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Secondo intervento di Grandi
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generazione di fronte al nemico incalzante appare oggi un sacrilegio, mentre esso avrebbe potuto costituire una molla preziosa atta a risollevare gli spiriti dubbiosi, a fare brillare le ultime speranze, a chiamare a raccolta sull’esempio dei nostri maggiori lo spirito e il cuore dei nostri soldati sfiduciati, rianimandoli al sacrificio come supremo dovere nazionale. Al richiamo proibito da parte dei nostri inefficienti servizi ministeriali di propaganda alla gloriose pagini militari del Risorgimento e del
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Piave, il Segretario del Partito ha sostituito, or son 10 giorni, una serie di “rapporti” regionali ossia di “adunate” regionali delle gerarchie del Partito. Chi parla in questo momento ha ricevuto l’ordine (apprendendolo dai giornali come di consueto) di recarsi a Bologna a parlare nel “rapporto” alle gerarchie fasciste di Emilia e Romagna. Mi sono rifiutato e questo rifiuto di obbedienza è sembrato uno scandalo per non dire un atto di ribellione temeraria. Il mio rifiuto non è stato determinato - il che sarebbe stato pur comprensibile e umano - dalla circostanza innegabile che dall’ormai lontanissimo 1924, ossia da 20 anni a questa parte, le somme autorità del partito non mi hanno giammai consentito di parlare ai fascisti della mia terra. Ma che cosa, vivaddio, avrei io potuto dire oggi in coscienza serena nell’assemblea dei Fasci di Combattimento di Emilia e Romagna da me fondati ventitré anni or sono, quando il fascismo era, sì, una fede, un ideale, ed i nostri gagliardetti raccoglievano il fiore della gioventù italiana ansiosa di combattere e di vincere il nemico interno, restaurando i valori minacciati o dimenticati della Nazione e dello Stato? Questi miei compagni di allora e le giovani leve sopraggiunte dopo, dal fascismo educate e inquadrate, avrebbero avuto ben ragione di domandarmi di spiegare loro il perché della contraddizione stridente tra la nostra accesa e sincera predicazione d’allora e gli opposti risultati di 23 anni di rivoluzione e di regime. Perché sorgemmo in piedi 23 anni or sono? Perché da pochi che eravamo divenimmo in breve volgere di tempo un popolo in armi che consegnò al fascismo, attraverso un plebiscito unanime, il governo della Nazione? Proclamammo allora che eravamo contro la dittatura e scrivemmo sulla nostra bandiera il motto “Libertà e Patria” quale solenne pegno di restaurazione delle libertà civiche conculcate. Abbiamo finito con l’instaurare una dittatura sostituendo all’antico motto della nostra giovinezza entusiasta e gagliarda quello del conformismo grigio “Credere, obbedire
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e combattere”. Eravamo contro il sindacalismo politico ed abbiamo aggravato i sistemi del sindacalismo politico, soffocando sul nascere quel sistema corporativo che restaurando la libertà nella costituzione rinnovata avrebbe potuto risolvere in una sintesi fortunata il conflitto fatale tra il secolo liberale e il secolo socialista, e rimanere come il maggior titolo di aristocrazia e di giustificazione storica del fascismo. Siamo insorti contro una burocrazia statale pletorica, impigrita e imbaldanzita dalla sua irresponsabilità e ne abbiamo accresciuto i difetti sino a trasformarla in strumento della dittatura nell’opera di distruzione degli ultimi residui della classe politica e parlamentare che dittatura e burocrazia insieme hanno inteso dapprima di soffocare e poscia di sopprimere. Siamo insorti contro una classe dirigente che si era dimostrata incapace di organizzare le forze armate e lo spirito militare della Nazione e ci troviamo oggi alla soglia di perdere quello che la generazione dei nostri nonni e dei nostri padri hanno guadagnato all’Italia in territori, province, prestigio internazionale. Noi, vissuti nella giovinezza in un clima antimilitarista, antiguerriero, pacefondaio a tutti i costi, ci arruolammo volontari alla guerra in un impeto di entusiasmo e di emulazione dei nostri nonni, volontari delle guerre dell’Indipendenza, ignorando persino quando corremmo alle armi la notte del 24 maggio 1915 il funzionamento del fucile 91 (questo fucile 91 che ancor oggi nell’età delle macchine, dei carri armati, dei quadrimotori, dei fucili mitragliatori, è rimasta l’arma di cui è provveduto l’esercito italiano, quel fucile 91 che ha compiuto il suo cinquantenario durante la guerra sul fronte greco). La gioventù di oggi educata sin dall’infanzia al gioco delle armi, alla rumorosa retorica del militarismo e delle uniformi, ha smarrito a poco a poco la poesia del semplice dovere militare compiuto umilmente nella disciplina e nel silenzio. In politica estera criticammo aspramente una attitudine di asservimen
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to ad un determinato gruppo di potenze per cadere alla fine nell’asservimento ad altre potenze; proclamammo essere la libertà dell’Italia da qualsiasi legame di alleanza militare il canone fondamentale della nostra politica estera; per legarci alla fine alla Germania Nazista in una posizione di vassalli, tollerati quando non addirittura disprezzati.
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Insorgemmo contro la dittatura del proletariato per scivolare poco a poco da un provvisorio regime “di emergenza” ovvero “dei pieni poteri” giustificata dall’eccezionalità delle circostanze, ad una dittatura di Partito, basata su una pseudo-dottrina presa a prestito dal nazismo tedesco nello stesso momento in cui questo ultimo, copiando l’ordinamento gerarchico del comunismo russo dava ad intendere a noi di assumere come modello il fascismo italiano e gli insegnamenti del nostro Capo. Abbiamo creduto nel fascismo quale movimento politico innovatore, restauratore di tutti i valori nazionali, matrice di una nuova classe politica dirigente consapevole dei suoi doveri, antiretorica, realizzatrice. Così il fascismo nacque e maturò e fu infatti prima che la dittatura lo uccidesse. Quando si operò questo distacco, questa “uccisione” del fascismo? Nel 1932, in occasione del decennale della Rivoluzione, quando venne soppresso il Partito quale organo politico governato dalle proprie gerarchie liberamente elette nelle assemblee e nei congressi, quando al principio fondamentale che aveva sino ad allora guidato la nostra attività internazionale (“il fascismo non è un articolo di esportazione”) venne sostituito il principio apocalittico e sovvertitore dell’”universalismo fascista” e di un fascismo matrice di una nuova rivoluzione mondiale. Fu in quello stesso anno in cui Hitler e il Nazismo si affermarono in Germania come partito politico preponderante, e questo avvenimento segnò l’inizio della corruzione del nostro fascismo italiano nazionale, di quel fascismo che tutto il mondo ci aveva sino ad allora invidiato così come tutto il mondo ci aveva a ragione invidiato Mussolini. Da quel momento nasce la dittatura di Partito, il capovolgimento di tutto quello che era stato il fascismo nei suoi primi gloriosi 10 anni di vita, l’involuzione del fascismo, la decadenza della rivoluzione.
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Il Partito, da movimento politico animatore e creatore, divenne a poco a poco una cattiva polizia e una cattiva burocrazia. E’ assurdo credere che una classe dirigente possa formarsi anziché nelle Assemblee politiche del Parlamento e dei Partiti, nelle scuole burocratiche dei gerarchi! Grottesco tentativo il quale prova la incapacità di intendere quali sono le esigenze profonde di un popolo come il popolo italiano, povero di materie prime e di beni materiali, ma ricco, straordinariamente ricco di tutte le esperienze politiche e spirituali; abituato a soffrire, ma anche a risorgere; pronto ad accettare i benefici di un regime cui sorrideva la buona stella e la buona fortuna, ma non per questo persuaso nell’intimo che potesse durare, perché tarlato e corroso nelle radici e nel tronco.
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La classe dirigente di un paese deve tener conto non solo delle virtù ma anche dei difetti di una stirpe, equilibrarli, fonderli assieme senza rimanere prigionieri di schemi dottrinali che sono agli antipodi colla mentalità italiana. La dittatura ha ucciso la rivoluzione continuando a parlare demagogicamente di “rivoluzione permanente”, frase la più pericolosa di tutte, la più abusata di tutte, la più antirivoluzionaria e reazionaria di tutte, inquantoché crea essa stessa la sensazione sulla provvisorietà delle leggi promosse ed emanate. Quando una rivoluzione ha preso possesso dello Stato, è lo Stato e soltanto lo Stato che essa deve difendere, a pena di smarrire il senso storico che ne ha giustificato la esistenza. Una rivoluzione che si dice permanente è una rivoluzione che non crede in se stessa, è l’incitamento perenne alla demagogia risorgente è, infine, l’eccitamento alla disobbedienza civile. Tre sono stati, ahimé, i tedeschi corruttori dello spirito italiano: Carlo Marx, che ha corrotto il vecchio e glorioso socialismo patriottico italiano di Giuseppe Garibaldi e di Andrea Costa facendolo deviare nell’arido pseudo-scientifico internazionalismo senza patria; Federico
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Nietzsche, che ha corrotto il buono spirito provinciale di Benito Mussolini facendogli credere che l’Übermensch può sostituirsi a quelle che sono le insopprimibili forze collettive della Storia ed alla volontà della Nazione; Adolfo Hitler che ha corrotto lo spirito del fascismo italiano. Perché italiano e “nostro” è stato fino al 1932 il fascismo, da noi creato e tanto amato un tempo dal popolo italiano con cui si identificava, prima che Hitler, scimmiottando il saluto romano – l’unica cosa che il Nazismo ha copiato dal fascismo – ci ha regalato l’attrezzatura militaresca del nazismo tedesco. Il Fascismo del secondo decennale nulla ha a che fare con il Fascismo del secondo [leggasi primo] decennale, così come nulla ha a che fare il Mussolini del secondo decennale col Mussolini che eleggemmo nostro capo nel 1919, nel 1920, nel 1921 e che, quale Capo del Governo e primo ministro del Re, portò l’Italia ad essere il paese ammirato e invidiato da tutti. È di questo Mussolini di cui noi abbiamo ancor oggi la nostalgia, è questo Mussolini che ancora oggi noi vorremmo, se fosse possibile. Non il Mussolini delle uniformi, della greca di Maresciallo dell’Impero delle manifestazioni e delle adunate coreografiche in cui non crede nessuno. Non è questo il Mussolini che abbiamo obbedito e seguito.
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Strappati o Duce, la greca di Maresciallo e ritorna quello che eri; il Capo di un Partito politico e il primo ministro del Re. La dittatura ha ucciso la Rivoluzione, ha ucciso il Fascismo e una frattura insanabile e ognora vieppiù profonda si è a poco a poco operata tra il fascismo e il popolo italiano. Il Partito è in peccato mortale verso la Rivoluzione Fascista. Un regime di dittatura, quando eretto a dottrina e sistema, quando non più giustificato da necessità nazionali straordinarie e impellenti è sempre storicamente immorale. Soltanto il successo può giustificarlo. Ora è sconfitto e sulla scia della propria sconfitta, minaccia di trascinare la Nazione nella sventura.
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Perché – mi si domanderà – questo crudo e tardivo processo alla dittatura, al Partito, al regime fatto stasera in Gran Consiglio? Per dividere le nostre dalle altrui responsabilità? Per un tentativo di sopravvivere e di salvare noi stessa, a guisa di topi i quali cercano di evadere dalla nave che minaccia di affondare? Per crearci di fronte al destino incalzante un nostro alibi? No. Il Duce sa e conosce perfettamente il nostro pensiero e quale fu sempre il “nostro fascismo” sin dal 1921 quando per un imperativo della nostra fede e della nostra coscienza non esitammo a pubblicamente esprimere nelle Assemblee del partito il nostro aperto dissenso. E così parimenti fu nel 1922 nel Congresso di Napoli alla vigilia della marcia su Roma. Eravamo torturati allora dall’eventualità che l’insurrezione potesse degenerare in guerra civile, e la guerra civile è stata sempre fatale agli italiani. Ci sbagliammo. Non avevamo preveduto e soppesato la vigliaccheria dell’antifascismo parlamentare il quale non esitò un istante a fare causa comune con [il] Capo dell’insurrezione vittoriosa, dandogli senza esitare quali collaboratori in ostaggio i propri uomini e i propri poteri. Nascevano così, per diretta colpa dell’antifascismo parlamentare i germi e la giustificazione alla dittatura futura. Fummo allontanati da ogni attività politica ma ciò non ci impedì tuttavia di schierarci più tardi, nel 1924, al fianco di Mussolini, tra i pochissimi rimasti fedeli a lui, nell’ora triste del delitto Matteotti quando la tempesta parve trascinare in un gorgo di odi e di rancori ad artificio creati, la fortuna del fascismo e la persona stessa del Duce. Un anno dopo, nel 1925, l’ala estremista e intollerante del Partito prendeva il sopravvento ed io fui trasferito dal mio posto di Sottosegretario agli Interni alle funzioni di Sottosegretario agli Esteri, coll’obbligo di disinteressarmi di problemi di politica interna e di abbandonare ogni attività di partito. Era la terza sconfessione.
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Obbedii. Scomparvi dalla politica interna. Come sottosegretario e Ministro degli Esteri tentai, in dissenso coll’indirizzo da Mussolini seguito, di attua
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re una politica rivolta alla pacificazione europea, alla stretta unione colle Nazioni anglosassoni, riuscendo a conciliare il fascismo col laburismo britannico e colla democrazia francese. Mi si accusò di “ginevrino” di “societario” di “pacifista” soltanto perché sostenni che la pace era il maggior interesse dell’Italia e che la questione italiana doveva essere presentata con metodo cavouriano, nei Consessi internazionali come uno dei grandi ed inevitabili problemi collettivi della ricostruzione e della pace europea. Hitler guadagnò quindi nel 1932 le elezioni generali in Germania e montò quindi al potere. Venne la quarta sconfessione e il mio congedo da Ministro degli Esteri. La politica estera mutò sostanzialmente indirizzo. L’Italia entrò a poco a poco nell’orbita del nazismo tedesco. Rimanemmo, sia pure da lontano, fedeli a Mussolini ostaggio della dittatura, ma pieni di fiducia e di speranza che il senso della realtà e delle proporzioni, l’indiscusso amore di Mussolini per l’Italia avrebbe finito col prevalere sui suoi disegni di potenza e di grandezza. Tornato, alla vigilia della guerra europea, come Guardasigilli, dopo otto anni di assenza, trascorsi quale ambasciatore a Londra, non riconobbi più nulla di quello che era stato il vecchio Fascismo e lo stesso Consiglio dei Ministri di cui ero stato già membro dal 1929 al 1932. La dittatura aveva corroso ed eroso i nostri istituti costituzionali, pur lasciando formalmente intatti i pilastri della Costituzione. I miei tre anni di Ministro Guardasigilli sono stati indubbiamente i tre anni più penosi della mia vita di uomo politico, nel tentativo quotidiano di difendere gli istituti della tradizione e della Costituzione e di limitare al massimo le ingerenze e le interferenze che le gerarchie irresponsabili del Partito esercitavano ad ogni momento nelle attività degli organi dello Stato, creando confusione, disordine e determinando il congelamento delle iniziative e delle responsabilità negli organi statali.
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Lontani nel tempo apparivano ormai i programmi antichi approvati nei congressi fascisti del 1920-21 quando il Partito era inteso e definito come un’associazione
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politica con un solo duplice compito: l’educazione politica del popolo e la formazione delle classi dirigenti. Questa è infatti la funzione che legittimi la vita di un partito dello Stato Moderno. Nel Consiglio dei Ministri del 1°settembre 1939, a giustificare la nostra deliberazione sulla non belligeranza, che era di fatto neutralità, il Capo del Governo non esitò a dichiarare che il Nazismo tedesco ci aveva tradito, che non era rimasto fedele ai suoi patti, che Hitler aveva fatto scoppiare il conflitto senza neppure preavvertirlo, facendolo trovare davanti al fatto compiuto. Mi permisi allora di prendere la parola in quella seduta dicendo che ciò non mi meravigliava in quantoché era la ripetizione esatta della condotta tedesca nel 1914. Aggiunsi che mi auguravo che non si ripetessero nel 1939 gli errori compiuti dalla nostra diplomazia nel 1914 quando dopo aver saggiamente proclamato la neutralità dell’Italia non si ebbe contemporaneamente il coraggio di pubblicamente giustificarla davanti agli occhi del mondo. Non si disse abbastanza al mondo che allora, come oggi, la Germania del Kaiser aveva tradito i suoi patti con l’Italia alleata. E così è accaduto che per trent’anni il nostro Paese è stato a torto accusato di essere venuto meno ai suoi obblighi di Nazione alleata. Durante la seduta del Consiglio dei Ministri del 1° settembre domandai pertanto di denunciare il tradimento del Nazismo giustificando con ciò, e per colpa tedesca, la fine dell’alleanza militare italo-tedesca e la ripresa della nostra libertà internazionale. Così come nel 1914, una seconda volta nel 1939, la condotta tedesca ci permetteva provvidenzialmente di riguadagnare la nostra indipendenza. Né mancai poche settimane prima che la guerra fosse dichiarata di additare al Duce i pericoli di un nostro intervento prematuro, insistendo nella ferma convinzione che era nell’interesse dell’Italia di mantenere la nostra posizione di neutralità armata di fronte al
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l’uno e all’altro dei contendenti. Non abbiamo rimorsi e sentiamo di avere verso la persona del nostro Capo adempiuto al nostro dovere di fedeltà e di franchezza da venticinque anni a quest’oggi. Ma non per questo ci sentiamo esenti da responsabilità. I regimi politici sono