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Terrore five stars

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Il Caso Emergency

Il Caso Emergency

poteva mettere in discussione. Meglio quindi limitare il dibattito ed ostentare ottimismo. Così almeno si fece da noi, come pure in ambito comunitario.

Terrore five stars

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Se avevo ancora qualche residuo di ottimismo circa l'evolversi della situazione, pochi giorni dopo il mio arrivo era svanito del tutto. La giornata lavorativa volgeva al termine: mancava poco alle 18. Mi ero trattenuto in ufficio solo per sbrigare un po' di faccende personali; di lì a poco sarei andato nell'albergo, dove alloggiavo provvisoriamente, in attesa che finissero di imbiancare la stanzetta al comando UE.

Hai saputo del casino al Serena? Mi disse nel corridoio Massimiliano Bolis, un capitano dei carabinieri in forza a EUPOL. No, che è successo? Un commando ha assaltato l'hotel: ci sono dei morti, i terroristi sono ancora asserragliati, i nostri sono in pericolo, non ne so di più. Feci un rapido giro di uffici per raccogliere un pò d'informazioni. Andai pure dal medico che avevamo con noi, Gianfranca Russo, sempre pronta a intervenire nei momenti di crisi. Volevo saperne di più, prima di chiamare i due italiani della missione, che si presumeva fossero intrappolati, dopo aver lasciato il nostro compound alle cinque del pomeriggio.

Il Serena è il miglior albergo della capitale. Un cinque stelle di proprietà del capo spirituale ismailita Karim Aga Khan, costruito dopo la caduta dei talebani. Arredato con grande stile, dotato di due ristoranti, vanta una piscina di 25 metri ed un ampio giardino, pur essendo nel cuore della città. Comodo e confortevole, ma anche molto esposto. Alcuni funzionari internazionali e diplomatici ci vivono per lùnghi periodi e la UE lo usa per alloggiare il proprio staff, in attesa di una sistemazione permanente.Così era stato anche per me.

Alessandro De Rienzo, lega[ adviser della missione, mi rispose con un filo di voce. Non posso parlare, Andrea; chiama Francesca che ti dice tutto - e mise giù subito. Francesca lacona, pure dello staff EUPOL ( cugina del regista Rai Riccardo), era nella sua stanza chiusa a doppia mandata più chiavistello e serrande abbassate. Parlava piano anche lei per non essere ascoltata da eventuali assalitori

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in agguato nel corridoio. Mi disse che aveva udito dei botti tremendi, seguiti da raffiche di mitra. Chi poteva era rimasto in camera. Forse gli americani avevano già preso il controllo dell'albergo, ma era meglio aspettare che le cose si fossero calmate prima di uscire. La situazione rimaneva confusa. De Rienzo, invece, al momento dell'attacco si trovava in palestra - mi disse sempre Francesca. Un malintenzionato era arrivato fino a lì, facendosi largo sparando all'impazzata. Dopodiché ... si salvi chi può; ognuno dei presenti - internazionali ed afghani - aveva seguito l'istinto. L'italiano si era rincantucciato in un angolo della gym, senza luce. Ci rimase per due ore buone fino aJl'arrivo dei militari NATO e non fu una gioiosa liberazione. Ogni avventore del Serena poteva essere un membro del commando e per le procedure d'identificazione non si usarono i guanti bianchi.

Solo a tarda sera si riuscì a ricostruire l'accaduto. Il gruppo di assalitori si componeva di quattro uomini, camuffati da poliziotti. Uno si era fatto esplodere davanti al portone principale, aprendo la strada agli altri. Le prime raffiche avevano raggiunto le auto in attesa nel parcheggio interno - tutte fortunatamente blindate. Nella hall la sparatoria si protrasse per un buon quarto d'ora. Venne colpito a morte, tra gli altri, un fotografo norvegese al seguito del ministro degli Esteri di Oslo Jonas Gahr St0re; anche quest'ultimo era ospite dell'hotel e fu condotto di gran carriera nel bunker sotterraneo. Un attentatore si era invece diretto verso la palestra, sapendo di trovarci a quell'ora personale internazionale. La prima persona a cadere fu un'attendente filippina; poi fu centrato un cooperante americano di USA ID. Il bilancio finale fu di sei morti ed altrettanti feriti. Una carneficina. Le speranze di normalizzazione si allontanavano.

Per la notte, mi dovetti arrangiare sul tavolo dell'ufficio con sacco a pelo d'ordinanza. Prima di addormentarmi ripensai allo scampato pericolo; a quell'ora sarei potuto stare anch'io alla reception del Serena per prendere la chiave della stanza 307, dove ero alloggiato. La mente tornò alla messa scaligera di pochi ·giorni prima ed alle preghiere delle suore timorensi.

L'incidente ebbe un'eco relativa in Italia. La dinamica dell'accaduto non fu subito chiara e le notizie di agenzia risultarono di

conseguenza frammentarie. Solo Lorenzo Cremonesi, sempre ben informato su quello che accade tra Kabul e Baghdad, scrisse una mezza pagina sul «Corriere».

Fu quel giorno che mia madre venne a sapere che stavo in Afghanistan. Mi era mancato il coraggio di dirle che andavo di nuovo in missione; mi riservavo di farlo in tempi migliori. Bravo che vai a Bruxelles, quello è il posto giusto - mi aveva detto felice nel salutarmi al telefono. Scoprì la verità da una diretta radiofonica con Carmela Giglio del GRl.

I.:Afghanistan tornò prepotentemente nelle case degli italiani un mese dopo, a metà febbraio, con un altro tragico lutto. Questa volta toccava a «uno dei 100 del fortino di Surobi» (così li ribattezzò «Il Giornale»). Oltre alle forze di stanza nella capitale, a Camp Invicta, l'Italia - quale Paese responsabile della provincia di Kabul - manteneva un presidio nella valle di Uzbeen, ad est. Una zona considerata nevralgica ma anche molto insidiosa. A tenere le posizioni vi era una compagnia di Pistoia della Folgore ed altri parà alpini di un reggimento denominato Monte Cervino, ma che tutti chiamano all'americana rangers. Con loro, un gruppo di specialisti in attività di cooperazione civile-militare, una branca dell'esercito basata nel trevigiano, a Motta di Livenza, che ha visto un impegno crescente nelle missioni degli ultimi dieci anni. A cadere fu proprio uno del CIMIC, Giovanni Pezzulo, quarantacinquenne maresciallo casertano. Gli fu fatale una sosta durante un trasferimento, nel corso di una distribuzione di viveri; una scarica di fuoco, partita dalle montagne sovrastanti, lo prese in pieno. ·

Quando vidi la foto, capii che si trattava dello stesso esperto informatico con cui avevo diviso l'ufficio nella palazzina dell'Autorità di coalizione a Nassiriyah. Si occupava anche lì della ricostruzione. La morte lo aveva già sfiorato durante l'attentato del 2003 nella vicinissima base dei carabinieri.

Nell'agguato era inoltre rimasto ferito il maresciallo-ranger Enrico Mercuri, marchigiano; la famiglia viveva nella valle che separa Recanati da Macerata. Andai in aeroporto, dirigendomi verso il c-130 italiano, pronto a decollare per portarlo a Ciampino. Riuscii a vederlo all'interno dell'Hercules, dove giaceva sdraiato su una barella ed imbracato per il volo. Conoscevo il capitano medico dell'ae-

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