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di Marina Cattaruzza “
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I rapporti tra il PCI e il PC Sloveno nel quadro dell’internazionalismo comunista (1939-1948)
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di Marina Cattaruzza
L’ analisi dei rapporti tra due diversi partiti comunisti è stata poco praticata negli studi sul comunismo, dove finora la prospettiva prevalente ha riguardato o il movimento comunista nella sua dimensione internazionale (ruolo dell’Unione Sovietica, Comintern, Cominform),1 o la storia dei singoli partiti, colti all’interno dei rispettivi sistemi politici nazionali. Anche in questo mio contributo sui rapporti tra i partiti comunisti italiano e sloveno non potrò, ovviamente, prescindere dai loro legami con l’URSS e dalla loro rispettiva posizione all’interno dei rispettivi sistemi politici nazionali. Tuttavia, prima di entrare nel merito del problema, vorrei fare una breve premessa su cosa intendiamo con la dizione “partito” nei due casi presi in esame. I partiti comunisti legati alla III Internazionale erano articolazioni di una rete transnazionale, dipendente dal centro di Mosca, assai minoritari e per lo più costretti all’illegalità. L’ossatura di ognuna di tali articolazioni transnazionali era data da un nucleo di militanti, formatisi nella clandestinità, fortemente omogenei per formazione politica, esperienze e linguaggio. I quadri dirigenti avevano trascorso alcuni anni in Unione Sovietica, dove avevano completato il proprio tirocinio rivoluzionario attraverso un ulteriore addestramento nell’attività cospirativa. Nella seduta di fondazione del Cominform, tenuta dal 22 al 28 settembre 1947 a Szklarska-Poreba in Polonia, Luigi Longo, per esempio, aveva descritto nei termini seguenti l’élite comunista italiana durante la clandestinità: «quadri che sono passati attraverso la scuola della lotta clandestina in Italia, che hanno partecipato alla guerra civile spagnola o che si sono diplomati alle scuole di partito a Mosca o a Parigi.»2 E’ quindi evidente che i partiti comunisti presentano forti elementi di specificità rispetto alle altre forze di cui si componevano i rispettivi sistemi politici nazionali.
1 Cfr. Leonid Ja. Gibjanskij, «Cominform», in Silvio Pons, Robert Service (cur.), Dizionario del comunismo nel XX secolo, Torino, Einaudi, 2006, vol. 1, pp. 169-173; Kevin F. Mcdermott, «Comintern», ibidem, pp. 173-177. 2 Giuliano Procacci (cur.), The Cominform. Minutes of the Three Conferences 1947/1948/1949, Milano, Feltrinelli, 1994 (Annali), p. 187.
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Il Partito Comunista Jugoslavo e la Seconda guerra mondiale
In seguito al patto Hitler-Stalin dell’agosto 1939, il Comintern aveva abbandonato, su indicazione di Mosca, la linea dei fronti popolari inaugurata solo quattro anni prima, definendo il conflitto in corso come “guerra interimperialista”,3 rispetto alla quale il movimento comunista internazionale avrebbe dovuto mantenersi neutrale.4 Tale direttiva provocò non poche difficoltà al Partito Comunista Jugoslavo [KPJ], dopo che la Jugoslavia fu invasa nell’aprile del 1941 dalle forze dell’Asse. In ogni caso, Tito, che era intanto assurto al vertice del partito, aveva lanciato già allo scoppio del conflitto la parola d’ordine leninista di approfittare della guerra per scatenare la guerra civile, anche se i tempi per una politica rivoluzionaria non venivano ancora definiti. Tale linea era, in ogni caso, divergente da quella del Comintern.5 Lo smembramento della Slovenia tra Germania, Italia e Ungheria provocò disorientamento e sconcerto tra i circa 1.000 comunisti che allora si trovavano sul territorio, tra i quali, particolare non trascurabile, 297 avevano fatto l’esperienza della guerra civile spagnola.6 A ogni buon conto, il Partito Comunista Sloveno assunse l’iniziativa di formare un Fronte Anti-imperialista, a cui aderivano anche alcuni esponenti cristiano-sociali, giovani del Sokol (associazione ginnica nazionalista) e intellettuali orientati a sinistra. Nel primo programma del Fronte Anti-imperialista era sostenuto il diritto del popolo sloveno all’autodeterminazione, includendo in tale diritto anche gli sloveni della Bassa Carinzia e della costa adriatica. Vi si ribadiva inoltre il ruolo guida dell’Unione Sovietica per la liberazione del popolo sloveno e di tutti i popoli oppressi, nonché la necessità della lotta contro un generico “imperialismo”. Le effettive forze occupanti della Slovenia non erano invece nominate.7 Nelle zone di confine con l’Austria (Bassa Stiria e Carniola del nord) si ebbero persino forti espressioni di simpatia per i tedeschi da parte dei comunisti.8
3 Cfr. Marina Cattaruzza, «Il problema nazionale per la socialdemocrazia e per il movimento comunista internazionale: 1889-1953», in Ead. (cur.), La Nazione in Rosso. Socialismo,
Comunismo e “Questione nazionale”: 1889-1953, Manduria (Ca), Rubbettino, 2005, pp. 9-32, in particolare pp. 26-28. 4 Cfr. Stanley G. Payne, «Soviet Anti-Fascism: Theory and Practice, 1921-1945», in: Totalitarian Movement and Political Religions, a. 4, 2003/2, pp. 1-62, part. p. 43. 5 Geoffrey Swain, Tito. A Biography, London, 2011, Tauris, pp. 26-31. 6 Peter Vodopivec, «Von den Anfängen des nationalen Erwachens bis zum Beitritt in die Europäische Union», in Peter Stih, Vasko Simoniti, Peter Vodopivec (Hg), Slovenische Geschichte. Gesellschaft – Politik – Kultur, Graz, Leykam, 2008, pp. 218-518, qui p. 383;
Tamara Griesser-Pecar, Das zerrissene Volk Slowenien 1941-1946. Okkupation, Kollaboration, Bürgerkrieg, Revolution, Wien/Köln/Graz 2003, Böhlau, p. 14. 7 Griesser-Pecar, Das zerrissene Volk Slowenien 1941-1946, pp. 111-118. 8 Ibidem, p. 122; Vodopivec, Von den Anfängen des nationalen Erwachens, p.358.
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Pochi mesi dopo, con l’attacco tedesco all’Unione Sovietica, la situazione subì nuovamente un rivolgimento radicale. I comunisti furono chiamati alla lotta a oltranza contro il nemico tedesco e per la difesa della patria del socialismo. Il Comintern lanciò ora, per bocca del comunista bulgaro Georgi Dimitrov, l’indicazione ai partiti comunisti di costituire alleanze le più ampie possibili con le forze disponibili a combattere il nazismo, di rinunciare alla propaganda socialista e di rimandare a data da destinarsi la presa del potere. Nel maggio 1942 i partiti comunisti ricevettero l’ordine di condurre con tutti i mezzi la guerra partigiana contro le forze di occupazione tedesche.9
Da tali indicazioni si discostò la politica del Partito Comunista Jugoslavo sotto la guida di Tito e di una cerchia ristrettissima di dirigenti a lui legati,10 che prese l’iniziativa di organizzare un proprio movimento armato di liberazione, a cui potevano aderire combattenti di diversa etnia con il programma non solo di liberare il paese dagli invasori ma anche (e soprattutto) di prendere il potere e introdurre il comunismo in Jugoslavia. Un passo importante in tale direzione fu la fondazione dell’AVNOJ (Consiglio di liberazione popolare), supremo organo rappresentativo della Resistenza, nel novembre 1942, in cui erano rappresentate tutte le nazionalità e cui aderirono anche personalità politiche esterne al partito comunista. Un anno dopo, a Jaice, l’AVNOJ fu riconosciuto come esecutivo del potere partigiano e vi fu decisa la costituzione della Jugoslavia come stato socialista a struttura federale.11 Per la sua radicalità questa politica fu sottoposta a diverse critiche da parte dei dirigenti sovietici e dello stesso Stalin.12 Tuttavia era innegabile che la scelta di Tito si configurasse come vincente. Grazie a circostanze favorevoli come lo sbandamento dell’esercito italiano in seguito all’armistizio dell’8 settembre 1943 e agli aiuti fattigli pervenire dagli inglesi già dall’estate 1942, Tito fu in grado di organizzare un vero e proprio esercito di liberazione forte di 800.000 combattenti, di cui circa 100.000 donne, che controllava ampi territori, vi istituiva rudimentali organi di governo comunista (i comitati popolari di liberazione) e che alla fine della guerra si accingeva a mettere in atto la rivo-
9 Payne, Soviet Anti-Fascism, pp. 53-54; Eduard Mark, Revolution by Degrees. Stalin’s National-Front Strategy for Europe 1941-1947 (Woodrow Wilson International Centre for Scholars, Cold War International history Project, Working Paper No. 31), pp. 15-16. 10 Swain, Tito, p.33. Si trattava di Edvard Kardelj, Milovan Djilas, Svetozar Vukmanovic e Aleksandar Rankovic. 11 Marie-Janine Calic, Geschichte Jugoslawiens im 20. Jahrhundert, München, Beck, 2010, p.166. 12 Swain, Tito, p. 44, 68, 76.Cfr. anche Bernhard H. Beyerlein (cur.), Georgi Dimitrov, Tagebücher 1933-1943, Berlin, Aufbau-Verlag, 2003, p. 568, ann. del 10 agosto 1942;Leonid
Gibjanskij, «Rottura-URSS-Jugoslavia», in Dizionario del comunismo nel XX secolo, vol 2, pp. 375-377, in particolare p. 375.
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luzione comunista, liberandosi rapidamente dei propri alleati “borghesi”. E’ un dato di fatto che la Jugoslavia fu, alla fine della Seconda guerra mondiale, il solo paese in cui avvenne una vera e propria rivoluzione comunista e in cui, dopo la sconfitta dell’Asse, non ci fu occupazione da parte delle truppe alleate. Infatti, l’armata rossa era intervenuta nelle operazioni legate alla liberazione di Belgrado, conclusasi nell’ottobre del 1944, ritirandosi però in seguito.
Il Partito Comunista sloveno
Nel panorama jugoslavo, i comunisti sloveni sotto la guida di Edvard Kardelj rappresentavano una realtà potentemente organizzata, in grado di mettere in atto una efficace e precoce resistenza armata (almeno nella zona occupata dagli italiani), dotati di una propria polizia segreta (la VOS, fondata già nell’agosto 1941) e un’efficacissima tattica di subordinazione ai comunisti delle altre forze politiche.13 Nel settembre 1941 si costituì, all’interno dell’Osvobodilna Fronta OF, ulteriore evoluzione del Fronte anti-imperialista, una commissione esecutiva, ovviamente controllata dai comunisti, che immediatamente dichiarava illegale ogni forma di resistenza agli occupanti esterna all’OF. Con la «Dichiarazione delle Dolomiti» del 1° Marzo 1943, la subordinazione delle altre forze politiche ai comunisti all’interno dell’Osvobodilna Fronta divenne ufficiale. In essa, infatti, le altre componenti politiche riconobbero i comunisti come «avanguardia» dell’OF, dotata della giusta linea politica e delle strutture organizzative in grado di mettersi a capo della lotta di liberazione. Gli altri gruppi politici rinunciavano, inoltre, esplicitamente, a conservare, nell’ambito dell’OF, qualsivoglia rudimento di organizzazione propria.14 Forze politiche non disposte a entrare nell’alleanza del Fronte di Liberazione erano fatte oggetto di spietate persecuzioni.15 D’altro canto, il fatto che l’OF si presentasse come alleanza di diverse forze antifasciste, ne garantiva maggiori consensi da parte della popolazione, desiderosa di opporsi alle forze di occupazione. E’ innegabile che il terrore messo in atto dai comunisti sloveni16 favorì la collaborazione con gli occupanti da parte di Sloveni di orientamento anticomunista,17 anche se non può esserne considerato la sola causa. Il programma dell’OF fu definito in una riunione della commissione esecutiva del 16 settembre 1941. Esso prevedeva la liberazione della Slovenia dagli occupan-
13 Griesser-Pecar, Das zerrissene Volk Slowenien, pp. 126-130, 151-153. 14 Ibidem, p. 150-152. 15 Ibidem, p. 393-396, 141. 16 Secondo Peter Vodopivec la VOS liquidò, già nel corso del 1942, diverse centinaia di persone. Cfr. Peter Vodopivec, Von den Anfängen des nationalen Erwachens p. 368. Cfr. anche Griesser-Pecar, Das zerrissene Volk Slowenien, p. 396. 17 Vodopivec, Von den Anfängen des nationalen Erwachens, p. 373.
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ti, l’unione con il resto della Jugoslavia, il riconoscimento dell’egemonia russa su tutti i paesi slavi e l’introduzione di una non meglio specificata «democrazia popolare».18 Tale programma andava attuato non solo sul territorio della Slovenia nei confini del 1941, ma anche sui territori della cosiddetta «Slovenia unita», ossia sui territori in cui erano presenti insediamenti di popolazione slovena, rivendicati dal Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni già alla fine della Prima guerra mondiale. Si trattava, sostanzialmente, della parte meridionale della Carinzia con la città di Klagenfurt e dei territori attribuiti all’Italia col Trattato di Rapallo, di cui il centro più importante era la città di Trieste, il maggiore porto dell’Adriatico, sede di impianti navalmeccanici e di un rilevante tessuto di medie e piccole imprese. Perché i comunisti ripresero e fecero proprio il programma di rivendicazioni nazionali degli altri partiti sloveni? Le spiegazioni sono molteplici, anche se non disponiamo di un’interpretazione definitiva sulla questione. Tra l’altro, i comunisti jugoslavi avevano sollevato rivendicazioni anche nei confronti della Romania, dell’Ungheria e della Grecia, suscitando notevoli perplessità da parte di Stalin e Molotov.19 La Bulgaria avrebbe dovuto addirittura unirsi alla Jugoslavia, con uno status simile a quello delle altre repubbliche, perdendo quindi la propria autonomia statuale.20 In una riunione del 9 gennaio 1945 a Mosca, Stalin aveva fatto osservare al delegato jugoslavo Andrija Hebrang che non aveva senso creare una situazione in cui gli jugoslavi si trovassero in conflitto con tutti i vicini, e quasi si preparassero a combattere con il mondo intero. Commentando l’incontro in una telefonata a Dimitrov, Stalin aggiungeva: «Ciò è insensato. Non mi piace il loro atteggiamento. Hebrang è un uomo ragionevole e capiva quel che gli dicevo, ma altri, a Belgrado, sono elusivi».21 E’ comunque interessante che le obiezioni di Stalin non si riferissero alle rivendicazioni jugoslave nei confronti dell’Italia.
Per quel che riguarda le rivendicazioni territoriali del KPS sui territori sotto sovranità italiana, e, soprattutto, su Trieste, vi si possono ricercare le motivazioni in considerazioni di ordine politico, ideologico e di prospettiva rivoluzionaria. I comunisti sloveni, al riguardo, si riferivano ripetutamente alle tesi di Stalin, formulate ancora nel 1913, sulla prevalenza della composizione etnica della campagna rispetto a quella della città per l’attribuzione di territori.22 Inoltre, nel
18 Cfr. Griesser-Pecar, Das zerrissene Volk Slowenien 1941-1946, pp. 148-149. 19 Vladimir Volkov, «The Soviet leadership and Southeastern Europe», in Norman Naimark, Leonid Gibianskii (Eds.), The Establishment of Communist Regimes in Eastern Europe, 1944-1949, Boulder, Westview press, 1997, pp. 55-72, in particolare pp.63-67. 20 Ibidem, p. 68f. 21 Leonid Gibjanski, «Mosca, il PCI e la questione di Trieste (1943-1948)», in Francesca Gori, Silvio Pons (cur.), Dagli archivi di Mosca. L’URSS, il Cominform e il PCI (1943-1951), Roma, Carocci, 1998, pp. 71-84, in particolare p. 102. 22 Cattaruzza, Il problema nazionale, cit., p. 18.
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1934, i partiti comunisti jugoslavo, italiano ed austriaco si erano espressi con una dichiarazione congiunta a favore del diritto all’autodeterminazione del popolo sloveno.23 Tale dichiarazione era una manifestazione della politica seguita allora dal Comintern, di sostegno alle rivendicazioni delle minoranze nazionali per destabilizzare i paesi capitalisti. Nella fattispecie, l’Unione Sovietica si trovava allora in rapporti molto tesi con la Jugoslavia, di cui auspicava la dissoluzione nelle sue componenti nazionali.24 Si trattava quindi di una situazione ben diversa da quella successiva all’attacco all’URSS da parte della Germania, in cui il movimento partigiano jugoslavo si era rivelato un formidabile sostenitore dell’Unione Sovietica.
Un secondo ordine di considerazioni riguarda l’alleanza del KPS con altre forze politiche all’interno dell’Osvobodilna Fronta: rinunciare a porre rivendicazioni territoriali nei confronti dell’Italia e dell’Austria avrebbe posto il KPS in una posizione assai difficile e difficilmente giustificabile di fronte ai propri alleati. Ciò avrebbe potuto persino portare all’uscita degli elementi non comunisti dall’OF.25 Inoltre, Trieste, con il suo grande porto e il suo moderno proletariato industriale in parte orientato in senso comunista, avrebbe rappresentato un importante elemento di modernizzazione e dinamizzazione per la società slovena, allora prevalentemente rurale. Infine, la spiegazione più banale, ma non per questo infondata, è che i comunisti sloveni, nel momento in cui si accingevano ad assumere il potere, ritenessero semplicemente giusto annettere Trieste alla Slovenia socialista.26 Oltre ai vantaggi già menzionati, il possesso di Trieste avrebbe offerto loro anche un’eccellente piattaforma per i tentativi di esportazione della rivoluzione nell’Italia del Nord.27
I rapporti tra i comunisti italiani e jugoslavi nel contesto transnazionale
Rispetto alla struttura comunista transnazionale facente capo a Mosca, la scelta del Partito Comunista Jugoslavo di costruire uno Stato socialista su un territo-
23 Cfr. Patrick Karlsen, Frontiera rossa. Il PCI, il confine orientale e il contesto internazionale 1941-1955, Gorizia, LEG, 2010, p. 27. 24 William Klinger, Il terrore del popolo: storia dell’OZNA, la polizia politica di Tito, Trieste 2012, p. 42. 25 Tutte le forze politiche slovene rivendicavano Klagenfurt, la Carinzia meridionale, il Litorale sloveno e Trieste. Cfr. Griesser-Pecar, Das zerrissene, pp. 518-521. 26 Ibidem, p. 523 dichiarazione di Kardelj. 27 Cfr. Karlsen, Frontiera rossa, p. 34, 47. Kardelj perseguì tentativi sistematici di infiltrare il PCI e di influenzarne la linea politica, considerando ancora pienamente valida la dichiarazione del 1934. Tali tentativi vennero (temporaneamente) a cessare con la rottura tra Tito e il Cominform nel giugno 1948.
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rio non controllato dall’Armata Rossa apriva una prospettiva inedita. I problemi che essa comportava non furono resi espliciti fino alla fine della Seconda guerra mondiale, durante la quale la resistenza jugoslava forniva un aiuto considerevole all’Unione Sovietica impegnata in una lotta titanica contro la Germania nazista. Certo, il Politburo jugoslavo interpellava Dimitrov e, successivamente Molotov, con cui Tito disponeva dall’aprile 1944 di un filo diretto, sui propri piani di confederazioni balcaniche a cui far aderire la Bulgaria, l’Albania e, successivamente, addirittura la Romania. Tuttavia tali consultazioni avvenivano spesso in ritardo o a cose fatte, mentre su altre scelte “sensibili”, come l’invio di armi alla resistenza greca, o la decisione di inviare una divisione jugoslava in Albania, i sovietici non furono consultati per niente.28 Nei Balcani Tito si accingeva a praticare una propria politica egemonica sugli stati vicini, che non poteva non scontrarsi con gli obiettivi geopolitici sovietici sullo stesso territorio. Lo scontro si fece palese alla seconda conferenza del Cominform a Bucarest, anche se le reali ragioni dell’espulsione degli jugoslavi non furono formulate chiaramente.29
La storiografia italiana ha per lo più considerato i problemi sorti tra PCI e KPS/KPJ rispetto alla cosiddetta “questione di Trieste” come manifestazione di contrapposti interessi nazionali all’interno del movimento comunista. 30 Nel 1997 Elena Aga-Rossi e Victor Zaslavksy hanno sostenuto la tesi che la scelta di Togliatti della primavera 1944, di far partecipare il PCI a un governo di larghe intese senza porre la pregiudiziale repubblicana fosse stata concordata con Stalin a Mosca. Secondo i due storici, Togliatti si sarebbe impegnato con Stalin a seguire le indicazioni di Mosca anche rispetto alla questione di Trieste.31 Infine, Patrick Karlsen ha acutamente evidenziato, che per Togliatti cedere Trieste rappresentava un male minore rispetto alle continue infiltrazioni jugoslave nelle strutture del PCI al di là dell’Isonzo32. Gli accordi dell’ottobre 1944 a Bari tra Togliatti, Gilas e Kardelj andavano proprio in questa direzione: il PCI non avrebbe appoggiato attivamente l’annessione di Trieste alla Jugoslavia, ma si sarebbe in ogni caso astenuto dal far qualsiasi cosa per ostacolarla. La contropartita che Togliatti otte-
28 Ivo Banac (cur.), The Diary of Georgi Dimitrov 1933-1949, New Haven & London, Yale UP, 2003, pp. 419-434; Leonid Gibianskii, «The Beginning of the Soviet-Jugoslav Conflict and the Cominform», in The Cominform, pp. 465-481, in particolare p. 469-470. 29 Leonid Gibianskii, «The Beginning of the Soviet-Jugoslav Conflict and the Cominform», in The Cominform, pp. 465-481, in particolare p. 478-479. 30 Marco Galeazzi, Togliatti e Tito: tra identità nazionale e internazionalismo, Roma, Carocci, 2005; Roberto Gualtieri, Togliatti e la politica estera italiana: dalla Resistenza al trattato di pace, 1943-1947, Roma, Editori Riuniti, 1995. 31 Elena Aga-Rossi, Victor Zaslavsky, Togliatti e Stalin. Il PCI e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 139, 145-146. 32 Karlsen, Frontiera, p. 34, 47. In realtà le infiltrazioni continuarono. Cfr. p. 169, 172.
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neva in tale accordo era la possibilità di attuare sul resto del territorio italiano la sua politica di ampie alleanze (corrispondente alle indicazioni di Mosca), senza eccessive interferenze jugoslave.33 Si trattava, in fondo, di una suddivisione di sfere di influenza a livello substatuale. Dal giugno 1944 il PCI partecipava in Italia a un governo di larghe intese in cui Togliatti ricopriva la carica di vicepresidente del Consiglio.
Su Trieste, Togliatti affermava che ne andava sostenuta l’occupazione da parte dell’Armata jugoslava, ma non l’annessione immediata, che avrebbe dovuto essere decisa in sede di Trattato di pace. Con tale capziosa distinzione tra occupazione e attribuzione, Togliatti riteneva di essersi liberato dallo spinoso problema, tanto più che in sede di trattative di pace l’Italia, come stato vinto ed ex alleato della Germania nazista, non avrebbe avuto alcuna voce in capitolo. Tale posizione si rivelava però poco credibile, in quanto la strategia del KPS consisteva esattamente nel creare nelle zone rivendicate situazioni di “fatto compiuto”, mirando al pieno controllo da parte dei propri organi anche sui territori ancora formalmente sotto sovranità italiana.34 Tali vicende sono state ricostruite con dovizia di documentazione in diversi, pregevoli studi, per cui mi limiterò qui a riassumere i punti principali della strategia slovena del “fatto compiuto” rispetto, soprattutto, all’ambitissimo obiettivo di Trieste:
1. Rottura dei rapporti tra PCI e gli altri partiti del Comitato di Liberazione nazionale e sostituzione del CLN con organi subalterni al KPS come il Comitato paritetico italosloveno o il Fronte di liberazione sloveno per il Litorale; 2. Progressivo spostamento del PC triestino su posizioni esplicitamente filo-annessioniste, grazie a rimpasti negli organi dirigenti; 3. Subordinazione delle unità partigiane italiane alla direzione militare slovena e trasferimento delle stesse all’interno della Slovenia. In tale contesto si colloca anche la “liquidazione” di circa 20 partigiani della formazione cattolico-azionista “Osoppo” stazionati oltre la linea di quella che gli sloveni consideravano propria zona di operazioni.35
33 Karlsen, Frontiera rossa, pp. 65s.,246s. 34 Cfr. Karlsen, ibidem, p. 44, 72s. In una lettera del PCI Alta Italia al CC del KPJ del 29 gennaio 1945 si ribadiva che la prudenza tattica rispetto all’annessione di Trieste alla Jugoslavia non significava affatto opposizione alle “vostre giuste aspirazioni”. Era solo più opportuno affrontare i problemi a liberazione avvenuta, quando l’occupazione jugoslava della città li avrebbe posti in “modo più chiaro e concreto”. 35 Cfr, su tutta la questione, anche per ulteriore bibliografia Marina Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale. 1886-2006, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 257-281.
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Tali misure non provocarono alcuna reazione da parte di Togliatti o della direzione del PCI. Il 7 febbraio 1945 Togliatti intervenne, in qualità di vicepresidente del Consiglio, con una lettera al Primo Ministro Bonomi, in cui minacciò lo scoppio di una guerra civile, se unità militari italiane avessero cercato di occupare Trieste prima dell’esercito jugoslavo. Anche dopo la stipula del Trattato di pace, in cui Trieste e l’Istria settentrionale avrebbero dovuto costituire il “Territorio Libero”, Togliatti si trovò a convergere con le posizioni jugoslave almeno in due situazioni: a.) quando premette perché il TLT venisse costituito il prima possibile, in modo da eliminare da Trieste la presenza anglo-americana, particolarmente sgradita ai comunisti sloveni36; b.) quando sostenne (al pari degli jugoslavi) che nel TLT gli organi rappresentativi avrebbero dovuto avere la preminenza rispetto al Governatore. In questo modo, lo staterello sarebbe caduto rapidamente sotto il pieno controllo jugoslavo.37
Alla prima seduta del Cominform nel settembre 1947, i comunisti italiani e francesi vennero fatti oggetto di violentissimi attacchi da parte dei delegati jugoslavi Edvard Kardelj e Milovan Gilas, che rimproveravano loro di non aver adottato, nel corso della Resistenza, una strategia simile a quella jugoslava per la presa del potere. In effetti, la tattica dei governi di larghe intese si era rivelata fallimentare, in quanto il PCI era stato allontanato dal governo del leader democristiano De Gasperi nel maggio dello stesso anno. E’ in ogni caso interessante rilevare, che anche dopo la presa del potere il KPJ non rinunciava a caldeggiare la tattica dell’eversione armata in uno dei paesi vicini, rilanciando così nuovamente una propria collocazione indipendente in politica estera. Significativamente, Kardelj rinfacciava agli italiani di non aver sufficientemente approfittato dell’esperienza jugoslava per provocare una situazione rivoluzionaria nel Nord del paese, il che corrispondeva a un ripudio retrospettivo degli accordi di Bari tra egli stesso e Togliatti nell’autunno del1944.38 Il Ministro degli Esteri jugoslavo affermava, tra l’altro: «Durante la guerra noi siamo stati in grado di mantenere i contatti con il PCI. Ma i compagni italiani della dirigenza non hanno fatto un uso sufficiente e coerente della nostra esperienza, sebbene tale esperienza fosse loro di grande aiuto per rafforzare la loro posizione nell’Italia del nord».39 L’insistenza con cui Kardelj si riferiva alla situazione rivoluzionaria verificatasi, a suo parere, nell’Italia del nord, porterebbe a ipotizzare che per il dirigente comunista sloveno lo stato unitario italiano non rappresentasse un dato irreversibile. A tale riguardo,
36 Karlsen, Frontiera rossa, p. 149. 37 Sull’atteggiamento di Togliatti circa le rivendicazioni jugoslave e il nuovo assetto al confine orientale cfr. Cattaruzza, L’Italia, cit., pp. 273-275, 286-288, 297-298. 38 The Cominform. Minutes of the three Conferences, p. 299. 39 Ibidem.
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egli osservava, del resto, in un passaggio del suo lungo intervento, che il PCI si preoccupava troppo dell’unità nazionale, mentre il fatto rilevante era che da un punto di vista rivoluzionario il nord era molto più avanzato del sud40 .
Allora sembrava che i dirigenti sovietici approvassero le critiche della delegazione jugoslava contro i partiti comunisti italiano e francese, che erano apertamente condivise dallo stesso Ždahnov addirittura nella sua relazione introduttiva. Nella sua replica alle critiche, il delegato italiano Luigi Longo consentiva con i rilievi di Ždahnov, mostrandosi invece leggermente infastidito dall’intervento di Kardelj, cui faceva notare che un tentativo di insurrezione armata in presenza di forti contingenti di truppe anglo-americane sarebbe sfociato in una catastrofe.41 Neanche un anno dopo, il KPJ fu espulso dal Cominform con una sfilza di accuse, tra cui quelle di essersi allontanato dal marxismo-leninismo, di praticare una politica ostile all’Unione Sovietica, di privilegiare l’elemento dei contadini benestanti sugli operai ecc.42 Il documento finale di condanna e di espulsione della Jugoslavia, approvato da tutti i delegati presenti alla conferenza, fu steso da Togliatti, che probabilmente si accinse al compito con una certa rattenuta soddisfazione e un tacito senso di sollievo.43
In conclusione si può affermare che nella realtà transnazionale dei partiti comunisti, il PCI venne a trovarsi almeno fin dal 1941 in una posizione di anomala subalternità rispetto al KPS. Nel giugno 1940, dopo l’occupazione tedesca di Parigi, il centro estero del PCI venne trasferito dalla capitale francese a Lubiana, sicché gran parte dei contatti del PCI clandestino con Mosca passavano da allora attraverso la capitale slovena.44 In diversi casi i messaggi del PCI non vennero inoltrati a Dimitrov, provocando dei malintesi tra i vertici del Comintern e il partito italiano.45 Nel KPJ il KPS raggiunse presto una posizione di preminenza, grazie alla ferrea organizzazione, alla determinazione con cui si contrapponeva agli occupanti e alla spietatezza con cui operava nella guerra civile slovena. Il KPS tentò ripetutamente di esportare in Italia il proprio modello di lotta rivoluzionaria, sebbene essa fosse in contrasto con le direttive del Comintern ai partiti comunisti. La situazione nei rapporti tra i due partiti si stabilizzò in seguito agli accordi tra Kardelj e Togliatti dell’ottobre 1944, in cui da una parte gli jugoslavi rinunciarono – temporaneamente – a tentativi di egemonizzare il PC italiano e, in cambio,
40 Ibidem, p.297. 41 Ibidem, p.323. 42 Ibidem, pp. 523-541, Report on the Situation in the Communist Party of Jugoslavia (Zhdanov). 43 Ibidem, pp. 609-621. 44 Klinger, Terrore del popolo, p. 67; Karlsen, Frontiera rossa, p.43. 45 Klinger, Terrore del popolo, p. 114.