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Un italiano a Kabul

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Il Caso Emergency

Il Caso Emergency

Operando ne11a pubblica informazione, si ha a che fare con una varietà di interlocutori: dalla stampa ai militari, dalle istituzioni governative al volontariato, dalle organizzazioni internazionali all'imprenditoria. Non di rado, m'è capitato di registrare commenti poco lusinghieri - tra gli italiani - nei confronti di una certa categoria. Il tal giornalista che boccia in toto i diplomatici, un ambasciatore che considera quella italiana una stampa di serie B, il colonnello che non si fida dei funzionari internazionali di casa nostra e cosi via. Si generalizza - in negativo - su un determinato gruppo di persone, senza fare un minimo di autocritica nel proprio cortile, senza accorgersi che siamo - salvo rare eccezioni - lo specchio del Paese, nel bene e nel male. Come al MAE non sono tutti dei Ducci, nelle redazioni non abbondano i Bernardo Valli, come alla Difesa di ammiragli Venturoni ce ne sono stati pochi, all'oNu Gianni Picco rappresenta un esempio italiano unico e forse irripetibile.

Concetti condivisi, si dirà. Ma non sempre. Di personaggi chiusi a riccio nel loro mondo, in circolazione ce ne sono ancora. I connazionali, in posti difficili e lontani, pur operando in organismi.diversi, si dovrebbero aiutare fra loro. Spesso funziona così. Tuttavia c'è anche una vecchia massima, secondo cui i peggiori nemici degli italiani all'estero sono proprio gli italiani. Un detto, certo, ma con un fondo di verità. Mai sottovalutare invidie e gelosie che covano sotto la stessa bandiera.

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Ogni atteggiamento disfattista, se così vogliamo chiamarlo, ma potremmo anche definirlo divisivo o separatista, ha un effetto negativo sulla capacità di fare gruppo. I danni maggiori, tuttavia, sono quelli originati da rappresentanti delle istituzioni. Il capomissione di una sede diplomatica, che tratta con sufficienza i compatrioti

presenti a vario titolo in una missione di pace, dà un inequivocabile segnale di sciogliete le righe all'interno della comunità nazionale. Lincoraggiamento a cooperare deve partire da lì. Se c'è una forte iniziativa da parte dell'autorità nazionale, metà dell'opera di raccordo è compiuta.

Può anche capitare che qualche ambasciatore operante in un contesto dove è forte la presenza di truppe internazionali, pur con tutta la buona volontà, abbia difficoltà ad affermare quel ruolo guida che l'ordinamento dello Stato gli riconosce all'estero. Non riesco - mi è capitato di sentire - con uno staff ridotto all'osso e con fondi da sopravvivenza a tener testa ad un contingente militare grande ed organizzato come il nostro: l'Italia, prima di tutto, sono loro.

Tra Esteri e Difesa, ossia tra ambasciata e contingente militare, le competenze ed i rapporti gerarchici sul campo, non sempre sono definiti con chiarezza. Il quadro all'interno del quale le due espressioni italiane debbono interagire non è mai tracciato abbastanza precisamente. Molto, al momento, è lasciato al buon senso di ciascuno ed ai rapporti personali che s'istaurano tra diplomatici e personale con le stellette. Se qualcosa va storto, se il feeling è scarso, i due binari rischiano di procedere parallelamente, senza incontrarsi mai, o quasi. A rimetterci è il cosiddetto sistema Paese, termine tanto evocato quanto poco messo in atto. Accade a volte che sia il funzionario internazionale - italiano sì, ma senza legami istituzionali -a fare da messaggero informale tra le due entità scarsamente dialoganti. A Kabul non era così.

Il primo contatto con l'ambasciatore d'Italia in Afghanistan non poteva essere migliore. Pochi giorni dopo il mio arrivo, inviai le rituali due righe per segnalare la presenza in teatro. Nel giro di poche ore, ricevetti dall'email personale un «Ben arrivato Angeli, sono contento che sia qui, vediamoci presto. Ettore Sequi».

Il vediamoci presto, non fu una generica frase di cortesia. Neanche due giorni dopo, mi veniva recapitato un cartoncino con stemma della Repubblica bordato d'oro per un pranzo in onore dei parlamentari europei Giulietto Chiesa e Romano La Russa. Più ancora, l'assistente Carmela Russi, mi chiamò lo stesso giorno per chiedere se potevo anticipare l'arrivo in residenza per un incontro privato con l'ambasciatore.

Caro Andrea - mi disse esortandomi a dargli subito dd tu - sono rimasto colpito dalla descrizione che nel tuo libro hai fatto dei soldati dimonios nei difficili giorni della strage di Nassiriyah. So che sei amico di molti sardi, spero lo sarai anche mio; abbiamo bisogno di essere uniti noi italiani, ci attendono periodi burrascosi. Puoi stame certo - risposi. Poco dopo arrivarono i primi ospiti e, a suggellare l'accordo di massima collaborazione, gli strinsi la mano pronunciando Forza Paris, l'antico motto della brigata Sassari che vuol dire forza-avanti insieme.

La lunga tavola ovale era apparecchiata per ventotto. I sottopiatti d'argento con stemma sabaudo (ancora in uso in molte sedi diplomatiche) scintillavano su una tovaglia afghana ricamata a mano. Fiori ed alcune maschere carnevalesche veneziane dell'illustre artigiano di Scutari, Edmond Agoni, facevano il resto.

Non fu solo il consistente numero d'invitati a colpirmi, quanto il mix di persone radunate attorno al tavolo. Erano rappresentati proprio tutti. Tra i militari, le quattro forze armate (più la sempre presente GDF) a vari livelli gerarchici. In quello, come ad altri convivi cui partecipai, accanto al generale, sedeva sempre anche un maresciallo ed un graduato, una svolta in senso americano del protocollo, che da noi ancora privilegia la separazione tra ufficiali e non.

I camerieri Ghafar e Mohammad, in ricercati abiti tradizionali, servirono impeccabilmente. Al termine, Sequi si alzò in piedi per pronunciare il saluto agli illustri ospiti. Come da consuetudine, mi dissero, consegnò preziosi omaggi agli invitati d'onore ed altri due regali: il primo, ad un militare che si apprestava a lasciare l'Afghanistan e l'altro al nuovo arrivato (che poi ero io).

Seguirono i discorsi dei due eurodepu~ati. Sebbene di posizioni politiche radicalmente opposte - ex corrispondente de «l'Unità>> e poi de «La Stampa» da Mosca, Chiesa era stato eletto con Rifondazione; stirpe di missini storici l'altro - entrambi illustrarono con serenità e pacatezza le loro posizioni sulla crisi afghana. Lo stesso La Russa jr. ed il capo dell'uNHCR Salvatore Lombardo, su sponde opposte, ai tempi delle vacanze estive alle pendici dell'Etna, conversarono amabilmente ricordando la Laverda 750 arancione del primo e il vespina del secondo. Le risse televisive nei tanti talk show politici di casa nostra erano lontane anni luce in quel salotto afghano. Per via della

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