo che la nostra storia non avrebbe avuto fine, “finché morte non ci separi”, pensavo spesso. Dopo cinque mesi della nostra relazione, io mi sentivo pronta per presentarlo ai miei genitori. All’inizio non approvarono il nostro rapporto, a causa dell’età, ma, vedendomi sempre più felice, si rassegnarono e cominciarono a dargli fiducia e a volergli bene, proprio come a un figlio. La nostra storia procedette a gonfie vele fino all’aprile 2012, quando si avverò uno dei più grandi sogni della mia vita: la scuola mi proponeva un viaggio studio di quindici giorni in Inghilterra, per perfezionare la lingua inglese. Fu in quell’occasione che Marco cominciò a mostrare un lato del suo carattere a me ancora sconosciuto: con fare egoista e scontroso, cercò di usare l’arma del ricatto per impedirmi di partire. I miei sogni e i miei progetti futuri tuttavia non cambiarono; avevo le idee chiare, volevo diventare un’interprete di lingue e volevo andare a Londra per studiare, perciò mai a nessuno avrei permesso di intralciare il mio percorso, nemmeno a Marco! Fra le lacrime e il dispiacere, presi la decisione di parlargli, spiegandogli quanto fosse importante per me quel viaggio e chiedendogli di avere fiducia nel nostro amore. Però, come già

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pensavo, la sua risposta fu un secco “No !”. Insistetti molto, forse troppo, tra urla e pianti disperati, così mi mollò il primo fra i tanti ceffoni, forse il più doloroso della mia vita, non per il dolore fisico, ma molto di più per il dolore morale: ero distrutta! Decisi di perdonarlo per quello che era successo e continuammo la nostra storia, ma niente era più come prima. Le crisi erano sempre più frequenti, come le lacrime, le urla e i ceffoni. Continuavo a pensare di essermi sbagliata sul suo conto, non era assolutamente il ragazzo giusto per me, forse era il peggiore che potesse capitarmi di incontrare nella vita. Avevo deciso che comunque sarei partita. Ormai volevo lasciarlo, ma avevo troppa paura della sua reazione; mi mancavano le parole, come pure il coraggio. Sopportai questa situazione fino a Settembre. Il giorno prima di prendere il volo per l’Inghilterra, gli inviai un messaggio per mettere un ‘punto’ alla nostra storia. E partii, lasciandomi dietro tutti i brutti ricordi, alla ricerca di una nuova esperienza di vita. Ero al settimo cielo: Londra mi aspettava! Quei quindici giorni furono i più belli della mia vita; visitai posti stupendi della Gran Bretagna, facendo shopping in grandi centri commerciali e studiando l’inglese, come non avrei potuto fare se avessi rinunciato a quel soggiorno. Al mio ritorno, tutti i miei amici e i parenti erano lì, pronti a riabbracciarmi. I giorni passavano veloci e di Marco, fortunatamente, non c’erano più tracce. Ero felice, avevo tanta voglia di vivere e ancora tante emozioni da regalare a me stessa e a chi mi stava vicino. Erano trascorsi ormai tre mesi da quando ero ritornata dal viaggio : per la precisione, era il 20 dicembre 2013, il giorno del mio diciassettesimo compleanno. I miei genitori, con la complicità di mia sorella, mi avevano organizzato una bellissima festa a sorpresa, in un lussuoso pub di Gallipoli. La serata scorreva velocemente e ci stavamo divertendo tutti tantissimo; si ballava fino allo svenimento, si cantavano le canzoni a squarciagola, si mangiava, si beveva, si scherzava. E’ così strano come, attimi prima, la tua vita proceda magnificamente e, solo mezz’ora dopo, tu rischi di non avercela più una vita.

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Incontrai Marco per caso, mentre ballavo; mi chiese di incontrarci in un luogo appartato del locale, perché voleva parlarmi per un’ultima volta. Credevo di dovergli quell’ultima conversazione, dato il modo in cui lo avevo lasciato, tramite un asettico sms. Era il mio compleanno: volevo essere buona con tutti e anche con lui, nonostante mi avesse fatto tanto male, perciò feci l’errore di accettare e, poco dopo, lo raggiunsi in spiaggia. Al chiarore di una splendida luna, Marco mi chiese, piangendo, perdono per tutto. Cercai allora di tranquillizzarlo, di fargli capire che ormai era acqua passata e lo avevo perdonato. All’improvviso, guardandomi negli occhi, mi chiese scusa anche per quello che stava per fare……. L’ultima cosa che ricordo di quegli attimi è il riflesso della lama del coltello che trafiggeva il mio petto e poi il buio… Mi risvegliai due giorni dopo in ospedale, con il sorriso dei miei genitori che non mi avevano lasciata sola un attimo. Mi raccontarono che, dopo avermi accoltellata, Marco era scappato via, lasciandomi agonizzante sulla spiaggia, ma la polizia, che sorvegliava il litorale in quei pressi, lo aveva fermato perché guidava a gran velocità e, avendo notato macchie di sangue sui suoi indumenti, aveva deciso di portarlo in commissariato e di trattenerlo per interrogarlo. Intanto, per pura fortuna, alcuni ragazzi avevano visto il mio corpo che giaceva sulla sabbia, in una pozza di sangue e, grazie a loro, fui ricoverata d’urgenza in ospedale, appena in tempo per salvarmi. Oggi sono ancora viva, anche se per miracolo e con lesioni, nel corpo e nell’anima, dalle quali probabilmente non guarirò più. Lui è rinchiuso in una cella e spero che ci rimanga per molto tempo. Mi sottopongo ancora spesso, purtroppo, a lunghe ed estenuanti sedute con una psicologa, perché sono ancora fortemente traumatizzata da quanto mi è accaduto e i miei sogni di ragazza spensierata sono morti, insieme ai miei sentimenti e alla mia gioia di vivere, quella notte, sulla spiaggia ...

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PER RICOSTRUIRE UN VOLTO E UNA STORIA : SARAH SCAZZI Matteo Gabriele

Questa, che sto per raccontare, è la storia drammatica di Sarah Scazzi, ragazza di anni 15, nata a Busto Arsizio il 4 aprile 1995. Viveva ad Avetrana (Taranto) e frequentava il secondo anno dell’Istituto Alberghiero. Era conosciuta in paese come una ragazzina timida e schiva. Svolgeva una vita abbastanza normale e un giorno, precisamente il 26 agosto 2010, intorno alle 14.30, aveva deciso di andare al mare con la cugina Sabrina, che abitava a poche centinaia di metri dalla sua dimora. Da quel momento, le tracce di Sarah si persero. La ragazza non rispose più al telefono e scomparve nel nulla. L’evento ebbe un immediato risalto mediatico. Da principio, l’attenzione dei media si concentrò sulla vita privata di Sarah: ne furono analizzate le abitudini, il diario segreto e il suo profilo di Facebook, per capire quali fossero i motivi che l’avevano spinta a una possibile fuga da casa. La ragazza fu dipinta dai media come un’adolescente inquieta, che frequentava sul web ragazzi molto più grandi di lei e capace di progettare la propria scomparsa, pur di diventare famosa e poter finalmente fuggire da un paesino, dove si annoiava e si sentiva oppressa da una madre con cui frequentemente litigava… Dopo settimane di ricerche e indagini, il 6 ottobre dello stesso anno, Michele Misseri, zio della ragazza, dopo un interrogatorio di circa nove ore, confessò l’omicidio della nipote, indicando alle forze dell’ordine il luogo in cui aveva nascosto il cadavere. Ma nei giorni successivi, Misseri cambiò la storia, coinvolgendovi anche la figlia Sabrina che, poco dopo, fu arrestata con l’accusa di concorso in omicidio. Le indagini andarono avanti nel senso che il movente di Sabrina sarebbe stata la gelosia per le attenzioni che la cugina riceveva da Ivano Russo, un cuoco di Avetrana, del quale Sabrina stessa si era innamorata. La cugina era solita confidarsi con Sarah, riguardo alla sua infatuazione

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per Ivano Russo e al rifiuto di questi di allacciare una relazione sentimentale con lei. Proprio i pettegolezzi, circolati in paese su un rapporto sessuale non portato a compimento da Sabrina e Ivano, avrebbero portato alla definitiva rottura da parte di quest’ultimo e acuito, così, l’astio di Sabrina verso Sarah. Negli interrogatori successivi, la stessa Sabrina avrebbe confessato di aver rimproverato Sarah per il modo, a suo parere, troppo espansivo con cui la cuginetta manifestava in pubblico la propria ricerca di “coccole” da parte di Ivano. E temeva che ciò avrebbe potuto alimentare ulteriori sciocchi pettegolezzi in paese. Intanto Misseri cambiò ancora la versione dei fatti, attribuendo l’omicidio alla figlia e dichiarando di essere stato chiamato da lei, dopo la morte della nipote, perché fosse aiutata a occultarne il cadavere. A seguire, il 26 maggio 2011, fu arrestata Cosima Serrano, madre di Sabrina, con l’accusa di concorso in omicidio e sequestro di persona. Dall’analisi dei tabulati risultava, infatti, che con il suo telefono cellulare avrebbe effettuato una chiamata dal garage, luogo in ci si sarebbe consumato il delitto. La donna, invece, dichiarava che quel pomeriggio non si era mai recata in quel garage. Le indagini preliminari si conclusero il 1º luglio, con l’incriminazione di 15 persone per reati che andavano dal concorso in omicidio, alla soppressione di cadavere, sequestro di persona, false dichiarazioni al Pm, alla soppressione di documenti, all’infedele patrocinio e all’intralcio alla giustizia. Tutto si rimandò al 10 gennaio 2012, quando si aprì il processo davanti alla Corte d’Assise di Taranto, in cui comparivano, come principali imputati, Sabrina Misseri con l’accusa di omicidio volontario, la madre Cosima con l’accusa di concorso in omicidio e il padre Michele con l’accusa di soppressione di cadavere.

A deporre furono anche chiamate alcune amiche di Sabrina. Ivano Russo confermava

di avere avuto una fugace relazione con l’imputata e di avere poi troncato il rapporto. Durante la deposizione il giovane, ripercorrendo la serata del ritrovamento del corpo di Sarah, spiegava che erano stati lui ed Alessio Pisello ad accompagnare Sabrina nella contrada Mosca (luogo in cui il padre Michele aveva appena fatto rinvenire il cadavere di Sara), su indicazione della stessa. Intanto, il 5 dicembre 2012, in un’udienza alla Corte d’Assise di Taranto, rispondendo alle do-

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mande del legale di sua figlia Sabrina, Michele Misseri confessava tra le lacrime di essere colpevole per l’omicidio della nipote. Dopo queste dichiarazioni, il suo difensore rimetteva il mandato, facendo sospendere il processo, in attesa di un nuovo avvocato per Misseri. Finalmente arrivò il giorno che mise fine alla vicenda. Almeno così sembrava. Il 20 Aprile 2013, la Corte d’Assise di Taranto condannava all’ergastolo Sabrina Misseri e Cosima Serrano per l’omicidio di Sarah Scazzi. Michele Misseri, invece, veniva condannato a 8 anni per concorso in soppressione di cadavere. Per lo stesso reato venivano inflitti 6 anni ciascuno, rispettivamente, al fratello e al nipote di Michele Misseri. Anche l’ex difensore di Sabrina veniva condannato a due anni di reclusione, in questo caso, per intralcio alla giustizia. La storia sembra essere caduta nel dimenticatoio, ma non è affatto vero, perché rimarrà nel cuore di tutti noi e verrà sempre ricordata come una storia brutta e spietata. Il volto di Sarah è ancora nei nostri occhi e nella nostra mente. Soprattutto il suo ricordo si trova dentro di noi a lanciare un grido e un monito verso questo mondo, che si è imbarbarito nei gesti e nei costumi sociali e morali. Il mondo vive ormai in cattività, si è inselvatichito, sembra aver perso la giusta direzione, la vera luce e il vero senso dei valori essenziali. Troppa leggerezza, troppi inganni fanno di noi esseri persi, che brancolano nel buio alla ricerca affannosa di non so cosa, di qualcosa che diventa tanto più assurda quanto più ignota. E quando questa qual cosa non la si sa raggiungere, quando si è incapaci di ottenerla, quando ogni tentativo si vanifica per soddisfare il proprio egoismo, allora si può anche ferire, anzi si finisce per uccidere. Uccidere. Ma, forse, abbiamo tutti quanti scordato quel famoso comandamento cristiano “Non uccidere” ? A cui seguivano anche il “Non rubare”, il “Non desiderare la roba d’altri”, il “Non desiderare la donna d’altri”, il “Non dire falsa testimonianza”? Siamo dimentichi della nostra stessa stirpe e della nostra stessa indole ovvero quella di essere uomini e donne, uomini e donne vere, onesti e oneste, sinceri e sincere, amabili e amati? Abbiamo dimenticato. Peccato! Abbiamo bisogno di profondità, di amore, di comprensione, di altruismo e di rispetto. Siamo stufi della sola immagine, della sola apparenza, di quella dilagante leggerezza e superficialità, che sovrasta e domina il nostro vivere. Sarah, ancora una volta, ci dice che vale la pena vivere, che vivere è una bella avventura,

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ma guai a guastarla, guai a ridurla in un effimero bordello, in un insulso vivacchiare. Da lassù, Sarah racconta a uomini e donne che è bello volersi bene, che è bello incontrarsi ogni giorno per un saluto ed un sorriso, che è bello donarsi una carezza ed uno sguardo e che non sarà mai bello dirsi… addio.

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PARTE SECONDA ripensare‌ il femminicidio

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AFFRESCO Non ho spezzato mimose per te, non ho raccolto gialli giacinti, anemoni freschi alla rugiada. Ho solo il profumo del vento, le favole nostalgiche del patos, l’estrema comprensione della parte. In te trasmigra la natura, l’immensità dell’Universo, la meraviglia del creato, la gioia del coraggio e dell’arringa. Sorridi, essenza del miracolo, rosa rossa nel bicchiere, indora i sogni tuoi, dipingi il tuo futuro sul cristallo, cogli il sereno tra le nubi e il vento, antica luce, sempre viva DONNA. Giuseppe Manco

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ROSE SPEZZATE Prof.ssa Loredana Isernio

Questo contributo è frutto di una

ricerca elaborata insieme agli allievi dell’Istituto Tecnico

Economico “A. De Viti De Marco”, nell’ambito dei “laboratori di produzione culturale”, utilizzando documenti e pubblicazioni reperiti sul web, la cui peculiarità va ricercata nella promozione del processo formativo degli alunni. Nel corso dell’attività didattica svolta in diversi anni, quale docente di discipline giuridiche, ho avuto modo di trattare spesso i temi legati all’emancipazione femminile, sia per i suoi riferimenti giuridici, che fanno parte dell’attività curriculare, sia per approfondimenti sul tema delle pari opportunità, sviluppati nel corso delle varie attività. Un approccio di più immediata lettura del fenomeno della violenza contro le donne è stato, quasi sempre, quello della configurazione di reato quale comportamento lesivo dell’integrità psicofisica subito dalla donna. Tale approccio, immediatamente percepito, ha indotto gli allievi ad esaminare, sotto la mia guida, i comportamenti, riconosciuti come reati. Riassumo i risultati prodotti dall’approfondimento: Violenza fisica: comportamento che si manifesta attraverso percosse, spintoni, schiaffi, morsi, ferite, calci ecc. L’art. 572 del C.p. punisce chiunque maltratti una persona della famiglia con la reclusione da uno a cinque anni. Se dai maltrattamenti derivano lesioni personali gravi, la pena prevista è dai quattro agli otto anni; se ne deriva la morte, la pena sale dai dodici ai venti anni. La violenza fisica può, inoltre, essere causata da antichi retaggi, costumi e tradizioni tribali. Un problema specifico di alcune culture africane è quello della mutilazione dei genitali femminili, ancora ampiamente praticata ed effettuata, quasi sempre, in condizioni sanitarie orribili, senza anestesia e soprattutto su bambine in tenerissima età. L’età in cui si effettua, infatti, varia dai primi giorni di vita alla pubertà e i rischi sono drammatici, sempre che la bambina non muoia prima dallo shock, dall’emorragia o dal dolore. In particolare, l’infibulazione è una manipola-

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zione fisica, che provoca la mutilazione della vagina, parzialmente chiusa con una sutura, che lascia solo una piccola fessura per il passaggio dell’urina e del mestruo. La sutura, che dovrebbe tutelare la verginità prima del matrimonio, è rimossa solo per consentire la consumazione del matrimonio. Questa pratica, che porta anche all’asportazione del clitoride, è di solito effettuata dalle donne anziane del villaggio con mezzi occasionali (coltelli o addirittura pezzi di vetro), non escluso l’uso di sostanze corrosive, provocando ustioni e lacerazioni. Il fenomeno non è relegato a pochi Paesi del continente africano; in Italia, circa 40.000 donne provenienti da quei Paesi hanno subito mutilazioni genitali. Per contrastare questa barbarie, nel nostro Paese è stato introdotto il reato di mutilazioni genitali. Con la legge 9/01/2006 - n. 7, il Parlamento italiano ha provveduto a tutelare le donne dalle pratiche di mutilazione genitale, in attuazione degli artt. 2, 3,32 della Costituzione. Al codice penale è stato aggiunto l’art.583 bis, che punisce con la reclusione, dai 4 ai 12 anni, chi, senza esigenze terapeutiche, cagiona la mutilazione degli organi genitali femminili. Le disposizioni di questo articolo si applicano anche quando il fatto è stato commesso all’estero da un cittadino italiano o da straniero residente in Italia; l’art. 583 ter. precisa, inoltre, che chi esercita una professione sanitaria, resosi colpevole del fatto, è sottoposto alla pena accessoria della sospensione dalla professione da 3 a 10 anni, con comunicazione della sentenza di condanna all’ordine dei medici chirurghi ed odontoiatri. Violenza sessuale: si configura quando si attua un comportamento che si manifesta con l’imporre pratiche sessuali a soggetto non consenziente. Dallo studio dei casi clinici emerge che una donna, che ha subito violenza sessuale, oltre alle lesioni immediate, spesso soffre di disturbi psicosomatici, come vomito, attacchi di panico, paure, cambiamenti caratteriali, turbe improvvise e violente, disturbi gastrointestinali e del sonno, che perdurano nel tempo. Inoltre, dopo un percorso lungo e doloroso, solo in alcuni casi viene rivelata la violenza subita. Il silenzio dipende dalla difficoltà di denunciare il carnefice, spesso un insospettabile, compagno, ex compagno o parente. Nel 1996, in Italia, sono state totalmente modificate, dopo diciannove anni di discussioni parlamentari, le norme contro la violenza sessuale. Ora questo grave reato previsto dall’art. 609

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bis del C.p. è considerato un delitto contro la persona e non più contro la morale e il buon costume. La pena comminata varia dai cinque ai dieci anni. La pena sale dai sei ai dodici anni, se la vittima non ha ancora compiuto 14 anni o se lo stupratore usa le armi, sostanze alcoliche o stupefacenti. La pena aumenta dai 7 ai 14 anni, se la vittima ha meno di dieci anni. La persona stuprata deve presentare querela; se l’offeso muore, prima che la querela sia stata proposta, il diritto passa al genitore e al coniuge. Violenza Psicologica: comportamenti che si palesano attraverso varie manifestazioni e, in alcuni casi, sfociano in violenza economica. Sono tali gli atteggiamenti che si caratterizzano nello svalutare l’altro con critiche, ingiurie, offese, sovraccarico di responsabilità nella conduzione del menage familiare o nell’educazione dei figli, nel richiedere continuamente cambiamento nell’aspetto fisico e comportamentale, nel negare il sostentamento fisico, nel provocare continui sensi di colpa ed accettazione dei maltrattamento, nel privare l’altro di relazioni sociali e del sostentamento economico, nel non condividere il bilancio familiare, nel non dare informazioni sul conto corrente e sulla situazione patrimoniale, nel costringere a firmare contratti o garanzie, senza avere alcuna informazione rispetto al rischio. Una forma di violenza psicologica praticata dalla cultura islamica, si ritiene sia quella di imporre il burqa e cioè il velo integrale che il regime talebano obbliga ad indossare alle donne afgane, minacciandole con pene gravissime, in caso di trasgressione. Spesso, i maltrattamenti descritti, non vengono immediatamente percepiti come tali, ma si insinuano nella dinamica relazionale e danneggiano l’identità della donna, procurandole nel tempo una sofferenza indefinita. Il D.L. 23/02/2009, n.11 “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori “, introduce nel C.p., all’art. 612 bis, il reato di stalking (il temine indica circospezione, “cacciatore in agguato”). Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione, da sei mesi a quattro anni, chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno, in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero di ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria

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o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita. Questa fattispecie di reato è normalmente procedibile a querela, ma è prevista la procedibilità d’ufficio, qualora la vittima sia un minore, una persona disabile, quando il reato è connesso con un altro delitto procedibile d’ufficio e quando lo stalker è già stato ammonito precedentemente dal questore. Lo stalking è un comportamento persecutorio, messo in atto nei confronti della donna, spesso dal partner, in genere è perpetrato quando questa cerca spazi di autonomia e di svincolo. Viene esercitato in vari modi: seguendo la donna negli spostamenti, aspettandola vicino casa o vicino ai luoghi in cui lavora, presentandosi in modo irruento sul posto di lavoro o nei luoghi da lei frequentati, telefonando in modo continuo a casa, sul telefonino, al lavoro, inviando continui messaggi, lettere o biglietti. Violenza sui luoghi di lavoro: anche questa forma rientra nell’ambito della violenza psicologica. Generalmente, si manifesta con intimidazioni, minacce, atteggiamenti ostili e derisioni in pubblico, vessazioni, dimensionamento lavorativo, insulti, maldicenze, azioni poste in essere per indurre la vittima ad abbandonare da sé il lavoro, senza imporre il licenziamento. Questo comportamento lesivo, oggi viene definito mobbing. Il temine è un gerundio sostantivato inglese derivato da “mob”, coniato dall’espressione latina ”mobile vulnus”, che significa “gentaglia”, cioè folla grande e disordinata. Spesso la vittima del mobbing è l’ultima arrivata, colpevole di essersi inserita in una precedente dinamica di “clan”, mutandone l’equilibrio stabilito; talvolta è una persona originale, con convinzioni politiche o religiose particolari, altre volte è la lavoratrice onesta, che non accetta regole clientelari, in alcune occasioni è quella con inclinazioni sessuali diverse o disabile. I comportamenti aggressivi che configurano il mobbing, possono essere difficili da dimostrare, tuttavia l’aggressione psicologica, può provocare effetti deleteri sullo stato fisico-psichico di una lavoratrice, che consistono solitamente in : depressione, ansia, attacchi di panico, ipertensione arteriosa, difficoltà di concentrazione, dermatosi, tachicardia, tremori, oppressione immotivata, mal di testa, sensazione di nodo alla gola, mani sudate, abbassamento delle difese immunitarie.

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Pur essendo stati depositati diversi disegni di legge sul tema in Parlamento, in Italia non esiste una legge in materia di mobbing, quindi questi comportamenti non sono configurati come specifico reato. Atti di mobbing possono, però, rientrare in altre fattispecie di reato previste dal Codice penale, quali: abuso d’ufficio, percosse, lesioni personali volontarie, ingiuria,diffamazione, minaccia, molestie. La Costituzione Italiana (Artt. 2, 3, 4, 32, 35, 36, 41, 42) tutela la persona in tutte le sue fasi esistenziali, da quella di cittadino a quella di lavoratore. Inoltre sul datore di lavoro grava l’obbligo contrattuale, derivante dall’Art. 2087 C.c., di tutelare la salute e la personalità morale del dipendente. La Corte di Cassazione, già nel gennaio 2002, ha ritenuto che un’iniziativa diretta alla repressione, non già alla prevenzione, dei fatti mobbizzanti non è idonea a costituire adempimento agli obblighi previsti dall’Art. 2087 del C.c. La violenza di genere resta ancora un grave ed urgente problema della nostra società, malgrado siano migliorate le leggi e aumentato l’impegno delle Istituzioni. Nel giugno del 2013, il Parlamento italiano ha ratificato la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. Nell’agosto 2013, il Governo ha emanato con un Decreto Legge (conosciuto come “Decreto anti-femminicidio”) norme penali che aggravano le ipotesi di atti persecutori od omicidio contro il coniuge od il convivente, tramite specifiche aggravanti di reati. Tuttavia, non basta l’inasprimento delle pene per offrire protezione alle donne, sono necessari interventi che possano determinare un cambiamento sociale e culturale profondo. La soluzione del triste fenomeno non è facile, ma ogni passo avanti rappresenta un importante traguardo di civiltà giuridica per il Paese ed un’imperdibile occasione di crescita sociale. Un antico adagio, aimè spesso disatteso, recita: ”La donna non si tocca neanche con un fiore”, semplice, elementare, ma efficace il messaggio che vuole trasmettere, nel raccomandare al cosiddetto ”sesso forte” il rispetto nei confronti dell’altra metà del cielo. Attraverso l’attività di ricerca sui volti che la violenza sulle donne può assumere, è emersa negli studenti la convinzione che una risposta seria e risolutiva a questa grave emergenza sociale, sia la promozione di percorsi formativi, che abbiano come obiettivi pedagogici la

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cultura, la prevenzione, l’educazione. Insegnare ai ragazzi il rispetto per il mondo delle donne aiuta ad acquisire un giusto equilibrio tra le giovani generazioni. Serve, dunque, un percorso di rieducazione, non indirizzato esclusivamente agli uomini violenti, ma a tutta la società , investendo sulla formazione dei genitori, degli insegnanti e delle persone che si occupano di violenza, come medici e forze dell’ordine; solo in tal modo potremo sperare di arginare il triste fenomeno della violenza sulle donne.

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L’AMORE MALATO Antonio Stefanelli

La violenza contro le donne è forse la più vergognosa violazione dei diritti umani e anche, forse, la più diffusa. Non conosce confini geografici o culturali. Finché continuerà, non potremo pretendere di realizzare un vero progresso verso l’eguaglianza, lo sviluppo e la pace. Commentare le ripercussioni di questa problematica è difficile e il rischio di dire cose scontate è piuttosto alto. L’unica cosa che però vale la pena ripetere è che questo fenomeno può essere combattuto solo con la denuncia. Bisognerebbe essere capaci di sentire dentro di sé la ribellione verso qualunque tipo di ingiustizia commessa contro chiunque. Le conseguenze di questo tipo di violenza, a livello sia fisico che psicologico, sono sconvolgenti: subentra nella mente della donna una specie di autocolpevolezza, scaturita dal fatto che l´opinione pubblica e le istituzioni tendono quasi sempre a colpevolizzare la vittima, la quale vive questo tipo di condanna come un secondo abuso; ed è probabilmente per questo motivo che, molto spesso, le donne vittime di violenza preferiscono incassare il colpo e cercare di continuare, di andare avanti, senza chiedere aiuto a nessuno, ma portandosi dentro il peso della loro esistenza. Se è vero che talvolta la violenza si supera, essa però non si cancella mai e resta per sempre come un segno indelebile nell´animo di ogni donna. Insistere ancora sulla colpevolezza delle donne come potenziali vittime rischia, però, di eludere ancora una volta il problema principale: la cultura moderna, che porta gli uomini a considerare le donne come una loro proprietà e che va a congiungersi con la mancanza di basi educative, su cui porre relazioni sentimentali e sessuali sane ed equilibrate. Ed è arrivati a queste condizioni vergognose che sarebbe opportuno sensibilizzare gli uomini riguardo a queste tematiche. A volte, però, non è facile nemmeno essere un uomo. Una delle cause di questo male che affligge le donne, può essere la modernità dei nostri tempi. In un’era dominata dalla tecnologia, dove tutto è scontato e dove tutto quello che si vuole lo si ottiene il giorno dopo, si stanno tralasciando i cardini dell’esistenza. Se si sgancia la sessualità da un rapporto di amore e di rispetto reciproco, svalutandola ad un livello di semplice divertimento, non ci si può illudere di risolvere il problema, attraverso una semplice repressione penale. “Non c’è da meravigliarsi !”, così ha commentato il Senatore Pdl, Carlo Giovanardi, la notizia della sedicenne violentata da cinque amici durante una festa a Modena. Talvolta, l’uomo adopera questo comportamento nei confronti

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della donna, perché la considera una sua proprietà, perché non concepisce che una donna possa appartenere a se stessa e sia libera di vivere come vuole e persino di innamorarsi di un altro. Ma la cosa più sconvolgente è costituita dal fatto che la donna, spesso, non riconosce di essere oggetto di violenza; è convinta di essere inutile, di non servire a niente, scambiando, ingenuamente, il possesso e l’annientamento per amore, annullando così, completamente, la propria personalità. L’amore vero, l’amore sano, e non patologico, rende felici, riempie il cuore e non rompe le costole, non lascia lividi sulla faccia. Sarebbe opportuno che tutte le donne che, a vario modo, diventano oggetto di amori malati ricordassero un po’ più spesso che di vita ce n’é una sola e non va buttata via! Bisognerebbe ringraziare le donne e non maltrattarle, perché è grazie a loro che nascono ogni giorno nuove vite ed è spesso anche grazie a loro che il mondo va avanti. L’uomo, senza una donna al suo fianco è vuoto; è come un aereo senza ali … inutile! “Grazie a te, donna-madre, che ti fai grembo dell’essere umano nella gioia e nel travaglio di un’esperienza unica, che ti rende sorriso di Dio per il bimbo che viene alla luce, ti fa guida dei suoi primi passi, sostegno della sua crescita, punto di riferimento nel successivo cammino della vita. Grazie a te, donna-sposa, che unisci irrevocabilmente il tuo destino a quello di un uomo, in un rapporto di reciproco dono, a servizio della comunione e della vita…..”. E’ questo solo un piccolissimo stralcio della lettera scritta da Papa Giovanni Paolo II a tutte le donne del mondo. Sono concetti, questi, apparentemente scontati e banali, ma, purtroppo, per molti uomini, ancora fermi a idee e dinamiche medievali, nostri simili nell’aspetto, ma molto lontani dall’essere civili negli intenti e nelle azioni, non lo sono e di ciò rimangono testimonianza quei lividi, quei volti tumefatti e quelle ferite dell’anima, che segnano e continueranno a segnare irrimediabilmente il destino di tante donne.

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BASTA VIOLENZA! Sara Scarlino

“Basta! Se succede un’altra volta me ne vado! Non ce la faccio più!” È raro che una donna ferita e maltrattata pronunci queste parole; è raro che una donna che subisce continue violenze confessi a qualcuno di essere maltrattata da un uomo che lei stessa si autoconvince di amare, perché, alla fine, è questo lo scopo del gioco : autoconvincersi ! Autoconvincersi di amare un mostro, autoconvincersi di essere felici e, ancora peggio, autoconvincersi di essere amate da questo mostro, al punto tale da difenderlo, e non necessariamente davanti agli occhi della propria madre o della propria migliore amica, ma, molto più frequentemente davanti ai nostri stessi occhi: “Sì, lui lo fa perché mi ama troppo…..”. Davvero? Che bel modo di amare! In effetti, è molto meglio tirare un pugno a una donna, invece di dirle “ Ti amo”, certo ! Una donna non perde solo sangue, e magari un dente, quando viene picchiata da un uomo, ma perde certamente anche la dignità e il rispetto per se stessa. È ovvio che tutte le donne, in una situazione del genere, dovrebbero prendere le valigie e andarsene immediatamente da casa o troncare definitivamente ogni rapporto con il compagno violento; ma una cosa sono le parole, a fatti è tutto più complicato, forse perché si pensa di non riuscire mai, fino in fondo, ad andarsene, perché lui saprà sempre, in qualche modo, dove cercarci e, sicuramente, verrà con la forza a riprendersi tutto quello che, secondo lui, gli spetta di diritto. Il problema è che a quel lui violento ed insensibile non spetta in realtà niente di diritto e, se anche fosse, non vuole possedere una donna vera, ma una schiava, una serva che gli lavi i calzini, che gli faccia trovare tutto pronto quando rientra a casa - magari ubriaco e nervoso - una, insomma, su cui sfogare la propria irritazione, non parlandone, ma picchiandola! Al capolinea si arriva quando una donna impara a conviverci con questo tormento, quando si sente “fortunata”, perché lo schiaffo non è stato forte come quello della sera prima e, magari, le sembra addirittura strano.

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Purtroppo non è solo di maltrattamento fisico che si parla, perché la violenza psicologica è qualcosa che logora le donne nel profondo, facendole spegnere poco a poco e rendendo le loro vite un incubo, da cui non ci si può svegliare se non si reagisce in qualche modo. Come si sa, questa violenza è chiamata “stalking” e soprattutto negli ultimi anni sono aumentate le denunce di povere donne esauste per quanto quotidianamente subito. È davvero qualcosa di terrificante sapere che c’è qualcuno che ti spia e ti segue, sapere che qualcuno ti sta guardando mentre fai una doccia o ti metti il pigiama prima di andare a dormire; che qualcuno può chiamarti, dicendoti che la sera prima eri molto affascinante, ma avresti dovuto indossare una gonna un po’ più lunga, perché la gelosia corrode ed è qualcosa di pericoloso. Perciò, sapere che qualcuno ti segue, ovunque tu vada, crea inevitabilmente delle paranoie e induce la donna, vittima di tali persecuzioni, a credere che la prima macchina che rallenta un po’ alle sue spalle sia quella di lui e che lui sia sempre lì a pedinarla, a controllarla, nell’ombra o davanti a lei, irrazionale presenza ossessiva e ossessionante. Una persona che tortura in questo modo un’altra persona, non lo fa perché è innamorata! Lo fa perché è una persona fissata, complessata, insicura, con alla base veri e propri problemi mentali, che affondano sicuramente le loro radici in un passato problematico e tormentato. Ed ecco che si arriva alla violenza sessuale, l’apice dell’orrore; ragazzi che violentano ragazze per puro divertimento e, forse, per una certa perversa pubertà che li condannerebbe all’ergastolo, se qualcosa funzionasse davvero in questo sistema tecnicamente più perverso di loro; uomini che violentano le proprie mogli – dopo averle picchiate, s’intende - lasciandole a terra e riempiendole di insulti umilianti, spesso scaturiti dalla convinzione che, se loro non sono degli uomini realizzati nella vita, ovviamente la colpa è delle loro mogli o compagne. Ma alcuni uomini hanno una perversione che addirittura perfora il loro midollo osseo, tanto da non farsi bastare la violenza sulla moglie: costoro, non ancora sazi del massacro fisico e psicologico perpetrato tra le mura domestiche, vanno da povere ragazze indifese, che potrebbero anche essere loro figlie, le trascinano in un vicolo stretto e ne abusano spudoratamente, mentre queste piangono e implorano di essere lasciate stare. Ma succede anche di peggio: talvolta la perversione non conosce davvero limiti e alcuni abusano perfino di donne

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anziane, gravemente malate o disabili, forse provando piacere al solo pensiero di fare del male ad un essere inerme e comunque indifeso, incapace di reagire o semplicemente impossibilitato a farlo. Il peggio del peggio è tuttavia, in ogni caso, la violenza su povere bambine ingenue e innocenti, perché, da quel momento in poi, costoro avranno per sempre un’idea distorta di amore e saranno comunque incapaci di amare serenamente per tutto il resto della propria esistenza. Possono considerarsi uomini coloro i quali offendono una società civile, rendendosi colpevoli di simili atti? Un uomo dovrebbe essere colui che ti fa sentire protetta e al sicuro e non colui che ti fa provare felicità solo quando non ti massacra di botte! Un vero uomo dovrebbe farti piangere, perché ha fatto una battuta divertente o una sua dimostrazione d’amore ti ha a tal punto emozionato da farti scoppiare il cuore, e non perché torna a casa ubriaco e ti stupra sul tavolo della cucina! Un vero uomo è colui che ti lascia libera di andare e di esprimere te stessa, sempre e comunque; è colui che sa dividerti con il mondo, sapendo di occupare comunque un posto speciale nel tuo cuore, che nessuno potrà e saprà mai sostituire. Il primo passo per uscire da queste situazioni è sicuramente parlarne con qualcuno : non si ha idea di quante donne vengano violentate ogni giorno. Una donna è una vera donna quando ha il coraggio di affrontare tutto e riacquistare la propria indipendenza, la propria dignità, ma soprattutto la propria vita!

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Foto a cura di Sara Scarlino

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CONCLUSIONI Tirare le fila di un discorso così complesso e nel contempo così delicato non risulta impresa molto facile, in quanto la dimensione dei temi e la portata delle problematiche implicano riflessioni e considerazioni profonde da un punto di vista etico, sociale, psicologico e umano. Dalla lunga carrellata dei racconti e delle storie emerge una realtà fragile, una realtà precaria che va degenerando e di cui tutti, giovani e adulti, stiamo prendendo consapevolezza. Ed allora le storie di Alisia, Angela, Anna, Ludovica, Sarah, Aurora, Carmen, Giulia, Lucrezia, Luisa, Mariangela, Marina, Maya, Miriam, Samantha, Serena, Sonia, Stella, Valentina e dell’anonima C. non fanno altro che palesare la difficoltà di trovare con l’altro un contatto sociale e una relazione umana corretta, dettata dal rispetto reciproco e dalla dignità della “persona”. Queste storie necessitano di essere lette e soprattutto interpretate nei piccoli dettagli, nei passaggi fondamentali, nelle dinamiche individuali e di gruppo, che le hanno scatenate e fatte scaturire come prodotto di un mondo e di una comunità fuorviante. Ecco, il punto è proprio qui. L’attuale contesto socio-economico spinge verso altri valori, altre direzioni, altre chimere a tal punto da deviare atteggiamenti e comportamenti che mal si coniugano con il vivere civile e morale. Stiamo abituando noi stessi e le giovanissime generazioni ad una cultura più “estremamente visibile all’esterno” piuttosto che ad un sapere “scandagliabile all’interno”, stiamo conformandoci tutti quanti a costumi sociali sempre più materializzanti perché quello che conta nella vita sono i “piaceri”, l’affermazione, il successo, l’immagine. E poi l’essenziale, il vero, il sincero, il genuino e spontaneo non contano più, non servono, sono inutili e deprecabili. Sono deprecabili, sì, perché nell’immediato non ti danno nulla, anzi ti mettono in pericolo, perché rischi di passare per persona obsoleta, superata, fuori da questo tempo e da questo spazio. Non ti offrono subito e nell’immediato quella “piacevole sensazione” di aver toccato con un dito l’apice della mondanità. Abbiamo tutti quanti bisogno di “genuini ritorni” all’essenzialità delle cose e al vero senso dell’educazione. Non è struggente nostalgia del passato, non è rimpianto di un secolo che non c’è più, non è tanto il denaro che ci manca e che ci fa star male. E’ il sistema e lo stile di vita che rimpiangiamo. Quello del tempo andato? No, di

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certo. Piangiamo, invece, sul sistema e sullo stile di vita attuali, sul sistema dei valori contemporanei, sullo sfascio della politica, sullo smembramento della famiglia, sulla disperazione dei giovani, uomini e donne che siano, sulle minacce incombenti sempre pronte a ghermire ormai l’indole di noi stessi, di noi che abbiamo scelto di essere sempre meno eroi. E dunque, le storie di tutte queste donne e di tutti questi uomini più o meno fragili, più o meno colpevoli hanno tutte quante un senso; ci dicono tutte quante che dobbiamo avere il coraggio di voltare pagina, che dobbiamo desiderare il cambiamento e la svolta, subito, altrimenti sarà troppo tardi per trovare il bandolo della matassa e uscire dai guai. Ed allora, questi difficili rapporti di uomini e donne, che emergono dalle storie dei ragazzi, mi riportano piacevolmente al mondo del mito popolato da eroi e creature antropomorfe, ma solo per contrasto e per un certo parallelismo di lettura. Sicuramente ricorderete la mitica narrazione del giovane Teseo e della bellissima Arianna. Lei, per amore, gli tese il filo. Lui, per amore, lo raccolse, dopo aver ucciso il Minotauro. Quindi, prese la sua Arianna e la portò con sé, ma giunto sul limitar di quel lido, ohimè, per la fretta di ritornare in patria si dimenticò di lei. E la perdette per sempre. Fu vero eroe? Ed Arianna aveva ben capito i “veri” disegni del suo Teseo? La morale della favola? O, meglio dire, del mito? Non corriamo il pericolo di essere “eroi dimentichi” delle nostre promesse e delle nostre azioni, non scordiamoci di Arianna che, da quel lontano lido, ancora lancia il suo grido di dolore, per chiedere disperatamente di essere riportata in patria e di ricongiungersi in pace al suo Teseo.

Prof. Giuseppe Manco

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Foto a cura di Federica Sparascio e Irene Capone

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