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3. Gli anni del rifiuto
3. Gli anni del rifiuto
Preceduta da queste difficoltà alla fine di agosto si svolse nei diversi mandamenti della provincia forlivese l'estrazione a sorte, che sancì l'inizio vero e proprio delle operazioni della prima leva post-unitaria. Il clima di forte malcontento popolare che aveva caratterizzato i due mesi successivi all'introduzione della coscrizione obbligatoria, concretizzandosi anche in manifestazioni spontanee di ribellione violenta, preoccupava le autorità locali che paventavano il fallimento di questa prima esperienza. In particolare, esse temevano che il momento del sorteggio potesse rappresentare un'occasione per organizzare e rafforzare una protesta che fino ad allora si era frammentata in una serie di episodi isolati. La presenza contemporanea di tutti i giovani obbligati alla leva di uno stesso mandamento assumeva i connotati di una massa potenzialmente pericolosa. Di queste preoccupazioni si fece interprete l'intendente del circondario di Rimini scrivendo nei giorni immediatamente precedenti l'estrazione all'intendente provinciale: "Spero non avverranno torbidi" (46). Il sorteggio, nonostante i timori nutriti dalle autorità, si svolse in tutti i mandamenti "con la più desiderabile regolarità, senza che l'ordine pubblico sia stato menomamente turbato" (47). Al buon andamento dell'operazione e alla mancata insorgenza di incidenti non era forse stata estranea la presenza in ogni capoluogo di mandamento di una "Compagnia di Regie Truppe" (48). Non solo non si verificarono i temuti disordini, ma in alcuni mandamenti i giovani intervenuti dimostrarono un insospettato coinvolgimento emotivo: se a Cesena la "più perfetta tranquillità non disgiunta da qualche allegria [regnò] pendente l'operazione" (49), a Sant'Arcangelo l'estrazione fu caratterizzata addirittura dalla "contentezza ed entusiasmo generale" dei coscritti (50). La malcelata soddisfazione che traspare dai rapporti inviati dai funzionari periferici all'intendente generale della provincia sull'andamento del sorteggio era giustificata dalle aspettative negative formulate alla vigilia dell'estrazione. Le autorità locali furono tuttavia costrette ad ammettere che il positivo risultato conseguito sotto il profilo dell'ordine pubblico era stato in parte vanificato dal numero assai scarso di coscritti che si era presentato ad estrarre il proprio numero. Nei mandamenti di Bertinoro e Sogliano intervenne infatti appena un terzo dei giovani, in quelli di Cesena, Forlì, Savignano e Sarsina i presenti furono circa la metà, nei restanti la percentuale fu vicina ai due terzi. L'unica eccezione era costituita dal mandamento di Sant'Arcangelo con solo 5 mancanti su 73 inscritti nelle liste. I responsabili locali dell'estrazione, preoccupati di fornire ai diretti superiori motivazioni accettabili della scarsa affluenza dei coscritti, assicuravano tuttavia che tra i mancanti alcuni avevano giustificato l'assenza con motivi di legale impedimento, altri non si erano presentati perché già arruolati nell'esercito regio, altri ancora perché erano accorsi come volontari in Sicilia e nelle Marche (51). Solo il sindaco di Bertinoro avanzava, seppure timidamente, una causa diversa e meno tranquillizzante:
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taluni dei suddetti giovani inscritti dicansi, con qualche fondamento, fuggiti e diretti pei Domini Pontifici, forse per sottrarsi alla leva stessa (52).
La fuga all'estero dei coscritti non era tuttavia un fenomeno limitato a questo comune, ma rappresentava una forma individuale di rifiuto della leva obbligatoria che era andata assumendo dimensioni decisamente preoccupanti. All'inizio di agosto, ad esempio, l'intendente provinciale era stato informato che a Rivoschio, nei dintorni di Sarsina, era "continuo sulla linea di confine di quel territorio con lo Stato Pontificio il passaggio di giovani che varcano il confine per causa della leva", facilitati dalla natura impervia della zona e dalla "rennenza della [Guardia] Nazionale a prestare l'opportuno servizio" (53). Nelle settimane che avevano preceduto il sorteggio le segnalazioni di espatri di giovani iscritti nelle liste della coscrizione erano state talmente numerose da provocare 23
uno specifico intervento governativo. L'apposita circolare emanata dal ministro della guerra Fanti intendeva in particolare porre un freno agli arruolamenti clandestini nell'esercito pontificio:
alcuni giovani e delle antiche e delle nuove Provincie del Regno [...] si recano a prendere servizio militare fuori del nostro Stato. Alcuni di essi ignorano forse, e specialmente quelli delle nuove Provincie, i loro doveri verso la leva (54).
Ai sindaci fu pertanto ordinato di prestare una maggiore vigilanza sugli espatri dei giovani:
Se poi alcuno dimandasse Passaporto all'Estero, e conoscesi Ella che per l'età fosse soggetto alla leva non lascierà intentato alcun mezzo per persuaderlo a desistere da tale dicisamento, e gli negherà nel tempo istesso il regolare attestato (55).
Sembra quindi legittimo ipotizzare che una quota, probabilmente rilevante, dei coscritti mancanti al sorteggio avesse già scelto di fuggire all'estero o di nascondersi nelle campagne per non ottemperare all'obbligo della chiamata. Accanto a questi, dovevano essere numerosi anche coloro che, ostili alla leva ma ancora incerti sulla scelta da compiere, non si presentarono all'estrazione restando in attesa degli sviluppi della situazione. In ogni caso il numero degli assenti appare troppo ampio per essere giustificato dalle altre motivazioni addotte dai responsabili del reclutamento (56). Il quadro complessivo che emerge a conclusione dell'estrazione a sorte risulta quindi estremamente contraddittorio. Se da un lato "l'ordine e la tranquillità" che caratterizzarono il suo svolgimento sembrano testimoniare un'immediata e quasi indolore accettazione della leva, dall'altro la scarsa partecipazione dei coscritti lascia intravedere la diffusione di un atteggiamento di rifiuto o perlomeno di sostanziale indifferenza verso il nuovo obbligo. Per tentare di spiegare il comportamento ambivalente dei coscritti è pertanto necessario seguire le fasi successive delle operazioni di reclutamento. All'esame definitivo la partecipazione fu maggiore, anche se continuarono ad essere assai numerosi gli assenti. Anche in questa occasione non mancarono differenze stridenti nel comportamento dei coscritti: se soltanto un giovane del mandamento di Mercato Saraceno, su un totale di 88 iscritti, si presentò al consiglio di leva di stanza a Cesena (57), gli inscritti di Sogliano giunsero invece nel capoluogo "in drappello preceduto dalla bandiera nazionale" e furono accolti "dalla banda del Comune e dalla Guardia Nazionale ed accompagnati con festa al palazzo Municipale" (58). Le autorità preposte al reclutamento, preoccupate dall'alto numero di renitenti che si andava profilando, accordarono ai giovani mancanti "brevi dilazioni", confidando che almeno qualcuno di questi si sarebbe presentato entro il termine ultimo fissato per non incorrere nella dichiarazione di renitenza. In precedenza era già stata sollecitata la collaborazione dei parroci affinché, "nel precipuo vantaggio e bene dei loro parrochiani", convincessero i coscritti a comparire davanti ai consigli di leva:
coloro che non si presentassero [...], oltre di scadere dagli accennati vantaggi dell'esenzione incorreranno nella pena di multa e carcere, saranno esclusi dal beneficio del numero che loro sia [toccato] in sorte perdendo ogni probabilità di essere collocati nella riserva (59).
Gli sforzi messi in atto dalle autorità non conseguirono gli esiti sperati. A conclusione delle operazioni di leva, all'inizio di ottobre, il numero dei coscritti dichiarati renitenti risultò altissimo in tutta la provincia: i refrattari furono 137 nel circondario di Forlì, 122 in quello di Cesena e 119 in quello di Rimini. La percentuale di renitenti, calcolata sul totale degli inscritti nelle liste d'estrazione, era rispettivamente del 23, 70%, 17, 18% e 20, 88%, attestandosi a livello provinciale sul 20, 34% (60).
La renitenza, coinvolgendo un quinto dei giovani soggetti alla leva, aveva indubbiamente assunto una dimensione di massa. L'ampiezza del fenomeno è confermata da un confronto con la quota complessiva di renitenti che venne registrata dalla leva della classe 1839: nei 52 circondari interessati il tasso di renitenza toccò un livello sensibilmente inferiore, pari al 6, 58%. Con valori percentuali tre volte superiori alla media i circondari forlivesi erano tra quelli che denunciavano il maggior numero di renitenti. Il circondario di Forlì, nella specifica graduatoria redatta dal generale Torre, era preceduto soltanto da quelli di Chiavari e Cento, mentre i circondari di Rimini e Cesena occupavano rispettivamente la settima e l'undicesima posizione (61). L'alto numero di renitenti denunciato dal forlivese era un dato comune anche alle altre provincie romagnole: indici altrettanto elevati caratterizzavano infatti il ferrarese (23, 12%) e il ravennate (15, 50%), mentre la provincia di Bologna si attestò fin dalla prima leva post-unitaria su di un tasso di renitenza molto basso (3, 72) (62). Il calcolo delle percentuali su base regionale sottolinea ulteriormente l'incidenza della renitenza nelle Romagne. La quota di renitenti delle provincie romagnole (14, 44%) era di non molto inferiore a quella della Liguria (18, 49%), tradizionalmente contraddistinta da alti livelli di renitenza, ma superava nettamente quella della Sardegna (4, 22%) e del Piemonte (1, 92%) (63). La mappa della renitenza che emerge dalla prima leva post-unitaria lascia quindi intravedere la spaccatura esistente tra le "antiche provincie" dello stato (caratterizzate da un tasso complessivo del 5, 00%) e quelle appena annesse delle Romagne, ovvero tra un'area abituata da tempo alla leva e una regione soggetta per la prima volta a questo obbligo. Il generale Torre, nella sua prima relazione, giustificava appunto con la "novità della coscrizione militare" l'elevato numero di renitenti delle provincie romagnole:
Di ciò non è punto a far meraviglie, laddove si rifletta come [...] le Romagne [...] prima della costituzione del Regno Italiano, non fossero tenute, per riprovata misura di Governo, all'obbligo del servizio militare; come perciò abbia facilmente allignato nell'animo di quei giovani una naturale ripugnanza al mestiere delle armi (64).
Secondo il responsabile del reclutamento l'"abborrimento della misura" trovava inoltre le sue radici nella "tradizione dei tempi Napoleonici" (65). A rendere fallimentare il bilancio della prima leva post-unitaria contribuì inoltre il numero ancora maggiore di giovani arruolati che, "senza comprovare legittimo impedimento", non si presentarono all'assento dei rispettivi contingenti, venendo così dichiarati disertori. Alla partenza della 1a e della 2a categoria la percentuale di mancanti raggiunse quasi il 50% nei circondari di Cesena e di Forlì, mentre in quello di Rimini superò addirittura il 75% (su 162 chiamati all'assento se ne presentarono soltanto 38) (66). Si è già accennato alla compresenza nell'universo dei coscritti di sentimenti di affezione e avversione verso l'obbligo militare. Questa ambivalenza è riscontrabile chiaramente negli esiti numerici di questa prima leva: abbastanza sorprendentemente nella provincia forlivese convivevano livelli altrettanto elevati di renitenza e volontariato (67). La percentuale provinciale di volontari, calcolata sul contingente d'arruolati (5, 10%), era infatti anch'essa superiore alla corrispondente media generale (4, 12%). Nei circondari di Rimini, Cesena e Forlì il tasso di volontariato era pari rispettivamente al 5, 80%, 5, 12% e 4, 30% (68). Questo dato, testimoniando come almeno certi strati della popolazione fossero sensibili al fascino della "professione delle armi", era confortante ma tuttavia non sufficiente a controbilanciare un risultato complessivo che rimaneva largamente negativo. Singolarmente, neppure di fronte alle massiccie ondate di renitenza e diserzione le autorità preposte all'esecuzione della leva abbandonarono il moderato ottimismo che aveva contraddistinto i loro precedenti rapporti sull'andamento delle operazioni di estrazione. Probabilmente il timore di una reprimenda governativa impediva una interpretazione realistica della situazione, giocando a 25
favore di una sottovalutazione interessata dei dati più imbarazzanti. L'intendente Sazia, ad esempio, analizzando lo svolgimento della coscrizione nel circondario cesenate, scriveva che
le operazioni tutte relative alla Leva militare della classe 1839 sotto tutti i rapporti furono eseguite felicemente e senza il benché menomo ostacolo, mercé il concorso degli inscritti stessi i quali non solo si mostrarono ubbidienti agli ordini e prescrizioni delle Leggi, ma ben anco degni di lode col loro contegno (69).
Il funzionario era tuttavia costretto ad ammettere, con riferimento all'alto numero di renitenti e disertori, che la "buona volontà" dimostrata dai giovani era venuta "meno in ultimo, credesi più per ostinazione dei parenti che per cattive disposizioni". La formulazione di un giudizio sostanzialmente positivo era inoltre giustificata dalle pessimistiche previsioni che erano state espresse dai funzionari periferici alla vigilia dell'apertura delle operazioni di reclutamento. Lo stesso ministro dell'interno, nel valutare i risultati conseguiti dalla prima leva operata nelle Romagne, pur sottolineando il dato preoccupante dell'elevata renitenza e diserzione, dovette riconoscere che questi erano stati superiori alle aspettative:
Sebbene le operazioni della Leva militare in codeste Provincie siano riuscite meglio di quanto lasciavano sperare i rapporti in proposito ricevuti dalle autorità politiche ed i chiamati siano in buon numero accorsi alle relative operazioni volenterosi e con feste e dimostrazioni patriottiche si dovette però rilevare che assai rilevante fu il numero dei renitenti, e che alla chiamata della prima Categoria molti mancarono all'appello (70).
L'intendente provinciale Tirelli, nella sua "relazione confidenziale" sulla leva appena svolta, riteneva che la "circostanza molto apprezzabile che le popolazioni non erano ancora state soggette a tal genere di contribuzione" fosse la causa principale dell'esito non del tutto soddisfacente della operazioni di reclutamento. Il funzionario governativo individuava inoltre nelle "condizioni politiche e topografiche del paese" altri due fattori che avevano pesantemente influito sulla fuga dei coscritti dall'obbligo militare (71). Si è già visto come la posizione di confine del territorio forlivese favorisse gli espatri clandestini dei giovani soggetti alla leva. La meta finale era rappresentata nella maggior parte dei casi dallo stato pontificio, anche se il percorso dei fuggiaschi poteva prevedere una serie di tappe intermedie (72). Da informazioni raccolte dall'intendente del circondario cesenate risultava, ad esempio, che numerosi renitenti e disertori
siansi recati nella Repubblica di S. Marino, attendendo l'occasione di penetrare nelle Provincie tuttora soggette al dominio Pontificio [...] ed altri sonosi diggià ivi recati (73).
Di fronte all'ampiezza assunta dalla renitenza e dalla diserzione, il convincimento espresso dalle autorità politiche all'inizio delle operazioni di leva circa una diretta responsabilità del clero nell'istigare i giovani ad una resistenza di massa contro la coscrizione obbligatoria, acquistò nuova forza anche in assenza di precisi riscontri obiettivi.
Quantunque questo Ufficio -scriveva, ad esempio, l'intendente Sazia- abbia spiegato tutta la solerzia possibile per mezzo degli Ufficiali e Agenti della Pubblica Sicurezza onde scoprir quelli del partito estremo che suppongonsi siano quelli che dissuadono i giovani chiamati a presentarsi alla chiamata, tuttavia non venne fatto di scoprire alcun ché sul riguardo (74).
Analogamente, il generale Torre faceva risalire la responsabilità della forte renitenza registrata nelle Romagne all'azione dei "nemici dell'attuale ordine di cose", i quali trovavano nei giovani "inesperti facile orecchio alle loro instigazioni e subdole arti" (75). Il ruolo svolto dal clero nel fomentare l'ostilità della popolazione verso la leva, come si vedrà meglio in seguito, fu indubbio (76). La sua azione infatti, esplicandosi da un lato nella propaganda aperta contro il nuovo istituto e dall'altro nella concreta solidarietà verso i coscritti latitanti, interagiva strettamente con l'andamento complessivo della renitenza e della diserzione. E` interessante notare a conferma di questa affermazione come, dalle pagine della cronaca del canonico cesenate Sassi dedicate al momento della partenza dei contingenti, emerga, accanto alla sincera preoccupazione per la sorte dei giovani dichiarati disertori, l'implicita soddisfazione per il sostanziale fallimento della coscrizione:
In questo giorno 7 [novembre] è partita alla volta del Piemonte la 1a Leva [...]. Più della mettà del suddetto numero [135] non si è presentato per cui oggi tutti i mancanti sono reputati refratari e disertori.
In questo giorno 26 [novembre] sono partiti pel Piemonte i giovani della 2a Categoria [...]. Molti di questi giovani [...] nepure si sono presentati; per cui anche questa volta alla disperazione per la Campagna anderanno una quantità di ragazzi che saranno la desolazione della propria famiglia, e chi sa ancora quante conseguenze triste ne potranno avvenire (77).
Al fine di arginare la portata della renitenza e della diserzione le autorità governative, in considerazione della circostanza che "era questa la prima volta che si eseguiva la leva nelle Romagne", adottarono inizialmente una strategia che faceva principalmente ricorso a mezzi persuasivi. Il ministero della guerra diede istruzioni ai comandanti militari dei circondari di "usare indulgenza", ritardando di qualche giorno la denuncia dei refrattari e accettando "le scuse anche verbali" di coloro che si fossero presentati in tempo utile. Contemporaneamente l'intendente provinciale venne sollecitato dal ministero dell'interno a indurre i coscritti "a mostrarsi obbedienti col farli persuasi del loro dovere di servire col braccio la Patria, e come il Governo sia risoluto a non transigere sovra una si grave infrazione". Per raggiungere questo scopo si raccomandava di utilizzare "il zelante ed efficace concorso dei Sindaci e di tutte le persone influenti sul patriottismo delle quali si possa fare assegnamento" (78). Gli appelli rivolti dalle autorità conseguirono tuttavia un successo assai limitato: soltanto pochissimi refrattari si costituirono (79). Di fronte al fallimento di questa strategia l'atteggiamento conciliante del governo cambiò bruscamente di segno, diventando apertamente repressivo:
quando le persuasioni non valgano a ridurre al dovere -scriveva il ministro Farini- si proceda con tutto quel rigore che richiede la tutela delle Leggi (80).
Agli intendenti fu pertanto ordinato di disporre, "prontamente ed energicamente", che "ogni mezzo della forza pubblica" fosse mobilitato allo scopo di "inseguire attivamente i renitenti e disertori per consegnarli alla competente autorità militare". La direttiva governativa si concretizzò nell'organizzazione in tutta la provincia di perlustrazioni e pattugliamenti affidati ai carabinieri e alle guardie di pubblica sicurezza. Le perlustrazioni, ostacolate dalla limitata conoscenza del territorio e dalla rete di complicità che proteggeva i giovani alla macchia, si rivelarono tuttavia scarsamente efficaci: a tutto il dicembre del 1860 gli arresti ammontavano a poche unità (81). I latitanti rifugiati nell'alta collina forlivese riuscivano facilmente a sottrarsi alla cattura sfruttando la conformazione accidentata del terreno e la presenza di vaste aree boschive. La prossimità del confine con lo stato pontificio rappresentava inoltre una possibilità di fuga sempre praticabile 27
quando la minaccia della forza pubblica diventava incombente (82). Ad aggravare le difficoltà che le autorità incontravano nel vincere le resistenze ad ottemperare al dovere della coscrizione, era intervenuta nel settembre del 1860, mentre erano ancora in corso le operazioni di reclutamento della classe 1839, la chiamata alla leva dei giovani nati nel 1840:
Non è stata ancora compiuta la prima Leva. Oggi 20 [settembre] -annotava con sarcasmo il canonico Sassi nella sua cronaca- si notifica un altra simile Leva [...]. Eviva...(83).
La vicinanza temporale delle due chiamate, succedutesi senza soluzione di continuità nell'arco di pochi mesi, fece apparire l'obbligo militare ancora più gravoso, inasprendo ulteriormente l'avversione della popolazione verso la coscrizione:
le provincie - denunciava il quotidiano bolognese "L'Eco"- [sono] in preda al malcontento [perché] irritate da continue leve militari (84).
La continuazione degli espatri clandestini confermava, secondo il giornale clericale, l'esistenza di un malessere profondo che veniva invece negato dallo schieramento governativo:
Numerosi contadini [...] si rifugiano sul territorio pontificio per sottrarsi alla leva piemontese. Questo però non vieta ai fogli liberali di strombazzare che tutti i giovani coscritti [...] vanno ad estrarre il loro numero col maggior entusiasmo che dir si possa (85).
Nel gennaio del 1861, al termine delle operazioni di reclutamento della classe 1840, il malcontento diffuso si concretizzò in un incremento della renitenza. La percentuale di renitenti salì nella provincia di Forlì al 22, 77%, superando nel circondario di Rimini la soglia del 30%: 143 iscritti su 660 non si presentarono ai consigli di leva (86). Secondo l'intendente riminese Mazzoleni l'altissimo numero di renitenti del circondario, e in particolare del capoluogo, era stato originato dall'errato inserimento nelle liste di leva di molti "Marinari" che avevano invece diritto di essere chiamati al servizio marittimo. I pescatori del porto di Rimini, scriveva il funzionario,
assolutamente protestano di non voler servire nell'armata di terra, mentre con tutta buona volontà si presenterebbero spontaneamente qualora il Governo gli permettesse di servire nella Regia Marina (87).
Anche il giornale clericale "L'Eco" segnala, anche se in modo del tutto inverosimile, il malcontento dei coscritti del riminese:
A Rimini il mal umore nei soldati giunge fino alla disperazione di darsi la morte. Parecchi si sono annegati nel mare volontariamente. Sicché dovettero le autorità porre delle guardie in piccole barchette per impedire simili eccessi (88).
L'andamento della renitenza nella provincia di Forlì contraddiceva una tendenza generalizzata alla diminuzione dei livelli di renitenza che caratterizzava, salvo poche eccezioni, sia gli altri circondari romagnoli che le circoscrizioni delle "antiche provincie". Il tasso regionale di renitenza si abbassò infatti in questa seconda leva all'11, 36%, a fronte di una media generale scesa al 5, 05% (89). I tre circondari forlivesi continuavano a segnalarsi tra quelli che denunciavano il maggior numero di renitenti: Rimini, Forlì e Cesena occupavano rispettivamente la seconda, la terza 28
e l'undicesima posizione su un totale di 87 circondari. Parallelamente aumentò anche il numero dei disertori alla partenza dei contingenti (90). Ad innescare questa dinamica ascendente avevano probabilmente contribuito anche le carenze palesate dalle autorità nella repressione delle ondate di renitenza e diserzione che avevano caratterizzato la prima leva post-unitaria. La larga impunità di cui avevano goduto i refrattari della classe 1839 rappresentò per i coscritti della classe successiva un forte incentivo ad abbracciare la scelta della latitanza, confidando nella
speranza che troppi essendo i renitenti, diventerà impossibile ad eseguire la Legge, e seguirà di essa come delle Leggi pontificie che si proclamavano, ma non si mandavano ad effetto (91).
Nel corso del 1861, il numero dei latitanti, ridotto solo di poche unità dalle presentazioni volontarie e dagli arresti eseguiti dalla forza pubblica e ingrossato dai giovani della classe 1840 che si erano sottratti alla chiamata, aveva raggiunto proporzioni decisamente allarmanti:
è doloroso -osservava sconsolato l'intendente provinciale Tirelli- di scorgere che in questa Provincia abbondino i renitenti e disertori.
La causa principale della "superstiziosa ostinazione" dei coscritti veniva individuata ancora una volta nell'efficacia della propaganda clericale:
colpa è delle famiglie loro, le quali si lasciano raggirare da perfide insinuazioni, e di non poche proprietarj e di altre persone più influenti dei luoghi, che omettono per apatia, ed anche per egoismo, di dare ai loro coloni ed ai refrattarj stessi suggerimenti atti a renderli diffidenti quanto importa contro una setta abbastanza conosciuta, la quale, ciecamente reazionaria, abusando con tenebrose arti della loro ignoranza o buona fede per distorli dall'obbedienza alle patrie leggi, non avrebbe ribrezzo, se il potesse, di suscitare pur anco la guerra civile (92).
Una situazione analoga a quella del forlivese caratterizzava anche le altre provincie romagnole e quelle umbre e marchigiane, anch'esse precedentemente soggette alla dominazione pontificia. Di fronte alle dimensioni assunte dal fenomeno della latitanza dei giovani coscritti le autorità governative furono costrette a riconoscere l'inadeguatezza delle misure repressive fino ad allora adottate e la necessità di impiegare mezzi più drastici per
porre fine una volta ad un simile stato di cose che riesce infetto alla pubblica sicurezza, e potrebbe, ove più a lungo durasse, ingenerare negli animi la persuasione che sia lecito di violare impunemente la legge (93).
I provvedimenti emanati dal governo si ispirarono ad una concezione che rappresenterà una costante della politica interna italiana post-unitaria: il ricorso all'esercito per garantire il mantenimento dell'ordine pubblico. Nel maggio del 1861 il ministro della guerra ordinò alle truppe di linea stanziate nelle Romagne, nell'Umbria e nelle Marche di affiancare "attivamente" le forze di pubblica sicurezza nei servizi di pattugliamento e perlustrazione da eseguirsi "in tutti i luoghi dove possono trovarsi rifugiati, renitenti e disertori, per inseguirli senza sosta" (94). Nel settembre successivo il ministro dell'interno dispose che in tutti i comuni di domicilio dei renitenti e dei disertori fossero inviati dei "distaccamenti di truppa col soldo d'ordine pubblico a spese del Municipio". Questa misura repressiva aveva contemporaneamente lo scopo di rendere più capillare e continuativo l'impiego dell'esercito e di costringere i sindaci ad un'azione persuasiva più incisiva 29
verso i coscritti latitanti "per sottrarre i loro amministrati al peso di questo necessario provvedimento" (95). Nella provincia di Forlì la sua applicazione, già sperimentata con successo in "consimili circostanze", fu però impedita dalla "mancanza della forza numerica per mandarla ad effetto" e dopo una sola settimana venne sospesa (96). L'inasprimento della repressione non provocò tuttavia un incremento significativo degli arresti e delle presentazioni volontarie: a giudizio dell'intendente provinciale era stato "minimo il rintraccio di detti renitenti e disertori ottenuto dalle testé praticate ricerche" (97). Il potere centrale, sollecitato dagli inviti ad abbandonare la "longanimità" che affluivano dalle autorità periferiche, decise allora di "porre in opera qualche altro temperamento che stringesse più da vicino i colpevoli e desse frutti più efficaci" (98). Il governo
dopo aver esitato alcun tempo sulla misura da adottare, alla fin fine, tenendo presente che era necessità suprema per l'Italia costituire un Esercito, che a costituirlo sarebbe stato in avvenire impossibile far nuove Leve ove andassero impuniti i renitenti ed i disertori di quelle già eseguite, decise ed ordinò che nelle Provincie ove maggiore era il numero di cotesti refrattarii fosse mandato un picchetto ad alloggio militare presso le famiglie de' colpevoli (99).
Il fine di questa misura eccezionale era duplice. Da un lato, essa intendeva forzare i renitenti e i disertori a costituirsi volontariamente per evitare che le loro famiglie fossero costrette a subire l'onere del mantenimento di un numeroso drappello di soldati (100). Dall'altro, il piantonamento delle case dei latitanti poteva consentire di operare l'arresto di quei giovani che, ignari della presenza del picchetto, si fossero recati in famiglia per soddisfare le proprie necessità di approvvigionamento. L'applicazione del provvedimento repressivo fu limitata inizialmente alle Marche e all'Umbria. In seguito, visti i buoni risultati ottenuti da questo "esperimento", le autorità locali delle Romagne, del modenese e del parmense domandarono al governo che la "stessa rigorosa misura" fosse estesa al loro territorio, assicurando che essa avrebbe esercitato
una influenza efficacissima per le venture Leve, poiché dando al Governo nome di Governo forte, toglierebbe a molti giovani la voglia di sottrarsi ai proprii doveri verso la patria (101).
In provincia di Forlì l'imposizione dei picchetti militari alle case dei refrattari ebbe inizio alla metà di ottobre del 1861 e si protrasse per circa un mese (102). L'adozione del provvedimento suscitò reazioni contrastanti. Caldeggiato dai funzionari governativi periferici, esso fu in genere accolto con favore anche dalle autorità municipali, che in qualche caso sembrarono però condivedere le proteste della popolazione. Il sindaco di Saludecio, ad esempio, pur lodando la "saggia risoluzione presa dal Governo", richiese a nome dei genitori dei latitanti la sospensione della sua applicazione:
L'ufficio scrivente [...] nell'interesse dei suoi Amministrati non sa a meno d'invocare a loro vantaggio una proroga che oltre a servire di ultimo esperimento, risparmierebbe molti danni e molte dispiacenze alle stesse famiglie (103).
Sul fronte delle opposizioni politiche il ricorso ai picchetti militari fu approvato dallo schieramento democratico, che mostrò di apprezzare il rigore della decisione governativa:
Il governo -scriveva il quotidiano "La Voce del popolo"- finalmente ha capito ove stava la camola e dopo aver lasciato correre in tutto e per tutto, 30
finalmente vuole far da senno per la leva.
Lo stesso giornale deplorava tuttavia che si fosse voluto
attuare la leva laddove non vi fu mai; e col volerla attuare nel sistema delle provincie antiche (104).
Al contrario, ovviamente, il provvedimento venne giudicato dall'area clericale come una manifestazione arbitraria ed illegale dei poteri dello stato. Annotava, ad esempio, il canonico Sassi nella sua cronaca:
Delizie della libertà! Per ordine del Ministero dell'Interno [...] sono stati mandati alli Casi dei renitenti alla Leva sette militi del corpo dei Bersaglieri, per cadauna casa, e questi dovranno essere mantenuti a carico delle Famiglie dei stessi renitenti. [...] Chi è che non conosce, che questa è una disposizione che viola la Costituzione, e pure si fa questo, e molto di peggio incostituzionalmente e nessuno pensa a reclamare, e mettere in istato d'achusa chi ordina, e comanda questa e tanta altra prepotenza (105).
A conforto di questa tesi i fogli clericali condussero una tenace battaglia polemica per dimostrare che la presenza dei picchetti aveva dato luogo a numerosi soprusi commessi dai soldati a danno delle famiglie presso le quali si erano installati. Due coloriti esempi sono forniti dal quotidiano "L'Eco". Il primo è relativo al bolognese:
la brigata si ferma nelle case de' malcapitati contadini, e nei poderi: quivi sta a grande agio, mangia e beve e protesta che non si moverà se non esce fuori il renitente e non si consegna. I contadini sono costretti a sopportarli senza gridare sin che a loro piace, e l'uva e le frutta e i polli se ne avvedono (106).
Il secondo esempio si riferisce invece alle Marche:
l'umanissimo governo modello ha posto in casa del suo disgraziato padre [di un renitente] non pochi soldati che barbaramente li consumano quel po' che aveva e perfino il corredo della figliuola che doveva andare a marito (107).
Se queste descrizioni non sono probabilmente prive di qualche esagerazione a fini propagandistici, ancora meno credibile appare il quadro quasi idilliaco dipinto dal generale Torre:
Questa misura certamente grave fu temperata da ordini severissimi ai soldati destinati per le case perché usassero modo e contegno di buoni cittadini, e il soldato rispose mirabilmente al pensiero del Governo, ed in qualche povero casolare, anziché aggravio, recò conforto ed aiuto (108).
Il ricorso ai picchetti militari ottenne l'esito sperato dalle autorità. Pur limitato ad un solo mese di applicazione il provvedimento, secondo il generale Torre, conseguì nelle Romagne un "ottimo successo" (109). Lo stesso canonico Sassi conferma, dal fronte opposto, l'efficacia della misura repressiva:
i poveri renitenti, che si ritrovano girovaghi, per non vedere sacrificata la propria Famiglia, si sono piuttosto immediatamente costituiti (110).
La disposizione governativa si dimostrò particolarmente efficace nel porre fine ad una forma di latitanza che era assai diffusa nelle campagne del forlivese. I giovani refrattari, infatti, quando le necessità di sopravvivenza del nucleo famigliare lo richiedevano, non fuggivano all'estero ma si nascondevano nelle vicinanze della propria abitazione per poter continuare a fornire le proprie prestazioni lavorative (111). In questi casi erano gli stessi congiunti che per non vedere compromesse le proprie risorse economiche da una lunga e onerosa permanenza dei soldati, invitavano i giovani a costituirsi: le famiglie, scriveva il sindaco di Saludecio, "promettono che si daranno tutta la cura ed interessamento" per convincere i figli a "presentarsi spontanei" (112). Per converso, la presenza del picchetto si rivelò priva di efficacia quando il renitente o il disertore si era rifugiato all'estero o aveva comunque interrotto i contatti con la propria famiglia, essendo questa impossibilitata a rintracciarlo (113). Il numero dei latitanti, per effetto delle numerose presentazioni volontarie subì in tutta la provincia una sensibile diminuzione (114). A ridurre l'area della latitanza contribuì inoltre il parallelo incremento degli arresti (115). La cattura dei refrattari fu indirettamente favorita dall'imposizione dei picchetti che, privando i latitanti della possibilità di contare sulla casa paterna per nascondersi o rifornirsi di cibo, consentì alle pattuglie in perlustrazione di intercettare i giovani che vagavano sbandati per le campagne. Il "rigore" che aveva contraddistinto l'azione repressiva del governo fu successivamente mitigato dalla concessione di un'amnistia a tutti i renitenti che erano stati arrestati o si erano costituiti entro il mese di dicembre (116). L'amnistia, rivolta in particolare ai refrattari delle "Provincie nuove" che avevano concorso per la prima volta alla leva, intendeva appunto premiare "l'atto da molti di essi spontaneamente compiuto di sottomissione alla Legge" (117). Questo "benefizio" trovava tuttavia una seconda motivazione nell'"interesse del militare servizio", nella necessità cioè di neutralizzare le deficienze che a causa dell'alta renitenza di alcuni circondari si erano prodotte nel contingente complessivo di arruolati (118). Oltre ad ottenere un deciso ridimensionamento della latitanza il ricorso ai picchetti, avvenuto in concomitanza con la chiamata della classe 1841, si rivelò anche un efficace deterrente alla renitenza. In questa leva la percentuale dei coscritti dichiarati renitenti scese infatti nella provincia di Forlì al di sotto del 20%, attestandosi sul 14, 50%. Un secondo fattore, tuttavia, influì in misura ancora maggiore sulla dinamica discendente del fenomeno: l'annessione al regno delle vicine Marche, allontanando il confine con lo stato pontificio, rese meno facilmente praticabile il percorso di fuga seguito fino ad allora dai refrattari (119). La caduta del tasso di renitenza fu particolarmente sensibile nei circondari di Rimini e di Cesena (nel primo passò dal 32, 17% al 18, 15% e nel secondo dal 14, 85% al 3, 73%), mentre in quello di Forlì restò pressoché invariato e ancora superiore a questa soglia (21, 28%) (120). Parallelamente anche il numero dei disertori registrò una drastica riduzione: la percentuale dei mancanti alla partenza dei contingenti precipitò dal 64, 01% al 15, 07% (121). Nonostante questa forte diminuzione della quota di refrattari la situazione del reclutamento rimaneva tuttavia preoccupante.
L'istituzione della leva -scriveva infatti il prefetto di Forlì nella sua relazione annuale al ministro della guerra- essendo, può dirsi, ancora nuova per questi Paesi, né essendo pienamente entrata nei costumi, e nelle abitudini di queste popolazioni, il numero dei renitenti, sebbene vada scemando, pure è ancora notevole (122).
In occasione della leva della classe 1841, effettuata anche nelle Marche, in Umbria e in Sicilia, si era verificato un deciso innalzamento dell'indice generale di renitenza che aveva raggiunto il 9, 67%. Questa inversione di tendenza, provocata dall'altissimo numero di renitenti che caratterizzava queste regioni, aveva prodotto una sensibile variazione della geografia della renitenza. Prescindendo dalla consueta presenza delle circoscrizioni marittime liguri, le prime posizioni nella classifica dei circondari con le maggiori percentuali di refrattari erano ora diventate 32
appannaggio delle provincie marchigiane, umbre e siciliane. All'interno di questo quadro mutato i circondari di Forlì e Rimini, con un tasso di renitenza pari al doppio della media complessiva, continuavano però ad occupare una posizione poco lusinghiera nella graduatoria (123). Il circondario di Cesena, al pari della maggior parte delle altre circoscrizioni romagnole, si era invece ormai allineato ai valori denunciati dalle "antiche provincie" dello stato (124). Per effetto di questo calo generalizzato su scala regionale la percentuale di renitenti delle Romagne (7, 03%) si attestò per la prima volta ad un livello inferiore rispetto a quella generale (125). Nella leva successiva, indetta nel luglio del 1862 sui giovani nati nel 1842, la tendenza alla diminuzione della renitenza venne confermata: il tasso provinciale passò dal 14, 50% all'11, 35%. Questa riduzione della percentuale aggregata non rispecchiava tuttavia un andamento omogeneo degli indici nei singoli circondari. Mentre in quello di Forlì si verificò un crollo verticale della renitenza (dal 21, 28% al 7, 09%), la quota di renitenti rimase invece stabile nel riminese (18, 65%) e risalì addirittura all'8, 47% nel cesenate (126). Questa ripresa della renitenza nel circondario di Cesena era stata provocata, secondo il sottoprefetto Pallotta, da una più attiva propaganda clericale:
in quest'anno ebbero ad effettuarsi casi di renitenza in maggior copia che nell'anno decorso, ma ciò devesi in grandissima parte attribuire alle mene dei clericali (127).
L'azione "subornatrice" svolta dal clero, specie da quello regolare, era stata particolarmente incisiva nel mandamento di Sogliano:
su cento e sette inscritti [...] ben trentotto di essi si resero renitenti, e cioè oltre il terzo di essi, numero così esorbitante, che non ha riscontro, neppure approssimativo, in alcuno degli altri Mandamenti del Circondario, e tale manifestazione di avversione alle vigenti leggi, devesi per voce pubblica, e per indubbia illazione all'opera tenebrosa dei detti Padri Osservanti (128).
Non era casuale, di fronte a questo rigurgito di renitenza, che le accuse rivolte al partito clericale di fomentare la fuga dei giovani dall'obbligo militare acquistassero una maggiore virulenza rispetto al passato. Se anche in occasione delle leve precedenti i funzionari governativi periferici avevano imputato alla propaganda contraria del clero le difficoltà incontrate nelle operazioni di reclutamento, il ricorso a questa giustificazione non era stato disgiunto dall'indicazione di altre cause: in primo luogo la "naturale ripugnanza" dei giovani per questo "insolito tributo". Ora, trascorsi alcuni anni dall'introduzione della coscrizione obbligatoria, l'insistere su questa seconda motivazione rischiava unicamente di sottolineare le carenze dell'opera di sensibilizzazione intrapresa dalle autorità e il limitato consenso conquistato dalla classe politica liberale. Diventava pertanto obbligato il tentativo di addossare esclusivamente alla mobilitazione clericale la responsabilità della perdurante ostilità dei coscritti, a tal punto che questo elemento venne assumendo una centralità quasi ossessiva. La leva della classe 1842 fu la prima su scala realmente nazionale. Nei 193 circondari del regno la percentuale di renitenti, gonfiata dagli alti valori delle provincie napoletane, salì all'11, 51%, toccando il vertice massimo raggiunto dalla curva della renitenza nella storia post-unitaria. L'universalità geografica di questa leva consente di analizzare con maggiore completezza la distribuzione territoriale del fenomeno. Nel 1862 due Italie si fronteggiavano: quella "della rivolta e del rifiuto" e quella "del consenso e della rassegnazione" (129). La prima, caratterizzata da un alto tasso di renitenza, cioè superiore a una volta e mezzo la media nazionale, comprendeva 39 circondari: 15 siciliani, 7 marchigiani, 6 umbri, 4 campani (tra cui Napoli che, con oltre il 57%, era il circondario con la percentuale più alta), 3 abruzzesi, 2 liguri, 1 toscano e 1 romagnolo (Rimini). Della seconda, contraddistinta da un basso indice di renitenza, vale a dire inferiore ad un terzo della 33
media del regno, facevano invece parte 64 circondari: 20 piemontesi, 19 lombardi, 9 toscani, 7 degli ex ducati emiliani, 5 sardi, 1 romagnolo (Bologna), 1 molisano, 1 campano e 1 calabrese. L'area ad alta renitenza si estendeva nell'Italia centromeridionale, dove comprendeva tutti i circondari marchigiani e umbri e alcuni abruzzesi e campani, e in Sicilia, con qualche propaggine più settentrionale in Liguria, nella Toscana e nelle Romagne. L'area a bassa renitenza, coinvolgendo la quasi totalità dei circondari del Piemonte, della Lombardia, della Toscana e dell'Emilia, occupava invece il centro-nord della penisola, con alcune appendici in Sardegna e in pochissime circoscrizioni meridionali (130). Questa mappa della renitenza sottolinea, da un lato, il differente comportamento verso l'obbligo militare delle "antiche" e delle "nuove" provincie del regno e conferma, dall'altro, la profonda frattura esistente tra le regioni "educate alla coscrizione" e quelle "affatto nuove alla medesima" (131). Questa seconda discriminante non era però valida per tutti i territori annessi allo stato sabaudo. Mentre le provincie continentali dell'ex regno delle Due Sicilie, pur conoscendo l'istituto della coscrizione, denunciavano un'alta renitenza, quelle romagnole, che non erano mai state soggette in passato alla leva obbligatoria, si segnalavano per una quota di renitenti abbastanza modesta (5, 55%) e comunque sensibilmente inferiore a quella delle Marche (29, 94%), dell'Umbria (28, 65%) e della Sicilia (28, 45%), le altre regioni in cui la coscrizione era sconosciuta prima del 1860. La rapidità con cui il tasso di renitenza delle Romagne, dai valori elevati delle primissime leve postunitarie, si era quasi allineato agli indici delle "antiche provincie" o di regioni già "educate" all'obbligo militare, quali la Lombardia e la Toscana, rappresentava un'eccezione nel quadro nazionale (132). Una seconda peculiarità caratterizzava l'area romagnola: all'interno della realtà regionale convivevano infatti situazioni locali estremamente difformi. Se Rimini, per il suo numero "ancora stragrande" di refrattari, era il solo circondario delle Romagne che continuava a far parte anche in questa leva del gruppo di circoscrizioni ribelli, Bologna, con una percentuale di renitenti inferiore all'1%, era invece avviata a meritarsi l'encomio del generale Torre per essere la "provincia modello d'Italia" tra quelle non "educate" alla coscrizione (133). Gli altri circondari, e tra questi anche Cesena e Forlì, si situavano, con valori comunque inferiori alla media nazionale, in una fascia di renitenza intermedia (134). Nel forlivese la discesa del tasso provinciale di renitenza fu accompagnata dalla scomparsa dei fenomeni di diserzione che si erano verificati in passato alla partenza dei contingenti. L'assenza di disertori non era tuttavia dovuta ad una positiva evoluzione delle disposizioni dei giovani arruolati, quanto piuttosto ad una apposita modifica che era stata apportata al testo della legge sul reclutamento. La legislazione piemontese, modellata sul comportamento militare delle "antiche provincie", aveva infatti permesso che la diserzione assumesse proporzioni rilevanti nelle Romagne e nelle altre provincie non "educate alla coscrizione". Essa prevedeva che i giovani risultati abili fossero inviati ai corpi a cui erano stati assegnati soltanto dopo l'ultima sessione dei consigli di leva (135). Il considerevole lasso di tempo che separava il momento della visita di idoneità dalla chiusura delle operazioni di reclutamento consentiva quindi ai coscritti in attesa della partenza di rendersi nel frattempo irreperibili. Per porre fine a queste "fughe vergognose" fu disposto, con una legge emanata il 24 agosto 1862, che tutti gli arruolati nei contingenti di 1a e 2a categoria venissero "assentati immediatamente dopo l'esame definitivo" (136). Le reclute che ogni giorno erano state visitate e dichiarate idonee dai consigli di leva dovevano essere dirette, possibilmente mediante "vie ferrate" e con la scorta di alcuni graduati, ai "depositi di leva" appositamente istituiti (137).
I visitati di ogni giorno -scriveva infatti il canonico Sassi nel dicembre del 1862- sono stati subito spediti nel Vapore e mandati ad un Deposito provvisorio a Rimini (138).
I depositi erano dei centri di raccolta sorvegliati da personale militare in cui venivano provvisoriamente convogliati gli arruolati di più circondari limitrofi in attesa della loro 34
assegnazione definitiva ai diversi corpi dell'esercito. Questa modificazione legislativa rese ovviamente impossibile il ripetersi di quei massicci vuoti nei ranghi dei contingenti che si erano sempre prodotti nelle leve precedenti. Se la diminuzione del numero di renitenti verificatasi nel forlivese in occasione della chiamata della classe 1842 confortò le autorità locali sui progressi compiuti dai coscritti nell'accettazione dell'obbligo militare, rimaneva tuttavia irrisolto il problema dell'elevato numero di refrattari ancora latitanti. Alla data del 30 agosto 1863 questo numero ascendeva in tutta la provincia a 827 unità su un totale di 1397 coscritti delle classi 1839-42 dichiarati renitenti, pari ad una percentuale del 59, 20%. Il circondario caratterizzato da una maggiore latitanza era quello riminese, con oltre i due terzi dei refrattari ancora alla macchia (139). Alla riduzione del tasso di renitenza non aveva quindi corrisposto un incremento altrettanto significativo dell'efficacia repressiva dello stato. I renitenti arrestati erano stati complessivamente 259: 110 del circondario di Forlì, 95 di quello di Cesena e 54 di quello di Rimini (140). Questa cifra, che può apparire a prima vista assai considerevole, non rappresentava tuttavia neppure un quinto del totale dei renitenti appartenenti alle quattro classi. Se le difficoltà incontrate nell'operare la cattura dei renitenti avevano impedito di "purgare" il territorio provinciale dai "molti refrattarii alla Legge", gli appelli rivolti dalle autorità ai coscritti latitanti per convincerli a presentarsi spontaneamente conseguirono un successo ancora minore. A tutto l'agosto del 1863 si erano costituiti nella provincia di Forlì soltanto 143 renitenti (66 del circondario del capoluogo, 57 di quello di Cesena e 20 di quello di Rimini), un numero largamente inferiore a quello degli arresti eseguiti nel medesimo periodo (141). Alla formazione di questa cifra aveva inoltre contribuito in misura preponderante l'imposizione dei picchetti militari alle case dei latitanti, che provocò negli ultimi mesi del 1861 una decisa impennata nell'andamento delle presentazioni volontarie. Dopo questa data il numero dei renitenti che si erano costituiti ammontava invece a poche unità (142).