
11 minute read
Conclusioni
Conclusioni
Nel novembre del 1943 l’AVNOJ adottò a Jaice una serie di storiche risoluzioni con le quali si costituiva supremo organo legislativo e rappresentativo jugoslavo, ponendo le basi della nuova Jugoslavia socialista, con un sistema rivoluzionario di potere fondato su una struttura di tipo federale. Mentre l’esercito di liberazione controllava settori di territorio jugoslavo sempre più estesi, le truppe tedesche ripiegavano rendendo la presenza nello Stato Indipendente Croato sempre meno consistente.
Advertisement
Il 6 maggio 1945 il Poglavnik abbandonò Zagabria – due giorni dopo gli uomini di Tito sarebbero entrati in città – e con l’aiuto delle superstiti retroguardie tedesche si rifugiò in Austria: sulle sue orme anche Maček, migliaia di ustaša e centinaia di religiosi. Un’immensa colonna di ustaša, soldati dell’esercito regolare croato e civili, fuggita nella Carinzia per consegnarsi agli inglesi, fu riconsegnata a Tito nei pressi di Bleiburg, finendo in buona parte uccisa dai partigiani nei caotici giorni successivi, ritenuti tutti indistintamente compromessi con il regime. Anche Mile Budak e Slavko Kvaternik furono arrestati al loro arrivo in Austria dalle truppe britanniche e consegnati all’esercito jugoslavo, processati e fucilati. Uccisi dai partigiani, tra gli altri precedentemente menzionati, anche Vladimir Laxa, Juco Rukavina e David Sinčić.
La Jugoslavia, dopo quattro anni di occupazione e guerra civile, si trovava in una situazione di assoluta devastazione, con almeno un milione di morti in guerra, nei campi di concentramento o vittime della violenza interetnica o ideologica. Numerosi ustaša, un poco alla volta, arrivarono a Roma per essere indirizzati verso il continente americano. In momenti e situazioni differenti, anche Eugen Kvaternik-Dido, Andrija Artuković (estradato dagli Stati Uniti nel 1986 e morto in carcere a Zagabria), i commissari presso la 2ª Armata Andrija Karčić e Nikola Rušinović. Pavelić vi arrivò nel 1946, per poi muovere alla volta dell’Argentina. A Buenos Aires costituì una sorta di governo croato in esilio insieme a Vjekoslav Vrančić ed avviò la pubblicazione del periodico Hrvatska, giornale dell’emigrazione separatista. Gli ustaša avrebbero continuato a far parlare di sé in occasione di omicidi di autorità jugoslave, atti terroristici ed episodi di lotta armata nello stesso territorio jugoslavo. Il 10 aprile 1957, anniversario della proclamazione dello Stato Indipendente Croato, il leader ustaša rimase ferito in un
attentato di un esule montenegrino presumibilmente assoldato dai servizi segreti jugoslavi. Nei mesi successivi Pavelić approdò nella Spagna franchista, a Madrid, dove morì nel dicembre del 1959.
Le relazioni tra Italia e Stato Indipendente Croato si rivelarono fin dall’inizio estremamente complesse e la questione dalmata rimase, fino alla caduta del fascismo, il maggiore motivo di contrasto avviando una serie di ostilità crescenti che compromisero in partenza i rapporti tra Roma e Zagabria. All’indomani della proclamazione dello Stato Indipendente Croato, che il governo di Roma preferiva chiamare Regno di Croazia, in quanto formalmente Stato monarchico offerto ad un principe di Casa Savoia, Mussolini e Pavelić avevano stabilito la spartizione della costa adriatica e delle isole con una soluzione che non aveva accontentato nessuno: i croati continuarono a sentirsi defraudati di un loro legittimo territorio, gli italiani videro giorno dopo giorno il fallimento di una politica imperialista che mostrava tutti i suoi limiti, aggravati peraltro dai contrasti con i propri alleati. In modo superficiale l’Italia fascista, in linea con l’altalenante politica estera tenuta nei confronti della Jugoslavia monarchica nel corso degli anni Trenta, sottovalutò le conseguenze delle annessioni in Dalmazia, considerata dai croati la culla della propria identità nazionale. Da qui una frattura insanabile: unica e breve soddisfazione italiana l’aver reso momentaneamente l’Adriatico l’agognato Mare Nostrum. Il governo di Zagabria, che avrebbe dovuto tutelare gli interessi italiani tramite la figura del Poglavnik, fin dal suo insediamento assunse atteggiamenti fortemente anti-italiani, così come la popolazione croata. Hitler, pur rassicurando l’alleato italiano sull’esclusiva influenza accordata sullo Stato Indipendente Croato, si presentò come sostenitore dei diritti croati, per affermarvi la supremazia tedesca.
Le divergenze più acute all’interno della leadership croata furono un riflesso dell’atteggiamento e della condotta adottata nei confronti dell’Italia, orientamento che ispirato nel Poglavnik da un certo senso di alleanza, non appena fuori dal suo ristretto ambito si tramutava in fredda e calcolata diffidenza, per divenire aperta ostilità negli organi esecutivi periferici. Si pensi solamente al generico divieto di esportazione delle derrate alimentari posto dalle autorità centrali croate come indispensabile per la tutela della situazione alimentare del Paese ed eseguito alla lettera dalle locali autorità croate di confine: il provvedimento fu scrupolosamente osservato solo nei confronti dei territori dalmati annessi all’Italia, con rigorosi controlli, mentre quasi quotidianamente dall’immediato retroterra di Zagabria interi vagoni merci partivano alla volta della Germania. Vi fu da parte italiana il serio dubbio che il provvedimento così rigidamente osservato, più che inteso a tutelare l’economia nazionale fosse intenzionalmente escogitato ad impedire la penetrazione italiana e l’assimilazione delle terre annesse, esasperando la crisi di viveri locali e di riflesso la già diffusa ostilità della popolazione. In tutto ciò le figure di primo piano del regime ustaša rimasero del tutto indifferenti alle manifestazioni di palese malevolenza verso gli italiani.
L’irredentismo generato dall’annessione delle provincie dalmate ed il timore che l’Italia tendesse ad esercitare un’incontrastata egemonia sul Paese, le alienarono anche le simpatie degli intellettuali e del ceto medio-borghese gravitante intorno all’industria e al commercio; l’opinione pubblica croata accusava apertamente Pavelić di aver venduto la Dalmazia per la presa del potere. Fatta eccezione per il Poglavnik, che avrebbe tuttavia finito con il subire l’influenza dei suoi più immediati collaboratori, lo Stato, la quasi totalità del movimento ustaša e in generale gli ambienti ufficiali croati erano decisamente filo-tedeschi, mentre nei rapporti con l’alleato italiano, per quanto improntati ad apparente ostentata cordialità, trapelava un senso di corretta freddezza e di attesa di un evento che apportasse ad un chiarimento. Lì dove i militari italiani avevano assistito con eccessiva passività alle violenze degli ustaša infine avevano deluso anche serbi ed ebrei, che intravedevano nel Regio esercito una possibilità di protezione. Tutto ciò rendeva impossibile l’esecuzione dei patti di Roma e la stretta collaborazione italocroata prevista e a ben poco sarebbe servita l’incoronazione del principe sabaudo designato al trono, poichè l’evento stesso, tutt’altro che desiderato, era osteggiato in massa.
Di conseguenza la collaborazione dei comandi italiani con le bande di četnici insorte in seguito alla sconfitta jugoslava e agli eccessi commessi dagli ustaša divenne sempre più attiva con l’aumentare dei contrasti del governo di Roma e del comando della 2ª Armata con il regime di Zagabria e le autorità militari croate, portando, più o meno volontariamente, alla creazione di una coalizione serboitaliana contrapposta alla croato-tedesca, in lotta tra loro e contro Tito per la supremazia nei territori dello Stato croato. Il sostegno e le armi fornite dalle autorità militari italiane ai četnici contro i partigiani provocarono le proteste tedesche e l’ostilità croata e lo stesso Pavelić invocò l’intervento di Berlino contro la politica militare italiana. L’alleato italiano fu ritenuto dagli ustaša il maggiore responsabile dell’inasprimento della lotta intestina tra nazionalità jugoslave, attribuito invece dai comandi militari italiani alle violenze degli uomini del Poglavnik.
L’alleanza italo-croata si evolse rapidamente, nei diversi ambienti politico, militare, economico, in una conflittualità a diversi livelli. Da parte italiana, vi fu una notevole differenza di vedute tra gli ambienti militari – i generali della 2ª Armata furono critici nei confronti dell’alleato ustaša fin dal 1941 – e quelli diplomatici, decisamente più concilianti con l’alleato di Zagabria: la Legazione italiana nella capitale croata sostenne le scelte del governo croato fino a gran parte del 1943, criticando gli atteggiamenti filo-serbi dei militari italiani. Dal lato ustaša, invece, la flessibilità che caratterizzò le posizioni del Poglavnik si contrappose decisamente all’intransigenza degli ambienti croati più vicini alla Germania nazista. Lo Stato Indipendente Croato in definitiva non solo non adempì ai propositi italiani, ma si rivelò principalmente un’occasione per rivendicare nel più primitivo dei modi la specificità e la diversità nazionale croata nei confronti di
serbi, ebrei e rom, che pagarono duramente le conseguenze dell’avvento al potere del Poglavnik nei territori croati e bosniaci, con gli ustaša mossi più da risentimenti e vendette personali che da un vero e proprio, sebbene astratto e primordiale, sentimento di patriottismo.
In seguito alla rioccupazione della seconda e della terza zona la diplomazia italiana tentò di rinsaldare i rapporti con lo Stato Indipendente Croato e consolidare quelli tra le autorità militari italiane e croate, cercando di ripristinare la supremazia della politica ufficiale di Roma sulla 2ª Armata. I risultati non furono quelli attesi ed il tentativo di pacificazione e normalizzazione del territorio fallì: seguirono, con l’inasprirsi dello scontro e l’avanzata dei partigiani, le scelte più drastiche, come i rastrellamenti, l’internamento dei civili, le rappresaglie, rimaste impunite nel dopoguerra grazie ai rapidi cambiamenti del contesto internazionale. Il giudizio sui militari italiani in Jugoslavia rimase a lungo e rimane tutt’oggi diviso ed un tema sul quale ci si confronta con difficoltà: l’opinione pubblica internazionale fu propensa a giudicarli colpevoli e criminali di guerra, quella italiana fu incline a considerarli brava gente.
Luca Pietromarchi, plenipotenziario del Ministero degli Affari Esteri, sorvolando sulle responsabilità proprie e del governo di Roma nella fallimentare politica italiana nello Stato Indipendente Croato, nel giugno del 1943 accusò i comandi militari e Ciano – che non aveva voluto contrastare la politica dei militari nello Stato croato – quali responsabili della disfatta. Gli accordi confinari e di sistemazione dell’Adriatico erano stati imperniati su una stretta intesa con i croati, ma il comando della 2ª Armata si era opposto al governo di Zagabria, rifiutando ogni collaborazione ed alleandosi con i peggiori nemici della Croazia – i serbi –armati e liberi di sfogare le loro vendette contro croati e musulmani. Erano stati quindi i militari italiani a rifiutare la politica di alleanza e a generare l’odio contro l’Italia, l’intransigente irredentismo e la decisione del governo ustaša di legarsi sempre più strettamente ai tedeschi che, al contrario degli italiani, avevano svolto con abilità la politica che il Ministero degli Esteri italiano aveva sempre sostenuto – supporto agli ustaša e disarmo dei četnici – sminuendo dinanzi alle popolazioni jugoslave il prestigio di Roma e del Regio esercito. Sostanzialmente era mancata la subordinazione dei comandi militari alla politica del Ministero degli Esteri, che non aveva potuto esercitare l’unità di direttive condizione essenziale del successo, mentre Berlino – sosteneva Pietromarchi – aveva attuato perfettamente la politica di occupazione, contrapponendo tra loro le diverse nazionalità in modo da neutralizzarsi a vicenda, ma dimostrando ufficialmente di voler dare la supremazia politica ai croati.
La realtà era però alquanto diversa. Pietromarchi ometteva i numerosi tentativi di collaborazione con gli ustaša condotti senza successo dalle autorità militari italiane, il fatto che l’egemonia tedesca era una realtà già al momento dell’occupazione e che il governo di Zagabria, sin dall’inizio, era stato tutt’altro che affidabile, come spesso posto in evidenza, nonché poco disposto a sottostare
alle direttive di Roma. Il plenipotenziario rimuoveva molte delle responsabilità già insite nella superficiale ed ingenua politica estera effettuata nei confronti del vicino jugoslavo, ritenuto il facile obiettivo per le velleità imperialiste dell’Italia fascista.
Italia e Jugoslavia avrebbero mantenuto aperta la questione del confine, causa di forte contrasto non solo nel periodo interbellico ma anche nella parentesi dello Stato Indipendente Croato, ancora per diversi anni. I partigiani jugoslavi raggiunsero Trieste il 1° maggio 1945, prima delle truppe alleate e di aver liberato Lubiana e Zagabria. Durante i quarantacinque giorni di occupazione jugoslava della Venezia Giulia si replicarono le rappresaglie sugli italiani già avvenute in Istria all’indomani dell’armistizio. I processi e le esecuzioni coinvolsero l’intera popolazione, nelle campagne e nei paesi come nelle città. Il movimento di liberazione jugoslavo ne approfittò per esautorare anche il Comitato di Liberazione Nazionale italiano, nonostante la comune lotta al nazi-fascismo ed una sostanziale tendenza della resistenza comunista italiana favorevole alla Jugoslavia socialista. Migliaia di militari e civili italiani passarono dalla prigionia tedesca a quella jugoslava con il progressivo spostamento del fronte verso occidente e la liberazione del Paese; appartenenti a unità militari, paramilitari e di pubblica sicurezza fatti prigionieri in Venezia Giulia furono internati in territorio jugoslavo. Il loro rientro in Italia fu legato alle varie questioni che contrapposero i due Paesi al termine della guerra, in primis l’estradizione degli accusati di crimini di guerra.
Nel 1946 la Conferenza di Parigi stabilì le clausole del trattato di pace e le decisioni in merito al confine. Una prima soluzione assegnava alla Jugoslavia gran parte dei territori rivendicati (inclusa l’Istria con Fiume e Pola), all’Italia la parte occidentale della Venezia Giulia con Gorizia e Monfalcone e internazionalizzava la città di Trieste, creando il rispettivo Territorio Libero (1946) posto sotto l’amministrazione delle Nazioni Unite. Successivamente il trattato di pace del 10 febbraio 1947 privò definitivamente l’Italia dell’Istria, di Zara, delle isole Cherso, Lussino, Lagosta e Pelagosa. Il Territorio Libero di Trieste di fatto non venne mai costituito e l’area continuò ad essere divisa tra la zona A amministrata dal governo militare alleato e la B dall’esercito jugoslavo. L’esodo dei giuliano-dalmati intanto era iniziato ben prima dell’entrata in vigore del trattato di pace e già dal 1944 andavano abbandonando Zara e Fiume, le isole e la penisola istriana.
Le relazioni italo-jugoslave subirono un’evoluzione imprevista nel 1948 con la rottura fra Tito e Stalin. In seguito alla scomunica dal campo socialista la Jugoslavia si allontanò da Mosca ottenendo il progressivo sostegno occidentale. La posizione della Jugoslavia nell’ambito del confronto bipolare fu fondamentale anche per l’Italia. Uno Stato jugoslavo determinato a difendere la propria autonomia dall’Unione Sovietica significava disporre di una discreta sicurezza e alleviare oneri politici, militari ed economici. La Jugoslavia si rivelò anche un buon partner commerciale. Nell’irrisolta questione confinaria, tuttavia, l’Italia vedeva
allontanarsi il supporto di Stati Uniti e Gran Bretagna, disposti ad integrare la Jugoslavia nella politica di sicurezza europea. A Londra il Memorandum d’Intesa del 5 ottobre 1954 stabilì il passaggio dell’amministrazione della zona A, inclusa Trieste, allo Stato italiano e della zona B alla Jugoslavia, con allegato uno statuto speciale rivolto alla tutela delle rispettive minoranze nazionali. Gli accordi sul confine furono infine ratificati ad Osimo nel 1975, ponendo sostanzialmente la parola fine alla questione del confine orientale lasciata in eredità a Italia e Jugoslavia dal crollo dell’Impero austro-ungarico al termine della Prima guerra mondiale.