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La deriva
from SENZA PACE
Con spazi di manovra sempre più limitati, l'azione internazionale non poteva che segnare il passo. Ogni nuovo attacco da parte degli insorti comportava inevitabili battute d'arresto ai programmi di assistenza. Le maggiori ripercussioni si ebbero dall'assalto alla foresteria delle Nazioni Unite nell'ottobre del 2009. Un raid commando-style, condotto all'alba da un gruppo armato fino ai denti. Ancora una volta fu un falso poliziotto a eludere la sorveglianza. I compagni scalarono le mura di cinta, per poi fare fuoco, una volta all'interno.
Chi poté sgattaiolò fuori in pigiama; molti non ebbero scampo, altri rimasero materialmente sotto il letto quasi tutta la giornata. Gli assalitori tennero testa, per quasi tre ore, ai rinforzi intervenuti, prima di essere sopraffatti dalle forze regolari afghane. Alla fine si contarono dodici morti, di cui sei dipendenti internazionali delle Nazioni Unite ed una cinquantina di feriti. Il più grave attacco nella storia della presenza ONU in Afghanistan, annotò sconsolato il portavoce Adrian Edwards.
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Notevole lo sdegno al Palazzo di Vetro e l'apprensione che ne scaturì sul terreno. Una parte consistente del personale fu evacuata a Dubai, altre organizzazioni fecero altrettanto. Il governo afghano espresse riserve sulla decisione degli internazionali e chiese il rientro, in tempi brevi, dello staff allontanato. Ma ci vollero mesi, prima che le condizioni lo rendessero possibile.
Al di là della precaria situazione sul terreno, ciò che ha influito negativamente sull'assistenza al Paese, sono state le contraddizioni dei tanti attori impegnati nello scacchiere afghano. Analizzando, come facevo io quotidianamente articoli e lanci di agenzie, si registravano con frequenza dichiarazioni divergenti. Non passava giorno che un premier europeo non esprimesse opinioni in contrasto con quelle di un omologo occidentale. Spesso le posizioni tra i titolari di Esteri e Difesa all'interno della stessa nazione risultarono differenti. Quando leggevo queste notizie al briefing mattutino, i volti del capomissione e del senior staff erano tra l'incredulo e lo sbigottito.
A seguire, elencavo le perdite delle ultime 24 ore. Impressionanti. Raramente, nell'arco di una giornata, non si registrava un caduto: il più delle volte un americano, inglese o canadese, nelle regioni sud
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ed est. Uno stillicidio. Notizie che le agenzie di stampa liquidavano con poche righe, lasciandole fuori dalla portata del grande pubblico. Gli incidenti dei britannici, in particolare, avevano tragicamente la stessa dinamica. Sempre le IED improvised explosive device. Non so chi abbia inventato questa denominazione, che lascia intendere scarsa professionalità dell'operatore. Mai ho visto mezzi improvvisati riuscire così bene nel loro intento. Sembrava proprio non esserci scampo per i soldati di Sua Maestà a bordo delle vetuste Land Rover blindate, ma anche le larghe HUMVEE americane non tenevano.
Per un buon periodo di tempo sembrò andar meglio ai Lince, blindati rvEco in dotazione alle truppe tricolori. Ventinove di questi incappati in incidenti gravi - mine, razzi e bombe varie - finirono rottamati, riuscendo tuttavia a far evitare il peggio agli occupanti. Il trentesimo attacco in cui fu coinvolto un Lince fu fatale. :Cordigno, piazzato sulla strada per Farah, lo squarciò: non ci fu nulla da fare per Alessandro Di Lisio, guastatore paracadutista molisano. La quattordicesima vittima italiana di ISAF.
I militari tricolori si scoprirono ali' improvviso nudi. Anche «san Lince», così soprannominato per lo scampato pericolo in ripetute occasioni, non teneva sempre. Forse i talib avevano affinato la tecnica o, più semplicemente, aumentato la quantità di esplosivo.
Un altro episodio che creò un certo nervosismo in ambito ITALFOR fu la polemica a distanza tra Silvio Berlusconi e il chief of staff ISAF Marco Bertolini. Nell'ambito di un piano di rafforzamento della sicurezza dei centri urbani il presidente del Consiglio aveva annunciato l'impiego dei soldati nelle grandi città. «Invece di essere un esercito che fa la guardia al "deserto dei tartari" sarà utilizzato per combattere l'esercito del male, ovvero la criminalità», così il premier a margine di un comizio a Sassari. Parole che non erano andate giù al generale della Folgore, il quale prese carta e penna e rispose per le rime.
Bertolini - figlio di un sergente maggiore sopravvissuto ad El Alamein, e con grandissimo seguito all'interno delle forze armate - in una lettera aperta al «Corriere» rilevò che quanto affermato dal primo ministro «avvilisce i soldati che, come me, operano fuori area, nonché quanti in patria, senza munizioni, senza carburante e senza ricambi per i mezzi si preparano a sostituirci», salutando ama-

reggiato «dall'avamposto della Fortezza Bastiani in Afghanistan», con ironico riferimento al romanzo di Buzzati citato da Berlusconi.
La sortita dell'italiano ISAF più alto in grado poteva anche passare in sordina, trattandosi di lettera al direttore come tante, firmata solamente da nome e cognome. Fu un attento caposervizio della redazione romana de «La Stampa», Francesco Grignetti, ad accorgersene, ricostruendo la vicenda nella sua interezza in un paginone del quotidiano torinese. L'impatto in ambienti militari fu notevole, tanto che nei vari siti di congedati (e non) si aprirono dei forum, presto subissati di e-mail pro-generale. Lo stesso ministro della Difesa La Russa prese in qualche modo le distanze dalla battuta del suo diretto superiore. Dagli scranni del Senato l'ex comandante ISAF Mauro Del Vecchio, nel frattempo eletto nelle file del PD, si schierò immediatamente a fianco dell'ex collega. E non fu un caso isolato. Da ampi settori d'opposizione arrivò prontamente solidarietà. Forse un po' troppa per essere sincera, se si pensa alle storiche diffidenze tra sinistra e paracadutisti. Anche da destra qualcuno andò a ruota libera. Il deputato forzista bergamasco Gregorio Fontana adombrò sospetti di un'imminente discesa in campo di Bertolini con il centro-sinistra, ipotesi - per chi lo conosce - lontana anni luce dalla realtà. Altri fedelissimi del premier si scagliarono contro il generale, accusandolo di lesa maestà. Più cauti gli ex AN, restii a contrapporsi a una gloria della Folgore. Mi venne in mente quel che Toni Capuozzo ripete spesso in dibattiti pubblici: tanti nostri politici parlano di Kabul, Nassiriyah e Libano perché a Palazzo Chigi o Montecitorio intendano. Difficile non dargli ragione.
D'altra parte le uscite di Bertolini avevano sempre fatto rumore; forse i nostri parlamentari erano di memoria corta o semplicemente non lo sapevano. Nel '97 al ministro della Difesa Beniamino Andreatta che definì omertosi i comportamenti di alcuni parà nella vicenda delle presunte torture in Somalia, Bertolini aveva replicato secco che «il termine omertà andava usato in altri ambienti e in altre occasioni». Due anni più tardi, raggiunto a Skopje - dove era il vice della forza NATO pronta a entrare in Kosovo - da Andrea Nicastro del «Corriere», dichiarò candidamente che gli imminenti raid aerei «non avrebbero risolto il problema, in assenza di una forte azione civile di supporto». Parole poco gradite al primo ministro dell'epoca

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