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di Marina Rossi “

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I partigiani sovietici in Italia

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di Marina Rossi

Paradossalmente si è dovuta attendere la caduta del comunismo perché in Russia e negli altri stati ex-sovietici si potesse far conoscere appieno la vicenda degli oltre 5.000 partigiani sovietici (ma specialmente ucraini e georgiani) che contribuirono alla resistenza italiana con 425 caduti e 11 decorati (4 medaglie d’oro, 3 d’argento e 4 di bronzo)1. Fino al 1963 il fatto fu addirittura segretato, perché quei partigiani provenivano da due categorie censurate dalla propaganda, i prigionieri e i collaborazionisti della Wehrmacht. Se per questi ultimi si può comprendere la damnatio memoriae, meno scusabile è la reticenza sugli oltre 5 milioni di prigionieri russi, di cui da 3 a 3,5 milioni persero la vita per i maltrattamenti subiti nei campi di concentramento tedeschi2: ai superstiti furono infatti applicate le dure norme in vigore nell’armata rossa dal 1927 e la maggior parte fu mandata in «rieducazione» in speciali campi di lavoro. La crisi del Cominform ha condizionato ulteriormente gli studi e la riflessione su quella tragedia, relegandone l’interesse e la memoria ai diretti protagonisti o a quanti in varie epoche riuscirono a recepirne qualche aspetto. Attraverso nuove fonti, aprendo un confronto con protagonisti e studiosi dei paesi direttamente coinvolti

1 Direzione del PCI - Gruppo di lavoro centrale per le questioni dell’antifascismo (cur.),

Partigiani sovietici nella resistenza italiana, 1966. Mauro Galleni, I partigiani sovietici nella Resistenza italiana, Roma, Editori Riuniti, 1967, prefazione di Luigi Longo; riedito a cura di Carlo Isoppi (Ciao russi. Partigiani sovietici in Italia (1943-1945), Marsilio, Padova, 2001). Vladimir Pereladov, Il battaglione partigiano russo d’assalto, prefazione di Renato Giorgi (Angelo), - introduzione di Remigio Barbieri, collana La Resistenza in Emilia-Romagna n.2, Bologna: Edizioni La Squilla, 1975; I partigiani sovietici della VI zona ligure, Genova, Italia-URSS, 1975, per conto dell’Associazione italiana per i rapporti culturali con l’Unione Sovietica; Nikolaj Timofejev, «I partigiani sovietici in Italia»,

Il Calendario del Popolo n.470/1984; Vladimir Pereladov, Zapiski russkogo garibaldijca, Novosibirsk, Novosibirskoe knižnoe izdtatelstvo, 1988; Carla Capponi, I partigiani sovietici nella resistenza prenestina, Comune di Palestrina, Assessorato alla cultura, Biblioteca comunale Fantoniana, Fondazione Cesira Fiori, Palestrina, Comune, 1994. Michail Talalay, M. Talalay, Dal Caucaso agli Appennini. Gli azerbaigiani nella resistenza italiana, Roma, Sandro Teti, 2013; Id., I partecipanti russi alla guerra 1943-1945 in Italia: Partigiani, cosacchi, legionari, Staraia Basmannaia, 2015. Massimo Eccli, I partigiani sovietici in Italia, mostra fotografica, 2018. 2 Christian Streit, Keine Kameraden: Die Wehrmacht und die Sowjetischen Kriegs gefangenen, 1941-1945, Bonn, Dietz, 1978. Reinhard Otto, Rolf Keller u. Jens Nagel, «Sowjetische Kriegsgefangene in deutschem Gewahrsam 1941-1945. Zahlen und Dimensionen»,

Vierteljahrshefte für Zeitgeschichte, 2008, 4, pp. 557-602.

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in tali vicende, ho cercato con la massima obiettività di gettare nuova luce su un aspetto poco noto della resistenza europea.

Malgrado gli studi, le mostre e i siti online che raccolgono foto e censiscono monumenti3, i dati quantitativi, disaggregati per provincia, sono ancora quelli provvisori raccolti nel 1966 da un gruppo di lavori della Direzione del PCI (Mauro Galleni, pp. 240-41), frutto di una lunga e appassionata ricerca sulla memorialistica e documenti e testimonianze di diverse unità partigiane all’epoca disponibili. Nell’agosto 1943 c’erano in Italia circa 20.000 prigionieri sovietici catturati in Ucraina dal CSIR e dall’ARMIR. In seguito giunsero in Italia, con la Wehrmacht, 22.000 cosacchi (di cui solo 9.000 combattenti), 4.000 caucasici e 14.000 collaborazionisti, che, sia pure in piccole aliquote, passarono poi coi partigiani4. Dalle ricerche di Galleni emerge il dato, incompleto, di 4.981 partigiani sovietici, di cui 425 caduti, così ripartiti per regione: 1.629 / 68 in Toscana (900 nella sola provincia di Grosseto); 900 / 83 in Piemonte; 459 / 98 in Friuli Venezia-Giulia; 373 / 35 caduti in Liguria; 368 / 34 in Lombardia; 196 / 34 nel Veneto; 105 / 6 nelle Marche; 25 / 5 in Trentino e 50 / 0 in Abruzzo e Campania. Tuttavia, anche per la difficoltà di pronuncia e trascrizione dei nomi slavi, quelli identificati con nome e cognome (non sempre corretto) sono appena il 40% (1.995, di cui 159 caduti).

Nell’intento di Galleni e di Luigi Longo, che ne scrisse la prefazione, quel volume doveva alimentare la cultura della pace e l’amicizia tra i popoli italiano e sovietico. Il disgelo e i rapporti italo-sovietici avevano del resto già prodotto, nel 1963, uno studio sovietico sui prigionieri divenuti partigiani in Italia, pubblicato per l’Accademia delle Scienze di Mosca da Ivan Kulikov, che lo ripropose con aggiornamenti in un convegno del 1970 in Italia sulle repubbliche partigiane e le zone libere, occasione per confrontare le testimonianze sovietiche con quelle italiane: «È ampiamente noto che in Italia, spalla a spalla con i patrioti italiani combattevano i rappresentanti di molti popoli, come, fra l’altro, nei ranghi dei partigiani sovietici combattevano, contro un nemico comune, polacchi, cechi e slovacchi (ad uno di essi, a Jan Nalepka, è stato conferito il titolo di Eroe dell’Unione Sovietica alla memoria), ungheresi, tedeschi, austriaci, rumeni, spagnoli e, in quantità minore, francesi, belgi, olandesi, jugoslavi ed altri; ci sono stati, ma non molto numerosi, anche gli italiani. La questione si spiega con uno spostamento forzato, mai visto in precedenza, di masse umane – dai militari ai civili – a causa delle proporzioni gigantesche del conflitto mondiale. Per vari motivi un numero considerevole di sovietici – militari e civili – caddero prigionieri o furono deportati nei campi di lavoro forzato

3 Es. Olga Babak, Partigiani Sovietici nella Resistenza italiana, album facebook, 2010; Partigiani! nel sito cnj.it (2005). 4 Pier Arrigo Carnier, L’armata cosacca in Italia, 1944-1945, Milano, Mursia, 1993; Antonio Dessy, I cosacchi di Krassnov in Carnia, Tesi di laurea, Padova, 2004.

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dagli invasori. Gran parte di questi prigionieri furono, contro la loro volontà, trasferiti in Germania, nei paesi europei suoi alleati o nei territori occupati dai nazisti. Con l’aiuto delle popolazioni locali, militanti clandestini e partigiani, numerosi di questi cittadini sovietici riuscirono ad evadere, entrando nelle file dei combattenti della Resistenza in Francia, Polonia, Cecoslovacchia, Jugoslavia, Belgio, Norvegia, Grecia e in altri paesi europei». 5

Naturalmente, considerata l’epoca di questi primi studi non stupisce il tono assertivo di Kulikov, sicuro che la partecipazione sovietica alla resistenza italiana fosse semplice e ovvia conseguenza della comune fede rivoluzionaria e internazionalista nata nel «biennio rosso» del 1919-1920, e che tra i partigiani italiani non fosse in discussione il ruolo di guida dell’Unione Sovietica, per lo meno – come scriveva Roberto Battaglia – a partire dal giugno 1941: «L’entrata dell’URSS nella seconda guerra mondiale ha profondamente cambiato il carattere della guerra stessa, ha contribuito alla comparsa in tutti i paesi di forze determinate a condurre fino in fondo la lotta contro il fascismo.6

E’ comunque vero che già il primo successo militare sovietico – la difesa di Mosca – mise fine a un lungo periodo di incertezza e smarrimento. Come scrive Gigli, «su ambedue le sponde dell’Oceano Atlantico i popoli compresero che, dopo la battaglia di Londra, la battaglia di Mosca aveva salvato il mondo libero».7 Stalingrado fu poi considerata decisiva non solo dal punto di vista militare, ma anche psicologico. I russi dell’Armata rossa furono considerati un grande aiuto alla causa del riscatto nazionale dal nazifascismo.8

Oltre ai sovietici, nell’agosto 1943 c’erano in Italia anche 60.000 prigionieri del Commonwealth, e, come nota Filippo Frassati, inglesi e americani temevano che i tedeschi intendessero trasferirli in Germania, tanto che durante il negoziato armistiziale chiesero al governo italiano l’impegno a «prendere urgentemente tutte le misure necessarie, per impedire la possibilità che i prigionieri cadessero nelle mani dei tedeschi». Invece tutti furono abbandonati a loro stessi e gli unici aiuti ai prigionieri vennero dalla popolazione civile, sfidando le rappresaglie nazifasciste. Solo in seguito, nell’ambito del CLN Alta Italia fu creato un «Servizio per il soccorso ai prigionieri alleati». Decine di migliaia di costoro poterono così raggiungere e passare la linea del fronte oppure riparare in Svizzera insieme a circa 15 mila militari italiani. Una minoranza – che Galleni stima a un sesto

5 Ivan Kulikov, Obedinenje Italij. 100 let Borbi za nezavizimost i demokpatju, Izdatelstvo Akademij nayk SSSR, Moskva 1963, pp. 460-478; Id., «Partigiani sovietici nelle zone libere italiane», in AA.VV., Le repubbliche partigiane e le zone libere, Cuneo, 1970, p. 353-370 6 Roberto Battaglia, Storia della Resistenza Italiana, ed. Letteratura straniera, Moskva, 1954 p. 47 (viene citato dall’ed. russa) 7 G. Gigli, La seconda guerra mondiale (1939-45), Laterza, Bari, p. 218 8 R. Battaglia, cit., p. 74 in Kulikov, Partigiani sovietici, cit., p. 355

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del totale (ossia 12 mila, inclusi 5 mila sovietici) – per varie ragioni o per convinzione ideale passò con la resistenza.9 Secondo Kulikov il particolare addestramento ricevuto nelle formazioni regolari e partigiane sovietiche e la conoscenza della men-

I primi tre partigiani sovietici decorati di medaglia d’oro talità, delle procedure e alla memoria *. Fëdor A. Poletaev - Danijl V. Avdeev - Pore Musolishvili dell’armamento del nemico appresa nei lager o nel servizio ausiliario della Wehrmacht faceva dei sovietici l’elemento più agguerrito della resistenza italiana, particolarmente adatto alle azioni più difficili e rischiose, incluse quelle compiute indossando uniformi nemiche. Ad esempio il capitano Vladimir Žukov – secondo la testimonianza d’un altro protagonista, il moscovita Aleksandr Ghioev – era consigliere militare della 36ª Brigata Garibaldi (Imola) e durante le cruente battaglie presso il Monte Faggiola e a Ca’ di Guzzo diede esempio di capacità tattica e di coraggio personale. Il maggiore Aleksej Konaev (erroneamente in tutte le fonti italiane chiamato Konov o anche Konev) combatté alla testa del suo reparto nella provincia di Cuneo, dove fu creata un’ampia zona libera partigiana (Valli Maira e Varaita)10. Nel Novarese si distinsero il russo Viktor Selepičin e il georgiano Pore Musolishvili.11

Dati quasi esaurienti per la Repubblica di Montefiorino si trovano nei ricordi, editi in URSS, di Anatolij Tarasov, Vladimir Pereladov, Mikhajl Almakaev ed altri12. Come scrisse Mario Ricci ‘Armando’, il comandante delle forze partigiane della repubblica:

* Serg. ucraino Fëdor Andrianovič Poletaev ‘Gigante’ (1909-1945) del Dist. ‘Nino Franchi’ della Div. Pinan-Cichero (Val Borbera); cap. di cav. Danijl Varfolomeievič Avdeev (19171944) cte il btg Stalin della Div. Garibaldi Carnia; serg. Pore Musolishvili (1919-1944), 2° btg della 118a Brg Garibaldi (Novara). Nel 1985 ne fu conferita una quarta all’ucraino Nikolaj Grigor’evič Bujanov (1925-1944), della 5ª cp ‘Chiatti’ della 22a Brg Garibaldi «Vittorio Sinigaglia» (Valdarno aretino), autore di un ‘Capriccio italiano’ oggetto di un film russo. 9 Mauro Galleni, I partigiani, cit., pp. 15 e 17. 10 Elena Donà, «Partigiani russi in Valsusa bevevano nafta e sposavano donne italiane», online pagina.to.it. 11 Ivan Kulikov, «Partigiani sovietici nelle zone libere italiane», cit., p. 358 12 V. Pereladov, Ciò che non si scriveva nei bollettini di guerra, Gospolitizdat i Mosca, 1962; M. Almakaev, «Sotto il cielo di Italia», Dai Carpazi alla Normandia, ed. Praporchari, Kom, 1965.

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«Durante questi indimenticabili eventi (cioè nel periodo della difesa della repubblica) il Battaglione Russo è stato inviato nel settore di maggiore responsabilità, qual era Ceredolo. Esso combatteva contro alcune migliaia di nemici, che hanno riportato delle perdite enormi… I russi si gettavano nella mischia con un caratteristico assordante “urrà”, entusiasmati dal supremo ideale della libertà. Non temevano la morte, che purtroppo, ci strappò molti di loro…»13 .

Oltre al Battaglione d’assalto russo presero parte attiva alla difesa della Repubblica di Montefiorino anche altre due unità sovietiche, il reparto minatori “Cane azzurro” comandato dal tenente Jona Rad, in cui si distinse l’ucraino Nikolaj Seminazko, proposto per una medaglia, e il distaccamento comandato da Mikhajl Naidionov, incorporato nella Brigata «Matteotti» operante presso Porretta Terme e Castelluccio:

«Furono proprio i sovietici che il 26 settembre iniziarono una coraggiosa operazione militare, il cui sviluppo, del tutto imprevisto, portò alla liberazione di una vastissima zona. Partiti in perlustrazione per la zona di Castelluccio, attaccarono una colonna di SS. Rimasti soli in paese, lo occuparono stabilmente. Antonio Giurolo (comandante della Brigata) sfruttò immediatamente la favorevole circostanza e ordinò l’occupazione di tutta la zona compresa tra Monte Cavallo e Castelluccio. I tedeschi, sorpresi, si ritirarono verso Lizzano credendo di dover fronteggiare un duplice attacco partigiano e alleato. Quando si accorsero di avere di fronte solo i partigiani, contrattaccarono in forze verso Capugnano, ma furono respinti dai sovietici».14

Il gruppo sovietico annientò una squadra nemica, incendiò 2 automezzi di munizioni e interruppe la strada Bologna-Pistoia. Scrive M. Naidionov: «Molto spesso il comandante della brigata, il capitano “Toni”, sulle operazioni di guerra della brigata, si consigliava per decidere il nostro giudizio sulla situazione, si interessava del come, in una situazione analoga, venisse risolto il problema nella nostra patria, dai comandanti dell’Esercito Rosso»15 .

Le imprese del Battaglione georgiano sono ampiamente ricordate nel libro di Secchia e Cino Moscatelli, tradotto anche in URSS16. Ebbe infatti un ruolo importante nella battaglia di Gravellona Toce all’entrata della Val d’Ossola, e poi nelle operazioni condotte in Val Sesia, a Romagnano, sul Mottarone, dove meritò la medaglia d’oro il georgiano Pore Musolishvili.17

13 Ivan Kulikov, Partigiani sovietici nelle zone libere italiane, cit., p. 359 14 Nazario Sauro Onofri, Socialisti bolognesi nella Resistenza, ed. La Squiera, p. 180 15 Lettera di M. Naidionov a I. Kulikov, 1° settembre 1969 16 Secchia, Moscatelli, Il Monte Rosa è sceso a Milano, Gozpolitizdat, Mosca, 1961. 17 Ivan Kulikov, Partigiani sovietici nelle zone libere italiane, cit., p. 360. Dalla conversazione con Albino Calletti (“Capitano Bruni”), uno dei più noti comandanti partigiani della provincia di Novara, Mosca, 1969.

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Albino Calletti ricorda anche il valore di Aleksandr Tkačjov.18 Evaso dalla prigionia in Baviera e rifugiato in Svizzera, Tkačjov aveva passato il confine italiano per continuare a combattere contro i nazisti, ed era stato uno dei primi ad entrare nel «distaccamento volante» della Brigata «Val Toce» e poi «il primo a entrare in Domodossola». Dopo la liberazione della città. Tkačjov fu invitato al balcone di una delle case sulla piazza centrale sia «come soldato russo, sovietico» sia quale rappresentante dei partigiani vittoriosi e poi alla prima seduta solenne della Giunta popolare al Palazzo comunale. Dalla Svizzera erano scesi nel Novarese pure molti altri ex-prigionieri sovietici, come Viktor Selepučin, Ivan Šokov, Pëtr Šelejko, Konstantin Chavkin e Vladimir Bulach, partigiano nella Brigata «Cesare Battisti»: «Noi non aspettavamo mai gli ordini per le operazioni; chiedevamo ogni giorno, letteralmente supplicavamo al comando il permesso per una o per un’altra operazione, e, pare, eseguissimo ogni compito con onore».

Erano i sovietici ad effettuare le ricognizioni e la “caccia delle lingue”, ossia le imprese più rischiose, ed erano loro «di solito», ad accompagnare «il comandante della brigata ad appuntamenti cospirativi, che si effettuavano nel territorio controllato dai tedeschi». Quasi tutti furono feriti nel corso dei numerosi scontri con l’avversario, e uno di loro – Viktor Selepučin – cadde da eroe e fu sepolto a Ghiffa, in riva al Lago Maggiore.

Partigiani sovietici operarono anche in Friuli-Venezia Giulia, inquadrati sia nel Gruppo Divisioni Garibaldi sia nel Fronte di Liberazione Sloveno (OF) sia nel IX Korpus della NOVJ, in particolare in Carnia, a Caporetto, nelle valli dell’Isonzo e del Vipacco, nell’entroterra goriziano istriano e sul Carso triestino, nell’entroterra istriano, e pure a Gorizia e Trieste. Il capitano di cavalleria Danijl Varfolomeievič Avdeev (1917-1944) comandante il battaglione «Stalin» della Divisione Garibaldi Carnia19 meritò la medaglia d’oro nella sfortunata difesa della zona libera dell’Alto Friuli. Come testimonia uno dei suoi più intimi amici, il moscovita Aleksandr Kopilkov: «La situazione nella zona era cambiata bruscamente. I tedeschi temevano di penetrare nel territorio partigiano, i fascisti locali erano spariti». Pareva incominciasse la vigilia della liberazione definitiva. Ma i «pochi giorni», che ci dividevano dalla «vittoria», diventarono quasi un anno ancora (i partigiani non sapevano allora, che la causa di tale stato di cose era una «particolare politica», una «tattica di attendismo e di temporeggiamen-

18 Dalle lettere di A. Tkačiov indirizzate a I. Kulikov nell’agosto-settembre 1969 in I. Kulikov, Partigiani sovietici nelle zone libere italiane, cit., p. 361. 19 Alberto Buvoli, Gustavo Corni, Luigi Ganapini e Andrea Zannini (cur.), La Repubblica partigiana della Carnia e dell’Alto Friuli, Il Mulino, 2013; Buvoli, Comandante Daniel,

Un ufficiale russo nella Resistenza friulana, Comune di Pordenone, Grafiche Risma, Roveredo in Piano, 2005.

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to», adottata dagli alleati occidentali). La popolazione nella zona era notevolmente aumentata, ma le operazioni di guerra venivano effettuate dalla gente medesima. La massa dei partigiani, in maggioranza giovani, aveva un’esperienza militare minima. E quando intervennero le unità nemiche, la loro forza risultò quasi nulla».20 «fra gli italiani, non si sa perché, non si trovavano tali specialisti. Perciò proprio Anton21 e Danil fecero saltare in aria alcuni (3 o 4) grandi ponti stradali, un magazzino di munizioni vicino al forte di Osoppo, un ponte ferroviario; spesso facevano saltare in aria i binari. A queste operazioni presi parte anch’io, ma come mitragliere». «Le azioni del Battaglione Russo contro i tedeschi nel mese di dicembre –dimostrarono la possibilità di una resistenza risoluta contro gli attaccanti, ma non se ne approfittò. Il nostro Battaglione, forte di appena 100 uomini, certamente non poteva cambiare le cose…».

Nello studio di Pieri Stefanutti, le vicende del battaglione «Stalin n. 2» si collegano al quadro più ampio dell’occupazione cosacca in Carnia ed alle motivazioni, che indussero alcuni contingenti caucasici ad unirsi alla resistenza. Questa formazione si costituì il 13 settembre 1944 con un centinaio di cosacchi sfuggiti ai tedeschi. Fu inquadrato in un primo tempo con la brigata garibaldina Guido Picelli, assieme alla quale combatté nel settembre 1944; seguì quindi la sorte della brigata unendosi al IX Korpus sloveno nella zona del Collio.22 Del primo nucleo fece parte il russo Grigorij Žiljaev (in codice Gregor Sanin) dal marzo 1944 diarista ufficiale della neocostituita unità nonché responsabile agit-prop dell’OF. Da lui sappiamo che i primi transfughi della Divisione Turkestana si spostarono da Tarcento alla Slavia veneta, dove fraternizzarono con la «Brigata Fontanot», che li ospitò per qualche giorno. Raggiunsero quindi la destra Tagliamento, zona d’operazioni della brigata Mazzini, dell’Osoppo e di altre brigate garibaldine. Žiljaev conferma, insieme a molte altre fonti, che a fine settembre 1943 operava nella Libera Repubblica di Caporetto una «compagnia russa» (Ruska Četa), con staffetta e personale sanitario sloveni.23 Ai primi di maggio 1945 alcuni militari georgiani, già in contatto coi garibaldini con cui avevano combattuto a Villa Santina e ad Ovaro, si unirono allo Stalin, che raggiunse nuovamente la forza di 120 uomini. A metà maggio, a guerra finita, come ricorda anche Steffè, il battaglione fu radunato a Tolmezzo, dove ricevette il saluto delle autorità e del comando delle

20 Ivan Kulikov, Partigiani sovietici nelle zone libere…, cit., p. 363. Inoltre: Silvio Michieli,

Giorni di fuoco, Editori Riuniti, Roma, 1955. 21 Anton Melničiuk, ufficiale el genio e vicecomandante del Battaglione Stalin. 22 Mario Candotti, Il battaglione Stalin, cit., p. 150-151. 23 Grigorij Želaev, Zapiski partiziani (Appunti di un partigiano), p. 48-49 dal testo it. in M.

Rossi, L’Armata Rossa al confine orientale (1941-1945), LEG, 2014, p. 83

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Divisioni Garibaldi Friuli. Partì, quindi, per l’Austria, per rientrare in patria24 .

Alla difesa della zona libera di Kobarid (Caporetto) partecipò un distaccamento di 20 partigiani sovietici comandati dall’ucraino Anatolij Djačenko, già tenente di marina, inquadrati nel 2° reggimento, 18ª brigata OF Simon Gregorčič, 30ª divisione del IX Korpus. I russi combatterono intorno a Tolmino e Caporetto e durante azioni di sabotaggio contro caserme italiane e i ponti sul Tolminka e sull’Isonzo, reclutarono altri combattenti della 162ª divisione turkestana. Da Franjo Bavec, vicecomandante della Soška brigada (brigata Isonzo poi Bazoviška)25 apprendiamo che la 18ª era articolata su 1 battaglione sloveno, 1 serbo-croato e 1 russo (con ufficiali di collegamento sloveni).

A volte la ricerca di contatti fu individuale. Nel gennaio 1944, il numero dei sovietici unitisi all’OF nella valle dell’Isonzo sale a 250. Nel villaggio di Lom, sopra Kanal, si costituisce, nell’ambito della Soška, il 2° battaglione sovietico, su 3 compagnie di fucilieri, un gruppo mortai, un plotone, un reparto sanitario, con 20 compagni sloveni aggregati come intendenti, guide, telefonisti e sanitar. Il comandate è Anatolij Ignatevič Djačenko, commissario politico Stanko Sočan (secondo Žiljaev, ma altri autori sloveni indicano Stojan Smrkolj).26

Nel marzo 1944 Dzavad Akimili, comandante della compagnia sovietica della «Gradnikova brigada27», accompagnato dalla staffetta di collegamento Leonid Vorošilov, si reca al Comando del battaglione sovietico inquadrato nella Soška. L’intento di Dračenko è quello di riunire tutti i combattenti sovietici in un’unica unità. Di quella giornata decisiva Žiljaev offre un ampio resoconto. Poco tempo dopo i sovietici furono riuniti in un unico battaglione, aggregato alla «Bazoviska brigada» nell’offensiva del Vipacco (estate 1944) 28 .

Il battaglione russo più citato nella memorialistica e nelle fonti d’archivio, anche a causa della sua consistenza numerica, è quello costituitosi a Caporetto (Kobarid), poi operante in tante altre località della Slovenia, nell’Isontino, nella Valle del Vipacco, sul Carso sloveno e triestino, ma anche altri piccoli gruppi di prigionieri sovietici tentarono di unirsi alla NOVJ29. Da studi recentissimi30 e te-

24 Bruno Steffè (cur.), Partigiani sovietici nella Valle d’Arzino, ANPI di Spilimbergo, 2002, pp. 188-189. 25 Franjo Bavec-Branko, Bazoviška brigada, Kniižnica Nov in Pos 21, Ljubljana, 1970; Milan Pahor, Bazovica, Tipografia Mljač di Divača (Slovenia), 2007. 26 Grigorij Žiljaev, Zapiski partizani, p. 32 nel testo italiano. 27 Stanko Petelin, «Gradnikova Brigada. Zalozba Borec», in revija Naša Obramba, Ljubljana, 1982 28 Grigorij Žiljaev, Zapiski partizani…, cit., p. 48-49. 29 Vratuša Anton, Dalle catene alla libertà. La Rabska brigada, una brigata partigiana nata in un campo di concentramento. Resistenza storia, Kappa Vu, Udine, 2011. 30 Marjan Finassi, Koroški partizani, Mohorjeva, Celovec, 2010

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stimonianze edite e inedite di commissari politici emerge che i comandi dell’OF vagliavano caso per caso l’arruolamento di transfughi dalle formazioni collaborazioniste, incluse SS-Polizei e Feldgendarmerie.31

La controversa storia della resistenza al Confine Orientale è segnata dal contrasto tra le formazioni comuniste e quelle cattolico-socialiste nei confronti delle mire della resistenza slovena sulla cosiddetta «Venecija».32 I garibaldini avevano infatti riconosciuto l’egemonia del comando militare sloveno nel Convegno di Imenia del 13 novembre 1943. Nel dicembre 1944 l’organo ufficiale del PCI Alta Italia La nostra lotta, pubblicò – col titolo Saluti ai nostri amici ed alleati jugoslavi – l’appello di Longo e Secchia alle formazioni garibaldine operanti nella sfera d’azione dell’OF ad entrare a far parte della NOVJ e con la famosa riservatissima a firma Vincenzo Bianco (Vittorio) il Comitato Centrale del PCd’I impartì specifiche direttive alle federazioni di Trieste, Gorizia e Udine. Autorevoli rappresentanti dei comandi garibaldini del Friuli orientale aderirono convinti. Il comando della Divisione Natisone fu invece costretto a farlo, con grande sofferenza, dopo aspri dibattiti.33 Il trasferimento in territorio sloveno determinò se non altro un rapporto più stretto coi partigiani sovietici, la missione militare sovietica e altri elementi dell’Intelligence dipendenti dall’URSS.

Ricordiamo che a Trieste fu attivo il futuro eroe nazionale azero Mehti Hüseynzadə ‘Mihajlo’ (1918-1944), un ufficiale veterano di Stalingrado che, inquadrato nel IX corpus, tra gennaio e maggio 1944 compì insieme a Mirdamat Sidov (Ivan Ruski) due attentati con mine a tempo in un cinema di Opicina e al Circolo ufficiali di Trieste con 270 morti e 600 feriti, e fu insignito nel 1957 del titolo di Eroe dell’Unione Sovietica34. Alla battaglia per la liberazione di Trieste, conclusa ad Opicina alle 18.00 del 3 maggio 1945 volle partecipare in prima linea pure il «Ruski bataljon», che nell’attacco ai bunker tedeschi presso la «Stazione Campagna» ebbe 29 caduti35 .

31 Marina Rossi, L’Armata Rossa al confine orientale…, cit., p. 82-88 32 Ivi, p. 98 33 Giovanni Padoan ‘Vanni’, Abbiamo combattuto insieme. Partigiani italiani e sloveni al confine orientale, Udine, Del Bianco, 1965, p. 124. Id., Un’epopea partigiana alla frontiera fra due mondi, Udine, Del Bianco, 1984. 34 Marina Rossi, L’Armata Rossa al confine orientale, cit., pp. 165-181. 35 Ivi, pp.. 131-161

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Partigiani Sovietici della Brigata «Caio», VI Zona Ligure

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