3. Quando finisce la battaglia? Sembra che in centro il ritiro delle armi fosse cominciato non appena il fronte si era spostato verso Fiesole. Il comunista Fernando Gattini ricorda il pomeriggio in cui alcuni carabinieri disarmano una pattuglia partigiana: “al nostro comando di via Mazzini succede il finimondo”. Il commissario politico Berto comincia a gridare il suo sdegno: “È una vergogna”. «[…] Non si può accettare che i partigiani di Potente si facciano disarmare dai carabinieri. Ma chi sono costoro, cosa hanno fatto mentre noi stavamo in montagna? Quando una pattuglia di carabinieri incontra una pattuglia di partigiani, semmai chi deve abbassare le armi sono proprio i carabinieri. Bisogna farsi avanti e dir loro: Ma voi chi siete? Siete delle merde, giù le armi! Ecco cosa devono fare i partigiani!»
“Un boato accoglie queste parole”, tutti l’acclamano e tutti sono certi che “nessuno si farà più disarmare dai carabinieri”; ma si capisce anche che le cose stanno cambiando in fretta: “la pace è finita”40. Poco dopo l’incidente con i carabinieri, ecco uno scontro con la polizia alleata in piazza Vittorio, perché i soldati angloamericani hanno di fatto requisito i caffè, e proibiscono persino l’attraversamento della piazza. Anche questa è una provocazione. Così, incazzati, un pomeriggio entriamo in gruppo nel caffè che sta all’angolo della piazza. Quando il personale di servizio pretende di metterci alla porta, noi ci opponiamo. Allora arriva la Militar Police […]. Ne nasce una colluttazione da Far West, ma alla fine ci vediamo costretti ad abbandonare il locale. Da quel giorno tutte le sere ci ritroviamo in massa sotto i portici della piazza e cominciamo a cantare le nostre canzoni percorrendola in lungo e in largo. Ma i caffè, purtroppo, rimangono riservati ai «liberatori»41.
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F. Gattini, Le nostre giornate, La Pietra, Milano 1979, pp. 168-169. Ibidem. R. Del Carria, Proletari senza rivoluzione. Storia delle classi subalterne italiane dal 1860 al 1950, Edizioni Oriente, Milano 1966, II, pp. 347-352, sostiene che nulla meglio dei canti partigiani, sorti “spontaneamente in montagna”, mostra qual era l’“ideologia che animava le masse subalterne armate al di là della mediazione dei dirigenti”. La tesi di Del Carria è che “le masse” nella Resistenza volevano la lotta di classe, e i “dirigenti”, soprattutto del PCI, la lotta di liberazione nazionale; la sostiene sulla base dei testi e l’alterna fortuna dei canti partigiani, e tra gli altri porta il caso di Firenze, su cui si veda alle pp. 352: “La canzone delle primissime formazioni partigiane fiorentine (da quella di Lanciotto a Monte Morello in poi) fu «Noi siam la canaglia pezzente», dove il contenuto di classe era esclusivo; canzone che risuonò sui monti intorno alla città per tutto l’inverno e poi la primavera 1943-44. Poi, con il giugno ’44, quando sempre maggiori quadri politici del Partito affluiscono nelle formazioni, nasce 41
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