PARTENZA E RITORNO, György Konrád

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mi faceva il bagno con tanto garbo, giocava con me, ci sfioravamo affettuosamente e a volte si immergeva anche lei nella vasca? Come poteva volermi del male quell’Hilda, che mi trattava tanto bene? Hilda era bella, ma chiaramente stupida. Giunsi presto alla conclusione che tutto quello che mi minacciava non poteva che essere privo di senso, perché io non rappresentavo una minaccia per nessuno. Non ero disposto a considerare ragionevole ciò che mi faceva male. Da quando ne conservo la memoria, io sono sempre stato lo stesso, non sono cambiato, e non ero più infantile nemmeno a cinque anni, quando con la bici mi spingevo al ponte Berettyó e mi specchiavo nel fiume che d’estate era largo solo otto-dieci metri e scorreva giallo, melmoso e apparentemente mite nel suo letto erboso, pur nascondendo insidiosi mulinelli. In primavera dal ponte lo vedevo scorrere gonfio e largo, trascinare con sé case, sradicare grossi alberi e trasportare carogne, al punto da divellere la diga interna, e poi andavamo in barca fra le case, perché le strade sulla riva erano tutte immerse nell’acqua. Sentivo di non potermi veramente fidare di nulla, perché tutto celava qualche pericolo. Nella torre Monca l’aria era fresca e odorava di muffa, vi volteggiavano i pipistrelli e i ratti mi mettevano paura. Secoli prima la torre era stata assediata e occupata dai turchi; quella era una terra selvaggia, di invasioni, spesso attraversata da eserciti, una pianura testimone di banditi a cavallo, di vassalli dei tur-

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