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Verbali della riunione del Gran Consiglio del fascismo del 25 luglio 1943
generazione di fronte al nemico incalzante appare oggi un sacrilegio, mentre esso avrebbe potuto costituire una molla preziosa atta a risollevare gli spiriti dubbiosi, a fare brillare le ultime speranze, a chiamare a raccolta sull’esempio dei nostri maggiori lo spirito e il cuore dei nostri soldati sfiduciati, rianimandoli al sacrificio come supremo dovere nazionale. Al richiamo proibito da parte dei nostri inefficienti servizi ministeriali di propaganda alla gloriose pagini militari del Risorgimento e del
9 Piave, il Segretario del Partito ha sostituito, or son 10 giorni, una serie di “rapporti” regionali ossia di “adunate” regionali delle gerarchie del Partito. Chi parla in questo momento ha ricevuto l’ordine (apprendendolo dai giornali come di consueto) di recarsi a Bologna a parlare nel “rapporto” alle gerarchie fasciste di Emilia e Romagna. Mi sono rifiutato e questo rifiuto di obbedienza è sembrato uno scandalo per non dire un atto di ribellione temeraria. Il mio rifiuto non è stato determinato - il che sarebbe stato pur comprensibile e umano - dalla circostanza innegabile che dall’ormai lontanissimo 1924, ossia da 20 anni a questa parte, le somme autorità del partito non mi hanno giammai consentito di parlare ai fascisti della mia terra. Ma che cosa, vivaddio, avrei io potuto dire oggi in coscienza serena nell’assemblea dei Fasci di Combattimento di Emilia e Romagna da me fondati ventitré anni or sono, quando il fascismo era, sì, una fede, un ideale, ed i nostri gagliardetti raccoglievano il fiore della gioventù italiana ansiosa di combattere e di vincere il nemico interno, restaurando i valori minacciati o dimenticati della Nazione e dello Stato? Questi miei compagni di allora e le giovani leve sopraggiunte dopo, dal fascismo educate e inquadrate, avrebbero avuto ben ragione di domandarmi di spiegare loro il perché della contraddizione stridente tra la nostra accesa e sincera predicazione d’allora e gli opposti risultati di 23 anni di rivoluzione e di regime. Perché sorgemmo in piedi 23 anni or sono? Perché da pochi che eravamo divenimmo in breve volgere di tempo un popolo in armi che consegnò al fascismo, attraverso un plebiscito unanime, il governo della Nazione? Proclamammo allora che eravamo contro la dittatura e scrivemmo sulla nostra bandiera il motto “Libertà e Patria” quale solenne pegno di restaurazione delle libertà civiche conculcate. Abbiamo finito con l’instaurare una dittatura sostituendo all’antico motto della nostra giovinezza entusiasta e gagliarda quello del conformismo grigio “Credere, obbedire