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La revisione dello statuto epistemologico della storia nel dibattito apertosi negli anni settanta del Novecento tra ilosoi e storici
La revisione dello statuto epistemologico della storia nel dibattito riapertosi negli anni settanta del Novecento tra ilosoi e storici
di Severina Fontana
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Il ritorno al racconto
Nella storia praticata dagli studiosi ha tenuto a lungo, almeno ino a tempi recenti, il mito positivista della scienza che proponeva alla storia il modello delle scienze «esatte», matematica e isica. La ricostruzione storica del passato doveva farsi «scientiica», «oggettiva», pervenire ai nessi causali che regolano i fatti del passato e consentono in qualche modo di prevedere il domani, almeno immediato. Questi nessi nella scuola marxista privilegiavano il tessuto economico. La ricerca storica su campi delimitati, regionali o locali, consentiva la veriica sperimentale di teorie generali che tendevano ad essere astratte da una dimensione temporale e assolutizzate. Lo spazio del cambiamento restava quello della rivoluzione, che sostituiva un sistema economico ad un altro con diverse leggi e regole di funzionamento. Trascurata era la natura narrativa del discorso. Poco interesse era prestato alle vicende individuali. I soggetti della storia erano collettivi e individuati sulla base della loro condizione economica. Poco peso nel cambiamento veniva assegnato alle scelte personali o di gruppi culturali, politici, religiosi che non coincidessero con i gruppi economici disegnati nella società industriale dalla contrapposizione fra capitale e lavoro.
La storia insegnata ovviamente non si scostava dal medesimo modello. Le critiche che da altre parti politiche si muovevano all’inluenza che la storiograia di sinistra aveva sul mercato dei manuali scolastici non toccava la questione epistemologica di fondo, esaurendosi in una sterile contrapposizione ideologica.
È stato alla metà degli anni settanta del Novecento che, con la crisi del modello di conoscenza scientiica positiva, ha avuto inizio un processo di revisione dello statuto della storia che ha portato ad un rovesciamento del rapporto fra scienze umane e scienze isiche i cui esiti non sono stati ancora
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metabolizzati e chiaramente percepiti dal largo pubblico di coloro che a diverso titolo leggono libri di storia o a questi fanno riferimento per altro tipo di allestimenti mediatici. Ora non è più la storia a dover rincorrere il modello delle scienze isiche e matematiche, viceversa sono queste a misurarsi con la dimensione temporale – quella che Ilya Prigogine chiama «freccia del tempo» – e quindi narrativa degli eventi. Per usare le parole di Karl Popper, «la scienza oggi sottolinea l’elemento della narrazione, diventa una storia della natura» e «il mondo appare sempre più come una costruzione; una costruzione che sta procedendo dal big bang ed ancora continua». La formulazione del principio di indeterminazione e la teoria dei quanti hanno introdotto nella concezione della natura le probabilità e il caso. Nello stesso tempo la biologia evoluzionistica, confermata dalla scoperta dei geni e dalla decifrazione del DNA, si è candidata come modello della nuova scientiicità capace, attraverso la narrazione storica, di ofrire una reale alternativa esplicativa ai vecchi modelli normativi. Le teorie del caos da ultime, rivalutando l’importanza delle singolarità all’interno di processi e sistemi complessi, hanno confermato la necessità di sgombrare il campo della storia da tutte quelle posizioni che il ilosofo viennese deinisce storiciste rimettendo al suo centro le scelte dei singoli.
Anche Ralf Dahrendorf, se pur oppone a Popper che ci si può legittimamente interrogare sul «senso della storia», guardando più a Kant che a Hegel sostiene che la storia è un «processo aperto» il cui senso non è preissato, essendo solo l’agire dei singoli uomini a determinarlo concretamente, tra errori e passi all’indietro. Il progresso è possibile ed è anche, da certi punti di vista (per esempio quelle che Darhendorf chiama chances de vie) reale, ma non è «una strada a senso unico» ( vedi gli interventi di R. Darhendorf su «la Repubblica», 11 marzo, 11 e 14 luglio 1992). Su questa linea, suggestivo il richiamo di Walter Benjamin, vicino alla Scuola di Francoforte, al quadro di Paul Klee intitolato Angelus Novus. In esso Benjamin legge un’inconsapevole rappresentazione dell’angelo della storia: «Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, ma a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo progres-
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so, è questa tempesta» (W. Benjamin, Tesi di ilosoia della storia in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1962).
Seguendo proprie strade, in polemica con la tendenza all’adozione in storia di metodi quantitativi, in quel periodo in voga, è nello stesso lasso di tempo in cui aveva preso il via il dibattito fra i ilosoi sulla disciplina che gli storici si sono mossi per difendere le ragioni del narrare come mezzo irrinunciabile del loro lavoro, arrivando a proclamare il «ritorno al racconto» (Laurence Stone, Il ritorno al racconto. Rilessioni su una nuova vecchia storia in Viaggio nella storia, Laterza, Roma-Bari 1989). Anche in questo caso ad intervenire nel dibattito sono stati studiosi di formazione diversa come Paul Veyne, un allievo di Raymond Aron, l’intellettuale simbolo della polemica antimarxista nel dopoguerra, e il marxista Eric J. Hobsbawm (he revival of narrative: some comments in «Past and Present», 1980, n.86). Per Veyne in particolare le scienze naturali e isiche tentano di mettere a punto concetti classiicatori, di avanzare ipotesi generali, di giungere a conclusioni che oltrepassano il caso singolo. La storia, al contrario, pur non limitandosi all’individuale, mira a cogliere, in ciò che è singolare, una speciicità: ma non è, né deve essere nomotetica, vale a dire non si pone il ine di deinire leggi generali, concernenti gli uomini come collettività o trascurando gli uomini a beneicio delle strutture o delle circostanze o altro ancora (Come si scrive la storia. Saggio di epistemologia, Laterza, Roma-Bari 1973).
Con questo Hobsbawm non cessa di assegnare alla storia il compito di accertare la verità fattuale, nella sua oggettività, mentre Veyne ritiene che la storia deve essere «racconto vero». Distinta dalla favola, essa continua a trovare il proprio carattere distintivo nella ricerca della verità e in forza di ciò a mantenere il diritto di potersi sedere al tavolo delle scienze. In consonanza poi con quanto sostenuto in via generale da Popper, la verità storica non si propone come assoluta e persistente nel tempo, né si traduce per la natura della disciplina nella formulazione di leggi universalmente valide bensì nella ricostruzione del fatto storico. Questa procede ricavando dalle fonti del tempo, scritte, iconograiche e materiali, le informazioni che contengono e avanza collettivamente grazie al lavoro di generazioni di studiosi. Nella storia come avviene anche negli altri campi del sapere «è un’illusione ritenere di poter avere l’ultima parola» (Jurgen Habermas, Urbanizzazione della provincia heideggeriana, «Aut-aut», 1987, nn.217-8).
Pur ridimensionato nella sua oggettività, mai coincidente con la riproduzione integrale e deinitiva della realtà e frutto della scelta dello storico,
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che sulla base delle sue conoscenze precedenti e delle sue teorie – quelle che Gadamer chiama i «pre-giudizi» – decide quali degli eventi di cui il passato ha lasciato segno siano storici, il fatto come dato empirico è quel che resta della vecchia concezione di scienza. Contro di esso lo storico «urta» ed è costretto ad aprirsi all’«alterità», inendo con il dover «mettere alla prova» la legittimità delle proprie anticipazioni (Hans Georg Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983). Con tale nozione di fatto coincidono sia la «prova» dello storico-giudice di Carlo Ginzburg (Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, Feltrinelli, Milano 2000), sia il detrito trovato fra le macerie del passato, che lo storico-chifonnier di Benjamin sceglie per poggiarvi le proprie argomentazioni lasciando cadere nell’oblio gli altri cocci dell’«infranto» (Parigi capitale del XIX secolo, Einaudi, Torino 1986), sia il pesce che nella vastità di un oceano cade nelle reti dello storico-pescatore di Edward H. Carr (Sei lezioni sulla storia, Einaudi, Torino 1966).
L’oggettività della ricostruzione storica, che deve essere intesa come tensione di fondo – nella ricerca di nuove fonti, nella loro cernita e nel successivo utilizzo – fra verità e interpretazione, non richiede l’obiettività dello studioso o la sua neutralità. Lo storico ha il diritto di avere ed eventualmente esprimere le sue valutazioni, come «quello di rendere ben consapevole il lettore e se stesso dei criteri a cui viene commisurata la realtà e da cui è derivato il giudizio di valore», senza che questo possa iniciare i risultati della sua ricerca (M. Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, A. Mondadori, Milano 1974).
La spiegazione e il concetto di causa in ambito storiografico oggi
Una volta stabilito, attraverso l’analisi dei documenti, quale sia la storia vera, resta da valutare se sia possibile recuperare accanto alla narrazione elementi di spiegazione dei fatti accertati, come fare i conti in altre parole con il principio di causalità.
Per secoli è stato al centro del dibattito ilosoico. Nato dall’idea che fatti e fenomeni si susseguissero unicamente in un processo di causa-effetto, entro una concezione deterministica del mondo nei suoi aspetti naturali e storici, era connesso alla convinzione che l’intelligibilità razionale della realtà avesse una validità assoluta, ad essa intrinseca. Nel Novecento è stata in particolare la meccanica quantistica a spiegarci come la causalità non sia l’unico principio cui risponde la realtà e come la relazione cau-
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sale, avendo a che fare con la regolarità, non possa essere in accordo con la presenza eventuale di un soggetto cosciente le cui risposte agli stimoli sono impossibili da modellare in termini deterministici. Le conseguenze di ciò sono ancor più rilevanti per le scienze che studiano proprio le azioni umane come la storia.
Nella concezione della storia che si va così rideinendo, la spiegazione non può consistere nel riconoscere un evento come determinato dalla serie causale degli eventi precedenti, ma, come ha ben spiegato Max Weber, nell’isolare in una situazione storica deinita un campo di possibilità, mostrando le condizioni che hanno reso possibile la decisione in favore di un’alternativa invece che di un’altra. Il signiicato di questa decisione può essere colto mediante il confronto fra più possibilità/alternative. Non bisogna vedere tuttavia nell’afermazione di un’alternativa un fatto necessario, che doveva per forza accadere essendo un’alternativa migliore dell’altra.
La causalità ha dunque perso la propria centralità in storia. Paul Veyne, per esempio, nega recisamente che la storia sia ricerca di cause. «Ogni fatto è ad un tempo causante e causato» perciò la spiegazione storica «non può far appello ad alcun principio, ad alcuna struttura permanente».
Senza arrivare a posizioni così radicali, il concetto di causa, solo se non intesa deterministicamente, si è ricollocato al ianco di altri concetti tra i quali, per fare qualche esempio, quelli di condizione e rilevanza. In particolare nessuno oggi potrebbe scommettere più sulla monocausalità, adottata dalla storiograia marxista, né respingerebbe anche uno solo dei fattori che per Stone ( Le cause della rivoluzione inglese, 1529-1642, Einaudi, Torino 1982) – in un’ottica multicausale, meglio adatta a cogliere la complessità del reale – si devono considerare nella spiegazione storica: le condizioni (le cause materiali o prerequisiti di lungo termine), il caso (le cause accidentali, i «detonatori») e le libere azioni degli individui (che lo storico inglese include fra i «fattori precipitanti» a medio termine).
A che cosa serve dunque la conoscenza storica per l’uomo contemporaneo?
Per rispondere a questa domanda non si può non fare riferimento all’Apologie de l’histoire ou Mètier d’historien di Marc Bloch, fatto uscire postumo, nel 1949, dall’amico Lucien Febvre che con lui aveva fondato venti anni prima le «Annales». Bloch aveva già deciso il titolo con il quale si im-
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pegnava, sulla falsariga dell’Apologia di Socrate del giovane Platone, in una difesa e nell’elogio della materia cui aveva dedicato l’intera vita, quando nella prima stesura di uno schema per il suo libro indicava come sottotitolo Comment et pourquoi travaille un historien.
Lo storico francese in questo scritto rinvia non tanto ad una funzione di magistero della storia, ma ad una funzione professionale dello storico, inendo per sostenere insieme «la legittimità intellettuale della storia come disciplina scientiica» e «l’utilità degli studi di storia per la società».
Al di là della sua soggettività, al di là dei suoi deicit conoscitivi, al di là dell’incessante progredire delle conoscenze, lo storico di mestiere, proprio in ragione della certezza pur provvisoria dei risultati del suo lavoro, può ofrire alla comunità in cui vive o lavora i frammenti di passato portati alla luce: in tal senso il suo scopo è solo conoscitivo e la speciicità della storia rispetto alle altre forme di sapere è la capacità di interagire con la memoria per difendere e ricostruire l’identità di una comunità.
La rilessione sul passato è un appassionante gioco di pazienza. È con pazienza e attenzione che lo storico si sforza di ricostruire eventi, processi, culture. Alla ine uno o più segni nell’arazzo, uno o più motivi ricorrenti che attraversano impercettibilmente la trama del tempo possono emergere: allora arriva la sensazione appagante per lo studioso di aver aferrato almeno qualche aspetto dei motivi per i quali siamo quel che siamo.
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