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Un occhio in Medio Oriente

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Il Caso Emergency

Il Caso Emergency

al circolo ufficiali di Verona - storica struttura sulle rive dell'Adige - esaltai l'opera delle suore nella turbolenta Timor Est. Due giorni dopo il settimanale diocesano di grande diffusione «Verona Fedele» titolava Le Nazioni Unite lodano le Canossiane. Il lungo articolo, pieno di dettagli sull'attività delle religiose, tratti dai miei racconti, rimbalzò a New York, oltre che a Dili. Il nunzio apostolico all'ONU Celestino Migliore mi ringraziò per l'intervento. Caro Angeli - mi scrisse l'arcivescovo-diplomatico - so che le sorelle stanno compiendo una mirabile opera umanitaria, ha fatto bene ad evidenziarlo.

Al ritorno in missione la superiora suor Jolanda mi volle incontrare e nel giorno della sosta nella capitale andai a trovarla. Era alloggiata in un grande edificio di un povero quartiere di Dili. Mi raccontò che, durante i disor4ini del '99, un migliaio di persone terrorizzate e numerosi feriti avevano chiesto rifugio a loro. Si erano accampati alla meglio in uno spiazzo con una larga tettoia e per mesi le canossiane avevano provveduto con un piatto di minestra e quant'altro potessero rimediare. Una seconda ondata era giunta dopo gli scontri del 2006, un centinaio erano ancora li.

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Mi chiese poi notizie di un avventuroso magistrato udinese, Francesco Florit, membro del team speciale che aveva provvisoriamente amministrato la giustizia per conto delle Nazioni Unite e di Giorgio Cornacchione, il generale comandante di ITALFOR-Timor Est, che le era stato molto vicino nel dopoguerra. Conoscevo bene l'ufficiale in questione, ora alla guida del Comando operazioni all'estero, il co1. Era stato il capo dell'avanguardia italiana a Sarajevo e poi eravamo stati insieme a Nassiriyah. Fornii loro indirizzo e-mail e cellulare, come pure quello di alcuni amici della Folgore, che erano nelle preghiere delle suore per quanto avevano fatto a Dili.

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Le sere da esiliato erano dure da riempire. Al termine della giornata lavorativa si poteva andare a fare una corsetta sotto le palme, una chiacchierata con le suore oppure far visita alla Casa de Professores, una vilJa curata dove sei giovani insegnanti inviate da Lisbona aiutavano i docenti locali nei corsi di portoghese. Fine dei giri. Non

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restava che tornare in ufficio, per il parco rancio serale ed aggrapparsi a internet - quando funzionava. Altro legarne col mondo era la linea telefonica interna ONU. Marcando un prefisso a tre cifre e l'interno desiderato si poteva comunicare senza limitazioni di tempo con le altre missioni in giro per il mondo.

La prima chiamata era per Oriano Micaletti, un vecchio arnico teramano ex Kosovo anche lui. Da un anno guidava i protection officer ONU nei villaggi del Darfur sotto tiro - dove è stoicamente tuttora presente. Ci facevamo compagnia vicendevolmente da avamposti solitari e comunque, in previsione di un approdo da quelle parti dopo l' assignment temporaneo a Timor, mi interessavano gli sviluppi nella provincia sudanese. Poi mi sentivo con vari italiani di UNIFIL. Il desiderio di poterci approdare era rimasto ed in ogni caso ci tenevo a seguire una missione che aveva rilanciato l'immagine delle Nazioni Unite e in cui credevo molto.

In Italia, tuttavia, le opinioni erano state discordanti durante la fase di avvio della spedizione. Una corrente di pensiero all'interno delle forze armate aveva sconsigliato di imbarcarsi in una impresa su grande scala gestita dall'ONU. Lo stesso comandante del coi Fabrizio Castagnetti, in seguito alla guida dell'Esercito, espresse pubblicamente le proprie riserve in una intervista al «Corriere della Sera», ben poco apprezzata ai piani alti del Palazzo di Vetro.

Anche tra i politici dell'allora opposizione di centro-destra si registrarono molte voci critiche circa il nuovo impegno militare, il più delle volte con argomentazioni inconsistenti. In sostanza si riteneva, con una certa superficialità, che solo regole d'ingaggio più che robuste avrebbero assicurato il successo dell'operazione Libano. A prescindere dal fatto che sarebbe stato praticamente impossibile, in sede ONU, ottenere quello che è in sostanza il diritto di sparare per primi, e l'alternativa sarebbe stata rinunciare alla missione, gli anni a venire hanno mostrato - basti pensare all'Afghanistan - i guai provocati da peacekeepers dal grilletto facile.

Dopo qualche settimana le polemiche si stemperarono. A destra alla fine compresero che il destino aveva fatto sì che Berlusconi si fosse dovuto occupare di una spedizione scomoda e controversa - quella irachena , Prodi, invece, di una più lineare e gestibile. Attaccare e criticare non serviva a nulla, anzi era controproducente.

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A mettere fine alle discussioni aveva anche contribuito l'inizio lusinghiero della nuova avventura nel Paese dei cedri.

Io ero dell'idea che a Roma avrebbero fatto meglio a cercare per tempo gli uomini giusti per il nuovo impegno, piuttosto che perdersi in diatribe senza fine sulle regole d'ingaggio. Ormai c'eravamo dentro: impensabile tornare indietro.

La chiave del successo fu in buona parte quella. Il comando dei duemila italiani e lo sbarco dei fucilieri del San Marco furono affidati a due tra gli ufficiali più esperti in operazioni di questo tipo, gli ammiragli De Giorgi e Confessore. A terra, diedero manforte ai cugini mar6 i collaudatissimi lagunari del colonnello Motolese. Nel giro di poche settimane il dispiegamento sul territorio fu completato in maniera esemplare e il primo ITALFOR -i cavalieri del generale Gerometta - insieme a rinforzi francesi stabilizzarono le zone calde del Libano meridionale. Nel frattempo, il titolare degli Esteri Massimo D'Alema, consapevole delle complessità e della delicatezza dell'intera operazione, aveva affiancato ai nostri soldati una vecchia volpe di quella parte del mondo arabo. Giuseppe Cassini, che era stato ambasciatore a Beirut nel quadriennio '98-02, fornì parecchie dritte agli ufficiali in prima linea, ma sopratutto si adoperò per creare un clima di fiducia reciproca tra il contingente italiano ed i leader delle varie fazioni libanesi.

Parallelamente, l'Italia fece pressione per avere al quartier generale di New York una cellula esclusivamente dedicata a seguire la missione. Nonostante le resistenze iniziali del Segretariato, la proposta fu accettata e militari dei Paesi maggiormente impegnati in UNIFIL furono inviati in pianta stabìle al Palazzo di Vetro per monitorare l'attività delle forze ONU nel sud del Libano. Alla guida della neonata struttura fu chiamato il comandante delle forze operative del Nord Italia Giovanni Ridinò.

Dopo il primo semestre, il comando di UNIFIL passò al generale italiano Claudio Graziano, un alpino di grande spessore. Per tre anni diresse le operazioni con professionalità e determinazione, superando, una dopo l'altra, le inevitabili e periodiche incomprensioni con le autorità israeliane e libanesi. Mi sentivo spesso col portavoce della missione, il màggiore Diego Fulco e si notava distintamente, al telefono, l'ottimismo é l'entusiasmo della grande squadra italiana-ONU.

Una sfida vittoriosa rattristata dalla scomparsa per un male incurabile, poco dopo il ritorno dalla missione, del comandante in seconda del San Marco, Stefano Cappellaro. Una storia forse d'altri tempi quella di Cappellaro, veneziano quarantaseienne, pugliese d'adozione per aver trascorso più della metà della sua breve vita con i mar6 brindisini (fu proprio lui nel '97, dal tetto dell'hotel Bologna di Valona, a difendere armi in pugno i giornalisti internazionali attaccati dai rivoltosi). Alla vigilia della partenza per il Libano, il veterano capitano di fregata aveva avuto sentore che qualcosa stesse minando il suo fisico. Ma voleva a tutti costi essere in prima linea, ancora una volta, per un nuovo delicato impegno oltreconfine. Mi raccontarono i suoi - incontrati tempo dopo nel chiostro di San Francesco di Ostuni, in occasione di un incontro sulle missioni di pace - che delle macchie bianche iniziarono a manifestarsi sul suo corpo durante la missione. Ne parlò con pochi. Soffrì molto, in silenzio, specialmente negli ultimi tre mesi. Tirò avanti con sedativi ed altri medicinali, ma non perse un colpo. Volli ricordarlo in quella serata salentina con un minuto di raccoglimento; sulle guance di molti fucilieri di marina scesero le lacrime: era il loro mito.

A oggi, tuttavia, quella è ancora una missione che fa discutere, soprattutto a destra. La dicono lunga i giudizi di due ministri della Difesa, entrambi del PDL. Cattuale responsabile del dicastero Ignazio La Russa ha dichiarato di recente che UNIFIL è la missione che ha dato maggiori soddisfazioni. li predecessore nel Berlusconi II Antonio Martino mantiene tutte le riserve espresse al tempo del dispiegamento.

Io rimango dell'opinione che l'esperienza libanese recente sia il migliore esempio di ciò che il peacekeeping può ragionevolmente ottenere. Ma non tutti sono d'accordo su quest'analisi; mi è capitato più volte di dissentire pubblicamente sull'argomento con l'amico del TGS Toni Capuozzo. Il mondo non è perfetto e difficilmente lo potrà essere; bisogna ogni tanto accontentarsi dei risultati ottenuti in operazioni per il mantenimento della pace. Pensare che uomini e donne in armi ed un manipolo di civili possano ribaltare radicalmente le sorti di un Paese in rovina è forse un'utopia.

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