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La rilessione sulla storia in Germania tra Sette e Ottocento

rassegna bibliografica

La rilessione sulla storia in Germania tra Sette e Ottocento

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di Vanni Clodomiro

È noto che l’illuminismo, dopo la spaccatura ideologica provocata in Europa dalla riforma luterana, ha assolto la funzione storica di ricomporre una sostanziale unità di intenti, che, nella sostanza, è stata in qualche modo mantenuta dal Romanticismo. Sia dal punto di vista della storiograia, che da quello della ilosoia, il romanticismo, pur diferenziandosi, ovviamente, dal movimento che lo ha preceduto, ne continua alcuni elementi che ci sforzeremo di chiarire. Comunque, è chiaro che, per la vastità e la ricchezza delle sua manifestazioni che toccano i più diversi aspetti della civiltà religiosa, ilosoica, artistica, politica, sociale, nonché per l’ampiezza e la diversità della sua difusione, con molteplici ramiicazioni e gradazioni in tutti i paesi europei ed americani, il romanticismo è un fenomeno straordinariamente complesso e assai diicile a deinirsi, e ad ogni modo non riconducibile ad una formula unica.

Le ideologie degli illuministi e le esperienze della rivoluzione francese ed europea avevano smantellato e ridotto in pezzi l’impalcatura secolare dei rapporti sociali e mostrata la fragilità di tutte le norme tradizionalmente accettate nel giudizio dei valori morali e culturali; avevano minato alla base l’assolutismo monarchico, i privilegi delle caste, la rivelazione religiosa, gli idoli dottrinali nell’ambito delle scienze isiche e morali, le regole dell’arte e del gusto; e contro tutte le superstiti resistenze della tradizione e dell’autorità in ogni campo avevano esaltato l’unico criterio della ragione umana. I romantici, senza nulla togliere a questa esaltazione della libera ragione umana, vi aggiungono una considerazione storica più ampia: scoprono, negli errori del passato, nelle superstizioni, una linea, sia pure faticosa e contrastata, di progresso. Insomma, al relativismo ingenuo e sommario, sottentra un più maturo storicismo, anche se crediamo che non bisogni esagerare nel contrapporre al razionalismo illuministico lo storicismo romantico. Un ruolo di primaria importanza svolse, in seno al

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romanticismo, l’idealismo tedesco, che costituisce quella grande fase della storia del pensiero che si è sviluppata proprio nella Germania di ine Sette ed inizio Ottocento. Per la Germania, è un periodo, nel quale si incrociano, si scontrano e si fondono motivi e interessi culturali tra loro diversissimi, ma quasi tutti di grande rilievo, per cui, non a torto, l’epoca viene chiamata «età di Goehte», poiché nessuno meglio di lui, col carattere ricco e composito della sua igura e della sua opera, può simbolizzarla. Già l’esito dell’illuminismo in Germania era stato parecchio complesso e interessante. Intorno agli anni settanta, la nuova generazione facente capo al Goethe del Werther e imbevuta di ideali roussoviani si faceva portatrice della reazione all’illuminismo. Caratteri precipui di tale movimento, di solito chiamato Sturm und Drang, erano: la rivendicazione dei valori irrazionali – fantasia, sentimento, istinto – di fronte alla ragione astratta dell’illuminismo; la rivendicazione dei valori storici – la tradizione, la continuità col passato – che il razionalismo illuministico aveva negato; la contrapposizione, al metro universale della ragione, con cui l’illuminismo aveva misurato la storia, dell’esigenza di comprendere le diverse epoche dall’interno, misurando ciascuna con il suo metro, rivendicandone il valore e il signiicato nello sviluppo storico.

Lo Sturm und Drang prende il nome da un dramma del poeta Massimiliano Klinger. La riabilitazione del sentimento e della fantasia si chiarisce e si determina come aspirazione religiosa: la natura è per gli Sturmer la voce e il poema di Dio; la storia è la reggia e il tempio dell’Eterno, dove l’uomo entra, preso da sacro tremore; e viva veste di Dio è il terreno divenire. Ma in questa fede lo Sturm non si acquieta: vive e sofre il dramma spirituale dell’età moderna. L’uomo che il Rinascimento ha consacrato come un gigante, si riiuta di essere un semplice strumento della Provvidenza, perché si sente emulo dell’Eterno. Ma davanti a lui si erge minaccioso il problema del male e della morte. Crolla, dinanzi ad una analisi realistica dell’uomo e della sua storia, l’illusione di vivere nel migliore dei modi.

Lo Sturm und Drang dà a queste esigenze un’espressione confusa e violenta, che spesso assume forme paradossali: è la manifestazione ancora incomposta di un moto spirituale che troverà i suoi interpreti in una schiera di pensatori. I sintomi precorritori del romanticismo si fanno sentire fortemente nella storiograia tedesca, e nei teorici che ne elaborano le concezioni. La polemica contro il razionalismo illuministico acquista eicace espressione in Johann Georg Hamann, in cui la rivendicazione

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dell’irrazionale nella storia costituisce il centro dell’ispirazione. Imbevuto di spirito religioso, attribuisce alla storia, come alla natura, un carattere simbolico; il mondo è per lui un grande mistero, che va compreso con ben altro metro che la ragione: agiscono in esso forze irrazionali ed elementari come il senso, la passione, l’intuizione. Occorre quindi liberare il senso dalle astrazioni innaturali dell’illuminismo; ridare alla passione il suo ruolo determinante. Figli delle passioni e della natura, i geni si staccano dal piano uniforme della storia: Omero non conosceva la regole, Socrate era un ignorante posseduto da un demone. Una posizione, questa, in netta antitesi con l’illuminismo. Arcaicamente involuto in forme biblico-religiose, asistematico, misterioso e strano, intuì idee che dovevano poi farsi strada, e rivendicò, contro l’antistoricismo illuministico, i valori della storia.

Aspetto ben diverso prende la reazione all’illuminismo in Justus Moser. All’astrattismo illuministico egli contrappone una concezione realistica della storia. Non è un teorico, non si ispira a speculazioni di pensiero, ma alla sua esperienza pratica. È un freddo realista, che ripudia l’antistoricismo illuministico per ragioni pratiche, non teoriche. Non intende riabilitare il passato, ma nemmeno intende negare quel che gli appare in esso ancora vivo: ritiene, ad esempio, che i resti della vecchia autoamministrazione basata sul principio della comunità contadina debbano essere conservati, non per amore del diritto storico, ma solo perché crede che i contadini intendano meglio le loro cose che non i burocrati. La sua maggiore opera storica, la Osnabruckische Geschichte, diverge completamente dall’ideale volteriano del dispotismo illuminato, dello Stato razionalmente organizzato. La prosperità di un paese, per lui, non può essere opera dello Stato: si basa sulla libertà e sulla sicurezza dei comuni proprietari fondiari. Non ripone le sue speranze nel despota illuminato, bensì nella borghesia benestante: vuole insegnare specialmente al cittadino e al campagnolo come possa conservare, nelle varie forme di governo e nelle loro sempre cangianti manifestazioni, nel modo più sicuro libertà e proprietà. Il popolo sa meglio dei burocrati quello che gli torna utile; sa distinguere le innovazioni durevoli, da quelle imposte da un’astratta volontà innovatrice. Nello Stato illuminato e nei suoi interventi egli vede soltanto una decadenza dell’antica libertà, una violazione delle spontanee forze storiche. A Moser si deve il merito di aver inaugurato un nuovo settore della storiograia: la storia sociale. L’organizzazione statale non è, per lui, come spesso per gli illuministi, creata dal nulla, per opera di saggi legislatori o despoti illuminati, ma

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sorge dalla vita sociale: i rapporti economico-sociali che determinano lo sviluppo politico sono l’espressione di forze che non si lasciano dirigere da un individuo. Insomma, egli crede in una storia che si fa da sè e che egli cerca di far parlare da se stessa, senza l’intervento di schemi razionali. Gli importa più comprendere gli avvenimenti che criticarli. Le sue tendenze politiche cedono il passo ai suoi interessi propriamente storici: egli non vuole dimostrare una tesi, ma semplicemente sapere quello che è accaduto.

Tra i pensatori che hanno particolarmente rivolto la loro attenzione al problema della storia, è Johann Gottfried Herder, discepolo di Hamann. Nella sua opera, Auch eine Philosophie der Geschichte zur Bildung der Menschheit, egli si domanda quali forze guidino e determinino la storia umana. Dice che è un’impresa che supera le possibilità dell’indagine umana, e di cui egli stesso, forse, ha balbettato la prima sillaba. La storia è un abisso in cui si sente perduto e in cui, tuttavia, risiede una sorta di armonia e una sia pure confusa linea di sviluppo. Una forza misteriosa anima la storia. Quale forza? Il destino: la Provvidenza in quel che ha di enigmatico e di ineluttabile. Essa domina i contrasti e dà loro un senso ed uno scopo. L’egiziano odiava l’orientale, il greco disprezzava l’egiziano; «ma appunto il loro odio mostra sviluppo, progresso, gradini della scala». Quando l’odio e il disprezzo paiono agire come un elemento disgregatore, «li si chiama pregiudizio, volgarità plebea, gretto nazionalismo. Ma il pregiudizio è buono, a suo tempo, poiché fa felici. Spinge i popoli a concentrarsi in sè, li fa più forti sul loro tronco, più iorenti nel loro stile di vita. Sotto questi aspetti, spesso la nazione più accecata da pregiudizi è la prima». Le negatività e le unilateralità nazionali hanno una loro funzione: «quanto non deve la civiltà d’Europa agli avidi trufatori fenici!».

Il progresso non è la linea retta ascendente, quella regolare espansione dei lumi, che hanno visto gli illuministi: è il movimento incessante della storia, pieno di beneici sviluppi. Non si possono applicare gli schemi contemporanei al giudizio su altri popoli ed altre epoche: le varie civiltà vanno misurate in se stesse, ognuna in se stessa ha un suo positivo valore. Non quindi progresso, se con questa parola si intende sanzionare una qualsiasi inferiorità di civiltà passate. Herder adopera più spesso un’espressione che diverrà tipica del romanticismo: sviluppo. Egli vede nella propria epoca il vertice dello sviluppo. Ma la sua non è la beata iducia degli illuministi nell’eccellenza del secolo dei lumi: è il senso di una missione, l’esigenza di un rinnovamento, di una rivoluzione ormai matura:

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Dio è stato perso, a noi ritrovarlo! Io vedo a fondo la grandezza, la bellezza, la singolarità del nostro secolo... Come alto, dopo la restaurazione delle scienze, esso è salito! Con quali mezzi mirabilmente facili è giunto alla vetta! Come saldamente l’ha fortiicata e assicurata alla posterità!... Siamo senza dubbio sul ramo più alto dell’albero... in alto vediamo più degli Orientali, dei Greci, dei Romani, per non dire dei barbari gotici medievali! Alto vediamo sopra la terra! In certo senso tutti i popoli e le parti del mondo sono sotto la nostra ombra, e se una tempesta scuote due foglioline in Europa, come trema e sanguina l’intera terra.

Come si vede, quest’entusiasmo di Herder nasce da una fede in tutto quanto è stato, da un amore difuso in ogni momento ad ogni creatura della storia. È proprio la prima caratteristica di Herder questo non condannare alcuna epoca, nemmeno la propria. Egli disegna ogni fase della storia con colorito amore. L’età dei patriarchi, infanzia della storia, riprende i motivi dello stato di innocenza di Rousseau. Gli egiziani sono ingegnosi fanciulli; i fenici adolescenti curiosi del mondo; i greci sono giovani artigiani che hanno creato arti, leggi, miti e ilosoie; i romani rappresentano la lorida maturità del mondo, che i barbari rinvigoriscono di nuova giovinezza. Così si svolge la storia, nella catena della Provvidenza, intrecciata in mille modi: «ogni anello della catena è al suo posto: pende alla catena, e non vede e non sa donde inalmente la catena penda».

La parte più originale del pensiero di Herder è in questa sua Auch eine Philosophie der Geschichte (Ancora una ilosoia della storia), pubblicata nel 1774. Dieci anni dopo egli intraprese a scrivere una serie di studi dal titolo Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit (Idee per la ilosoia della storia dell’umanità) che continuò dal 1784 al 1791. È una lunga corsa attraverso il tempo e lo spazio, che si inizia con la storia delle stelle e dei pianeti: solo col quarto libro si arriva all’homo sapiens; col sesto alle tribù primitive; con l’undicesimo (pubblicato nel 1787) si comincia a trattare di epoche storiche. In esso ritornano, con minor vigore, e non senza contraddizioni, i motivi fondamentali della sua prima ilosoia della storia: di nuovo, la posizione di problemi sulla natura dell’uomo, «il carattere della nostra stirpe, da cui dipende tutta la nostra felicità e infelicità, anzi la felicità e l’infelicità della terra che noi abbiamo conquistato e soggiogato, corrotto e migliorato».

Dal punto di vista ilosoico, chi ofrì un concreto contributo all’evoluzione della storiograia è Immanuel Kant. Le sue teorie non sono poste in termini di sentimento e di fantasia, bensì in rigorosi termini speculativi,

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che derivano dalla generale impostazione del suo sistema. Fermiamo la nostra attenzione specialmente sui saggi kantiani che toccano più da vicino il nostro argomento: il saggio Ideen zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher ansicht (Idee per una storia universale da un punto di vista cosmopolitico, 1784) e quello Zum ewigen Frieden (Della pace perpetua, 1795) Nelle Ideen egli parte dalla stessa domanda che si era posta Herder: la ricerca delle leggi che governano la storia. Essendo le azioni umane «accadimenti naturali», devono essere sottoposte a leggi, che possono essere individuate. Leggi che stanno al di sopra della volontà degli uomini, che, nelle loro azioni, si ispirano a propri particolari ini emotivi. L’uomo ha un bel far progetti: «durante queste fantasticherie, il nostro vero destino ci conduce per tutt’altre vie».

Come agisce questo destino, per guidare gli uomini ai suoi ini? Quali sono questi ini? La natura non fa i suoi piani per il bene dell’umanità al di fuori dell’umanità: il suo ine è «lo sviluppo di tutte le disposizioni dell’umanità», il suo mezzo e strumento è l’umanità stessa. Lo strumento di cui si serve la natura ai suoi ini è il perenne contrasto, «l’antagonismo» che domina la società umana: quello che Kant deinisce «la insocievole socialità degli uomini, ossia la loro inclinazione a entrare in società, legata ad una universale resistenza, che costantemente minaccia di dissolvere questa società». L’uomo, spinto da ambizione, avidità di dominio o di ricchezza vince la sua «inclinazione alla pigrizia», si sforza di emergere fra i suoi eguali «che non può sopportare, ma dai quali non può separarsi». Questo disaccordo è il mezzo che la natura adopera per il bene della specie.

Tutte le civiltà e le arti e il più bell’ordinamento della società sono frutti della dissociabilità, che obbliga se stessa a darsi una disciplina, e così, a svolgere compiutamente i germi della natura. Senza questa dissociabilità, tutti i talenti resterebbero nascosti in eterno nei loro germi: gli uomini vivrebbero nella staticità degli animali domestici. Ringraziata sia dunque la natura per la sua intransigenza, per l’avidità di possedere, o anche di dominare. Senza di esse, tutte le eccellenti disposizioni dell’umanità sonnecchierebbero in eterno senza svolgersi.

Anche la guerra, come espressione dell’istinto della lotta, ha una sua funzione: promuove l’evoluzione politica.

Le guerre sono altrettanti tentativi (non certo nell’intenzione degli uomini, bensì in quelle della natura) per stabilire nuove relazioni tra gli Stati, e, attraverso la distruzio-

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ne, istituire nuovi corpi politici. In sostanza, la guerra deve restare nel mondo, ainché l’uomo speculi, lavori, diventi coraggioso.

Ma l’azione umana non obbedisce soltanto alla natura: è guidata anche dalla ragione e dalla morale. L’intelletto, che sta al di fuori della causalità naturale, fa in modo che l’azione umana eserciti la sua libertà e rende quindi possibile la realizzazione di un mondo morale. La storia non è altro che la storia della libertà, in cui si avvera l’idea morale. La natura scatena tutti gli istinti; ma una legge superiore la indirizza ai suoi scopi: la legge morale. Si attua così il progresso, come avvicinamento continuo ad una perfezione certa e deinita, ma irraggiungibile: un progresso fatale, che può essere interrotto, ma non è mai fatto cessare. Lo scopo della storia è così la formazione morale dell’individuo. Questa formazione trova il suo strumento nello Stato di diritto: l’ordinamento giuridico della società nella sua forma più compiuta. A questa perfetta costituzione interiore dello Stato deve rispondere, parallelamente, un regolamento dei rapporti fra gli Stati: la politica trova la sua giustiicazione morale nel ine della pace eterna. L’umanità arriva così, attraverso la libertà dell’intelletto, alla libertà morale. Questo è il nascosto piano della natura: il progresso dell’umanità attraverso la libertà intellettuale verso la perfezione morale.

Giunti a questo punto, ci sembra abbastanza evidente la continuità tra tali e consimili teorie e quelle del romanticismo vero e proprio. Kant apre la strada, che sarà poi percorsa da Fichte, Shelling, Hegel e dal pensiero romantico in genere; così come le teorie, a livello di sentimento e fantasia sopra esaminate, rimangono alla base dei successivi sviluppi della sensibilità e della poesia dell’Ottocento, ino agli anni quaranta e cinquanta. D’altra parte, sarebbe impensabile che un movimento di pensiero così vasto, vario e complesso come il romanticismo, sorgesse all’improvviso, quasi dalle viscere della storia, senza legami col passato recente.

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