IoArch_special issue One Earth, ideas for a world after Covid-19

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ioArch

SPECIAL ISSUE

Anno 14 | Maggio 2020 Supplemento al numero 87 di IoArch euro 9,00 ISSN 2531-9779

ONE EARTH IDEAS FOR A WORLD AFTER COVID-19

GIACOMO ALBO | ANDREA BARTOLI | LUISA BOCCHIETTO | PAOLO L. BÜRGI | WOLFGANG BUTTRESS | PAOLO CAPUTO MAURIZIO CARTA | ALDO CIBIC | ANGELO COSTA | STEPHAN HARDING | ANNA HERINGER | BJARKE INGELS ARTHUR MAMOU-MANI | MICHAEL PAWLYN | CHRIS PRECHT | LUIGI PRESTINENZA PUGLISI | RENATO RIZZI DAVIDE RUZZON | PATRIK SCHUMACHER | MARTHA SCHWARTZ | GINO STRADA | TAMASSOCIATI KJETIL TRÆDAL THORSEN | BEN VAN BERKEL | CÁSSIO VASCONCELLOS | JULIA WATSON | ALAN WEISMAN


Garc SpA Environment People Technology La filosofia di Garc SpA, partner esclusivo di questo speciale, è quella di ri-costruire l’ambiente realizzando edifici capaci di interagire positivamente con il contesto e offrire servizi tecnologici evoluti The philosophy of Garc SpA, exclusive partner of this special issue, is to rebuild the environment by creating buildings capable of interacting positively with the context and offering advanced technological services

L’obiettivo finale è la qualità della vita degli utenti degli edifici, del personale e della comunità in cui opera. Tale obiettivo si concretizza nel sostegno di progetti sociali legati al mondo dello sport, della cultura, della salute, della salvaguardia ambientale. Come B Corp opera con responsabilità, seguendo criteri sostenibili e trasparenti che stanno riscrivendo il modo di fare impresa a livello globale. Nasce nel 1975 come impresa generale di costruzioni e si è evoluta nel tempo sommando al ruolo di main contractor servizi innovativi che le hanno permesso di affermarsi e valorizzare lo straordinario patrimonio umano e professionale di cui dispone. Il core-business è la costruzione di edifici per il settore industriale e manifatturiero, opere infrastrutturali di urbanizzazioni, impianti e reti tecnologiche, e lo sviluppo di progetti immobiliari di alta qualità e ridotto fabbisogno energetico. Insieme alle altre società del gruppo ha raggiunto dimensioni nazionali, nutre ambizioni internazionali e si misura quotidianamente con la tecnologia per implementare e sviluppare il Building Information Modeling. Il modello 3D si evolve in una progettazione 4D (pianificazione lavori e rilevazione interferenze), 5D (stima e controllo dei costi), 6D (sostenibilità) e 7D (gestione successiva dell’opera). Oggi sono in atto cambiamenti decisivi che viaggiano paralleli ai cambiamenti del mondo, questa progressiva evoluzione lascia intravvedere nuovi traguardi, favoriti da un atteggiamento positivo nei confronti del futuro.

The final objective is the quality of life of building users, of staff and of the its reference community. This objective takes shape under the form of support for social projects related to the world of sport, culture, health, environmental protection. Being B Corp certified, Garc SpA works responsibly and follows the same sustainable and transparent principles that are rewriting the way of doing business globally. It was founded in 1975 as a general construction company and has evolved over time, adding to its role as main contractor innovative services that have allowed it to establish itself and enhance its extraordinary human and professional heritage. The core business is the construction of buildings for the industrial and manufacturing sector, infrastructural works for urbanisation, plant


and technological networks, as well as the development of high quality real estate projects with low energy requirements. Together with the other companies of the group, it has reached national dimensions and has international ambitions and confronting itself on a daily basis with technology to implement and develop Building Information Modelling. The 3D model evolves into 4D (work planning and interference detection), 5D (cost estimation and control), 6D (sustainability) and 7D (subsequent management of work). Today, decisive changes are taking place, which travel in parallel with a changing world. This progressive evolution allows us to gain a view of our new goals, supported by a positive attitude towards the future.



I giorni in cui si è fermato il mondo The Days When the World Stood Still Carlo Ezechieli

Ovviamente usciremo dalla situazione di emergenza indotta dal Covid-19, ma ci troveremo davanti un mondo cambiato e lo dovremo pensare, progettare e infine costruire. È questo il presupposto che abbiamo seguito per lo sviluppo di questo numero speciale di IoArch, partito da un’idea di Elena Riolo, e nel quale abbiamo raccolto le riflessioni, del tutto inedite, di ventisette autori: alcuni grandi nomi, altri emergenti, tutti assolutamente notevoli. Nel corso della storia l’umanità ha attraversato momenti difficili, tra i quali molte epidemie, che hanno segnato un punto di svolta. L’evento che però abbiamo vissuto in questi mesi si colloca in un contesto sviluppato in modo esponenziale, iper-globalizzato, sovrappopolato e ambientalmente disastrato, che lo rende molto diverso da tutti i precedenti. La nostra illusione e volontà di controllo su tutto è svanita di fronte all’improvvisa consapevolezza che l’ordine che abbiamo costruito, modificando e moltiplicando all’infinito, non è semplicemente fragile, ma intrinsecamente pericoloso. Sono questi alcuni dei motivi per cui un progetto per il futuro – dopo i giorni in cui il mondo intero, caso senza precedenti, si è fermato – non può limitarsi, come in passato, al design di barriere protettive, al verde sanitario, alle “City Beautiful”, al lavarsi le mani, in tutti i sensi. La condizione attuale richiede non solo un ragionamento profondo a livello sistemico, ma anche la necessità di cogliere e progettare i cambiamenti, enormi e già in parte presenti, che finora stentavano ad affermarsi, ma che in questo periodo hanno avuto un’accelerazione formidabile. È necessario sviluppare un livello di comprensione profondo da punti di vista molteplici, ed è questo il motivo per cui questa raccolta non coinvolge solamente i contributi di architetti, ma anche quelli di scrittori, artisti e scienziati di tutto il mondo. Con questo numero speciale non abbiamo infine voluto comporre una semplice antologia di scritti, ma proporre una possibile fonte di ispirazione per molti, architetti e non, che potranno pensare su nuove basi il mondo che – forse velocemente o in modo lento e silenzioso – si andrà configurando in futuro. Il tutto nella consapevolezza che ciò che chiamavamo normalità, era già un problema.

We will come out of the emergency situation triggered by Covid-19 , but when we will be out, we will find a changed world and we will need to think it, to design it and eventually to build it. This is the assumption we followed while thinking about this special issue, started from an idea by Elena Riolo, and where we collected all the ideas and insights, totally unpublished, of twenty-seven authors: some of them recognized names, other emergent, all absolutely remarkable. In history, humankind went through difficult periods, including many epidemics, which marked a turning point. Nevertheless, what we have experienced during these months is occurring within an exponentially developed, hyper-globalized, over-populated, and environmentally depleted world, that makes it hugely different from any of the past. Our illusion and will of control over everything vanished in front of the sudden awareness that the order that we built, endlessly modifying and multiplying, is not simply fragile, but intrinsically dangerous. These are some of the reasons why a project for the future – after the days when, an unprecedented case, the whole world stood still – cannot be limited, as in the past, to the design of protective barriers, to the hygienic green, to ‘City Beautiful’ movements or to wash your hands clean, in any sense. The present condition does not simply require a deep systemic thinking, but also the capability to understand and design the enormous and partially already existing changes, which so far could not succeed, but during this time underwent a tremendous acceleration. We need a deep understanding from different points of view, and that is the reason why this project does not simply involve contributions by architects but also those of writers, artists and scientist from all over the world. Last, with this special issue we did not simply aim to compose a written anthology but rather to propose a possible source of inspiration for many, both architects and non-architects, who could think about new foundations for a future world that – perhaps violently or slowly and silently – will rise after this event. All in the understanding that what we call ordinary, was a problem already.

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› VISIONS

A Continental Garden Ancient Romans used to keep sacred forests they called ‘lucus’ and some of them are still present today. A continental garden is a seamless web of sacred forests that includes the Pyrenees, the Alps and the Bialoweisza Puszcza, the only remain of the same pristine forest that used to cover most of Europe until 2000 years ago. It flows inside cities, it spreads out to regions, to continents, and ultimately to the whole world. It equalizes our presence with all the rest and makes us breathe. [6]

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› VISIONS

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› AUTHORS

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One Earth Ideas for a World After Covid-19 ISSN 2531-9779 Numero speciale a cura di This special issue curator Carlo Ezechieli Direttore editoriale | Editorial director Antonio Morlacchi Direttore responsabile | Editor in chief Sonia Politi Marketing e Pubblicità | Marketing and Advertising Elena Riolo elenariolo@ioarch.it Grafica e impaginazione | Graphics Alice Ceccherini ph. ©Gabriella Gargioni

Carlo Ezechieli Architetto, dottore di ricerca in architettura e progettazione urbana, dal 2016 Carlo è direttore scientifico di ioArch. È titolare di CE-A Studio, uno studio di architettura la cui attività si rivolge in particolare al rapporto tra luoghi, paesaggio e spazio edificato, con progetti in Italia e all’estero. Architect, PhD in architecture and urban design, since 2016 Carlo is scientific director of ioArch. He’s principal of CE-A Studio, an architecture practice whose activity is mainly addressed to the relationship between places, landsacape and buildings, with projects in Italy and abroad.

Traduzioni | Translations Camilla Morlacchi Si ringrazia per la collaborazione | Special thanks to Silvia Marinoni

Editore | Publisher Font srl, via Siusi 20/a - 20132 Milano T. +39 02 2847274 redazione@ioarch.it - www.ioarch.it Reg. Tribunale di Milano n. 822 del 23/12/2004.

© 2020 Diritti di riproduzione riservati. La rirpoduzione di parti di questa pubblicazione è vietata senza l’autorizzazione dell’editore. © 2020 All rights reserved. No parts of this publication may be reproduced without the permission of the publisher.

Our Cover The cover photo of this special issue is a detail of Airport, a work of the Brasilian photographer Cássio Vasconcellos. The original – an image built with about a thousand different photographs captured on board a helicopter flying over many airports several times – has a size of 5 x 2 meters and took a year of work and about 800 hours of a computer to be built. Airport is part of the Colectives series (2008-2019).

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La foto di copertina di questo speciale è un dettaglio di Airport, opera del fotografo brasiliano Cássio Vasconcellos. L’originale – un’immagine creata usando migliaia di scatti effettuati dall’elicottero – misura cinque metri per due e ha richiesto un anno di riprese e 800 ore di post-produzione digitale. Airport fa parte della serie Colectives, realizzata tra il 2008 e il 2019.

Contributi e temi Contributions and Themes I contributi raccolti in questo numero speciale non sono una semplice antologia di idee e opinioni da fonti autorevoli, ma un repertorio di temi di importanza cruciale per la comprensione e la definizione di scenari futuri. Argomenti portanti ricorrono in modo trasversale, altri semplicemente riemergono, ma sempre in modo da consentire una utile, per quanto approssimativa, identificazione di sei fondamentali aree tematiche. Alcuni contributi propongono soluzioni pratiche di intervento; altri, di impronta più concettuale, indicano la necessità e l’urgenza di ridefinire i valori di base su cui fonda il progetto di architettura. Un tema, quest’ultimo, direttamente collegato alle sempre più importanti questioni ambientali. The contributions we collected in this special issue aren’t just a compendium of ideas and opinions by recognized sources, but a repertoire of issues of primary relevance, both for the understanding and for the making of future scenarios. Leading topics follow mutually intersecting lines, while others simply resurface, but always in a way to allow an useful, though unscientific, identification within six fundamental thematic areas. Some insights suggest practical solutions; others, featuring a more evident conceptual imprint, identify the need and urgency to redefine the values upon which the architectural design process is grounded, which is an aspect directly related to the ever more imperative environmental issues.


› AUTHORS Giacomo Albo

Andrea Bartoli

Luisa Bocchietto

Born in Lecco in 1975, he graduates in architecture from Politecnico di Milano in 2002. He began his photographic career during the university years, attracted by Gabriele Basilico’s work on architecture and the urban landscape. Since 2014 he’s a teaching associate at the Design Laboratories at the School of Architecture and Society of the Politecnico di Milano in Piacenza and Lecco. In 2015 he was the author of the exhibition “Expo Landscapes, architecture, proof and traces of a universal exposition”. Since 2014 he has been director of the photography of architectural short films to support professionals, businesses and companies. His photographic search extends to the reconnaissance of construction sites of infrastructures and architectures. He deals with land surveys with the use of drones.

Andrea Bartoli, notary, is the creator and founder of Farm Cultural Park, which has transformed the historic center of Favara, Sicily, into a place that attracts an average of 120 thousand visitors a year. Mobilizing architects supported by artists, young creatives and people who care about the recovery of the community, taking advantage of particularly low real estate values Bartoli and his wife Florinda recovered degraded buildings, transformed with courageous, energetic and colorful interventions into centers of cultural and artistic events that include an architecture school for children as well. The experience of Farm Cultural Park participated twice in the Venice Architecture Biennale.

Architect and designer, past-president of ADI (Association for Industrial Design) and Convenor of the Senate of WDO (World Design Organisation), Luisa Bocchietto has graduated from the Politecnico di Milano with Marco Zanuso in “Progettazione artistica per l’Industria” (Artistic Design for the Industry), forerunner course of the design faculty. She has been president for two terms of the Ordine degli Architetti in the Biella province, where her practice is based. She has organised exhibitions (“Pop Design”, “D come Design”) and has been judging for international competitions. In 2008 she has taken part in the organising committee of the Torino World Design Capital. She works as a visiting professor in universities and design schools.

Nato a Lecco nel 1975, si laurea in architettura al Politecnico di Milano nel 2002. Inizia il percorso fotografico negli anni dell’università attratto dai lavori di Gabriele Basilico sull’architettura e il paesaggio urbano. Dal 2014 è collaboratore alla didattica nei Laboratori di Progettazione presso la Scuola di Architettura e Società del Politecnico di Milano a Piacenza e a Lecco. Nel 2015 è autore dell’esposizione “Expo Landscapes, architetture, testimonianze e tracce di un’esposizione universale”. Dal 2014 si occupa della direzione fotografia di cortometraggi di architettura a supporto di professionisti, enti e imprese. La ricerca fotografica si estende alla ricognizione di cantieri di infrastrutture e architetture. Si occupa di rilievo del territorio con l’uso di droni.

Andrea Bartoli, notaio, è l’ideatore e fondatore di Farm Cultural Park, che ha trasformato il centro storico di Favara, in Sicilia, in un luogo che attrae una media di 120mila visitatori l’anno. Mobilitando architetti affiancati da artisti, giovani creativi e persone che hanno a cuore il recupero della comunità, sfruttando valori immobiliari particolarmente bassi Bartoli e sua moglie Florinda hanno recuperato edifici degradati, trasformati con interventi coraggiosi, energici e colorati in centri di eventi culturali, luoghi di manifestazioni artistiche e anche una scuola di architettura per bambini. L’esperienza di Farm Cultural Park conta già due partecipazioni alla Biennale di Architettura di Venezia.

Architetto e designer, past-president di ADI-Associazione per il Disegno Industriale e Convenor of the Senate di WDO-World Design Organization, Luisa Bocchietto si è laureata al Politecnico di Milano con Marco Zanuso in “Progettazione artistica per l’Industria”, corso antesignano della facoltà del design. Per due mandati è stata anche presidente dell’Ordine degli Architetti della provincia di Biella, dove ha sede il suo studio. Ha organizzato mostre (Pop Design, D come Design) e fatto parte di giurie di Premi internazionali. Nel 2008 ha fatto parte del comitato organizzatore di Torino World Design Capital. È visiting professor in università e scuole di design.

www.farmculturalpark.com

www.finearc.it

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› AUTHORS Paolo L. Bürgi

Wolfgang Buttress

Paolo Caputo

Adjunct professor of Landscape Architecture at the University of Pennsylvania, Politecnico di Milano and Università di Venezia IUAV, Bürgi opened his own office in Camorino, Switzerland in 1977, after graduating in landscape architecture and planning. Bürgi’s projects mainly deal with open space design and planning in connection with architecture in the public and private sector. Significant projects in Switzerland include the August Piccarde Space in Sierre, the Accademia di Architettura exterior spaces and neuropsychiatric hospital in Mendrisio, the Green Spiral in S. Antonino, the Cardada Mountain revitalization project in Locarno. Currently there are projects in progress in Cyprus, Spain, Germany and Italy. Over the years Bürgi participated in a number of international competitions winning several prizes. In 1989 he was awarded the Aspan Award for the recovery of Motto Grande Quarry and in 2003 he was awarded the European Landscape Award Rosa Barba for the Cardada project.

Wolfgang explores and interprets scientific discoveries to create human-centered experiences with his multi-sensory artworks. Creating a harmonious relationship between the artwork and the space around is very important to him; a well considered and integrated relationship can help create physical and emotional links between the idea, the site and the audience. His approach as an artist is to express a sense of place and to frame nature so one can experience it more intimately. His artworks now span over four continents including Australia. Wolfgang won the prestigious Kajima Sculpture Gold Award (2014) for his artwork Space in Tokyo, the second among just two western artists to win this accolade. Wolfgang was the artist and creative lead behind the multi-disciplinary team for the UK Pavilion Milan Expo 2015. The Hive, the sculptural centerpiece of the pavilion integrates light and sound that responds to the energy of a living bee colony and is now installed at the Royal Botanic Gardens Kew, London.

Full professor of Architectural and Urban Design at Politecnico di Milano and founder and principal of Caputo Partnership International, Paolo Caputo designed the new headquarters of the Lombardy Region (with Pei, Cobb, Freed & Partners) and, among other projects, the Solea tower in Milan Porta Nuova and the recovery of the Malvinni-Malvezzi palace in Matera. With his studio he has worked on several urban-scale projects, including Santa Giulia masterplan and the urbanization plan of Cascina Merlata-UpTown in Milan. Internationally, among others Paolo designed a social housing block in the Vallecas Ensance in Madrid and the new Abdali Park in Amman, including a library and a mosque.

Professore incaricato di Architettura del Paesaggio all’Università di Pennsylvania, al Politecnico di Milano e all’Università Iuav di Venezia, Bürgi ha aperto il suo studio a Camorino (Svizzera) nel 1977 dopo essersi laureato in architettura del paesaggio e pianificazione urbanistica. I progetti di Bürgi si confrontano principalmente con lo spazio aperto e la sua pianificazione in relazione all’architettura, nel settore pubblico e privato. Suoi progetti significativi in Svizzera comprendono lo spazio Auguste Piccard a Sierre, gli spazi esterni dell’Accademia di Architettura e dell’ospedale neuropsichiatrico di Mendrisio, la Spirale Verde di S. Antonino e il progetto di rivitalizzazione del monte Cardada a Locarno. Progetti sono attualmente in corso a Cipro e in Spagna, Germania e Italia. Negli anni Bürgi ha partecipato a numerosi concorsi internazionali vincendo diversi premi. Nel 1989 ha ricevuto l’Aspan Award per il progetto di recupero della cava di Motto Grande e nel 2003 l’European Landscape Award Rosa Barba per il progetto di Cardada.

Wolfgang esplora e interpreta le scoperte scientifiche per creare con le sue opere miultisensoriali esperienze incentrate sull’uomo. Ritiene essenziale creare una relazione armoniosa tra l’opera e lo spazio perché una relazione integrata e ben concepita può contribuire a creare legami fisici e emotivi tra l’idea, il luogo e i fruitori. Come artista, il suo approccio consiste nell’esprimere un senso del luogo e ricomprendervi la natura in modo che questa possa essere esperita più profondamente. Le sue opere sono installate in quattro continenti, inclusa l’Australia. Nel 2014, secondo occidentale a vincerlo, Wolfgang ha ricevuto il Kajima Sculpture Gold Award per una sua opera a Tokyo. Wolfgang è stato l’artista e la guida creativa del team che ha realizzato il Padlgione del Regno Unito all’Expo Milano 2015. The Hive, l’alveare, fulcro scultoreo del padiglione, integra luce e suono che rispondono all’energia di un’autentica colonia di api e attualmente è installato presso i Kew Royal Botanic Gardens, a Londra.

www.burgi.ch

www.wolfgangbuttress.com

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Paolo Caputo è professore ordinario di Progettazione Architettonica e Urbana al Politecnico di Milano e fondatore e principal di Caputo Partnership International. Ha realizzato la nuova sede di Regione Lombardia (con Pei, Cobb, Freed & Partners) e, tra gli altri progetti, torre Solea a Milano Porta Nuova e il recupero di palazzo Malvinni-Malvezzi a Matera. Con il suo studio ha lavorato a numerosi progetti a scala urbana tra cui il masterplan di Santa Giulia e il piano di urbanizzazione di Cascina MerlataUpTown a Milano. In ambito internazionale, tra gli altri ha progettato un blocco di social housing nell’Ensance di Vallecas a Madrid e il nuovo Abdali Park di Amman, comprendente una biblioteca e una moschea. www.caputopartnership.it

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› AUTHORS Maurizio Carta

ph. ©Peppino Romano

Architect, phD, academic senator and full professor of urbanism and regional planning at the Department of Architecture of the University of Palermo. Senior expert in strategic planning, urban design and local development, Maurizio is author of more than 300 scientific publications. Among the most recent: Reimagining Urbanism (Listlab, 2014), Re-cyclical Urbanism (with B. Lino and D. Ronsivalle, Listlab, 2016), The Fluid City Paradigm (with D. Ronsivalle, Springer, 2016), Augmented City (Listlab, 2017), Dynamics of Periphery (with J. Schroeder, Jovis, 2018) and Futuro, politiche per un diverso presente (Rubbettino, 2019). Architetto, phD, senatore accademico e professore ordinario di urbanistica presso il Dipartimento di Architettura e Presidente della Scuola Politecnica dell’Università di Palermo. Esperto di pianificazione urbana e territoriale, pianificazione strategica e rigenerazione urbana, Maurizio è autore di più di 300 pubblicazioni scientifiche. Tra le più recenti: Reimagining Urbanism (Listlab, 2014), Recyclical Urbanism (con B. Lino e D. Ronsivalle, Listlab, 2016), The Fluid City Paradigm (con D. Ronsivalle, Springer, 2016), Augmented City (Listlab, 2017), Dynamics of Periphery (con J. Schroeder, Jovis, 2018) e Futuro, politiche per un diverso presente (Rubbettino, 2019).

Aldo Cibic

Angelo Costa

ph. ©Stefano Babic

After meeting Ettore Sottsass, Aldo Cibic (Schio, 1955) became a partner of Sottsass Associati and in 1981 he was one of the founders of Memphis. In the same period he started a research activity with schools that inaugurated the idea of a service design and proposed original ways of designing places with respect to social dynamics. In this direction Microrealities (2004) and Rethinking Happiness (2010) projects, both presented at the Venice Architecture Biennale, invent stories aimed at multiplying the opportunities for sharing in collective life. In 2010 he founded the Cibic Workshop, a multidisciplinary research center dedicated to the development of design typologies aimed at enhancing the territory and defining a new awareness of public space. Aldo Cibic teaches at the Milan Polytechnic, Iuav University in Venice, Iaad Turin and the Domus Academy, and is an honorary professor at Tongji University in Shanghai. Dopo l’incontro con Ettore Sottsass, Aldo Cibic (Schio, 1955) diventa socio di Sottsass Associati e nel 1981 è tra i fondatori di Memphis. Nello stesso periodo avvia un’attività di ricerca con le scuole che inaugura l’idea di un design dei servizi e propone modalità originali di progettazione dei luoghi rispetto alle dinamiche sociali. In questa direzione i progetti Microrealities (2004) e Rethinking Happiness (2010), entrambi presentati alla Biennale di Architettura di Venezia, inventano storie volte a moltiplicare le occasioni di condivisione nella vita collettiva. Nel 2010 fonda il Cibic Workshop, centro multidisciplinare di ricerca, che si dedica all’elaborazione di tipologie progettuali rivolte alla valorizzazione del territorio e alla definizione di una nuova coscienza dello spazio pubblico. Aldo Cibic svolge attività di insegnamento presso il Politecnico di Milano, l’Università Iuav di Venezia, Iaad Torino e la Domus Academy, ed è professore onorario alla Tongji University di Shanghai.

Graduated in Architecture at La Sapienza University in Roma, Angelo has followed in his father’s footsteps and has revolutionized Studio Costa Architecture in 2004. His vision and inspiration transformed the studio from a successful local architectural practice into an international consultancy firm offering a complete matrix of services with an organization that has constantly proven capable in managing projects of all complexities and size. As the firm’s founder and creative director he closely follows the evolution of the project process, from feasibility study to construction supervision, and deals with all design aspects and processing of construction documents. Angelo Costa also dedicates time to innovative design and research activities by participating to national and international design competitions. Laureato in architettura presso l’Università La Sapienza di Roma, Angelo ha seguito le orme del padre e nel 2004 ha rivoluzionato lo Studio Costa Architecture. La sua visione e la sua ispirazione hanno trasformato lo studio da studio di architettura locale di successo in uno studio di consulenza internazionale che offre una matrice completa di servizi con un’organizzazione che si è costantemente dimostrata capace di gestire progetti di ogni complessità e dimensione. Come fondatore e Creative Director dello studio Angelo segue da vicino l’evoluzione del processo progettuale, dallo studio di fattibilità alla direzione lavori, coordinandone tutti gli aspetti creativi ed esecutivi. Angelo Costa si dedica anche ad attività di progettazione innovativa e di ricerca partecipando a concorsi di architettura nazionali e internazionali. www.studiocosta.ae

www.cibicworkshop.com

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› AUTHORS Stephan Harding

Anna Heringer

ph. ©Nina Rettenbacher

Stephan Harding holds a doctorate in ecology from Oxford University and is Deep Ecology Research Fellow at Schumacher College, Dartington, UK. He is the author of Animate Earth: Science, Intuition and Gaia, published in Italy by the Aboca company with the title Terra Vivente, and editor of Grow Small Think Beautiful: Ideas for a Sustainable Planet from Schumacher College. He is currently on lockdown with his family at Schumacher College, Dartington, England. Stephan Harding ha un dottorato in Ecologia dell’Università di Oxford ed è Deep Ecology Research Fellow allo Schumacher College, Dartington, UK. È autore di Animate Earth: Science, Intuition and Gaia, il suo primo libro, pubblicato in Italia da Aboca con il titolo Terra Vivente, e curatore di Grow Small Think Beautiful: Ideas for a Sustainable Planet from Schumacher College. Al momento è in lockdown con la sua famiglia allo Schumacher College a Dartington.

For Anna Heringer architecture is a tool to improve lives. As an architect and honorary professor of the Unesco Chair of Earthen Architecture, Building Cultures and Sustainable Development she is focusing on the use of natural building materials. She has been actively involved in development cooperation in Bangladesh since 1997. Her diploma work, the METI School in Rudrapur got realized in 2005 and won the Aga Khan Award for Architecture in 2007. Over the years, Studio Anna Heringer has realized further projects in Asia, Africa, and Europe. Anna has been visiting professor at various universities such as Harvard, ETH Zurich and TU Munich. She received numerous honors: the Global Award for Sustainable Architecture, the AR Emerging Architecture Award, the Loeb Fellowship at Harvard’s GSD and a RIBA International Fellowship. Her work was exhibited in the MoMA New York, the V&A Museum in London and at the Venice Biennale among other places. Per Anna Heringer l’architettura è uno strumento per migliorare la vita. Come architetto e professore onorario della cattedra Unesco di Earthen Architecture, Building Cultures and Sustainable Development la sua ricerca si focalizza sull’uso di materiali da costruzione naturali. Dal 1997 è stata coinvolta attivamente nella cooperazione per lo sviluppo in Bangladesh. Il progetto della sua tesi di laurea, la scuola METI, nel 2005 è stata realizzata a Rudrapur e ha vinto un Aga Kahn Award per l’Architettura nel 2007. Nel corso degli anni, lo studio Anna Heringer ha realizzato altri progetti in Asia, Africa e Europa. Anna è stata professore incaricato in diverse università, tra cui Harvard, l’ETH di Zurigo e il TU di Monaco di Baviera. Ha ottenuto numerosi riconoscimenti: il Global Award for Sustainable Architecture, l’AR Emerging Architecture Award, il Loeb Fellowship della GSD di Harvard e la RIBA International Fellowship. Suoi progetti sono stati esposti tra gli altri al MoMA di New York, al V&A Museum di Londra e alla Biennale di Architettura di Venezia.

Bjarke Ingels

ph. ©Jonas Bie

Bjarke Ingels founded BIG-Bjarke Ingels Group in 2005. Through careful analysis of various parameters, from local culture and climate, ever-changing patterns of contemporary life, to the ebbs and flows of the global economy, Bjarke believes in the idea of information driven-design as the driving force for his design process. In 2019 Bjarke was appointed Knight of the French Order Arts et Lettres. AIA, RIBA and RAIC Honorary Fellow, in 2011 he received the Danish Crown Prince’s Culture Prize and in 2004 he was awarded the Golden Lion at the Venice Biennale. Based in Copenhagen, New York, London and Barcelona and led by 17 partners, BIG is currently involved in a large number of projects all over the world. Bjarke Ingels fonda BIG-Bjarke Ingels Group nel 2005. Con un’attenta analisi dei diversi fattori in gioco – dalla cultura e il clima del luogo ai mutevoli aspetti della vita contemporanea alle oscillazioni della globalità – Bjarke considera la progettazione basata sui dati l’elemento trainante del processo di lavoro. Dal 2019 Bjarke è Cavaliere dell’Ordre des Arts et des Lettres francese. AIA, RIBA, RAIC Honorary Fellow, ha ricevuto il Leone d’Oro della Biennale di Venezia nel 2004 e il Crown Prince’s Culture Prize danese nel 2011. Con sedi a Copenhagen, New York, Londra e Barcellona lo studio BIG, guidato da 17 partner, è attualmente coinvolto in numerosi progetti in tutto il mondo. www.big.dk

www.anna-heringer.com

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› AUTHORS Arthur Mamou-Mani

Michael Pawlyn

Chris Precht

Arthur Mamou-Mani AA dipl, ARB/RIBA FRSA is a French architect and director of the award-winning practice Mamou-Mani Architects, specialised in a new kind of digitally designed and fabricated architecture. He is a lecturer at the University of Westminster and owns a digital fabrication laboratory called the Fab.Pub which allows people to experiment with large 3D Printers and laser cutters. Since 2016, he is a fellow of the The Royal Society for the Encouragement of Arts, Manufactures and Commerce. He has won the Gold Prize at the American Architecture Prize for the Wooden Waves project installed at BuroHappold Engineering, and the RIBA Journal Rising Stars Award in 2017. Arthur gave numerous talks including the TED-X conference in the USA and has been featured on the cover of the FT, in The New-York Times and Forbes. Prior to founding Mamou-Mani in 2011, he worked with Atelier Jean Nouvel, Zaha Hadid Architects and Proctor and Matthews Architects.

Michael Pawlyn is a British architect noted for his work in the field of biomimetic architecture and innovation. He is a director of Exploration Architecture, speaker and author of Biomimicry in Architecture (second edition, 2016 RIBA Publishing). He is part of the steering group for ‘Architects Declare’ and is currently writing a book with Sarah Ichioka about the need for paradigm shifts in the design of the built environment. Michael’s publications host a common theme: moving beyond conventional sustainability to strive for regenerative approaches that deliver net benefits. He continues to use nature as the main source of inspiration for the solutions needed. He believes that when regenerative design will become mainstream, it will represent a significant turning-point in human civilization.

Chris Precht grew up in a small village near Salzburg, surrounded by mountains. He started skiing very early and ended up as a professional ski-jumper until he was 19. Looking back at his childhood, the connection to a natural surrounding and the importance of a balanced relation between humans and nature still remains a foundation of his work. He started his training at the University of Innsbruck where he received his Bachelor Degree in 2010. During that time, he taught classes at the ‘Institute for experimental Architecture’ with Patrik Schumacher and Kjetil Trædal Thorsen. In 2013 he received his master degree from the Technical University of Vienna. Right after that, his first studio called ‘Penda’ was established with his wife Fei in Beijing after winning a small competition. In 2017, they moved to Austria near Salzburg and the studio was renamed ‘Precht’, named on Architizer’s list of “Top 10 Architecture Firms to follow in 2019 & 2020” and on the list of ‘Emerging architect of 2018’ from Dezeen.

Laureato alla AA, ARB/RIBA FRSA, l’architetto francese Arthur Mamou-Mani guida lo studio Mamou-Mani Architects, specializzato in un nuovo genere di architettura progettata e realizzata digitalmente. Docente all’Università di Westminster, possiede il laboratorio di fabbricazione digitale Fab.Pub che consente a ricercatori e aziende di sperimentare con grandi stampanti 3D e macchine a taglio laser. Dal 2016 è membro della Royal Society for the Encouragement of Arts, Manufactures and Commerce. Per il progetto Wooden Waves installato presso la sede della società di BuroHappold Engineering ha vinto il Gold Prize all’American Architecture Prize e il Rising Stars Award del RIBA Journal nel 2017. Arthur ha tenuto numerose conferenze, compresi dei talk TED-X negli Stati Uniti, ed è apparso sulle copertina di Financial Times, New-York Times a Forbes. Prima di fondare il proprio studio nel 2011 ha lavorato presso Atelier Jean Nouvel, Zaha Hadid Architects e Proctor and Matthews Architects.

Michael Pawlyn è un architetto inglese noto per il suo lavoro nel campo dell’architettura biomimetica e dell’innovazione. È direttore di Exploration Architecture e autore di Biomimicry in Architecture (II edizione, 2016 RIBA Publishing). Fa parte del gruppo direttivo di “Architects Declare” e attualmente sta scrivendo un libro con Sarah Ichioka sulla necessità di un cambiamento di paradigma nella progettazione dell’ambiente costruito. Le pubblicazioni di Michael hanno come filo conduttore il superamento del concetto convenzionale di sostenibilità a favore di approcci rigenerativi in grado di offrire benefici concreti. Michael considera la natura quale principale fonte di ispirazione per soluzioni progettuali e il suo lavoro si sviluppa nella convinzione che nel momento in cui il design rigenerativo si imporrà quale principale modalità operativa, esso rappresenterà un punto di svolta per la civiltà. www.exploration-architecture.com

Chris Precht è cresciuto in un piccolo villaggio circondato dalle montagne nei pressi di Salisburgo. Ha iniziato a sciare molto presto diventando un atleta professionista nel salto con gli sci fino all’età di 19 anni. Guardando alla sua infanzia, la connessione alla natura e l’importanza di un rapporto equilibrato tra questa e gli esseri umani rimane tuttora alla base del suo lavoro. Ha studiato presso l’Università di Innsbruck tenendo corsi presso l‘Institute for Experimental Architecture’ con Patrik Schumacher (Zaha Hadid) e Kjetil Trædal Thorsen (Snohetta). Nel 2013 ha ottenuto il PhD alla TU di Vienna. Subito dopo con sua moglie Fei ha fondato a Pechino lo studio “Penda”. Nel 2017 i due hanno fatto ritorno in Austria, sulle montagne attorno a Salisburgo, rinominando lo studio “Precht”, presente tra le “Top 10 Architecture Firms to follow in 2019 & 2020” di Architizer e incluso nella classifica degli ‘Emerging architect of 2018’ di Dezeen. www.precht.at

www.mamou-mani.com

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› AUTHORS Luigi Prestinenza Puglisi

Renato Rizzi

Davide Ruzzon

Luigi Prestinenza Puglisi (Catania, 1956) is an architect and architecture critic. He is the director of the online magazine presS/Tletter and the chairman of AIAC (Italian Association of Architecture and Critics). He was the curator of the series ItaliArchitettura (Utet Scienze Tecniche). He has written History of Architecture 1905-2018, available in paper or for free download on www.pressletter.com. and a large number of other books. The one that he most cares about is HyperArchitettura. The best sold is This is Tomorrow, avanguardie e architecture contemporanea. The one that he would have wanted to be the bestseller is Introduzione all’Architettura. The one that had the best reviews is New Directions in Contemporary Architecture. There are also Breve Corso di Scrittura Critica and ArchiTexture. His personal website, where his books and articles can be downloaded – along with the history of his life (lpp’s unscientific autobiography) – can be found at www.prestinenza.it.

After a degree in architecture in 1977 at Iuav University in Venice, where he currently teaches Composizione architettonica e Urbana, Renato Rizzi wins the competition for the sports area Ghiaie in Trento, completed in 2002. From 1984 to 1992 he’s in New York with Peter Eisenman. From that season come the projects of La Villette in Paris; the new Monte dei Paschi Hq in Siena; Tokyo Opera House and in 2008 the “Torre della Ricerca” in Padova. Renato takes on several international competitions. His most recently completed work is the Elizabethan Theatre in Gdańsk. Winner of the In/Arch National Award in 1992, in 2003 he gained an honorary mention at La Medaglia d’Oro dell’Architettura Italiana, and won that same prize in 2009 for the Casa Depero Museum in Rovereto. In 2019 he received the Prize for the Architecture of President of the Italian Republic. In addition to his profession and teaching, Rizzi is carrying on an intense research activity, resulting in several publications and books. His works have been exhibited at the Venice Architecture Biennale in 1984, 1985, 1996, 2002, 2010.

Architect, scientific director of NAAD (Neuroscience Applied to Architectural Design) at Iuav University in Venice, and co-director of the magazine Intertwining (edited by Mimesis International), Davide Ruzzon has always linked his interest in research with design and popularization activities aimed at promoting the debate on architecture and cities.

Luigi Prestinenza Puglisi (Catania, 1956) è architetto e critico di architettura. È il direttore della rivista online presS/Tletter e presidente dell’Associazione Italiana di Architettura e Critica. È stato il curatore della serie ItaliArchitettura (Utet Scienze Tecniche). Ha scritto La Storia dell’architettura 19052018, disponibile su carta o scaricabile gratuitamente dal sito www.presstletter.com. e numerosi altri libri. Quello a cui tiene di più è: HyperArchitettura. Quello che ha venduto di più è: This is Tomorrow, avanguardie e architettura contemporanea. Quello che avrebbe voluto che vendesse di più è: Introduzione all’architettura. Quello che ha ricevuto le migliori recensioni: New Directions in Contemporary Architecture. E poi vi sono il Breve Corso di scrittura critica e ArchiTexture. Il suo sito personale, dove si possono scaricare i suoi libri e articoli, nonché la storia della sua vita (l’autobiografia ascientifica di lpp) si trova all’indirizzo www.prestinenza.it

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Renato Rizzi si laurea nel 1977 all’Università Iuav di Venezia, dove attualmente è professore ordinario di Composizione architettonica e urbana. Nel 1984 vince il concorso per l’area sportiva Ghiaie, a Trento, completata nel 2002. Dal 1984 al 1992 collabora con Peter Eisenman a New York. Di quel periodo i progetti di La Villette a Parigi; la nuova sede del Monte dei Paschi a Siena; l’Opera House a Tokio e nel 2008 la Torre della Ricerca a Padova. Partecipa a numerosi concorsi internazionali. La sua opera più recente è il teatro Elisabettiano di Danzica. Premio nazionale In/Arch nel 1992, nel 2003 riceve la menzione d’onore per la Medaglia d’Oro dell’Architettura Italiana, che vince invece nel 2009 con il progetto per la Casa Museo Depero a Rovereto. Nel 2019 ha ricevuto il Premio del Presidente della Repubblica Italiana all’Architettura. Oltre alla professione e all’insegnamento, Rizzi sviluppa una intenso lavoro di ricerca, sfociato in numerose pubblicazioni. Ha esposto i propri lavori alla Biennale di architettura di Venezia nel 1984, 1985, 1996, 2002, 2010.

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Architetto, Direttore Scientifico di NAAD ‘Neuroscience Applied to Architectural Design’ all’Università Iuav di Venezia e co-direttore della rivista Intertwining, edita da Mimesis International, da sempre Davide Ruzzon coniuga l’interesse per la ricerca con l’attività progettuale e la divulgazione, promuovendo il dibattito sull’architettura e la città.

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› AUTHORS Patrik Schumacher

Martha Schwartz

Gino Strada

ph. ©Paul Weaver

Principal of Zaha Hadid Architects, Patrik Schumacher joined Zaha Hadid in 1988 (partner and co-author since 2003) and was seminal in developing ZHA to become a global architecture and design brand. Patrik Schumacher studied philosophy, mathematics and architecture in Bonn, Stuttgart and London and completed his PhD in 1999 at the Institute for Cultural Science, Klagenfurt University. In 1996 he founded the Design Research Laboratory at the Architectural Association in London where he continues to teach. In 2010 won the RIBA Stirling Prize together with Zaha Hadid. In 2008 he coined the phrase Parametricism as the new epochal style for the 21st century. In 2010/2012 he published his two-volume theoretical opus The Autopoiesis of Architecture. Patrik Schumacher is widely recognized as one of the most prominent thought leaders within the fields of architecture, urbanism and design. A capo dello studio Zaha Hadid Architects, Patrik Schumacher è al fianco di Zaha Hadid dal 1988 (diventa partner dello studio e coautore nel 2003) e il suo ruolo è decisivo per l’evoluzione dello studio in un brand globale di architettura e design. Ha studiato filosofia, matematica e architettura a Bonn, Stoccarda e Londra e ha completato il suo PhD nel 1999 all’Istituto per la Scienze Culturali dell’Università di Klagenfurt. Nel 1996 ha fondato il Design Research Laboratory all’Architectural Association di Londra, dove insegna tuttora. Nel 2010 ha vinto il RIBA Stirling Prize con Zaha Hadid. Nel 2008 ha coniato il termine Parametricismo come nuovo stile per l’architettura del 21° secolo. Nel 2010/2012 ha pubblicato la sua opera teorica in due volumi The Autopoiesis of Architecture. Patrik è considerato uno dei principali pensatori nei campi dell’architettura, dell’urbanistica e del design. www.patrikschumacher.com

Martha Schwartz is a landscape architect, urbanist, artist and climate activist. Her work and teaching focuses on the urban public realm landscape and its relevance in making cities “climate ready”. As founder and senior partner of Martha Schwartz Partners, she completed projects around the globe, from site-specific art installations to public spaces, and parks. Martha Schwartz is the recipient of numerous awards and prizes; she is a tenured Professor in Practice of Landscape Architecture at the Harvard University Graduate School of Design and is a participant of the GSD Climate Change Working Group. Schwartz foresees landscape architecture as the leading profession to face the challenge of Climate Change. She is a founding member of the Working Group of Sustainable Cities at the Harvard University Center for the Environment. Her work has been featured widely in publications as well as museums, including the Museum of Modern Art in New York and the Royal Academy of Arts in London. Martha Schwartz è architetto paesaggista, urbanista, artista e attivista nel campo dei cambiamenti climatici. Il suo lavoro e la sua attività di insegnamento si concentrano sul paesaggio urbano degli spazi pubblici e sulla sua importanza nel rendere le città “climaticamente preparate”. In qualità di fondatrice e senior partner di Martha Schwartz Partners, ha realizzato progetti in tutto il mondo, da installazioni artistiche site specific a spazi pubblici e parchi. Martha Schwartz ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti, è professore ordinario di architettura del paesaggio presso la Graduate School of Design dell’Università di Harvard ed è membro del gruppo di lavoro GSD Climate Change. Schwartz ritiene che l’architettura del paesaggio sia l’ambito professionale chiave per affrontare la sfida del cambiamento climatico. È membro fondatore del Gruppo di Lavoro sulle Città Sostenibili presso l’Harvard University Center for the Environment. Il suo lavoro è stato ampiamente pubblicato ed esposto a mostre, tra queste presso il Museum of Modern Art di New York e la Royal Academy of Arts di Londra.

Doctor, surgeon, and founder of Emergency, the NGO that has been giving medical help to civil victims of war and poverty since 1994. For his actions, in 2015 Gino Strada has received the Right Livelihood Award in Stockholm, the “alternative Nobel Prize” born to “honour and support people who offer practical and exemplar answers to the biggest challenges of our time”; in 2017 he has received the Sunhak Peace Prize in Seoul. Up until today, Emergency has cured over ten million people, and operates in 18 countries plus Italy with about three thousand doctors, nurses, and technical personnel. Medico chirurgo e fondatore di Emergency, la Ong che dal 1994 presta aiuto medico alle vittime civili della guerra e della povertà. Per la sua attività, nel 2015 Gino Strada ha ritirato a Stoccolma il Right Livelihood Award, il premio Nobel alternativo nato “per onorare e sostenere coloro che offrono risposte pratiche ed esemplari alle maggiori sfide del nostro tempo”, e nel 2017 a Seoul il Sunhak Peace Prize. Fino ad oggi Emergency ha curato oltre 10 milioni di persone. La Ong opera in 18 Paesi e in Italia con circa tremila tra medici, infermieri e personale tecnico. www.emergency.it

https://msp.world

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› AUTHORS TAMassociati

Kjetil Trædal Thorsen

ph. ©Andrea Avezzù

Split between Venice, Bologna, Trieste and Paris, the partners of TAMassociati, founded in 1996 by Massimo Lepore, Raul Pantaleo, Simone Sfriso, Laura Candelpergher and Enrico Vianello, work all over Italy but also in hotspots: Afghanistan, Sudan, Senegal, refugee camps in Iraq. In 2016 they curated the Italian Pavilion at the Venice Architecture Biennale, with the Taking Care call-to-action addressed both to architects and contributors to design and realize five mobile units to give first aid up and down the country. Their architecture is primarily humanist: as they always repeat, “architecture must be built for people, always, everywhere, whatever the context”. Organizzati tra gli studi di Venezia, Bologna, Trieste e Parigi, i partner di TAMassociati, fondata nel 1996 da Massimo Lepore, Raul Pantaleo, Simone Sfriso, Laura Candelpergher e Enrico Vianello opera in tutta Italia e in luoghi sensibili del mondo: Afghanistan, Sudan, Senegal e campi per rifugiati in Iraq. Nel 2016 Tamassociati ha curato il Padiglione Italia alla Biennale di Architettura di Venezia, con una chiamata all’azione – dal titolo Taking Care – rivolta a progettisti e sponsor per progettare e realizzare concretamente cinque unità mobili che potessero viaggiare lungo la penisola per portare prima assistenza in contesti disagiati. Quella di TAMassociati è architettura umanistica: come ripetono sempre, “l’architettura deve essere fatta per le persone, sempre, dovunque il qualsiasi sia il contesto”. www.tamassociati.org

Ben Van Berkel

ph. ©Els Zweerink

Kjetil Trædal Thorsen studied architecture in Graz, Austria and completed his Dipl. Ing. of Architecture in 1985. In 1987 he co-founded Snøhetta Architecture and Landscape – a company founded on the idea of transdisciplinary collaboration between architects and landscape architects. In 1989, the practice won the international competition to design the new Library of Alexandria, completed in 2001. The year after Snøhetta were selected to design the new Norwegian National Opera and Ballet. Since the founding of Snøhetta, Kjetil has been a driving partner, and as a board member and project director, he has been instrumental in defining and developing Snøhetta’s philosophy and architectural ambition. Snøhetta’s most highly acclaimed projects have been inspired or led by Kjetil. Kjetil Trædal Thorsen ha studiato architettura a Graz, in Austria e completato la sua laurea in architettura nel 1985. È stato cofondatore nel 1987 di Snøhetta Architecture and Landscape – uno studio fondato sull’idea di collaborazione interdisciplinare tra architetti e paesaggisti. Nel 1989, lo studio vinse il concorso internazionale per la progettazione della nuova Biblioteca di Alessandria, completato nel 2001. L’anno successivo Snøhetta fu scelto per la progettazione del nuovo Norwegian National Opera and Ballet. Kjetil è stato un partner trainante di Snøhetta fin dalla fondazione dello studio e, come membro del consiglio di amministrazione e direttore di progetto, è stato determinante nel definirne e svilupparne la filosofia e gli intenti architettonici. I progetti più acclamati di Snøhetta sono stati ispirati o guidati da Kjetil. https://snohetta.com

Ben van Berkel – Professor, Architect, (F)RIBA, Hon. FAIA – studied architecture at the Rietveld Academy in Amsterdam and at the Architectural Association in London, receiving the AA Diploma with Honours in 1987. In 1988 he and Caroline Bos set up UNStudio, an architectural practice in Amsterdam. Current projects include the Southbank mixed-use development in Melbourne, ‘Four’, a largescale mixed-use project in Frankfurt and the wasl Tower in Dubai. With UNStudio he realised amongst others the Mercedes-Benz Museum in Stuttgart, Arnhem central Station in the Netherlands, the Raffles City mixed-use development in Hangzhou, the Canaletto Tower in London, a private villa up-state New York and the Singapore University of Technology and Design. In 2018 Ben van Berkel founded UNSense, an Arch Tech company that designs and integrates human-centric tech solutions for the built environment. Ben van Berkel – docente, architetto, (F)RIBA, Hon. FAIA – ha studiato architettura alla Rietveld Academy di Amsterdam e alla Architectural Association a Londra, dove si è laureato con lode nel 1987. Nel 1988 con Caroline Bos ha fondato UNStudio, studio di architettura di Amsterdam, che tra I progetti in corso conta gli sviluppi mixed-use Southbank a Melbourne e ‘Four’ a Francoforte, oltre alla wasl Tower di Dubai. Con UNStudio ha realizzato tra gli altri il Museo Mercedes-Benz di Stoccarda, la stazione centrale di Arnhem in Olanda, lo sviluppo Raffles City di Hangzhou, la Canaletto Tower di Londra, una villa privata nello stato di New York e la Singapore University of Technology and Design. Nel 2018 Ben van Berkel ha fondato UNSense, una società Arch-Tech che disegna scenari per integrare nell’ambiente costruito soluzioni tecnologiche incentrate sull’uomo. www.unstudio.com

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› AUTHORS Cássio Vasconcellos

Julia Watson

Alan Weisman

ph. ©Bill Steen

Cássio Vasconcellos (São Paulo, 1965) is a photographer since 1981. By now his images had been exhibited over 200 times in twenty countries. Some of his recent exhibitions are “Trees”, Fondation Cartier pour l’art Contemporain, Paris, France (2019); “Civilization: The Way We Live Now”, National Gallery of Victoria, Melbourne, Australia and UCCA Center for Contemporary Art, Beijing (2019). He has eight books published and his works are in Brazil’s main private collections as well in museums such as the MASP – Museu de Arte de São Paulo, Bibliothèque Nationale in Paris and the Museum of Fine Arts of Huston. The Brazilian photographer is represented by galeria Nara Roesler (São Paulo, Rio de Janeiro and New York) and Gadcollection Gallery (Paris). Cássio Vasconcellos (São Paulo, 1965) è un fotografo dal 1981. Finora le sue immagini sono state esposte più di 200 volte in venti Paesi. Tra le sue mostre più recenti “Trees”, alla Fondation Cartier pour l’art Contemporain di Parigi (2019), “Civilization: The Way We Live Now”, alla National Gallery of Victoria, Melbourne e all’UCCA Center for Contemporary Art di Pechino (2019). Ha pubblicato otto libri e le sue opere si trovano nelle princiapli collezioni private brasiliane e in musei come il MASP - Museu de Arte de São Paulo, la Bibliothèque Nationale di Parigi e il Museo di Belle Arti di Huston. Il fotografo brasiliano è rappresentato dalle gallerie Nara Roesler (São Paulo, Rio de Janeiro e New York) e Gadcollection Gallery di Parigi. www.cassiovasconcellos.com

Designer, activist, and academic, Julia Watson is a leading expert on indigenous technologies. Her new bestselling book with Taschen, Lo-TEK, Design by Radical Indigenism travels across eighteen countries from Peru to the Philippines, Tanzania to Iran, exploring millennia-old human ingenuity on how to live in symbiosis with nature. It has been featured in The New York Times, The Guardian, Dwell, Architectural Digest, CNN, Dezeen, Curbed and more. Conceived by Watson, Lo—TEK is a design movement building on indigenous philosophy and vernacular infrastructure to generate sustainable, resilient, nature-based technology. With a landscape and urban design studio that focuses on rewilding, Julia also teaches at Harvard and Columbia University and will speak at the upcoming TED e COP 26. Born in Australia, she regularly travels to indigenous cultures and sacred sites across the globe. Designer, attivista e accademica, Julia Watson è esperta in tecnologie indigene. Il suo nuovo libro pubblicato con Taschen, Lo-TEK, Design by Radical Indigenism è un’esplorazione dell’ingegno umano millenario sulle maniere di vivere in simbiosi con la natura condotto in diciotto Paesi, dal Peru alle Filippine, dalla Tanzania all’Iran. Oltre che su IoArch, il volume è stato recensito da The New York Times, The Guardian, Dwell, Architectural Digest, CNN, Dezeen, Curbed. Creato da Jullia Watson, Lo—TEK è un movimento di design basato sulla filosofia indigena e sulle infrastrutture vernacolari per promuovere una tecnologia sostenibile, resiliente e fondata sulla natura. Con uno studio di urbanistica e paesaggio che si concentra sulla rinaturalizzazione, Julia insegna ad Harvard e alla Columbia e terrà conferenze ai prossimi TED e COP 26. Nata in Australia, Julia viaggia regolarmente per visitare culture indigene e siti sacri nel mondo. www.juliawatson.com

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American journalist and author, Alan Weisman has worked in more than 50 countries. His reports from around the world have appeared in The New York Times Magazine, The Atlantic Monthly, Harper’s, The Los Angeles Times Magazine, Vanity Fair, Mother Jones, Discover, Orion, Wilson Quarterly, VICE, and on National Public Radio. His latest book is Countdown: Our Last, Best Hope for a Future on Earth? (in 13 foreign language editions). Countdown was awarded the Los Angeles Times Book Prize, the Paris Book Festival Prize for Nonfiction, the Nautilus Gold Book Award, and the Population Institute’s Global Media Award for Best Book. His previous book, The World Without Us, an international bestseller translated into 33 languages, was named Best Nonfiction Book of 2007 by Time Magazine and Entertainment Weekly. His other books include An Echo In My Blood; Gaviotas: A Village to Reinvent the World; and La Frontera: The United States Border With Mexico. Senior documentary writer and producer, Weisman lives in western Massachusetts with his wife, sculptor Beckie Kravetz. Giornalista e scrittore americano, Alan Weisman ha lavorato in più di 50 Paesi. I suoi reportage dal mondo sono stati pubblicati su The New York Times Magazine, The Atlantic Monthly, Harper’s, The Los Angeles Times Magazine, Vanity Fair, Mother Jones, Discover, Orion, Wilson Quarterly, VICE e messi in onda dalla National Public Radio. Il suo libro più recente è Countdown (in edizione italiana Conto alla rovescia, Einaudi, 2014), premiato con il Los Angeles Times Book Prize, il Paris Book Festival Prize for Nonfiction, il Nautilus Gold Book Award e il Population Institute’s Global Media Award for Best Book. Il suo libro precedente, Il mondo senza di noi (Einaudi, 2017), un bestseller internazionale tradotto in 33 lingue, era stato eletto Best Nonfiction Book 2007 da Time Magazine e Entertainment Weekly. Gli altri suoi titoli – non tradotti in italiano – comprendono An Echo In My Blood; Gaviotas: A Village to Reinvent the World; e La Frontera: The United States Border With Mexico. Documentarista e produttore, Weisman vive in Massachusetts con sua moglie, la scultrice Beckie Kravetz.

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› PEOPLE

Andrea Bartoli

Siamo in tanti a credere che nulla sarà come prima, ma difficilmente sarà come vorremmo che fosse se non inizieremo a sognarlo progettarlo e raccontarcelo

Many of us believe that nothing will be like before, but hardly it will be as we thought it would be, if we won’t start to dream, design and conversate about it

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IOARCH_Special Issue

La mattina seguente al decreto del Presidente del Consiglio in cui veniva disposta la chiusura su tutto il territorio nazionale di tutte le attività ad eccezione di quelle necessarie per l’approvvigionamento di prodotti alimentari mi sono svegliato con una intuizione: c’è un mondo da ripensare e in più abbiamo anche il tempo per farlo. Ho deciso così di inaugurare la Fabbrica di Fiducia di Farm Cultural Park e di invitare cento amici-visionari ai quali ho fatto una sola domanda: cosa (e come) potrebbe e dovrebbe diventare l’Italia e/o il mondo non appena avremo messo il punto a questa terribile pandemia? Dopo poco più di un mese, in modo sorprendente erano già nate altre 12 Fabbriche

di Fiducia con altrettanti curatori che hanno coinvolto le loro comunità di architetti, artisti, intellettuali. Sono nate anche delle Fabbriche di Fiducia under 14, under 18 e una Generazione Erasmus. C’è persino una Fabbrica di Fiducia Messicana. Ciascuna Fabbrica sta generando visioni e riflessioni meravigliose per il futuro. Ciascuna Fabbrica ci sta aiutando ad arricchire e riempire di senso questo periodo di sospensione, di tempo disponibile imprevisto. Ciascuna Fabbrica sta producendo Fiducia e Consapevolezza sul fatto che solo sognandolo e progettandolo potremo avere quel diverso presente e quel futuro che in molti aspettiamo da un tempo più lontano del Covid-19.

The morning following Italy’s Prime Minister’s announcement enacting the closure of all activity on national soil (with the exception of those necessary for provision of food and products), I woke up with an intuition: there’s a world to rethink and we have the time to do it. I have decided to inaugurate the Factory of Trust of the Farm Cultural Park and to invite hundred visionary friends to whom I asked only one question: what, and how, could and should Italy and/or the Earth become when we will have stopped this terrible pandemic? In just over a month, another 12 Factories of Trust were surprisingly born, with as many curators, who involved their communities

of architects, artists, intellectuals. Factories of Trust Under 14, Under 18 and Erasmus Generations were also born. There’s even a Mexican Factory of Trust. Each Factory is generating marvellous reflections and visions for the future. Each Factory is helping us enrich and make sense of this time of wait, this time of unexpected availability. Each factory is producing Trust and Awareness of the fact that that it is only by dreaming it and designing it, that we can have a different present and that future that many of us have been waiting for since long before Covid-19. facebook @fabbricafiducia


› PEOPLE

La lezione del fuoco

Lo stretto necessario

Da qualche anno vado spesso in Calabria per lavoro e, da quelle parti, gli incendi sono frequenti. Un paio di volte mi è capitato di essere lì subito dopo un incendio e la vista delle grandi aree brulle mi ha colpito: l’odore di bruciato che aleggia ancora stona sempre con quelle giornate accecanti di sole, luce e cicale che solo il Sud sa mettere insieme. Guardare quelle montagne a pezzi, così brutte con quella forma di alopecia nerastra, con le ferite vaste ed evidenti e ancora la paura nelle parole della gente, mi ha sempre fatto pensare e lo ha sempre fatto perché io so cosa succede dopo, a un paesaggio, quando passa un fuoco che distrugge tutto. E quello che succede è il miracolo, semplice semplice, della vita che ritorna anche dove è stata cacciata via con durezza A ben vedere anche la devastazione ha il suo senso e manifesta una direzione nuova aiutando una trasformazione radicale. Non tutto è perduto nel fuoco! Ci son dei pini, per esempio, che aspettano il caldo delle fiamme per aprire i loro coni e far uscire con più facilità il polline; ci sono piante, come il fico d’india, che se ne infischiano se il fuoco porta via tutta la loro parte aerea perché hanno radici che gli daranno la giusta forza per ricominciare. Quando passa il fuoco e scalda la terra, ci sono semi che ne approfittano per schiudersi prima e infine, dopo che il fuoco ha reso brullo tutto, ci sono fiori che finalmente possono sbocciare perché arriva loro più luce. Fiori e piante che prima non ce l’avrebbero fatta ora sono i primi a uscire, sono i primi abitanti di un nuovo mondo. Ecco, quindi, cosa penso io di quello che ci sta succedendo: siamo come una grande foresta e siamo in mezzo al fuoco. Possiamo solo stare fermi. Passerà, certo, ma quando sarà passata saremo come una macchia nerastra in mezzo alla montagna e ci chiederemo da cosa cominciare: sarà allora che potremo scegliere una pianta alla quale assomigliare. Starà a noi passare attraverso questo fuoco ma lo faremo da vivi solo se sapremo capire che tutto dipenderà dalla nostra capacità di essere diversi da ciò che siamo sempre stati; dalla nostra capacità di immaginazione nel vedere in quello spazio opprimente e brullo la nuovo foresta che possiamo essere. Quindi, forza: che tu sia stato bruciato del tutto o che tu sia in attesa di fiorire, preparati e preparati ora che c’è tutto un nuovo paesaggio da disegnare e regalare agli occhi nuovi che verranno.

La casa | Come in molti hanno scritto, per restare a casa, una casa bisogna averla. Il diritto alla casa, contrapposto alla turistificazione di massa delle nostre città, non potrà più essere un tema marginale. Chissà quanti avranno rimpianto la scelta di non affittare il proprio appartamento a una famiglia per farci un bnb. Altro nodo fondamentale la qualità dello spazio interno della casa, in termini di comfort e di design. L’arte | La musica, i libri, i film, i concerti dai balconi, le playlist collaborative, gli artisti in diretta streaming, i tour virtuali dei musei ... l’arte è necessaria. La natura | Chi, quando ancora poteva uscire, non ha cercato un contatto con la natura? Le nostre città hanno troppo cemento. Lo sapevamo già e lo avevamo già denunciato. La libertà di muoversi | In tempi non sospetti, o meglio non infetti, quando i porti chiusi o i porti aperti erano il nostro pane quotidiano, mi sono fatta una domanda ingenua: “Perchè queste persone non possono prendere un areo?”. Ho scoperto il passport index, una misura del diritto al movimento di ciascun essere umano in relazione al luogo in cui è nato. In questo momento questo indice sembra quasi azzerato. Come riconfigurarlo? L’accesso universale alla tecnologia e a internet | Su questo punto non siamo forse stati colti un po’ impreparati? Il commercio di prossimità | Oggi preferireste andare in un centro commerciale o al negozio sotto casa? La solidarietà di quartiere o da balcone | Ci siamo ricordati di saper essere comunità. Perché esserlo solo quando rischiamo di morire?

Elisa Campra

Emilia Pardi

Questa lista, aperta e parziale, forse ha un’aria un po’ vintage. Ma ricondurci all’essenziale non è un ritorno al passato. Queste necessità andranno declinate con mezzi e linguaggi del nostro tempo. Penso a quella nave che nel luglio del 1933 salpò da Marsiglia con a bordo un centinaio di architetti ma anche musicisti, poeti, scrittori e pittori. Da Marsiglia ad Atene, un viaggio e un dibattito di tre giorni e mezzo che accelerarono il processo di costruzione di una visione corale – la Carta di Atene – fondamento della città moderna. Riuscirà questo virus a far scoppiare la bolla di normalità dentro cui alcuni di noi iniziavano a stare stretti mentre altri credevano di stare bene?

Avevamo comprato un biglietto Avevamo comprato un bel biglietto per un viaggio in Sudamerica, e invece stiamo per atterrare in Asia. “Ma noi sono anni che programmiamo di andare in Sudamerica!” ci diciamo. “Sogniamo il Sudamerica da sempre, lo studiamo, abbiamo costruito minuziosamente i nostri itinerari, le tappe del nostro viaggio. Noi vogliamo andare in

Sudamerica. Non ci importa nulla dell’Asia!” Ma niente. Atterreremo in Asia. E mi spiace, il Sudamerica non lo vedremo mai. Ora abbiamo due opzioni. La prima è fermarsi e lamentarsi perché il nostro sogno è stato distrutto. Crogiolarci nel nostro dolore. Rimpiangere quello che non potremo mai avere. La seconda è mettersi in viaggio per scoprire

cosa può offrire l’Asia. Non sarà mai il Sudamerica, ma ci potrà regalare nuove prospettive, nuove avventure, nuovi incontri, nuovi modi di vivere. E potremmo anche accorgerci che questa Asia non è poi così male, e che forse ha anche qualcosa di meglio da offrire. Anna Spreafico

IOARCH_Special Issue

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Paolo Bürgi Kintsugi Non dimenticherò mai la mia prima visita a Noto, in Sicilia. Ricordo bene come si arriva e come si entra in città.

I will never forget my first visit to Noto, in Sicily. I remember well how you get there; how one enters the town.

Era al tramonto.

It was at sunset.

Si accede dalla Porta Reale, un imponente arco di trionfo che incute un certo rispetto. Varcando questa soglia, un imponente asse principale davanti a noi conduce in una scenografia barocca di grande fascino. Con i suoi splendidi monumenti, la cattedrale, le chiese, i molteplici palazzi storici, gioielli del barocco del ‘700 in una totale armonia di forme, Noto sembra uscita da un set cinematografico. Quanta bellezza.

You enter through the Porta Reale – the “Royal Door” – a towering triumphal arc that inspires a certain respect. Walking through this threshold, an imposing main axis in front of us leads into a baroque scenography of great charm. With its wonderful monuments, its cathedral, its churches, its multiple historical palaces – jewels of the baroque of the 1700s, in total harmony of shapes – Noto looks like it came out of a cinema set. That much beauty!

L’emozione è ancora più forte nella consapevolezza che nel lontano 1693 un terremoto, il più violento mai registrato nell’intero territorio italiano, distrusse un’ampia area di questa Sicilia orientale, compresa la città di Noto antica.

Emotions run even stronger with the awareness that in 1693 an earthquake – the strongest ever registered on the whole italian territory – destroyed a vast area of eastern Sicily, including the ancient town of Noto.

La prodigiosa costruzione di una nuova città, Noto, è l’immagine dell’anima che si traduce nell’audacia e nella capacità orgogliosa di trasformare una sciagura in un’occasione: per l’appunto, in una città splendida.

The prodigious construction of a new city, as is the case for Noto, is an image of a soul translating into the audacity and proud ability of transforming a disaster into an opportunity: in fact, in a magnificent city.

Trasformare in una opportunità, in qualcosa che sia ancora più bello, si direbbe una sfida impensabile. Una cosa frantumata può diventare più bella di prima? Nell’antica arte giapponese del Kintsugi o Kintsukuroi, quando si rompe un vaso, si raccolgono i frammenti per poi risaldarli insieme, ma non con la comune colla, bensì utilizzando un metallo prezioso, l’oro o l’argento. L’oggetto diventa unico e irripetibile, più bello di prima; per l’appunto perché si è rotto. Ha pure una nuova, unica storia da raccontare.

To transform in an opportunity, into something even more beautiful, might seem an inconceivable challenge. Can something broken become even more beautiful than it was before? In the antique Japanese art of Kintsugi or Kintsukuroi when a vase breaks, the fragments are recomposed using not common glue, but using precious metals, mostly gold and silver. The object becomes unique and unrepeatable, more beautiful than before; particularly, because it was once broken. In addition, it has a new, unique story to tell.

Una avversità si trasforma in una opportunità, creando bellezza.

Adversity becomes opportunity, creating beauty.

Dagli eventi che stiamo attraversando in questo momento storico, possono dunque nascere anche ora forza e preziosità.

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Therefore, even out of the events through which we are currently going in this historical moment can originate strength and preciousness.


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La prodigiosa costruzione di una nuova città, Noto, è l’immagine dell’anima che si traduce nell’audacia e nella capacità orgogliosa di trasformare una sciagura in un’occasione: per l’appunto, in una città splendida The monumental construction of a new city, as was the case for Noto is an image of a soul translating into the audacity and proud ability of transforming a disaster into an opportunity: in fact, in a magnificent city

Nell’antica arte giapponese del Kintsugi, quando si rompe un vaso si raccolgono i frammenti per poi risaldarli insieme, ma non con la comune colla, bensì utilizzando un metallo prezioso, l’oro o l’argento. L’oggetto diventa unico e irripetibile, più bello di prima; per l’appunto perché si è rotto. Come la città di Noto (sopra, nella foto di Paolo L. Bürgi), ricostruita nelle splendide forme del Barocco dopo il catastrofico terremoto del 1693 che rase al suolo Noto antica, oggi un cumulo di ruderi qualche chilometro a monte. In the antique Japanese art of Kintsugi, when a vase breaks, the fragments are recomposed not with common glue, but using precious metals, mostly gold and silver. The object becomes unique and unrepeatable, more beautiful than before; particularly, because it was once broken. As with the town of Noto (above, photo by Paolo L. Bürgi) rebuilt as a wonderful baroque scenography after the catastrophic earthquake that razed ancient Noto – today a heap of ruins a few kilometers upstream – to the ground in 1693.

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Aldo Cibic Cambiare il mondo restando a casa Changing the World from Home Credo che Il Covid possa essere considerato come una grande sberla, che, per quanto forte, passerà. Qualche mese, un anno, due anni, ma comunque non durerà più di tanto. Spero che questa lunga pausa forzata ci faccia vedere e capire meglio quello che è comunque il problema più grande, che è quello ambientale, che c’era prima, e ci sarà anche dopo. Quello che sarà interessante vedere, è come cambieranno le nostre abitudini. Rimarranno di fatto quelle che per noi rappresentano una convenienza a prescindere dal momento particolare. Per forza assisteremo a una sempre maggiore sofisticazione dell’interazione online, perché abbiamo già visto che si può cambiare il mondo anche stando a casa.

I think that Covid can be considered a big slap that, even though strong, will pass. A few months, a year, two years, but it will not last long. I hope that this long forced pause will let us better see and understand the bigger problem that of the environment - which we already had and will continue to have. What will be interesting to see, is how our habits are going to change. What is convenient will remain, independently from a particular moment in time. We will of course see online interactions get more sophisticated, because we have already seen that the world can be changed from home.

Nelle immagini, Aldo Cibic al lavoro da casa e modelli di due progetti di ricerca di Cibic Workshop: Microrealities (2004) e Rethinking Happiness (2010). Quest’ultimo presenta quattro differenti ipotesi di urbanismo rurale per una comunità di 8.000 persone su un’area di 4 kmq. Rethinking Happiness è stato presentato alla 12. Biennale di Architettura di Venezia “people meet in architecture” ed è stato raccolto in un libro pubblicato da Corraini Edizioni.

In the images, Aldo Cibic working from home and models of two Cibic Workshop research projects: Microrealities (2004) and Rethinking Happiness (2010). The latter presents four different concepts of ‘rural urbanism’ for a community of 8,000 people over an area of 4 square kms. Rethinking Happiness was presented at the 12th Venice Architecture Biennale “people meet in architecture” and was collected in a book published by Corraini Edizioni.

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Anna Heringer Keep Calm and Prevent We will need to partially rethink our spaces with the purpose of prevention, but not driven by fear. We really need to focus on the tempering of this attitude that, of course, might be enhanced by the epidemic

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What I see right now is that Covid-19 is confronting us with our most essential fears. And what I see more and more in design and architecture, is that regulations and layouts, basically everything, is increasingly based on fear and control. In Germany, for instance, we want control on everything. We design kindergartens and playgrounds based on safety rather than the joy of play, or their beauty, which I think is a reversed understanding of their purpose. We have to change our system and our design, on trust and faith rather than fear. We will need to partially rethink our spaces with the purpose of prevention, but not driven by fear. We need really to focus on the tempering of this attitude that, of course, might be enhanced by the epidemic. Another point is that with this epidemic we are regaining consciousness of the most essential needs, and that of course implies taking care about our environment. Thinking about prevention and health, we have one bigger problem and one bigger patient which is our Earth. We do not have to fix the problem once it is too late, we need to prevent. We need to have a healthy ecosystem. Since the health of this bigger subject is ours too. As well, systems learn continuously. This obsession with perfection, with super-safety, does not really matter, since there is always a breaking point. Instead of more steel, more concrete, and the tendency of always pushing everything to an extreme degree of control, needs to leave some space for ongoing adjustment, since that has always been normal. That is the reason why I prefer to work with materials that can be adjusted, that can be crafted, that have a great duration

Anna Heringer and Eike Roswag, METI school in Rudrapur, Bangladesh, 2006. One of the rammed earth caves in the ground floor classrooms (ph. ©PMK Bauerdick). Anna Heringer e Eike Roswag, la scuola METI a Rudrapur, Bangladesh, 2006. Una delle aule-grotte in terra cruda al piano terra della scuola (foto ©PMK Bauerdick).


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in time but work following the concept of resilience rather than being stiff. Last, what we are learning through this epidemic is that we are beginning to see the difference between what is important and what is redundant. In terms of resources we

have enough for everyone on this planet, but we don’t have enough if we follow our greed. Like Ghandi says: “We need to regain the understanding of what is important and what is not and consume what is important and leave what is not”.

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Anna Heringer

Prevenire serenamente Dovremo in parte ripensare i nostri spazi allo scopo di prevenire, senza farci guidare dalla paura. Dobbiamo seriamente concentrarci per consolidare questo atteggiamento che naturalmente è stato rafforzato dall’epidemia

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Quello che vedo ora è che il Covid-19 ci sta mettendo a confronto con le nostre paure più essenziali. Ma quello che sto vedendo ancor più chiaramente nel design e nell’architettura è che le normative e le disposizioni, praticamente per ogni aspetto, sono sempre più basate sulla paura e sul controllo. In Germania, ad esempio, vogliamo controllare qualsiasi cosa. Progettiamo asili e parchi giochi basati sulla sicurezza anziché sulla gioia del gioco, o sulla loro bellezza. Penso che questo sia un modo sbagliato e distorto di interpretarne la finalità. Dobbiamo cambiare almeno in parte il nostro sistema e il nostro modo di progettare sulla base dell’affiatamento e della fiducia reciproca anziché sulla paura. Dobbiamo ripensare parzialmente i nostri spazi allo scopo di prevenire, ma non guidati dalla paura. Dobbiamo veramente concentrarci per consolidare questo atteggiamento che, naturalmente, è stato rafforzato dall’epidemia. Un altro tema è che in questa emergenza stiamo riacquistando consapevolezza dei bisogni più essenziali, e questo ovviamente coinvolge anche il prendersi cura dell’ambiente. Se oggi si parla di prevenzione e di salute, non possiamo non considerare un paziente ancora più grande e importante: il nostro pianeta. Non dobbiamo cercare di risolvere i problemi quando ormai è troppo tardi; è nostro dovere prevenirli. Dobbiamo mantenere sano il nostro ecosistema, poiché la salute di questo grande individuo è anche la nostra. Per di più, i sistemi apprendono continuamente. Questa ossessione per la perfezione, per la super-sicurezza alla fine si rivela inutile, poiché c’è sempre un limite, un punto di rottura pronto a rimettere tutto in discussione. Invece di utilizzare sempre più acciaio, più

cemento e spingere sempre tutto a un livello estremo di controllo, dobbiamo concedere più spazio per un continuo aggiustamento nel tempo, come del resto è sempre stato in passato. Questo è il motivo per cui preferisco lavorare con materiali che possono essere adattati e lavorati, che hanno una grande durata nel tempo ma che allo stesso modo seguono il concetto di resilienza invece di quello di rigidezza.


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Infine, ciò che stiamo imparando attraverso questa epidemia è notare la differenza tra ciò che è importante e ciò che è ridondante. Abbiamo abbastanza risorse per tutti su questo pianeta, ma verranno meno se assecondiamo la nostra avidità. Come diceva Gandhi: “Dobbiamo recuperare la comprensione di ciò che è importante e ciò che non lo è, e consumare ciò che è importante e lasciare ciò che non lo è”.

Anna Heringer, three hostels in bamboo in Baoxi, China, 2013-2016 (ph. ©Jenny Ji). Anna Heringer, tre ostelli in bambù a Baoxi, Cina, 2013-2016 (foto ©Jenny Ji).

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Renato Rizzi Sicurezza senza limiti Come tutte le religioni tradizionali anche la religione tecnico-scientifica si fonda sulla stessa coppia di principi: promessa e speranza. La promessa della sicurezza, che ci ha illusi di essere esenti dal peso della responsabilità, e la speranza della libertà, che ci ha illusi di vivere in un mondo senza limiti a crescita infinita

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Siamo consapevoli dei principi sui quali si fonda il sapere nell’epoca in cui viviamo? Altrimenti è difficile sviluppare anche un minimo ragionamento attorno al senso della nostra cultura e del nostro tempo. La migliore risposta a questo dubbio non dovremmo però cercarla chissà dove, perché è sempre lì, davanti ai nostri occhi: architettura. Nelle sue due radici, arché+téchne, convergono i due massimi ambiti del sapere: l’indominabile (arché) e il dominabile (téchne). Inoltre, nell’arché si somma la totalità dei tempi e l’unità delle relazioni (l’estetico); nella téchne solamente il cronologico e la dissoluzione delle relazioni (l’estetica). Ora però, abbiamo qualche elemento per tentare di rispondere alla domanda iniziale. Il nostro tempo è dominato solo dai saperi tecnico-scientifici. Quindi, la parola della nostra disciplina è stata dimezzata. Ghigliottinata. Siamo dunque di fronte ad una profonda contraddizione semantica, sebbene continuiamo ad usare impropriamente la parola Architettura (‘edilizia’ sarebbe il termine corretto). A questa prima considerazione, segue subito una seconda. Non crediamo più nella fede delle religioni canoniche, ma viviamo nella fede della religione tecnico-scientifica. E veneriamo il suo idolo: il razionalismo (che non è la razionalità). E non ci spostiamo da lì, sebbene la tecnica e la scienza non possano dire nulla, ma proprio nulla, sulle questioni relative della forma. E come tutte le religioni tradizionali anche la religione tecnico-scientifica si fonda sulla stessa coppia di principi: promessa e speranza. La promessa della sicurezza ci ha illusi di essere esenti dal peso della responsabilità. La speranza della

libertà ci ha illusi di vivere in un mondo senza limiti, a crescita infinita. Infatti, abbiamo globalizzato il mondo. Credevamo addirittura di poterlo duplicare, triplicare con il digitale-virtuale. Quanta mistificazione invece con un globo sempre più martoriato. Infatti, quando meno ce lo aspettavamo, entra in scena una legge impietosa. E che legge: quella degli indominabili (cfr., arché!!). Irrompe con la sua potenza sulla o-scena scena del globo. Non con il suo emblema, ma con tutta la sua forza distruttiva. Quella contenuta nei saperi mistificatori. Eccolo il virus! Non più quello virtuale e solo fastidioso dei computer. Bensì quello reale, letale, tremendo, che colpisce le persone, le nazioni, le economie. Esistono o non esistono allora gli indominabili? Perché poi ci ostiniamo ancora a voler ignorare il monito di Architettura? Da mezzo secolo a questa parte, il mondo non era forse già piagato da quel male? Le metastasi delle periferie, delle megalopoli, non sono forse le immagini devastanti e reali di questo virus? Le immagini della contraddizione violenta implicita nei saperi tecnicoscientifici? Non sono forse quelle le immagini velenose e puzzolenti (purtroppo) nelle quali vive ormai gran parte dell’umanità? Vir-vis-virus-virtus. Il virus (veleno, fetore) sta tra la forza (vis) dell’uomo (vir) e della sua virtù. Se manca il bilanciamento vir-virtus, si scatenano le violenze. Purtroppo il male fisico (e spirituale, oggi va pronunciato a denti stretti per la sua insignificanza) non è solo dentro di noi. È anche fuori di noi. Sono le città, le periferie, le megalopoli, i paesaggi. Se la medicina si preoccupa così tanto delle sue malattie e dei


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suoi pazienti (giustamente, sempre in ritardo, però, sempre dopo...ecco il limite tragico della scienza!) chi dovrebbe preoccuparsi della medicina e della cura delle città e dei suoi paesaggi, se non architettura? L’architetto dovrebbe essere il medico della forma (salubre, non infetta). Avendo un vantaggio straordinario, che però è stato scartato a priori per sciatteria. La disciplina di Architettura, essendo fondata sull’equilibrio austero tra indominabili e dominabili (ecco la ragione del suo essere un sapere sempre critico), anticipa e prevede il futuro. Questo il ruolo dell’arte, come della poesia. Termini analoghi,

omologhi ad architettura. La controprova è semplice quanto banale: perché ammiriamo ancora (e sono fonte di reddito anche dopo millenni) i grandi capolavori del passato? Dove sono i capolavori architettonici del nostro tempo? Finalmente possiamo tentare di risolvere l’oracolo del titolo. Sicurezza senza limiti: dal latino sinecura, senza cura; mentre, senza limiti è un paradosso estetico. Incoscienti verso la catastrofe. Dovremmo riflettere, e non poco, sul credo massimo dei saperi tecnico-scientifici.

Il modello della cupola di Brunelleschi diventa un’installazione di Renato Rizzi per la Triennale itinerante di Como del 2015 (foto ©Lorenzo Sivieri). Alla pagina successiva, Rizzi davanti alle ali aperte del tetto del Teatro Elisabettiano di Danzica, una sua opera completata nel 2014 (foto ©Matteo Piazza). Brunelleschi’s Florence dome maquette becomes an installation of Renato Rizzi for Triennale Itinerante di Como, 2015 (foto ©Lorenzo Sivieri). Next page, Renato Rizzi in front of the open wings of the roof of Gdansk Shakespearean Theatre, a project completed in 2014 (ph. ©Matteo Piazza).

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Renato Rizzi

Safety Without Limits As in any traditional religion, also the techno-scientific religion is based on the same couple of principles: promise and hope. The same promise of safety, that give us the dream of being exempt from the weight of responsibility, and the hope of liberty, that is the illusion to live in a world without limits, with endless growth

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Are we aware of what principles the era we live in is based on? If not, it would be difficult to develop a minimal reasoning around the meaning of our culture and our time. We don’t have to look anywhere weird to find the best answer to this doubt - it’s always there, in front of our eyes: architecture. In its roots, arché and téchne, merge the two higher fields of knowledge: the uncontrollable (arché) and the governable (téchne). In the arché, totality of time and unity of relationships are summed up (aesthetic); in the téchne, only the chronology and dissolution of relationship add up (aesthetics). Now we do have some elements to try and answer that initial question. Our time is dominated by technical-scientific knowledges. So, the message of our discipline has been halved. Guillotined. We are in front of a deep semantic contradiction, though we keep using the word Architecture (“construction” would be more appropriate). To this first observation, swiftly a second one follows. We no longer have faith in canon religions - we have faith in the technicalscientific religion. And we venerate its idol: rationalism (not rationality). And we don’t move from there, even though technique and science can’t say anything, really anything, on questions of shape. And like all traditional religions, technical-scientific religion is also founded on a couple of principles: promise and hope. Promise of safety, which gives us false hope of being exempt from the weight of responsibility. Hope of freedom, which gives us false hope of living in a world with no limits, growing infinitely. We have globalised the world. We even thought we could duplicate, triplicate it, with the digital-virtual worlds. So much mystification, in a world that is more and more tormented. When we least

expect it, a merciless law comes into play. What a law: that of the uncontrollable (the arché!!). It bursts into the ob-scene scene with all its power. Not with its effigy, but with its destructive force. That force held by the mystifier knowledges. Here’s the virus! No longer the virtual one, the annoying computer one. But the real one, lethal, terrible, that hits people, countries, economies. Do the uncontrollable exist or not? Why do we still ignore the reprimand of Architecture? Was the world already bending under that evil in the past fifty or so years? The metastasis of suburbs,


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megalopolis, aren’t these the devastating images of the virus? The images of violent contradiction implicit in the technical-scientific knowledges? Aren’t these the venomous and stinky images of where most of humanity lives? Vir-vis-virus-virtus. The virus (venom, stench) sits between man’s (vir) strength (vis) and his virtue. Where the balance vir-virtus is missing, violence is unchained. Unfortunately, physical pain (and spiritual, which today is said tight-lipped, for its triviality) is not only among us. It is also outside of us. It’s cities, suburbs megalopolis, landscapes. If

medicine is so worried about its illnesses and its patients (and rightly so - but always late, always after… the limit of science!), who should worry about the care of cities and its landscapes - if not architecture? The architect should be doctor of shape (healthy, not infected). Having an extraordinary advantage, which has been discarded from the start for its shabbiness. The discipline in architecture, founded on the strict balance between uncontrollable and governable (the reason why it is always critical), anticipates and foresees the future. This is the role of art, and of poetry. Words analogous, homologous

to architecture. The countercheck is as simple as it is trivial: why do we still admire the great masterpieces of the past - which are still source of earnings after thousands of years? We can finally solve the oracle of the title. Safety without limits: from the latin sine-cura, without cure; while without limits is an aesthetic paradox. Reckless towards the catastrophe. We should ponder, not for a short time, on the maximum belief of technical-scientific knowledges.

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Davide Ruzzon Ricchezza e ricostruzione Richness and Reconstruction Questa crisi dimostra che politiche in grado di affrontare il tema sanitario e l’emergenza climatica non sono più rinviabili. Anche utilizzando l’enorme ricchezza finanziaria privata che la globalizzazione ha concentrato in poche mani This crisis demonstrates that policies able to face the climate emergency and the healthcare themes can no longer be delayed - also using the huge private wealth that globalisation has put in very few hands [ 32 ]

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L’immaginazione mi è sempre stata accanto ma quello che mi chiedete eccede ogni mia possibilità. Come sarà il mondo dell’architettura dopo questa fase di pandemia dipende da tanti e così enormi fattori che non riesco ad avere un’immagine nitida del futuro. Perciò credo che la cosa più sensata, dal mio punto di vista, sia provare a concentrare l’attenzione sulle sfide epocali che il mondo dovrà affrontare nei prossimi mesi, senza spingere lo sguardo oltre. La crisi sanitaria aprirà la strada a una crisi economica e sociale difficilmente immaginabile, che potrebbe portare il pianeta in una dimensione politica descritta solo nei romanzi distopici. Il rischio non è mai stato così reale e palpabile. Oggi più che dalla mano invisibile del mercato il mondo sembra essere guidato da un invisibile virus germinato in fretta, troppo in fretta, dalla ibridazione del mondo naturale con le città. Il nostro sistema capitalistico, apparentemente l’unico ad essere rimasto disponibile, dovrà porsi in modo radicale la domanda di cosa sia, in questo quadro, la ricchezza delle nazioni. Di che biada si nutrirà il cavallo ultraliberista, se il mondo uscirà frantumato da questa prova? In una dimensione globale come quella raggiunta prima della pandemia credo che la decisione sarà se reagire insieme, senza barriere nazionali, mettendo tutta la ricchezza sulla scommessa di un ripensamento globale, oppure se chiudersi di nuovo dentro i recinti nazionali, illudendosi di trovare da soli dei disastrosi palliativi. Questa crisi sanitaria non finirà se non si metterà mano, in primis, al ripensamento delle città, e al loro rapporto con la natura, che richiederà un investimento immane di risorse economiche. Questa riconversione è decisiva, prima ancora che per ridurre la frequenza del salto dei virus dal mondo animale all’uomo, per contenere i cambiamenti climatici che sarebbero il colpo di grazia alla nostra civiltà, uniti alle crisi sanitarie. Che cos’è la ricchezza in un contesto di questo genere? Se davvero siamo, e lo siamo, in una


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sola barca, tutti, ricchi e poveri, è tempo di mettere a punto, in poche settimane, non mesi, delle decisioni che vadano a ripensare radicalmente l’allocazione delle risorse economiche disponibili. Tutte, private ancor prima che pubbliche. La separazione prodotta dalla mano cieca del mercato, oggi ormai avvolta in guanti di lattice invece che di velluto, ha prodotto, come Thomas Piketty ha ben descritto, la concentrazione di enormi ricchezze in poche mani. Come possiamo non prendere in considerazione l’ipotesi di chiedere alla ricchezza finanziaria privata di affiancare l’intervento degli stati nazionali nello sforzo di sviluppare le politiche d’investimento necessarie per ricostruire un nuovo sistema? L’Europa dovrebbe trovare l’energia non solo per contenere il disastro, ma per ripensare tutto il sistema in modo organico, dalla qualità delle città, alla riduzione del peso ambientale della produzione sulla natura, fino alle forme della produzione agroalimentare. Su questo fronte dovrebbe essere dispiegata la ricchezza esistente, del sistema europeo e di quella privata. Un processo che andrebbe coordinato con Stati Uniti, Cina e le altre grandi economie mondiali. A breve vedremo se almeno la comunità europea troverà un respiro unitario. Dopo quel momento, forse, potremo iniziare a ragionare su come intervenire nelle città, e su tutti gli elementi che compongono il tessuto che, fino a qualche settimana fa, ci vedeva come delle palline da ping pong, al suo interno, rimbalzare freneticamente. Non sono molto ottimista, purtroppo. L’ipotesi di rompere le righe della comunità europea, portando i singoli Stati a indebitarsi per quel che possono, finirebbe per mettere in secondo piano, in un momento invece decisivo, le non rinviabili politiche in grado di arginare davvero il tema sanitario e l’emergenza climatica. Restiamo con il fiato sospeso.

Imagination has always been beside me, but what you ask today is above all my means. How the architecture world will be after this pandemic depends on so many huge factors that I can’t clearly imagine the future. Therefore, I personally believe that what makes the most sense is focusing on the historic battles that the world will have to face in the next months, without looking too much further ahead. The healthcare crisis will lead the way to an economical and social crisis that could bring the planet into a political dimension typical of dystopian novels. The risk has never been this real and tangible. More than by the usual invisible hand of the market, today the world seems to be guided by an invisible virus, sprouted too fast from the hybridisation of natural world and cities. Our capitalistic system - apparently the last one still available - will have to radically question what the countries’ wealth is, in this state of affairs. What fodder will the ultra-liberal horse eat, if the world breaks as it comes out of this test? In a global dimension such as the one reached before the pandemic, I think the decision will have to be between reacting together - without national borders, betting all wealth on a global rethink - or getting locked inside our national fences, getting deluded that we can find disastrous palliatives. This healthcare crisis won’t end unless we first rethink cities and their relationship with nature; this will take an immense investment of economical resources. This reconversion is crucial to contain the climate changes that, along with healthcare crisis, will be the finishing blow to our civilisation - this should even be tried before reducing the frequency of passage of viruses from animals to humans. What is wealth in this type of context? If we really are all on the same boat (and we are, rich and poor), it is time to refine decisions (in weeks, not months) for the radical rethink of the allocation of the available economical resources - all: private resources ahead of public ones. The separation produced by the blind

hand of the market - nowadays wrapped in latex gloves rather than velvet ones - has lead to what Thomas Piketty has well described: enormous wealth has been piled up in few hands. How can we not take into account the hypothesis of asking private finances to join the national efforts to develop the investment policies necessary to build a new system? Europe should find the energy to not only contain the disaster, but to rethink the entire system in a more consistent way - from the quality of cities, to the reduction of the weight of production on nature, and to the shaping of agricultural production. On this front, existing European and private wealth should be laid out. A process that should be coordinated with Usa, China, and more of the world’s most powerful economies. Soon we will see if the European community takes a collective breath. After that, we will maybe be able to start reasoning over how to take action in the cities, and on the elements that make up the fabric that we were frantically bouncing in, like table tennis balls, up until a few weeks ago. Unfortunately I am not an optimist. The hypothesis of breaking the lines of the European community, bringing countries to take up as much debt as possible, would delay the policies that could actually contain the climate emergency or healthcare themes, at such a crucial time. We wait, catching our breaths.

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Gino Strada Beni non negoziabili Strappando le fragili impalcature della nostra società l’epidemia ne ha messo in luce i pilastri fondamentali: salute, istruzione lavoro. Che secondo il fondatore e direttore esecutivo di Emergency non possono essere lasciati alla logica del profitto

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Cosa ci sta insegnando questa epidemia, dottor Strada?

La fragilità del nostro mondo. Così complesso, articolato e che semplicemente si dissolve davanti a un virus. Da quello che si può intuire, da questa epidemia usciremo con un enorme dolore sociale, con milioni di persone che non avranno più un lavoro. Nelle zone dove opera la sua organizzazione, a volte gli ospedali di Emergency sono l’unica risorsa sanitaria. In Occidente ci sentiamo fortunati e protetti da un ottimo sistema sanitario, eppure in questo caso anche in Italia ci siamo trovati in emergenza.

Io mi auguro con tutto il cuore che questa epidemia non si manifesti appieno in Africa o in Asia perché in molti Paesi di quei continenti il sistema sanitario è praticamente inesistente, ma nei Paesi ricchi certamente evidenzia il fatto che avere trasformato la sanità in un business, avere trasformato la cure in merci ha effetti sociali devastanti. In Italia è un processo che va avanti da almeno trent’anni. Non si capisce perché lo Stato debba chiudere gli ospedali pubblici per fare poi convenzioni con gli ospedali privati. Io credo che la sanità privata sia una contraddizione in termini. Può esistere, intendiamoci, ma la tragedia è che la sanità privata funziona anche grazie ai soldi pubblici e questo naturalmente non solo ha deviato risorse dal pubblico verso il privato ma, con la politica dei rimborsi, ha modificato il concetto stesso di sanità: da sanità come cura, come un diritto che viene rispettato e assicurato dallo Stato, a sanità dei rimborsi. Capisce anche lei che se funziona a rimborsi il mio interesse come medico è di fare più prestazioni: più prestazioni più rimborsi. Molto

spesso le scelte sanitarie sono orientate dal denaro e questo socialmente è un crimine. Quanto dovrebbe costare la sanità? E quanto costa a Emergency?

Deve costare quello che serve, non di meno ovviamente, ma neppure di più. Per dare una dimensione alle cose, in Italia il sistema della sanità genera un profitto di 25 miliardi di euro all’anno. Su un budget complessivo intorno a 110/120 miliardi. Non le sembra troppo? Emergency costa molto meno perché nessuno ci guadagna al di là del proprio stipendio. Stipendi decorosi, intendiamoci, tra i 1800 per un infermiere e i 4.000 euro al mese per un medico, sulla stessa linea dei compensi negli ospedali, ma nessuno guadagna più di così. Inoltre operiamo in maniera molto attenta alle spese. Faccio spesso un esempio. Come saprà, oltre alla chirurgia di guerra abbiamo anche un centro di cardiochirurgia [a Karthoum, Ndr] dove si fanno interventi che vengono fatti normalmente anche nella sanità italiana, con risultati tra i migliori a livello internazionale. Ebbene, per fare un esempio, noi paghiamo una valvola cardiaca 500 euro. Nella sanità italiana la stessa valvola, prodotta dalla stessa ditta, viene rimborsata 2.500 euro. Un costo esorbitante che è il risultato di un sistema orientato al profitto. L’eterna contraddizione tra bene pubblico e interessi privati

Siamo immersi nelle contraddizioni. Immaginiamo la società come un bene comune ma vediamo che è basata sull’accumulazione della ricchezza; ripudiamo la guerra però la facciamo; amiamo la natura ma non rispettiamo l’ambiente. Ogni società si fonda su tre diritti che devono essere garantiti a tutti: la salute,


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l’istruzione e il lavoro. Se crollano questi pilastri crolla l’intero sistema sociale. E quanto all’ambiente?

Resta da capire quanta influenza abbia avuto sulla gravità dell’attuale epidemia il comportamento umano. Anche se spesso non si riesce a dimostrare un chiaro rapporto di causa/effetto, in questi giorni si sente dire – credo a buon diritto – che nelle zone più inquinate l’epidemia abbia effetti più letali. Dobbiamo pensarci bene e immaginare una società e un mondo più rispettosi del proprio habitat. Cosa possono fare gli architetti per costruire un mondo migliore?

Sono sempre molto d’accordo con il mio amico Renzo Piano che occorra costruire bellezza perché la bellezza contribuisce alla terapia del paziente. Renzo ha disegnato il centro di chirurgia pediatrica che stavamo per aprire prima di questa epidemia in Uganda. Un luogo

costruito in sintonia con gli elementi della natura e le tecniche locali, con murature in terra cruda, vasti spazi aperti e vetrate dove la vista spazia sul lago Vittoria. Senza spendere centinaia di milioni per costruire gabbie di vetro e cemento dove magari alla fine ci si accorge che le barelle non passano dalle porte. Gli architetti dovrebbero progettare insieme ai medici e ai tecnici sanitari e pensare che l’integrazione con il verde e con l’ambiente aiuta la guarigione. Poi c’è sempre la sobrietà: dovunque sia possibile sarebbe meglio adattare strutture esistenti piuttosto che costruire exnovo. Il nostro centro chirurgico di Kabul per esempio, che oggi è anche il principale centro di maternità e pediatria dell’Afghanistan, era un asilo con un bellissimo parco. Dobbiamo imparare a convivere con il virus. Lei ci può suggerire delle strategie?

No, non sono in grado di suggerire strategie, voglio solo dire che da sempre l’umanità convive con i virus, questa epidemia è più

Work-in-progress al centro di chirurgia pediatrica di Emergency a Entebbe, Uganda. Progetto TAMassociati con Renzo Piano Building Workshop (foto courtesy Emergency). Work-in-progress at the children’s surgical hospital in Entebbe, Uganda. Design TAMassociati with Renzo Piano Building Workshop (foto courtesy Emergency).

pericolosa perché è a trasmissione aerea, quindi non è sufficiente evitare il contatto. Contatto comunque inevitabile per il medico che deve curare, come è accaduto a Emergency cinque anni fa durante l’epidemia di Ebola in Sierra Leone. Fu allora che mettemmo a punto i protocolli di protezione del personale sanitario poi riconosciuti a livello internazionale dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Gli stessi protocolli adottati oggi nei reparti di terapia intensiva come quello dell’ospedale temporaneo di Bergamo dove Emergency gestisce un reparto di terapia intensiva.

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Gino Strada

Non Negotiable Goods Tearing apart the frail scaffolding of our society, its fundamental pillars have been brought to light by the epidemic: health, education, work. These, according to the founder and executive director of Emergency, cannot be left to the logic of profit

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What is this pandemic teaching us, doctor Strada?

The fragility of our world. So complex and articulate, it simply dissolves in front of a virus. We can guess that we will come out of the pandemic with enormous social pain, with millions of people left jobless. In the areas where your organisation operates, sometimes the Emergency hospitals are the only healthcare resources. In the Western world, we feel lucky and protected by a great healthcare system - but despite that we had an emergency here in Italy.

I hope with my entire heart that this epidemic won’t fully hit countries in Africa or Asia, where the healthcare system is practically non-existent. However, in rich countries this highlights the fact that having turned healthcare into a business and cures into merchandise has devastating social effects. In Italy, this process has been ongoing for at least thirty years. It is unclear why the government feels like closing public hospitals to then conclude agreements with private ones. I think the words “private healthcare” are a contradiction. Private healthcare can exist, of course, but the tragedy in Italy is that it only works thanks to the public money; this has not only diverted resources from public healthcare to private, but through the refund policy it has changed the actual concept of health: from health as cure, as a right respected by the government, to health as refunds. You will understand that if getting private operations refunded, the doctor’s interest becomes performing more operations: more operations, more refunds. Too often, the care choices are directed by money, and this is a social crime.

How much is healthcare supposed to cost? And how much does Emergency spend on it?

It should cost however much is necessary, not less obviously, but not any more. To put it into perspective, in Italy the healthcare system generates a profit of 25 billion euros every year. With a total budget of 110/120 billion. Don’t you think it’s too much? Emergency costs much less because nobody gains any more than their salary. Decent salaries, by the way – between €1.800 per month for nurses and €4.000 for doctors, in line with salaries in hospitals; nobody gets any more than this. Furthermore, we pay detailed attention to expenses. Let me give an example. As I’m sure you know, other than war surgery centres we also have a cardiac surgery centre [in Karthoum - NdR] where we do operations that are normally done by the Italian healthcare system too, operations that yield some of the best international results. However, we pay about €500 for a heart valve, while in the Italian healthcare system the same valve, made by the same producer, is reimbursed €2.500. An exorbitant expense that is the result of a system aimed at profit. The eternal contradiction between public and private interests

We are swimming in contradictions. We see society as a common good, but then we see that it is based on enrichment; we repudiate war but then we make wars; we love nature but do not respect the environment. Every society is founded on three basic rights that need to be guaranteed: health, education, work. If these pillars collapse, the entire social system also will. What about the environment?


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We still need to understand the influence of the current epidemic on human behaviour. Even though this hasn’t been demonstrated, it has been said – and I think rightly so – that the epidemic has more lethal effects in the most polluted areas. We really need to think this through, and imagine a society and a world more respectful of habitats. What can architects do to build a better world?

I always agree with my friend Renzo Piano when he says beauty needs to be built as it contributes to the patient’s therapy. Renzo has designed the paediatric surgery centre that we were about to open in Uganda - before the outbreak. A place built in tune with nature’s elements and local techniques, with walls in unbaked clay, vast open spaces, and glass walls with views over Lake Victoria. Without spending hundreds of millions to build cages of glass and concrete, where you then maybe find out that the stretchers can’t get through the doors. Architects should design along with doctors and healthcare technicians, and remember that integrating greens and environment helps with healing. And then there is moderation: wherever possible, existing structures should be converted, rather than new ones built ex-novo. For example, our surgical centre in Kabul – which today is the main maternity and paediatric centre in Afghanistan – used to be a kindergarten with a beautiful park.

more dangerous as transmission is airborne, so it is not enough to avoid contact. Contact which is unavoidable for the doctor who has to treat – as we saw at Emergency five years ago, during the Ebola epidemic in Sierra Leone. It was then that we wrote the protocols for the protection of healthcare personnel, recognised internationally by the World Health Organisation. The same protocols now adopted in the intensive care departments - such as the one in the temporary hospital in Bergamo, managed by Emergency.

Gino Strada e Renzo Piano alla posa della prima pietra del centro di chirurgia pediatrica di Emergency a Entebbe, Uganda (foto courtesy Emergency). Gino Strada and Renzo Piano at the groundbreaking of the children’s surgical hospital in Entebbe, Uganda (foto courtesy Emergency).

We need to learn to cohabit with the virus. Can you teach us some strategy?

No, I cannot suggest any strategies, but I do want to say that humanity has been cohabiting with viruses for forever. This pandemic is

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TAMassociati L’architetto schierato L’architettura deve prendere atto che il costruito ha un valore sociale. Ogni architetto dovrebbe progettare in maniera utile e sostenibile

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Alla fine di questa epidemia sarà forte la tentazione di tornare al business as usual e dovremo impegnarci perché questo non avvenga, ci dice via skype dalla sua casa di Trieste Raul Pantaleo, che vent’anni fa con Simone Sfriso, Massimo Lepore, Laura Candelpergher ed Enrico Vianello ha dato vita a TAMassociati. Credo – prosegue Raul – che il virus abbia soltanto accelerato un processo in corso da tempo, obbligandoci a riconsiderare un modello di sviluppo malato perché basato sulla crescita ad ogni costo. Un modello incurante dei danni che sta causando all’ambiente e dei danni sociali che la ricerca del profitto come fine ultimo delle nostre azioni comporta. Sono convinto che l’insegnamento di Serge Latouche delinei la strada maestra da imboccare per

ripensare alle forme del nostro sviluppo economico. Suggeriva di farlo per tempo, non l’abbiamo fatto e adesso siamo costretti a una decrescita che possiamo chiamare come vogliamo ma non certo ‘felice’. Solo oggi cogliamo in tutta la loro drammaticità i frutti avvelenati di decenni di smantellamento dello stato sociale e dell’idea di comunità: riscopriamo l’importanza di una sanità pubblica e il valore – adesso che le scuole sono chiuse – dell’istruzione. Ci sentiamo in ansia a causa dell’incertezza: non sappiamo quando potremo tornare a uscire di casa e se riusciremo a riprendere il lavoro, ma dopo avere visitato, al fianco di Emergency, i luoghi più disperati del pianeta ti assicuro che l’incertezza è la condizione di vita ‘normale’ della maggior parte dell’umanità. Noi siamo dei privilegiati e quando questa pandemia finirà mi auguro che rimanga memoria indelebile di questa condizione di privilegio, per tornare ad averne cura. Il mondo dell’architettura deve prendere atto che il costruito ha un valore sociale. Quando abbiamo fondato TAMassociati abbiamo fatto una scelta netta: lavorare a fianco del terzo settore e agire economicamente come un’organizzazione del terzo settore. Siamo stati fortunati perché le condizioni esistenti ci hanno permesso di fare questa scelta e non dicco certo che tutti gli architetti dovrebbero agire così, ma ogni architetto dovrebbe progettare in maniera utile e sostenibile, che non significa semplicemente costruire edifici con i pannelli fotovoltaici e il verde sul tetto ma ricercare in ogni progetto quel rapporto tra economicità e bellezza che dia un senso al lavoro dell’architetto. È una questione di credibilità della professione: in quanto


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architetti oggi non siamo pezzi del meccanismo sociale perché non siamo considerati soggetti utili. Quando si tratta di progettare per far fronte a reali bisogni della società – come gli ospedali di emergenza tirati su in dieci giorni – utile è l’ingegnere, lo specialista di impianti, il geometra. Quindi per l’architetto il cambio di paradigma parte da qui, dalla capacità di essere parte di un gruppo che affronta una necessità economica e sociale, portando un miglioramento a quel 99% di ambiente costruito solo con logiche economiche o peggio speculative. Il prodotto ‘autoriale’ risponde a logiche diverse ma rimane sempre quel restante uno per cento. Mi ricordo un insegnamento di Manfredo Tafuri quando studiavo a Venezia. Diceva: l’architetto è come l’avvocato, è sempre “l’architetto di” qualcuno. Ecco, c’è bisogno dell’architetto sociale. Un passo in più dell’architetto condotto di cui parla Renzo Piano: un architetto schierato, consapevole delle urgenze sociali e ambientali da affrontare.

Per fortuna vedo che le giovani generazioni di studenti comprendono e condividono questo tipo di approccio. Inoltre vedo i germi di un cambiamento anche nell’economia: quando abbiamo cominciato noi il terzo settore era puro volontariato mentre oggi cresce una categoria di imprese che mettono al centro dei propri valori la responsabilità sociale. Ecco cosa intendo per schierato: avere la capacità di mettersi al servizio di queste nuove forme di economia dal volto umano per contribuire a costruire una società più equa.

Sopra, centro medico di Emergency in un campo per rifugiati nell’Iraq settentrionale, 2015 (foto ©Alessandro Rota). A sinistra, centro di cardiochirurgia di Emergency a Karthoum, Sudan, 2007. Vincitore dell’Aga Kahn Award for Architecture nel 2013 (foto ©TAMassociati). Above, Emergency’s health centre in a refugee camp in northern Iraq, 2015 (ph. ©Alessandro Rota).To the left, Emergency’s cardio-surgery centre in Karthoum, Sudan, 2007. Winning project at the Aga Khan Award for Architecture 2013 (ph. ©TAMassociati).

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TAMassociati

L’Architetto Schierato The world of architecture has to take in that buildings have social value. Every architect should work in a useful and sustainable manner

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When the epidemic reaches its end, strong will be the temptation to go back to business as usual, though this should not be and we will have to do our best not to let it happen. Raul Pantaleo – who twenty years ago started TAMassociati with Simone Sfriso, Massimo Lepore, Laura Candelpergher and Enrico Vianello – tells us all about it on a Skype call from his Trieste house. I think – he continues – that the virus has only accelerated something that was already on the move, making us reconsider a sickly development plan that’s based on growth by all means. A plan careless of the environmental and social damages caused by having profit as the ultimate goal of all of our actions. I am certain that Serge Latouche’s teachings outline the road to rethinking our economical development. He hinted we should do so in good time, we didn’t, and we are now subject to a decline that we can call anything but definitely not “happy”. Only today we can understand the full implications brought on by what the poisonous fruits of decades of dismantling the social state and the idea of community have given us. We rediscover the importance of our public health system and the value of instruction - now that schools are closed. We feel anxiety due to the uncertainty: we don’t know when we can go back out or if work will start up again, but after having visited the most desperate places on Earth alongside Emergency, I can assure you that this uncertainty is a “normal” life condition for most of the human race. We are privileged, and when the pandemic is over I hope we keep indelible memory of this privilege, to be able to go back to taking care of it.

The world of architecture has to take in that buildings have social value. When we founded TAMassociati we made a clear choice: to work with the third sector and act economically as an organisation of the third sector. We were lucky enough that the existing conditions let us make this choice, and I’m not saying that all architects should do the same - but every architect should work in a useful and sustainable manner. This doesn’t mean just building with photovoltaic panels, and greenery on the roofs; it means researching in every project the relationship between economics and beauty that gives the architect’s job a meaning. The question is the credibility of the profession: as architects today, we are not pieces of the social mechanics as we are not considered useful. When the issue is projecting to face the real needs of society – such as emergency hospitals put up in ten days – what is useful are engineers, installation specialists, quantity surveyors. So for the architect the change starts here, with the ability of being part of a group that faces economical and social needs, bringing an improvement to that 99% of what is nowadays built with only economical or – worse – speculative logic. The “authorial” product responds to a different type of logic and makes up the remaining 1%. I remember a teaching of Manfredo Tafuri from when I was studying in Venezia. He used to say: the architect is like the lawyer, always “someone’s” architect. See, we need the social architect. A step further than the architetto condotto of whom Renzo Piano talks - an architetto schierato, aware of the social and environmental urgencies to face. Luckily, I see younger generations of students, who understand and share this approach.


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Sopra, centro pediatrico di Emergency a Port Sudan, 2012 (foto ©Massimo Grimaldi). Progetto vincitore del Zumtobel Group Award 2014. A destra, centro di cardiochirurgia di Emergency a Karthoum, Sudan, 2007. Vincitore dell’Aga Kahn Award for Architecture nel 2013 (foto ©TAMassociati). Above, Emergency’s paediatric health care centre in Port Sudan, 2012 (ph. ©Massimo Grimaldi). Winning project at the Zumtobel Group Award 2014. To the right, Emergency’s cardio-surgery centre in Karthoum, Sudan, 2007. Winning project at the Aga Khan Award for Architecture 2013 (ph. ©TAMassociati).

I also see the germs of a change in economy: when we started, the third sector was volunteering work, while nowadays we have a category of companies that have social responsibility at the basis of their values. This is what I mean by architetto schierato: having the ability to be of service to these new forms of economy with a human face, to contribute to building a more equal society.

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Wolfgang Buttress

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Bees have lived harmoniously with the Earth for over 120 million years. We humans have existed for only a fraction of that time and have created an environmental crisis from which we may never recover. If I could help design a world post Covid 19, I would dream of the future, look to the past and listen to the bees . . . the answer surrounds us.

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Stephan Harding After the Virus Perhaps the main goal of everyone’s life would be to uncover and develop their own spirituality of nature, their own ecosophy (ecological wisdom) as my dear friend and teacher Arne Naess would say Where are we heading after the virus? What’s on the other side? The first thing to say, based on my scientific understanding, is that there probably won’t be an ‘after the virus’, for, just like the cold and flu viruses, it seems likely that Covid-19 is going to stick around for quite a long while. So how are we going to live with the virus after we’ve managed to get some kind of control over it and are over the worst effects of this pandemic? Charles Eisenstein has written a deep analysis of these questions in his recent essay The Coronation which is essential reading. He identifies two main diverging pathways which we could characterise as totalitarianism or compassion. We know what totalitarianism is by now. Think

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of the obvious examples: Hitler, Stalin, Mao, and in our own time, thankfully for the moment less dangerous but definitely on the same track: Trump, Orban, Erdogan, Bolsonaro and others. The danger is that the virus will give these people excuses to control our every move and listen to our every word. Don’t misunderstand me. The current lockdown and social distancing tactics are working well against the virus and we should rigidly stick by them for as long as the science suggests we should. But we don’t want to social distance and isolate ourselves when we don’t need to, and we don’t want to be tracked when that’s not needed either. But once surveillance practices such as those imposed by the Chinese government (and in the West by the likes of Google) have been in place for a while to achieve these ends, will we get used to them, taking them as the new normal? Probably, and the totalitarians hope so. Will they shepherd us into a new tyranny in which technology is used to keep us fearful, isolated and brutalised, far from each other and nature? That hell would be their paradise. As we saw, the alternative is compassion, so what does that look like? Well, perhaps the easiest and most modern way of expressing it is that it is ‘Gaian’. There is that word again –‘Gaia’ – the ancient Greek goddess, Mother of All, who rolled herself into the ball of the Earth when time began to make of herself a dazzling jewel of life and meaning. Gaia as Mother Earth denotes something which our culture as whole has hated and destroyed for around 2.000 years. Here is the word that represents flaky hippies, fantasy land and woolly thinking. Wrong. Gaia is the most sacred and wholesome word we could have right now because the cure to our ills is to rediscover the sacred as earthy

and wholesome, and Gaia is a great contributor to this new sacred. I’m a scientist, and I’m not ashamed to speak up for this essentially poetic Gaia even though I have been made to feel how inferior it is by my scientific education with no blame attached to my excellent teachers – we are all to a large extent Gaia-blind because of the anti-Gaian views of our culture. So the compassion pathway requires us to rediscover Gaia. What does this entail, this Gaian compassion? First you must learn to listen to the songs of the birds. Birdsong, especially as gifted us by the birds of Europe, has the magical ability to re-awaken wonder. So, to be compassionate we must have a sense of wonder in front of nature, in front of Gaia. We must learn to listen deeply to the sound of the wind in her branches, to the rush of water in her rivers, and to the crash of waves on her ocean shores. We must learn to think poetically in front of Gaia, for as much as she loves science, she loves poetry best of all. Can you practice that? You have to practice it, because compassion increases with practice. You should try it. Your heart starts to open, your head starts to clear and you simply start to feel happy, just being you within the deep swirling grandeur of our gorgeous planet drifting through space on a mission to increase compassion and wisdom. That’s quite a path to follow, and if we did we would live in small scale, localised communities deeply embedded in wild or free nature, each living quite simply with artefacts mostly made from local materials by the people themselves. I have seen such places in the Tibetan culture. They open your soul to Gaia. There would be commerce and cultural exchange between communities on a modest scale involving a mixture of mostly slow


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but also some limited fast travel. That way it would be easy to shut off a potential pandemic virus once it had emerged in any one of community. There would be high tech, but each electron would be seen as a speck of sacredness made into energy. So all our tech would be treated with the greatest respect and we would have implemented closed recycling loops for all its atoms and molecules. Everyone would have access to good food, water, free health care and probably some sort of basic support from the global community at large. Different communities around the world would be in close touch with each other via the internet, abolishing nationalism and parochialism for ever. Everyone would help with growing food for themselves and their community in permaculture style gardens that grow nutritious food and are a haven for biodiversity.

And, perhaps most importantly, the main goal of everyone’s life would be to uncover and develop their own spirituality of nature, their own ecosophy (ecological wisdom) as my dear friend and teacher Arne Naess would say. In such a society things would get better very quickly because everyone would be working to make the world around them into a Gaian paradise. So which is most likely to happen given the current global psychological state of humanity, tyranny or compassion? Sadly, I can’t see the second happening any time soon. But we must work for it within ourselves and in the wider world. The world is a mess, and we have been sent here to help clean it up. The vision of Gaia as a great living planet (shown to be a selfregulating organism by my friend and teacher, James Lovelock) can help us – but it will only work if Gaia is more than an intellectual

idea. It has to involve radical inner change - a transformation of consciousness so that everyone can see, hear, taste, feel and adore Gaia with her marvellous cloak of biodiversity on land and in her oceans teeming with all kinds of swimming life. The first path – tyranny – is currently the strongest and there will be a powerful pull towards it now because of the virus. We must resist it with all our heart and all our compassion because it is Gaia-blind. To do that, we must keep pondering the meaning of our life in Gaia, keep finding richer answers and deeper energy to contribute whatever we can whilst keeping ourselves happy, safe and warm. To steer ourselves towards compassion we need to dedicate ourselves to becoming Gaia-wise. Spending time in nature deeply listening to birdsong – that’s a good way to start.

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Stephan Harding

Dopo il virus Forse l’obiettivo principale della vita di tutti sarebbe quello di scoprire e sviluppare la propria spiritualità nei confronti della natura, la propria ecosofia (saggezza ecologica) come direbbe il mio caro amico e maestro Arne Naess

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Cosa succederà dopo il virus? Cosa c’è dall’altra parte? La prima cosa che posso dire al riguardo, attenendomi alla mia base di comprensione scientifica, è che probabilmente non ci sarà un “dopo il virus”, poiché proprio come per il virus del raffreddore e dell’influenza è probabile che il Covid-19 rimarrà a lungo tra noi. Come conviveremo quindi con il virus dopo che saremo riusciti a ottenere una forma di controllo su di esso e sugli effetti peggiori di questa pandemia? Charles Eisenstein ha scritto una profonda analisi di queste domande nel suo recente saggio: “The Coronation”, una lettura fondamentale. Nel suo scritto identifica due principali percorsi divergenti che potremmo riassumere in due termini: totalitarismo o compassione. Tutti sappiamo ormai che cos’è il totalitarismo. Si pensi agli esempi ovvi: Hitler, Stalin, Mao e ai nostri tempi, per fortuna per il momento meno pericolosi, ma sicuramente sulla stessa lunghezza d’onda: Trump, Orban, Erdogan, Bolsonaro e altri. Il pericolo è che il virus darà a queste persone un alibi per controllare ogni nostro movimento e ascoltare ogni nostra parola. Non fraintendetemi. Le attuali misure di isolamento e di distanziamento sociale stanno funzionando bene contro il virus e dovremmo attenerci rigidamente ad esse per tutto il tempo che la scienza riterrà opportuno. Ma di certo non vorremo distanziarci e isolarci socialmente quando non ce ne sarà più bisogno, né vorremo essere tracciati quando non sarà più realmente necessario. Ma una volta che pratiche di sorveglianza come quelle imposte dal governo cinese (e in Occidente da qualcosa di simile a Google) saranno state adottate per il tempo necessario, ci abitueremo alla loro presenza, le considereremo una nuova normalità?

Probabilmente si, e i totalitaristi lo sperano. Ci guideranno in una nuova tirannia in cui la tecnologia verrà utilizzata per tenerci impauriti, isolati e ridotti a bruti, lontani l’uno dall’altro e dalla natura? Questo inferno per loro sarebbe il paradiso. Come abbiamo visto, l’alternativa è la compassione. Ma che aspetto ha la compassione? Bene, forse il modo più semplice e moderno di esprimerlo è “Gaia”. Ecco di nuovo quella parola - “Gaia” - l’antica dea greca, Madre di tutti, che si avvolse nella sfera del pianeta quando il tempo iniziò per trasformarsi in un meraviglioso gioiello di vita e di significato. Gaia come Madre Terra denota qualcosa che la nostra cultura nel suo insieme ha odiato e distrutto per circa 2000 anni. Toh, ecco il termine che identifica hippy inconsistenti, il regno della fantasia o menti incapaci di connettere. Sbagliato. Gaia è la parola più sacra e pura che possiamo pronunciare in questo momento perché la cura per i nostri mali è quella di riscoprire il sacro in tutto ciò che è terreno e benefico, e Gaia rappresenta il più grande contributo a questo nuovo senso del sacro. Sono uno scienziato e non mi vergogno di esporre francamente questa visione poetica di Gaia, sebbene, per via della mia educazione scientifica, l’abbia considerata come inferiore, ma questo non certo per colpa dei miei eccellenti maestri. Siamo in qualche modo tutti ciechi nei confronti di Gaia, e questo per via delle posizioni anti-Gaia ben radicate nella nostra cultura. Il percorso della compassione ci impone di riscoprire Gaia, ma che cosa comporta in termini pratici? Per prima cosa dobbiamo imparare ad ascoltare il canto degli uccelli. Il canto degli uccelli ha la magica capacità di


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risvegliare la meraviglia. Quindi, per essere compassionevoli dobbiamo avere un senso di meraviglia di fronte alla natura, di fronte a Gaia. Dobbiamo imparare ad ascoltare profondamente il suono del vento tra i rami, lo scorrere dell’acqua nei fiumi, il suono delle onde sulle coste degli oceani. Dobbiamo imparare a pensare poeticamente di fronte a Gaia. Per quanto si possa amare la scienza, dobbiamo amare la poesia più di ogni altra cosa. Volete provarci? Esercitiamoci, perché la compassione aumenta solo con la pratica. Il nostro cuore inizia ad aprirsi, la mente inizia a schiarirsi e semplicemente incominciamo a sentirci felici. Si è soli con sè stessi nella profonda, vorticosa grandezza del nostro pianeta mentre viaggia nello spazio, in una missione rivolta ad aumentare compassione e saggezza. È un percorso importante, e se lo facessimo vivremmo in comunità localizzate su piccola scala, profondamente radicate nella natura selvaggia e libera. Ciascuno vivrebbe in modo piuttosto semplice, con manufatti realizzati principalmente con materiali locali e in autonomia. Ho visto posti simili nella cultura tibetana. Sono luoghi che aprono l’anima a Gaia. Ci sarebbero scambi commerciali e culturali su piccola scala tra le comunità, che implicherebbero una combinazione tra viaggi prevalentemente lenti e un numero limitato di viaggi più veloci. In questo modo sarebbe facile estinguere sul nascere un potenziale virus pandemico una volta emerso in una qualsiasi di queste comunità. Ci sarebbe alta tecnologia, ma ogni elettrone sarebbe visto come un granello di sacralità trasformato in energia. In questo modo tutta la nostra tecnologia verrebbe trattata con il massimo rispetto e realizzando circuiti di riciclaggio chiusi per tutti gli atomi

e le molecole. Tutti avrebbero accesso a buon cibo, acqua, assistenza sanitaria gratuita e probabilmente una sorta di supporto di base da parte della comunità globale. Diverse comunità in tutto il mondo sarebbero in stretto contatto l’una con l’altra via Internet, abolendo per sempre il nazionalismo e il campanilismo. Tutti aiuterebbero a crescere il cibo per sé stessi e per la propria comunità in orti coltivati secondo i principi della permacultura, che permettono di ottenere cibo nutriente mantenendo un paradiso di biodiversità. Forse soprattutto, l’obiettivo principale della vita di tutti sarebbe quello di scoprire e sviluppare la propria spiritualità nei confronti della natura, la propria ecosofia (saggezza ecologica), come direbbe il mio caro amico e maestro Arne Naess. In una società di questo tipo le cose migliorerebbero molto rapidamente perché tutti lavorerebbero per trasformare il mondo che li circonda in un paradiso. Quindi, cosa è più probabile che accada dato l’attuale stato psicologico globale dell’umanità: tirannia o compassione? Purtroppo, non riesco a vedere come probabile, a breve, il secondo scenario. Ma dobbiamo lavorare all’interno di noi stessi e all’interno del mondo intero. Nella condizione attuale il mondo è un disastro, siamo

stati mandati su questa terra per aiutarci e per ripulirlo. La visione di Gaia come un grande pianeta vivente (come dimostrato dal mio amico e mentore James Lovelock: un organismo capace di autoregolarsi) può aiutarci - ma funzionerà solo se Gaia diventa qualcosa di più di un’idea mediata dall’intelletto. Deve comportare un cambiamento interiore radicale - una trasformazione della coscienza in modo che tutti possano vedere, ascoltare, gustare, sentire e adorare Gaia con il suo meraviglioso mantello di biodiversità sulla terra e i suoi oceani brulicanti di ogni tipo di vita. Il primo percorso – la tirannia – attualmente appare come il più probabile e il virus ha innescato una forte spinta verso quella direzione. Dobbiamo resistere con tutto il nostro cuore e tutta la nostra compassione. Per questo dobbiamo continuare a meditare sul significato della nostra vita in Gaia, continuare a trovare risposte più ricche ed energia più profonda per contribuire con tutto ciò che possiamo, mantenendoci felici e sicuri. Per orientarci verso la compassione, dobbiamo imparare ad essere consapevoli di Gaia. E trascorrere del tempo nella natura ascoltando profondamente il canto degli uccelli è un buon modo per iniziare.

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Arthur Mamou-Mani Make Cities Breathe There are a few important lessons coming out of this epidemic. The first one is about the sacredness of nature and the understanding that the more we impede into that, the more we violate the pristine environment, and the more the environment tries to protect itself

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There are in my view a few lessons coming out of the epidemic which are important. The first one is about the sacredness of nature and the understanding that the more we impede into that, the more we violate the pristine environment, and the more the environment tries to protect itself. It seems like nature is giving a little warning sign which sounds like: “Here you go! Since you go on bothering me, I will send you a slightly aggressive virus. I could have done much worst but, take it as a warning. Just stay at home for a while”. So basically, the key is leaving large portions of land untouched. That is for our own safety, there are potentially so many viruses everywhere. In terms of urban planning this opens a dilemma. On one side denser cities make contagion easier, at the same time they allow to leave large portions of land basically untouched. Or shall we de-densify, instead, following a sort of Frank Lloyd Wright vision? The question is not banal since what we have seen in New York, which is very dense, is that it was furiously hit by Covid-19. There is an urban conundrum that we need to solve: whether to spread out and try to live in harmony with nature or, considering what we are seeing during these days, keep things separate? In short, shall we give up to cities or shall we enrich cities? The second point is: how much do we need to travel? Do we really need to move everywhere all the time? We are learning these days that there are so many things we can do without the need to move. There is a measurement of efficiency in transportation from where we learn that traveling the same distance with planes needs 80% of their mass in fuel, while cars take around 30%. That means that planes are inefficient, have a major contribution on CO2 emissions and a

bad impact on the air quality. And this latter opens a curious paradox related to Covid-19 and confinement. Despite this virus hits your lungs and respiratory tract, the quality of air and breathing we enjoyed during confinement is near unbelievable. We are all at home, we stopped almost everything, and the quality of air really increased. It is like nature saying, again: “Hey look I cleaned up your air to show you how important it is”. So, do we need to travel that much? What we do need is increased quality of our spaces. When at the very beginning of the confinement I went running to the park, I had the clear feeling of the quality of the spaces, I thought that I did not need an office, I rather needed a park. We need parks. What we all need is what makes air good, that is why we need spaces that make us breathe, not the opposite. And last, if you are just a little bit spiritual, you cannot help thinking about the importance of good air. We never think about breathing: it is such an unconscious thing that no one never thinks about. It is only through meditation that one consciously thinks he is involved into breathing. And now it is almost like we are all meditating. And going back to the first point I believe at this junction in history it is just too late at this point to give up cities. We need them, but we urge to bring nature into our cities, to bring it everywhere, to bring in things that make us breathe. In Milan for instance you have that beautiful building by Stefano Boeri, where the façade is nature. And thinking about nature, nature builds wonderful life supporting systems where design is not involved at all, that just grows. It’s a kind of humbling to look at nature. And we really learn to emulate its principles in order to build our cities.


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Arthur Mamou-Mani

Città dove respirare Tra le lezioni importanti che stiamo imparando da questa epidemia la prima riguarda la sacralità della natura e la consapevolezza che più la ostacoliamo, più violiamo l’ambiente incontaminato, più questo cerca di proteggersi

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A mio avviso, questa pandemia ci sta insegnando alcune importanti lezioni. La prima riguarda la sacralità della natura e la consapevolezza che più la ostacoliamo, più violiamo l’ambiente incontaminato, più questo cerca di proteggersi. Sembra che la natura ci stia dando un piccolo segnale di avvertimento che suona come: “Ecco qui! Visto che continuate a disturbarmi, vi invio un virus moderatamente aggressivo. Avrei potuto fare molto peggio, ma prendetelo come avvertimento. Statevene a casa per un po’”. In sostanza, la soluzione è lasciare grandi aree del nostro pianeta inalterate. È per la nostra sicurezza, dato che potenzialmente i virus sono ovunque. E in termini di pianificazione urbana questo tema apre un dilemma. Le città più dense favoriscono sicuramente il contagio, ma allo stesso tempo permettono di lasciare sostanzialmente inalterate grandi porzioni di territorio. O dovremmo al contrario dedensificare, sul filone delle visioni di Frank Lloyd Wright? La domanda non è banale, perché tutti abbiamo potuto vedere quanto New York, una delle città più dense al mondo, sia stata furiosamente colpita dal Covid-19. È un vero e proprio enigma urbano: dobbiamo disperderci e cercare di vivere in armonia con la natura oppure mantenere le due cose separate? In breve, dovremmo lasciare le città o dovremmo svilupparle? Il secondo punto è: quanto è francamente necessario viaggiare? Dobbiamo davvero spostarci sempre e dovunque? In questi giorni stiamo imparando che ci sono innumerevoli operazioni che possiamo svolgere senza alcuna necessità di spostarci. Esiste peraltro un calcolo dell’efficienza dei trasporti secondo il quale a parità di distanza un aereo avrebbe

bisogno di consumare l’80% della sua massa in carburante, un’auto circa il 30%. Ciò significa che gli aerei sono notevolmente inefficienti, contribuiscono fortemente alle emissioni di CO2 e hanno un impatto negativo sulla qualità dell’aria. Quest’ultimo punto apre un curioso paradosso legato a Covid-19 e alla reclusione. Nonostante questo virus colpisca i polmoni e il tratto respiratorio, la qualità dell’aria di cui abbiamo potuto godere durante questo periodo è a dir poco incredibile. Eravamo tutti a casa, abbiamo fermato quasi tutto e la qualità dell’aria è davvero migliorata. È come se la natura ci dicesse di nuovo: “Ehi guarda, ho ripulito la vostra aria per mostrarvi quanto sia importante”. Pertanto, dobbiamo davvero viaggiare continuamente? Credo di no. Ciò di cui abbiamo veramente bisogno è una maggiore qualità dei nostri spazi. Una cosa di cui ho avuto la chiara percezione – correndo nel parco all’inizio del lockdown, in una condizione di calma e serenità davvero insolita – era la qualità del luogo in cui mi trovavo. Mi è venuto spontaneo pensare che quello di cui avevo realmente bisogno non fosse il mio ufficio, ma piuttosto un parco. Abbiamo bisogno di parchi. Ciò di cui tutti abbiamo bisogno è ciò che rende buona l’aria, ecco perché abbiamo bisogno di spazi che ci facciano respirare, non il contrario. Se fossimo solo un po’ più spirituali, non potremmo fare a meno di pensare all’importanza dell’aria pulita. Non facciamo mai caso al nostro respiro: è una cosa talmente inconscia che nessuno ci pensa mai. È solo attraverso la meditazione che diventiamo consapevoli del nostro respiro. E ora, è quasi come se stessimo tutti meditando. Per tornare al dilemma dell’inizio, credo che


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arrivati a questo capitolo della storia sia troppo tardi per abbandonare le città. Ne abbiamo bisogno, ma sicuramente è fondamentale portare la natura nelle nostre città, portarla ovunque, e fornire elementi che ci facciano respirare. A Milano, ad esempio, si trova il noto, bellissimo edificio di Stefano Boeri, dove la facciata è natura. E parlando di natura, essa costruisce meravigliosi sistemi di supporto alla vita in cui il design non è affatto coinvolto: cresce e basta. Dovremmo imparare davvero a emulare i suoi principi per costruire le nostre città.

Qui e alla pagina precedente, Temple Galaxia. L’installazione di Arthur per l’edizione 2018 del Burning Man festival di Black Rock City è composta da 20 capriate in legno che convergono a spirale verso un punto nel cielo, un luogo centrale dove è posato un mandala gigante prodotto in stampa 3D (foto ©Jamen Percy, courtesy Arthur Mamou-Mani).

Here and in the previous page Temple Galaxia. Arthur’s installation for the 2018 edition of the Burning Man festival in Black Rock City is composed of 20 timber trusses converging as a spiral towards one point in the sky, a central space holding a giant 3D printed mandala (photo ©Jamen Percy, courtesy Arthur Mamou-Mani).

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Chris Precht Learning From Small Things Going forward we need to include the value of nature into every economic decision. The costs we must pay for the pandemic are immense, but they are tiny compared to the costs we will pay for climate change and an ecological meltdown

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You see how big of an impact we have on our environment. One month of a shutdown and we have the best air in a long time. Clean water is coming back to the coasts and biodiversity is flourishing. Maybe this virus is nature’s way to say: you are grounded and sit down and think what you have done. Going forward we need to include the value of nature into every economic decision. The costs we must pay for this pandemic are immense, but they are tiny compared to the costs we will pay for climate change and an ecological meltdown. Global warming is a slow-moving catastrophe, but it needs to be handled with the same urgency than the response to Covid-19. And during this pandemic we can also witness that the free market is not regulating everything. The free market failed and did not offer any solutions. There are common goods and basic needs that should stay public and not be regulated by private companies. No company should make money from air, water, parks, healthcare, basic nutrition, or education. These are human rights and should belong to everyone. I think after this crisis we will cherish the little things again. Going barefoot through the park or sitting too long in a cafe. A crisis creates consciousness of the things we took for granted and I think that’s really what the world needs. A focus on consciousness. I found it interesting that it was clearly divided between essential jobs to keep our society running, and non-essential jobs who better go in isolation and home-offices. And it is pretty clear in which column architecture is. We think we are so important, and we take ourselves too seriously and this creates a cozy bubble around us. But in a crisis, who cares about a luxurious

condo building or a beautiful restaurant interior? Last, I think there is a path that architecture can be essential. By being idealistic. By fighting for what is important in the future. Healthy building, buildings that connect to nature. Buildings that connect to our senses. Buildings that are more than real-estate. I think I have learned for myself that doing architecture to make money is not worth it. To design a building to just build something, it’s not worth it. But the fight for changing the status quo of buildings and cities and turn them into something healthy, sustainable, and ecological, that’s something essential and something that’s worth the fight.

Food and shelter are human needs and architects can rethink their mutual relation. Studio Precht’s Farmhouse is an attempt to reconnect people living in cities with the process of growing food. It runs on an organic life-cycle of building byproducts. One process output is another process input. For instance, buildings already create a large amount of heat, which can be reused for plants. A water-treatment system filters rain- and greywater, enriches it with nutrients and brings it back to the greenhouses (courtesy Studio Precht). Cibo e riparo sono bisogni essenziali dell’uomo e gli architetti dovrebbero ripensarne la relazione. La Farmhouse di Studio Precht è un tentativo di ricongiungere la vita in città con la coltivazione del cibo. Si basa sulla creazione di un ciclo organico in cui gli output dell’edificio diventano input per la coltivazione. Ad esempio il calore in eccesso che può essere riutilizzato per le piante. Un sistema di trattamento delle acque filtra le acque grigie e meteoriche, le arricchisce di nutrienti e le riusa nelle serre (courtesy Studio Precht).


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Chris Precht

Imparare dalle piccole cose D’ora in avanti dobbiamo includere il valore della natura in ogni decisione economica. I costi che dovremo sostenere per la pandemia sono immensi, ma non sono nulla rispetto ai costi che potremmo pagare per un tracollo ecologico indotto dal cambiamento climatico

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Abbiamo un fortissimo impatto sul nostro ambiente. Un mese di lockdown e già vediamo l’aria più pulita di sempre. L’acqua delle coste sta tornando limpida, rifiorisce la biodiversità. Forse questo virus è il modo della natura per dirci: state in punizione, fermatevi e ragionate su ciò che avete fatto. Andando avanti, dobbiamo includere il valore della natura in ogni decisione economica. I costi che dovremo sostenere per questa pandemia sono immensi, ma non sono nulla rispetto ai costi che potremmo pagare per un tracollo ecologico indotto dal cambiamento climatico. Per quanto sia come una catastrofe al rallentatore, il riscaldamento globale deve essere gestito con la stessa urgenza della risposta al Covid-19. E lo sviluppo di questa pandemia è una testimonianza che il libero mercato non può regolare tutto. Il libero mercato si è rivelato un totale fallimento, non ha saputo offrire alcuna soluzione. Esistono beni comuni e bisogni di base che dovrebbero rimanere pubblici e non essere regolati da società private. Nessuna azienda dovrebbe trarre profitto dall’aria, dall’acqua, dai parchi, dall’assistenza sanitaria, dall’alimentazione di base o dall’istruzione. Questi sono diritti umani di base e pertanto devono appartenere a tutti. Penso che dopo questa crisi apprezzeremo di nuovo le piccole cose. Andare a piedi nudi nel parco o sederci quanto vogliamo in un bar. Questa crisi ci rende consapevoli di molte cose che avevamo dato per scontate ma che penso siano davvero ciò di cui il mondo ha bisogno. Ed è una sorta di esame di coscienza. Trovo interessante che abbiamo trovato modo di distinguere i lavori essenziali per mantenere attiva la nostra società, da quelli non essenziali che possono essere svolti in isolamento e con l’home-office. Ed è abbastanza chiaro in quale ambito si trovi l’architettura. Pensiamo di essere

importanti, ci prendiamo molto sul serio e questo crea una bolla d’illusione intorno a noi. Ma durante una crisi globale, a chi interessa un condominio di lusso o gli splendidi interni di un ristorante? Penso invede che ci sia un percorso in cui l’architettura può essere essenziale. Essendo idealista. Combattendo per ciò che è importante in futuro. Edifici sani, edifici che si collegano alla natura. Edifici che si collegano ai nostri sensi. Edifici che sono qualcosa di più di semplici immobili. Penso a questo punto di aver imparato che non valga la pena fare architettura per fare soldi. Progettare un edificio solo per costruire qualcosa. Non ne vale la pena. Ma combattere per cambiare lo status quo di edifici e città e trasformarli in qualcosa di sano, sostenibile ed ecologico, questo sì, è qualcosa di essenziale per cui vale senz’altro la pena.

Il Parc de la Distance di Studio Precht è disegnato come un’impronta digitale con linee parallele che guidano i visitatori lungo il paesaggio ondulato. Ogni percorso è provvisto di porte di ingresso e di uscita che indicano se è occupato o libero da percorrere. I percorsi sono distanziati di 240 cm e hanno una siepe divisoria profonda 90 cm. Anche se le persone sono separate possono sentire i passi degli altri sulla ghiaia deli percorso vicino. Ogni sentiero è lungo circa 600 metri e l’altezza degli arbusti è variabile (courtesy Studio Precht). Studio Precht’s Parc de la Distance is shaped as a fingerprint, with parallel lines guiding visitors through the undulating landscape. Every lane has a gateway on the entrance and exit, which shows if the path is occupied or free to stroll. The lanes are distanced 240 cm from each other and have a 90 cm wide hedge as a division. Although people are visually separated, they might hear footsteps on the pebbles from the neighbouring path. Each individual journey is about 600 meters long. The height of the planters varies along this journey (courtesy Studio Precht).


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Marta Schwartz Realign Values Covid-19 is but a small side-show to the catastrophe that awaits us as we do almost nothing to avert the IPCC 1,5 degree Centigrade threshold (by 2050)

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About 4 years ago, I left practicing design when I found out about how the permafrost was melting on the Eastern Siberian Shelf and how dangerous methane feedback loops were. I totally freaked out, and since then, have been self-teaching about climate change. I was looking for solutions and I found an idea that is being researched by scientists called “solar geoengineering”. It turned out that the group of scientists are around the corner from me at Harvard - and I have been learning a lot from them. I am presently running a course on “Geoengineering for Dummies” - meaning students can take this class without having a background in physics. The idea is that aerosols (sulphates or calcium carbonate) are put up in the stratosphere, which deflect incoming infra-red radiation from the sun back into space, thus cooling the planet. It is not really a solution, but can modify global warming, which is the cause of most of the really harmful effects of climate change (Italy and the other countries around the “Mediterranean Ring” will become increasing hot as the Sahara Desert moves up north). Europe can expect 100 million climate refugees from the Middle East and Africa by 2050. And the countries of the Global South will suffer the effects of droughts/ lack of food and extreme heat, sooner than those of us in the global North. Covid-19 is a good example of how connected we are to each other and to nature. It does, however, put the power of nature back on the table as it is clear that humanity has not fully conquered mother nature, even if we are now driving the Earth system. It puts our relationship to the earth, and thus the landscape on the ‘table’ as being of ‘value’ and must be considered as a necessary part of the built environment - no

longer a step maiden to architecture. Decarbonization is the next global economy as humanity takes on the long task of taking 1500 Gigatons down from the atmosphere before we can, naturally, cool the planet. Major “carbon sinks”, such as wetlands, peatlands, forests, soils, savannahs - in other words, the earth and what grows on it, must be resuscitated. We have the technology and science to do this, but do we have the will?


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Thank God we now understand that the earth provides benefits for us. The scientists and economists are now calculating the monetary value of what is called “ecological benefits”. How crazy it is that we (humans) have to reduce nature to a bottom line before we can value it? It may be too bad for us that we were not smart enough to intuit that this is true (intuition, in the male-driven world, is seen as secondary to linear ‘logic’). Covid-19 is but a small side-show

to the catastrophe that awaits us as we do almost nothing to avert the IPCC 1.5 degree Centigrade threshold (by 2050). It’s discouraging anyway that Solar Geoengineering – specifically named Stratospheric Aerosol Injection – is a way of cooling the earth and swelling of oceans so we have the time to transition to renewables. This idea must be researched now, we must get rid of hydrocarbon fuels as soon as possible

in order to avoid global catastrophes by 2050. We have 10 years to create the trajectories of systematic changes such as transitioning out of using hydrocarbons as fuel and start towards better agricultural practices such as regenerative agriculture. We have the science, but we don’t have the political or social will. If only we could learn from it and not go back to business as usual.

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Marta Schwartz

Riallineare i valori Covid-19 non è che una piccola dimostrazione della catastrofe che ci attende se non ci attiviamo per evitare la soglia IPCC di 1,5 gradi centigradi (entro il 2050)

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Circa quattro anni fa, quando venni a conoscenza del modo in cui il permafrost si stava sciogliendo nella piattaforma continentale della Siberia dell’Est e di quanto fossero pericolosi i cicli di feedback del metano, smisi praticamente di fare progetti di architettura. Ero sconvolta. Da allora ho iniziato a studiare molto seriamente il cambiamento climatico. Ero alla ricerca di soluzioni e trovai un’idea chiamata “solar geoengineering”, scoprendo peraltro che chi la studiava era un gruppo di scienziati di Harvard, praticamente dietro l’angolo di casa mia. Da allora ho avuto modo di frequentarli e di imparare molto da loro. Attualmente sto tenendo un corso di “Geoengineering for Dummies” – il che significa che gli studenti possono frequentare questo corso anche senza alcuna preparazione in fisica. L’idea di fondo è che degli aerosol (solfati o carbonati di calcio) vengano depositati nella stratosfera in modo da rispedire nello spazio le radiazioni infrarosse provenienti dal sole, raffreddando così il pianeta. Non è una soluzione vera e propria, ma può contribuire a ridurre il riscaldamento globale, all’origine della maggior parte degli effetti più violenti dei cambiamenti climatici (l’Italia e gli altri Paesi dell’area del Mediterraneo diventeranno sempre più caldi, mentre il deserto del Sahara si estenderà verso nord). L’Europa può aspettarsi 100 milioni di rifugiati climatici dal Medio Oriente e dall’Africa entro il 2050. Saranno infatti i paesi del Sud del mondo che subiranno per primi gli effetti della siccità, con carestie e calore estremo. Il Covid-19 è un buon esempio di come siamo collegati sia gli uni agli altri che alla natura. La situazione che stiamo affrontando ci mette

di fronte alla forza della natura ed è chiaro che l’umanità non ha conquistato del tutto questo pianeta, anche se abbiamo l’illusione di dominarlo. La pandemia ha messo in discussione la nostra relazione con la Terra e pertanto mette in primo piano il paesaggio come valore, e come questo debba essere considerato una parte necessaria dell’ambiente costruito e non come un figlio acquisito dell’architettura. La decarbonizzazione sarà la prossima economia globale se l’umanità si assumerà l’arduo compito di sottrarre i 1500 Gigaton di CO2 [un Gigaton è pari a un miliardo di tonnellate, NdT] presenti in atmosfera per raffreddare il pianeta in modo naturale. I principali ‘giacimenti’ in grado di assorbire anidride carbonica, come zone umide, torbiere, foreste, terreni, savane – in altre parole la Terra e ciò che cresce su di essa – devono essere rianimati. Abbiamo a disposizione la tecnologia e la scienza, ma possiamo dire di avere la volontà per farlo? Grazie a Dio finalmente comprendiamo che la Terra ci offre benefici e gli scienziati e gli economisti stanno calcolando il valore monetario di quelli che vengono chiamati “ecologic benefits”. A pensarci è una follia che l’umanità arrivi al punto di ridurre la natura in questo stato prima di poterla considerare importante! Sarebbe terribile non essere abbastanza intelligenti per riuscire a intuirlo (ma l’intuizione, in un mondo dominato al maschile, viene vista come secondaria rispetto a una logica lineare). Il Covid-19 non è che una piccola dimostrazione della catastrofe che ci attende se non ci attiviamo per evitare la soglia IPCC di 1,5 gradi centigradi (entro il 2050).


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È comunque demoralizzante che il SolarGeoengineering – per la precisione Stratospheric Aerosol Injection – sia un modo per raffreddare la Terra e contenere l’innalzamento degli oceani per lasciarci il tempo di passare alle energie rinnovabili. Questa idea deve essere oggetto di ricerca ora, dobbiamo liberarci dei combustibili fossili il prima possibile per evitare catastrofi globali entro il 2050. Abbiamo a disposizione dieci anni per introdurre cambiamenti sistematici e dirigerci verso migliori pratiche agricole come l’agricoltura rigenerativa. Abbiamo la scienza, ma non abbiamo la volontà politica o sociale. Se solo potessimo imparare da questa situazione e non tornare al ‘business as usual’.

Martha Schwartz Partners, Gifu Kitagata Gardens, Kitagata, Giappone, 2000. Questo progetto di corti è parte dell’esperimento ‘femminismo nel progetto dell’abitare’ che comprende anche quattro edifici per appartamenti progettati da Akiko Takahashi, Kazuyo Sejima, Christine Hawley, e Elizabeth Diller. Alla pagina precedente: Place de la République, Parigi, 2013. Architettura TVK / Trévelo & Viger-Kohler; paesaggio Martha Schwartz e AREAL (immagini courtesy Martha Schwartz Partners). Martha Schwartz Partners, Gifu Kitagata Gardens, Kitagata, Japan, 2000. This courtyard project is part of an experiment in ‘femininism in housing design’ which also includes four apartment buildings designed by Akiko Takahashi, Kazuyo Sejima, Christine Hawley, and Elizabeth Diller. Previous page: Place de la République, Paris, 2013. Architecture TVK / Trévelo & Viger-Kohler, landscape Martha Schwartz and AREAL (images courtesy Martha Schwartz Partners.

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Cássio Vasconcellos Dryads and Fauns In Dryads and Fauns (2019-2020), Cássio Vasconcellos draws us to a place of dreams and fantasy, making us question the existence of a lost paradise, a planet in perfect harmony. The forest as part of nature represents, to some extent, the call for human beings to return to collective values and to distance themselves from the machine of consumer society, allowing for a moment of reflection upon the self and our place in the world. It also incorporates the greatness of nature and the cosmos, as a mean of searching for answers to the questions about the fragility of men. Ângela Berlinde In Dryads and Fauns (2019-2020) Cássio Vasconcellos ci attira in un luogo di sogni e fantasia che ci fa pensare all’esistenza di un paradiso perduto, un pianeta in perfetta armonia. La foresta come parte della natura rappresenta, in qualche misura, il bisogno come esseri umani di tornare ai valori collettivi prendendo le distanze dalla macchina della società dei consumi e ci offre un momento di riflessione su noi stessi e il nostro posto nel mondo. L’immagine rappresenta anche la grandezza della natura e del cosmo come mezzo per cercare risposte alle domande sulla fragilità degli uomini.

Two images from Dryads and Fauns series (2019.2020), a work reminiscent of nineteenth century artistic and scientific expeditions exploring many then very much unknown territories. To one of them took part the botanist Ludwig Riedel, greatgreat-grandfather of Vasconcellos. Due immagini della serie Dryads and Fauns (20192020), un lavoro ispirato alle spedizioni artistiche e scientifiche del XIX alla scoperta di territori allora in larga parte sconosciuti. Ad una di esse prese parte il botanico Ludwig Riedel, trisavolo di Vasconcellos.

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Julia Watson A Lo—TEK life after Covid-19 At the opening or closing of a significant event, indigenous peoples ask an Elder to give an acknowledgment of land, spoken to align people’s minds and hearts with Nature. At the end of the Covid-19 pandemic, the world must take a moment to acknowledge the Elders we have lost and align once again with the Earth, our most critical life support system

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Urban life favors density and humans, not distance and nature. The globalized way we’ve come to live and travel, speeds up viral transmission and carbon emission, alike. In all likelihood, if we continue to go up higher, out wider, further faster, and deeper to extract, more contagions and crises will follow. In indigenous cultures, a connection to nature is the foundation for physical, spiritual and psychological health. Australian Aboriginals call this a ‘connection to country’, that is handed down by the ancestors. The latest science on epidemics supports this indigenous understanding suggesting viral outbreak is linked to a lack of environmental resilience. As we’re realizing with climate change, resilience in the face of contagion depends on an interdependence with a thriving environment. Therefore, if the pandemic has both medical and environmental triggers, our response must be multi-dimensional, initiating systemic change that ensures our communities are resilient to both air-borne viral transmission and air-polluting carbon emission. A vision that addresses both climate change and public health on a global scale would use biodiversity as the building block to evolve ecologically active, adaptive, productive and resilient innovations. In 2019, as the Climate Movement called for action, world leaders denied a means to lower carbon emissions and protect the environment. In the state of global pandemic, the impossible has been made possible. Historically pandemic has transformed cities. The bubonic plague led to the Italian Renaissance, one of the greatest epochs of art, architecture and literature in human history. The Spanish flu championed


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the City Beautiful Movement, introducing parks, wide streets, and clean water, remaining at the forefront of urban design for many years. The current pandemic in the context of climate change is different. So what can we learn from this pandemic to usher in the urban transformation of the 21st century? Today’s response cannot be limited to sanitation, beautification, and a ban on live animal markets. A response to Covid-19 must

displace the homogeneity and monoculture of globalism and urbanism that is crippling, making our cities and systems vulnerable. Design must lead us toward the rediscovery of a resilient anthropological, zoological, horticultural, and technological localism. The pioneers of this nature-based design and technology are indigenous communities, often seen as primitive, who are highly advanced when it comes to creating systems in symbiosis

with the natural world. Having studied indigenous communities across the globe for twenty years while simultaneously receiving traditional training as an architect, landscape architect and urban designer, the connection between these nature-based technologies and how they could change the way we design cities began to crystalize. Lo—TEK – not to be confused with low-tech, as it incorporates the acronym TEK, which stands for Traditional Ecological Knowledge – is a design movement building on indigenous philosophy and vernacular infrastructure to generate sustainable, resilient, nature-based local technology. Lo—TEK suggests that some of our most resilient innovations might be drawn not from the past, but from tradition alive in the present. Lo—TEK explores the innovations of indigenous cultures who’ve been dealing with the crises we now face for millennia, by using local knowledge and innovations that are symbiotic with nature and that harness the intelligence of complex ecosystems. Designers responding to the challenges ahead, should be imagining radical new typologies for growth where indigenous, nature-based technologies and systems are hybridized with contemporary materials and construction techniques. From the scale of the module, to the structure, system and infrastructure, biodiversity is the building block to a new, indigenous localism. In the present state of pandemic, when now more than ever we value the air we breathe, an opportunity exists to reshape how humans connect with nature. A contemporary response must afford a co-existence for many species and use the intelligence of hundreds of unexplored nature-based technologies designed for the extreme conditions we now face. As evolutionary theory has shifted from ‘survival of the fittest’ to ‘survival of the symbiotic’, so must our field of design. Using the dynamics of symbiosis, which forms the fundamental relationships of all life, we can shift our relationship with nature, especially in our cities, from one of superior to symbiotic. The simple truth the Covid-19 reveals is that accommodating infinite growth on a finite planet is the root of the problems we now face together, but isolated by quarantine, alone.

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Julia Watson

Una vita Lo—TEK dopo il Covid-19 All’apertura o alla chiusura di un evento significativo, le popolazioni indigene chiedevano a un anziano di ringraziare la Terra, allineando con la Natura le menti e i cuori della comunità. Allo stesso modo, alla fine della pandemia Covid-19, il mondo dovrebbe raccogliersi per ringraziare gli anziani che abbiamo perduto e allinearci di nuovo con la Terra, il nostro più importante sistema vitale

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La vita urbana favorisce la densità e l’essere umano, non la distanza e la natura. Tuttavia, il mondo globalizzato in cui siamo abituati a vivere e viaggiare accelera la trasmissione virale e l’inquinamento. Con ogni probabilità, se continuiamo in questo modo, sempre di più, più in fretta e più in profondità, seguiranno ulteriori contagi e crisi. Nelle culture indigene al contrario, una connessione con la natura è la base per la salute fisica, spirituale e psicologica. Gli aborigeni australiani chiamano questa connessione “collegamento con la nostra terra”, una filosofia tramandata di generazione in generazione. Le ultime ricerche sulle epidemie concordano con questo modo di intendere le cose, comune a tutte le culture native, e che parte dal presupposto che un’epidemia virale è collegata a una fondamentale mancanza di resilienza ambientale. Come anche nel caso del cambiamento climatico, stiamo constatando che la resilienza di fronte a un’epidemia dipende dalla nostra capacità di mantenere l’ambiente in buona salute. Significa che, se la pandemia ha fattori scatenanti sia a livello sanitario che ambientale, la nostra risposta deve essere multidimensionale, basata su un cambiamento sistemico che garantisca alle nostre comunità la capacità di contrastare sia la trasmissione di virus per via aerea, sia l’emissione di inquinanti. Una visione capace di risolvere il problema del cambiamento climatico, su scala globale, farebbe pertanto leva sulla biodiversità come elemento portante per lo sviluppo di innovazioni ecologicamente attive, adattive, produttive e resilienti. Nel 2019, quando il Movimento per il clima richiese un’azione efficace, i leader mondiali

negarono qualsiasi misura per ridurre le emissioni di gas serra e proteggere l’ambiente. L’attuale condizione di pandemia globale ha reso possibile l’impossibile. Storicamente le pandemie hanno trasformato le città. La peste bubbonica portò infine al Rinascimento italiano, una delle più vigorose epoche di arte, architettura e letteratura nella storia dell’umanità. L’influenza spagnola sostenne il movimento Beautiful City, introducendo parchi, strade ampie e acqua pulita, che divenne una delle linee guida del progetto urbano per molti anni. Tuttavia, la pandemia di questi giorni è diversa e si colloca nel contesto del cambiamento climatico. Che cosa possiamo imparare da questa situazione per dare il via alla trasformazione urbana del XXI secolo? La risposta di oggi non può essere limitata a servizi igienico-sanitari. Una risposta a Covid-19 deve sostituirsi all’omogeneità e alla monocultura del globalismo e dell’urbanistica, paralizzante e debilitante per le nostre città e per il nostro ambiente. Il progetto di architettura deve guidarci alla riscoperta di un localismo resiliente, antropologico, zoologico, agricolo e tecnologico. Pionieri di una modalità di progetto e di una tecnologia basata sulla natura sono le comunità indigene, spesso viste come primitive, anche se, quando si tratta di creare sistemi in simbiosi con il mondo naturale, si rivelano molto avanzate. Dopo aver studiato comunità indigene in tutto il mondo per vent’anni, e ricevuto contemporaneamente una formazione tradizionale come architetto, paesaggista e designer urbano, la connessione tra tecnologie basate sulla natura e il modo in


› ENVIRONMENT Una linea di crateri che si snoda come un serpente lungo il deserto dalle montagne di Elburz alle pianure dell’Iraq è la sola evidenza di un invisibile acquedotto sotterraneo chiamato qanat, costruito per la prima volta dai Persiani intorno al X secolo a.C. (ph ©Alireza Teimoury, courtesy Julia Watson). Pagina precedente: Un giovane pescatore cammina sotto un ponte fatto di radici nel villaggio di Mawlynnong, in India. Nell’inesorabile umidità delle giungle di Meghalaya, per secoli il popolo Khasi ha usato le radici aeree degli alberi della gomma per costruire ponti ‘viventi’ che attraversano i fiumi (ph ©Amos Chapple, courtesy Julia Watson). A line of evenly spaced spoil craters snake along the surface of the desert from the high Elburz Mountains to the Plains of Iraq and is the only evidence of an invisible, subterranean man-made water stream called a qanat, first constructed by the Persians during the early years of the first millennium B.C. (ph ©Alireza Teimoury, courtesy Julia Watson). Prevoius page: A young fisherman walks under a living root bridge at Mawlynnong village, India. In the relentless damp of Meghalaya’s jungles the Khasi people have used the trainable roots of rubber trees to grow living root bridges over rivers for centuries (ph ©Amos Chapple, courtesy Julia Watson).

cui queste potrebbero cambiare il modo in cui progettiamo le città, ha finalmente iniziato a cristallizzarsi. Lo—TEK non è sinonimo di bassa tecnologia, poiché incorpora l’acronimo TEK, che rappresenta la conoscenza ecologica tradizionale, ed è un movimento di progettazione basato sui principi indigeni e sull’infrastruttura vernacolare per generare una tecnologia locale sostenibile, coerente e basata sulla natura. Lo—TEK dimostra che

alcune delle nostre innovazioni più robuste potrebbero essere tratte non dal passato, ma da una tradizione viva nel presente. Lo—TEK esplora le innovazioni delle culture indigene che da millenni hanno affrontato crisi come quella che stiamo affrontando oggi facendo ricorso a conoscenze locali e soluzioni innovative in simbiosi con la natura e che sfruttano l’intelligenza di ecosistemi complessi. I progettisti che dovranno rispondere alle sfide future dovranno immaginare modalità di

sviluppo radicalmente nuove, in cui tecnologie e sistemi basati sulla natura e su conoscenze antiche saranno ibridati con materiali e tecniche di costruzione contemporanei. Muovendosi in scala crescente dal modulo, alla struttura, al sistema e all’infrastruttura, la biodiversità è la base per un nuovo localismo di ispirazione indigena. Nell’attuale stato di pandemia, quando ora più che mai apprezziamo l’aria che respiriamo, esiste un’opportunità per rimodellare il modo in cui gli esseri umani si collegano alla natura. Una risposta contemporanea deve permettere la coesistenza tra una moltitudine di specie e usare l’intelligenza di centinaia di tecniche tuttora inesplorate, ispirate alla natura e progettate per le condizioni estreme che ci troviamo oggi ad affrontare. Poiché la teoria evolutiva si è spostata dalla “sopravvivenza del più adatto” alla “sopravvivenza del simbiotico”, il nostro campo di progettazione si deve muovere nella stessa direzione. La dinamica della simbiosi rappresenta il sistema di relazioni fondamentale di tutto il mondo vivente, e sulla base di questa dinamica possiamo riconsiderare il nostro rapporto con la natura, specialmente nelle città. La semplice verità rivelata da Covid-19 è che promuovere una crescita infinita su un pianeta finito è la radice dei problemi che ora, pur essendo globalmente coinvolti, ci troviamo ad affrontare soli, isolati dalla quarantena.

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› ENVIRONMENT

Alan Weisman The Rights of the Planet To sell food and everything else, we have economies, whose health we define by growth. To keep growing, economies need more consumers, meaning even bigger populations

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The other night, a friend and I were having the same conversation as everyone else on this plagued Earth. “This is so unreal!” she wailed. “No,” I replied. “Actually, this is real. What was unreal was the fantasy we’ve been living: growing on and on, in denial of the obvious.” Pandemics, I said, are natural corrections when some species outstrips its environment and throws things out of whack. Unfortunately, it’s painful when your own species is the one being corrected. No one knows how long Covid-19 will last, nor how deeply it will cut. But the imbalances that triggered its spread are profound. Because we now grow more food than nature ever could by chemically force-feeding crops, our population quadrupled last century: for large animals, that’s unprecedented in biological history. Feeding us all now takes nearly half the planet: the main reason we’re pushing so many other species off it. All that agrochemistry also overheats the air and turns seas to carbonic acid. To sell food and everything else, we have economies, whose health we define by growth. To keep growing, economies need more consumers, meaning even bigger populations. The more people, the cheaper labor becomes, as billions of poor compete for miserable wages. Economists consider that healthy for business, too. If you’re a wage-earner, I’ll bet you don’t. In 2007, I tried a backward approach to show how crazy it is to think that endless growth can be sustainable on a planet that can’t grow. Instead of depicting our world growing steadily uglier and more uninhabitable, my book The World Without Us imagined what would happen if, say, a Homo sapiens-specific virus killed us all but left everything else intact.

Spring in Noha-ri, Korean Demilitarized Zone. (ph. courtesy of DMZ Ecology Research Institute, Seoul). Primavera a Noha-ri, zona demilitarizzata della Corea (foto courtesy DMZ Ecology Research Institute, Seoul).


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How long would it take for nature, freed of our daily pressures, to invade our vacated spaces, refill empty niches, raze our infrastructure and architecture, and heal the scars we’ve inflicted on this lovely orb? Readers loved watching forests reclaim Manhattan, farmlands fill with wildflowers, and nearly extinct creatures flourish anew. They were fascinated that in just 50 years, Korea’s abandoned Demilitarized Zone had reverted to wilderness and become one of Asia’s most important wildlife refuges. My booklength obituary for humankind became an international bestseller, in 35 languages. So it’s

not surprising that people are now flooding me with images of crystalline skies above Beijing and Los Angeles; dolphins in Cagliari’s harbor; swans and cormorants replacing vaporetti in Venetian canals; and great public spaces like Piazza San Marco, Place de la Concorde, and Times Square swathed in stillness. “Is this the world without us?” they ask, nervous yet wistful, because the vision of a placid, truly healthy world is so beguiling. Probably it will be a world with fewer of us: nature doesn’t abide imbalances for long. But amid grief for loved ones and alarm over how wobbly our overgrown civilization really is,

there may be compensations: healthier air, more quiet, and surprising glimpses of beauty restored. If we let a little nature back in to its rightful place — all around us — life after coronavirus may prove more worth living.

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Alan Weisman

I diritti del pianeta Per vendere sempre più cibo e prodotti abbiamo sviluppato economie il cui benessere viene definito dalla crescita, e per continuare a crescere queste economie hanno bisogno di consumatori, ovvero di un numero sempre crescente di persone

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L’altra sera, come tutti del resto, stavo discutendo con un’amica sui tormenti di questo mondo. “È così irreale!”, aveva esclamato con un lamento. “No”, le avevo risposto. “A dire il vero, è reale. Ciò che non lo è, è il mito in cui abbiamo vissuto: crescita all’inverosimile, negando l’ovvio”. Le pandemie, dicevo, sono correzioni naturali che si verificano quando alcune specie superano i limiti del proprio ambiente, scompigliando tutto. Purtroppo, è triste quando la specie ad essere corretta è proprio la tua. Nessuno sa quanto durerà, né quanto profondamente il Covid-19 inciderà, ma lo squilibrio innescatosi con la sua diffusione è profondo. Con l’agricoltura forzata dalla chimica coltiviamo più alimenti di quanto sia possibile in natura, e così durante il secolo scorso la nostra popolazione è quadruplicata: per animali di grossa taglia come noi, nella storia della biologia è un evento senza precedenti. Attualmente per nutrici abbiamo bisogno di metà del pianeta: questo è il motivo principale per cui stiamo eliminando molte altre specie. L’enorme quantità di agrochimica surriscalda l’aria e acidifica gli oceani. Per vendere sempre più cibo e prodotti, abbiamo sviluppato economie il cui benessere viene definito dalla crescita, e per continuare a crescere hanno bisogno di consumatori, ovvero di sempre più persone. Più individui, minori gli stipendi, e miliardi di poveri si trovano a competere per salari miseri. Gli economisti considerano questo del tutto salutare: se sei un salariato scommetto di no. Nel 2007 ho provato a fare un percorso a ritroso per mostrare quanto sia folle pensare che uno sviluppo senza limiti possa essere sostenibile in

un pianeta che non può crescere. Ma anziché pensare a un mondo che diventa sempre più spaventoso e inabitabile, nel mio libro Il mondo senza di noi ho immaginato cosa potrebbe succedere se, ad esempio, un virus selettivo per Homo sapiens uccidesse tutto il genere umano, lasciando tutto il resto intatto. Di quanto tempo avrebbe bisogno la natura, liberata dalla nostra inesorabile pressione, per invadere gli spazi lasciati liberi da noi, per riempire le nicchie lasciate vuote, per abbattere le nostre infrastrutture e architetture, e per sanare le ferite che abbiamo inferto a questo nostro meraviglioso globo. I lettori si sono appassionati all’idea di foreste che si riappropriano di Manhattan, di campi pieni di fiori selvatici, del rinascere di creature quasi estinte. Erano affascinati nel vedere che in soli 50 anni, le zone demilitarizzate della Corea si erano convertite in foreste diventando uno dei più importanti rifugi dell’Asia per gli animali selvatici. Questo mio necrologio per l’umanità, lungo quanto un intero libro, è diventato un bestseller internazionale tradotto in 35 lingue. Per questo non mi sorprende che molti mi stiano inondando di immagini di cieli cristallini sopra Pechino e Los Angeles; di delfini nel porto di Cagliari; di cigni e cormorani che rimpiazzano i vaporetti nei canali di Venezia; e di grandi spazi pubblici come Piazza San Marco, Place de la Concorde e Times Square avvolti dall’immobilità. “È questo il mondo senza di noi?” mi chiedono, preoccupati ma allo stesso tempo – dato che la visione di un mondo sereno e sinceramente sano è davvero seducente – affascinati. Forse sarebbe un mondo con un po’ meno di noi: la natura non tollera a lungo gli squilibri. Ma nel cordoglio per i nostri cari e l’allarme per lo stato


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precario della nostra abnorme e spropositata civiltà, ci sarebbero delle ricompense: aria più pura, più quiete, e segni sorprendenti di una bellezza recuperata. Se lasciamo che un po’ di natura ritorni al posto giusto – dovunque, intorno a noi – la vita dopo il coronavirus potrebbe rivelarsi più degna di essere vissuta.

A deserted Venetian lagoon (above) compared with the same image shot one year before from an ESA satellite. Una laguna di Venezia deserta (sopra) a confronto con la stessa immagine scattata un anno prima da un satellite dell’ESA.

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Bergamo, vista verso viale Vittorio Emanuele II da Porta San Giacomo

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Giacomo Albo

Lockdown Bergamo Se la Lombardia è stata l’epicentro dell’epidemia in Italia, Bergamo è la città lombarda che più ha sofferto. Il racconto fotografico di Giacomo Albo, condotto in aprile, “il più crudele dei mesi”, si è sviluppato dal perimetro, dalle porte, per concludersi alla sommità, nell’edificato storico di città alta, mantenendo costante la narrazione tra l’edificio e lo spazio urbano Where Lombardy has been the epicentre of the epidemic in Italy, Bergamo has been the city in the region that has suffered the most. Giacomo Albo’s photographic tale, shot in April, “the cruellest month”, started from the city boundaries, going through the doors, to end on top in the historical “città alta”. The narration has been kept between buildings and urban area [ 72 ]

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1. L’arrivo da ovest alla città e l’imbocco della tangenziale 2. Via Briantea, SP 342 3. Parcheggi vuoti in viale Wolfgang Goethe 4. Viale Giulio Cesare, ingresso Gewiss Stadium 5. cantieri deserti in via G. David

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1. Quadriportico del ‘sentierone’ 2. Propilei di Porta Nuova e corso Papa Giovanni XXIII 3. Il ‘sentierone’ 4. Largo Cinque Vie, piazza Pontida 5. Cimitero monumentale

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1. Viale Papa Giovanni XXIII e via Paleocapa 2. Rotonda dei Mille 3. Via Francesco Petrarca 4. Palazzo Medolago Albani 5. Viale delle mura

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1. la piazza vecchia di Bergamo alta 2. Piazza Duomo, passeggiata Ca’ Longa 3. Porta Torre della Campanella 4. Via Gombito

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Ben van Berkel Essential Futures Human health and climate concerns are both part of the same issue and we must face them with a preventivate, resilient, decentralised and tech-assisted design for the next buildings and cities

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It is not possible for anybody to accurately predict the totality of the effects that the recent Corona virus pandemic will have on humanity, other than to imagine that it will be far reaching and could potentially change our lives in multiple and profound ways. This is made more complex by differences in attitudes that may occur immediately after the worst has passed, and those that will persist further into the future. We can imagine, for example, that immediately following this Corona virus outbreak, many people will experience an unconscious fear or wariness of physical contact or proximity, and will question the safety of previously accepted group behaviours and the places in which our daily activities take place. During this immediate period, catering for social distancing requirements will be the most significant challenge for our cities, buildings and public transportation systems. In the longer term, however, architects, designers and city planners have an essential contribution to make in helping to shape a healthier future for our cities and their inhabitants. That said, there are two things I believe we have to be especially careful of: we must always be cautious of creating new, long-lasting regulations and policies during a time of extremes and, we must understand that situations are very different in developing countries – those that don’t have the critical infrastructures that we have in place – and where inequality is more extreme. Beyond that, when designing for a world after Covid-19, I believe there are four essential points that need to be considered: 1. We need to design with prevention in mind, so that our cities and buildings are better


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equipped to protect us from such threats in the future. 2. We need to make our cities more resilient to such threats, so that they can recover quickly. 3. While many solutions may point to decentralising urban systems to a local level, we need global information flows and responses to worldwide threats. 4. We need to embrace the careful and intelligent integration of technology into the built environment. Principally - as has been the case with pandemics throughout history - the Corona virus has revealed our weaknesses and thus, what we need to fortify for the future.

At UNStudio, our Futures Team has been investigating themes that we believe are going to be important in the post-Corona era, and has been looking at possible future scenarios in various sectors, such as housing, work, mobility, retail, culture etc. We are seeing that people are being reminded of what is essential in their lives, such as food, housing, work and health. As such, we are asking which are the essential services, systems, and infrastructures that we must sustain? What must we adapt and what must we completely transform, so that our cities and buildings are better equipped in the years ahead? I believe that preventative, resilient, decentralised and tech-assisted design will become more

important. Not merely in terms of human health, but also in relation to ongoing climate concerns. We will soon see that these two things cannot be understood separately, but instead need to be approached as integrated human-economicenvironmental systems. The Corona virus pandemic has radically overwhelmed us, but we should also see this as a stark warning for the potentially catastrophic effects of climate change – almost as a cautioning for what is to come if we do not take preventative measures to protect the planet. It is therefore imperative that we continue our efforts with this and do not allow the current human crisis to deflect attention away from the bigger, holistic picture.

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Ben van Berkel

Futuri essenziali Salute e cambiamento climatico sono due aspetti della stessa questione e vanno affrontati insieme, progettando edifici capaci di prevenire futuri shock e città resilienti, decentralizzate e assistite dalla tecnologia

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Nessuno oggi è in grado di prevedere con precisione tutti gli effetti che la pandemia di Coronavirus avrà sull’umanità. Possiamo solo immaginare che saranno effetti di vasta portata che per molti versi potranno cambiare profondamente la nostra vita. Tra l’altro dobbiamo saper distinguere tra gli atteggiamenti che assumeremo a breve, subito dopo che il peggio sarà passato, e quelli che manterremo a lungo anche in futuro. È facile supporre, ad esempio, che subito dopo la fine di questo periodo di lockdown molti proveranno una paura inconscia o quantomeno una diffidenza verso il contatto fisico o la prossimità con gli altri, interrogandosi sulla sicurezza dei comportamenti di gruppo che eravamo abituati a tenere e dei luoghi dove svolgiamo le nostre attività quotidiane. Per l’immediato futuro dunque la sfida più importante per le città, gli edifici e il trasporto pubblico sarà quella di soddisfare le esigenze di distanziamento fisico. Più a lungo termine, tuttavia, architetti, designer e urbanisti devono dare un contributo essenziale per aiutare a dare forma a un futuro più sano per le nostre città e i loro abitanti. Detto questo, ci sono due cose a cui credo dovremmo prestare particolare attenzione: da una parte occorre molta cautela, anche in momenti di emergenza, nell’introdurre politiche e regolamenti che rischiano di diventare duraturi, e dall’altra comprendere che le circostanze sono ben diverse nei Paesi in via di sviluppo – privi delle nostre infrastrutture critiche – dove la disuguaglianza è più forte. Fatte queste premesse, credo che per progettare in un mondo post Covid-19 siano quattro gli aspetti fondamentali da considerare: 1. dobbiamo progettare avendo ben in mente

la prevenzione, in modo che edifici, città e infrastrutture siano meglio equipaggiati per proteggerci da simili minacce in futuro; 2. dobbiamo rendere le città più resilienti, in modo che terminata l’emergenza possano


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riprendersi rapidamente; 3. sebbene molte soluzioni puntino a decentralizzare i sistemi urbani a un livello locale, ci occorrono flussi di informazione globali e capacità di rispondere a pericoli che sono globali; 4. contemplare l’integrazione attenta e intelligente della tecnologia nell’ambiente costruito. Come è avvenuto per tutte le pandemie nel corso della storia, Covid-19 ha rivelato i nostri punti deboli e quindi ciò che dobbiamo rafforzare per il futuro. In UNStudio, il nostro Futures Team ha studiato temi che crediamo saranno importanti nell’era post-coronavirus e sta esaminando diversi possibili scenari futuri in vari settori, nel residenziale, nel lavoro, nella mobilità, nel retail, negli spazi culturali. Notiamo una crescente attenzione verso ciò che conta realmente: alimentazione, casa, lavoro, salute e ci domandiamo quali siano i servizi, i sistemi e le infrastrutture essenziali da sostenere. Cosa sia necessario adattare e cosa invece dovrebbe essere trasformato completamente

per fare in modo che edifici e città siano meglio attrezzati per gli anni a venire. Sono convinto che acquisterà importanza una progettazione preventiva, resiliente, decentralizzata e assistita dalla tecnologia. Non solo in termini di salute e sanità ma anche in relazione alle preoccupazioni riguardanti il cambiamento climatico. Presto ci renderemo conto che questi due aspetti – la salute e l’ambiente – non possono essere compresi separatamente ma devono essere affrontati come parti di uno stesso sistema sociale, economico e ambientale. Questa pandemia ci ha sconvolto radicalmente, ma dovremmo anche considerarla come un chiaro avvertimento degli effetti potenzialmente catastrofici del cambiamento climatico: quasi un ultimo avviso di ciò che avverrà se non prendiamo misure preventive per proteggere il pianeta. Perciò è indispensabile proseguire nei nostri sforzi in questa direzione evitando che questa crisi possa distogliere la nostra attenzione dal più ampio quadro complessivo.

In questa pagina: IJbaan, funivia urbana lunga un chilometro e mezzo progettata per il 2025, in occasione del 750esimo anniversario della fondazione di Amsterdam. Per consentire il passaggio delle grandi navi i pilastri hanno altezze che variano da 46 a 105 metri. Alla pagina precedente: Brainport Smart District, un nuovo concetto di pianificazione urbana per Helmond (presso Eindhoven) con aree residenziali organizzate attorno a un parco centrale circondato da spazi di lavoro e riserve naturali (immagini ©Plompmozes, courtesy UNStudio). IJbaan, project of a 1.5 kilometers cable car for Amsterdam’s 750th anniversary in 2025, with towers varying in height, from 46 to 105 meters. Previous page: Brandevoort District in Helmond, a mixed residential neighbourhood organised around a central park and surroundend by business spaces and natural reserves (images ©Plompmozes, courtesy UNStudio).

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Maurizio Carta Futuro postpandemico La città è stata l’innesco della pandemia virale, la città deve essere antidoto e anticorpo di una necessaria ecologia radicale. È venuta l’ora del salto dalla città del Novecento alla città del XXI secolo, la città del Neoantropocene

In giorni infettati dal Coronavirus e in quarantena per proteggerci, in giorni passati computando le drammatiche conseguenze sull’economia, molti non vedono l’ora che la crisi passi perché tutto torni come prima. Io no! Io non voglio che tutto torni come prima, perché è quello che facevamo prima che ha generato la pandemia, perché sono stati i nostri comportamenti predatori a cacciare il virus dal suo ambiente naturale, offrendogli una nuova specie da infettare: noi. Il riscaldamento

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globale, le variazioni di pioggia e umidità e la vorace espansione urbana hanno cambiato le interazioni tra le diverse componenti biologiche e quando le nicchie ecologiche si spalancano i virus colonizzano un nuovo essere (noi) comportandosi inizialmente in modo molto aggressivo (D. Quammen, Spillover. L’evoluzione delle pandemie, Milano, Adelphi, 2014). Dobbiamo, invece, saper usare la crisi come una metamorfosi di tutto quello che abbiamo sbagliato, a partire dalle città, il nostro habitat. Da urbanista sono convinto che serva, infatti, una riflessione competente e di sistema per imparare dalla crisi, per capire come rivoluzionare i nostri comportamenti postpandemici e come evitare – o mitigare – nuovi casi simili (ci saranno, inutile illudersi). Significa capire in che modo debba cambiare il nostro modello di sviluppo e il nostro stesso modo di abitare il pianeta, come scrivo nel mio libro “Futuro. Politiche per un diverso presente” (Rubbettino, 2019), per sfuggire ad un fato che ci sorprenda con le sue drammatiche epifanie – come l’apparizione annunciata del Coronavirus – adottando invece un atteggiamento proattivo che ci consenta di progettare il futuro. Da progettisti – da futuredesigner come mi piace dire – dobbiamo già cominciare a pensare al post-pandemia, abbiamo l’obbligo di ripensare radicalmente – e rapidamente – il modello urbano, accelerandone la sua metamorfosi verso una resilienza strutturale. Come uscire dalla crisi ambientale planetaria (che è anche sanitaria, sociale ed economica, come stiamo vedendo in questi giorni drammatici)? La risposta deve essere un nuovo approccio responsabile e militante non solo per ridurre l’impronta ecologica delle attività umane, ma per utilizzare la nostra intelligenza

a servizio della sensibilità nei confronti dell’ambiente, delle persone e del patrimonio culturale, ma soprattutto per aggiornare l’idea delle città come luoghi privilegiati della salute pubblica, come è stato alla nascita dell’urbanistica moderna alimentata dalla matrice sanitaria: pensiamo ai piani di Londra e Barcellona studiati proprio per contrastare le epidemie. Significa tornare – come abbiamo sempre fatto storicamente in Italia – a progettare città compatte ma porose alla natura, con un più adeguato metabolismo circolare dell’acqua, del cibo, dell’energia, della natura, dei rifiuti, delle persone e dei servizi. Significa rendere resilienti i luoghi e le reti della salute pubblica come indispensabili diritti alla città. Sono le città che chiamo Augmented Cities, capaci cioè di amplificare la vita comunitaria senza divorare suolo, identità, energia: città più senzienti per capire prima e meglio i problemi, più creative per trovare risposte nuove, più intelligenti per ridurre i costi, più resilienti per adattarsi ai cambiamenti, produttive per tornare a generare benessere, più collaborative per coinvolgere tutti nella loro evoluzione e più circolari per ridurre gli sprechi ed eliminare gli scarti. (M. Carta, Augmented City. A Paradigm Shift, ListLab, 2017). Sono le città dell’urbanistica circolare, capace di progettare e rigenerare città, territori e paesaggi riattivando i loro naturali metabolismi, lavorando sugli scarti, progettando il riciclo e contrastando l’obsolescenza programmata delle città dell’Antropocene predatorio. Anche i nostri modi di abitare dovranno essere aumentati, generando nuove forme di comunità resilienti. Nel concreto, alla rigida separazione – figlia invecchiata male del Movimento Moderno – dei luoghi dell’abitare, del lavorare,


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del divertirsi o del produrre dobbiamo sostituire un progetto urbanistico prima, e architettonico dopo, di luoghi circolari – come le barriere coralline – che, aiutati dall’innovazione tecnologica e digitale, possano accogliere funzioni temporanee e multiple entro un ciclo che guardi all’arco della giornata o dell’anno nella distribuzione delle funzioni, nell’attrazione di usi ad elevata carica di innovazione, nel rifugio di cittadinanze in difficoltà. Non più luoghi rigidi con una lunga inerzia all’accoglienza di nuove funzioni, ma luoghi flessibili, mutaforma in poco tempo per adattarsi alle esigenze sempre più fluide delle città postpandemiche. Cambieranno le nostre case e le scuole dopo aver scoperto nuove funzioni da contenere o da eliminare. Soprattutto, non più l’elencale presenza di case, scuole, uffici, piazze, strade, parchi, ospedali, teatri, ma un fertile bricolage di luoghi che, quando serve, siano insieme case, scuole, uffici, piazze, parchi, teatri, librerie, musei, luoghi di cura, interpretando più ruoli ciclici. Soprattutto, la più potente innovazione delle città aumentate postpandemiche sarà quella

di recuperare la diversità dei loro quartieri che, smettendo di essere fragili periferie, tornino ad essere luoghi di vite e non solo di abitazioni, colmando il divario educativo, lavorativo, culturale, digitale, dotandosi di micro-presìdi di salute pubblica e di comunità energetiche autosufficienti. Dobbiamo ridurre la forsennata mobilità centripeta del modello urbano “malato”, agevolando una mobilità più misurata e garantendo la risposta a molti bisogni entro un raggio di 15 minuti a piedi (lo stanno già facendo Parigi e Milano). Servirà quindi estendere lo spazio domestico progettando una fascia urbana che ampli quegli spazi intermedi che consentano una vita di relazioni in sicurezza: allargare i marciapiedi e prevedere pedonalizzazioni temporanee per estendere gli spazi per il gioco e l’attività fisica dei bambini, realizzare nuovi interventi di urbanistica tattica per la collocazione di sedute anche per i bar e i ristoranti che dovranno garantire il distanziamento. Portare il teatro e il cinema nello spazio pubblico, riutilizzare edifici dismessi per accogliere funzioni condivise. Una sorta di zona cuscinetto che dia forma

a quel concetto di “nei pressi della propria abitazione” che ha caratterizzato la quarantena e che potrebbe diventare un progetto di città, riempiendo questi pressi di orti, di attività produttive e di spazi per una vita relazionale sicura perché distribuita. Quando torneremo nelle piazze, nelle scuole, nelle università, nei luoghi della cultura e del lavoro, non dimentichiamo la lezione di questa sospensione forzata della nostra “urbanità”, non dimentichiamo la dolorosa nostalgia per lo spazio urbano, non dimentichiamo la nostra responsabilità nell’apertura dei vasi di Pandora degli ecosistemi naturali devastati. La nostra società postpandemica, dopo aver sconfitto il suo microscopico ma potente nemico, tornerà più forte grazie alla resilienza che avremo imparato a esercitare in questi giorni drammatici e che sapremo trasferire nel progetto delle città pandemic proof. La città è stata l’innesco della pandemia virale, la città deve essere antidoto e anticorpo di una necessaria ecologia radicale. Ma è venuta l’ora del salto dalla città del Novecento alla città del XXI secolo, alla città del Neoantropocene.

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Maurizio Carta

Post-pandemic Future Cities have activated this viral pandemic and cities will be the antidote and antibodies for a necessary radical ecology. The time has come to jump from the 1900s city to the XXI century, the city of the Neo Anthropocene

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In days infected with Coronavirus, quarantined to protect ourselves, in days we spend calculating the dramatic consequences on the economy, most people can’t wait for the crisis to pass and for everything to go back to normal. Not me! I don’t want everything to go back to usual, because what we usually do is what has generated the pandemic - it’s our predatory behaviours that have hunted the virus away from its natural environment and offered it a new species to infect: us. Global warming, changes in rain and humidity, and insatiable urban expansion have changed the interactions between biological components, and when ecological niches open up, viruses colonise a new being (us) behaving aggressively to begin with (D. Quammen, Spillover. L’evoluzione delle pandemie, Milano, Adelphi, 2014). We have to learn, instead, to use the crisis as a metamorphosis of everything we’ve done wrong, starting from the cities, our habitat. As town planner, I am convinced that expert consideration is required to learn from the crisis, to understand how to revolutionise our post-pandemic behaviours, to avoid - or mitigate - new similar cases (there will be, let’s not delude ourselves). It means understanding how the world needs to change our development model and the way that we live on the planet - as I write in my book “Future. Policies for a different present” (“Futuro. Politiche per un diverso presente” - Rubbettino, 2019). We need to do this to escape a future that surprises us with its dramatic epiphanies (such as the announced apparition of the coronavirus), adopting a proactive behaviour that would allow us to design the future. As designers - futuredesigners, as I like to say - we have to start thinking about the

post-pandemic, we must radically and rapidly rethink the urban model, speeding up its metamorphosis towards a structural resilience. How to exit the worldwide environmental crisis (which is also a crisis of healthcare, society and economy as we are seeing during these dramatic times)? The answer has to be a new approach, responsible and militant - not just to reduce the ecological footprint of the human activities, but also to use our intelligence to serve environment, people, cultural heritage; above all, to update the idea of cities as places where public healthcare is favoured (as it was when modern city planning was born and used to feed off the health matrix): just think about the plans of London and Barcelona made to contrast epidemics. It means going back to designing cities that are compact but also absorbent of nature, with a metabolism appropriate to the circulation of water, food, energy, nature, waste, people and services. It means making places and the coverage of public healthcare resilient and indispensable to the city. These are what I call Augmented Cities, able to amplify community life without devouring ground, identity, energy: cities that feel more, to understand problems sooner and better; cities that are more creative, to find new answers; more intelligent, to cut costs; more resilient, to adapt to change; more productive, to go back to generating wellness; more collaborative, to involve everyone in their evolution; and more circular to reduce and eliminate waste. (M. Carta, Augmented City. A Paradigm Shift, ListLab, 2017). These are the cities of the circular city planning, able to design and regenerate themselves, areas and landscapes by reactivating their natural metabolisms, working on waste, planning the recycling, and contrasting the


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planned obsolescence of cities of the predatory Anthropocene. Our ways of living also have to grow, generating new types of resilient communities. In practice, we have to swap out the strict separation of the places for living, working, producing or having fun for a design (urban first, then architectural) of circular places that, like coral reefs and improved by the technological and digital innovation, could host multiple and temporary functions. Functions that span from attraction of uses with a high charge of innovation to being shelter for impoverished people. No longer stiff places, passive to welcoming new functions: flexible places, able to change shape in a short time to adapt to the fluid needs of the post-pandemic cities. After having discovered new functions (to contain or to get rid of), our homes and schools will change. It won’t be anymore a list of houses, schools, offices, piazzas, roads, parks, hospitals, theatres; but a prolific mix of places that, when needed, can be homes, schools, offices, piazzas, theatres, bookshops, museums, treatment centres, taking on cyclic roles. The most powerful innovation of the post-

pandemic augmented cities will especially be retrieving the diversity of the neighbourhoods that, ceasing to be frail outskirts, will go back to being places of life, not only houses; they will bridge the education, work, culture, digital gaps - building mini-healthcare devices and auto-sufficient energy communities. We have to reduce the frantic centripetal mobility of the “sick” urban model, easing a more measured mobility and granting an answer to various needs in the radius of a 15 minutes walk (as Paris and Milan are already doing). The domestic area will have to be extended by designing an urban district with bigger intermediate spaces that allow safety distances: building bigger sidewalks, and foreseeing temporary pedestrianisation to extend playgrounds, to allow larger distance among tables of restaurants and cafes that will have to guarantee social distancing, to bring theatre and cinema into the public space, to repurpose neglected buildings and to welcome shared functions. A sort of pillow-area that shapes that concept of “around the corner from home” that has been characteristic of quarantine and that could be a plan for cities, filling these

close-to-home spaces with vegetable gardens, with productive activities and with spaces for a relational life that will be safer because of its arrangement. When we will go back to piazzas, schools, universities, places of culture and work, let’s not forget the lesson that this forced suspension of our “urbanism” has taught us, let’s not forget the painful nostalgia for urban spaces, let’s not forget our responsibility in opening Pandora’s boxes and devastating natural ecosystems. Our society will come back stronger after having defeated its microscopic but powerful enemy - thanks to the resilience that we will have learned to exercise at this dramatic time, and that we will be able to transfer to pandemic proof cities. Cities have activated this viral pandemic, so cities have to be the antidote and antibodies for a necessary radical ecology. The time has come to jump from the 1900s city to the XXI century, the city of the Neo Anthropocene.

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Paolo Caputo Milano il giorno dopo Milan the Day After

Milano ha sempre mostrato una grande capacità di rigenerarsi e ripensarsi e presto tornerà ad essere il ‘place to be’

Negli ultimi due mesi ho trovato Milano straordinariamente bella. Le strade deserte davano alla città un affascinante effetto metafisico e surreale. Tuttavia sono luoghi che, come autore di spazi, sono portato a immaginare abitati. Io amo la città che corre, si affretta, vive notte e giorno, in connessione perenne con tutti

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gli angoli della terra e Milano era diventata così, un sistema meraviglioso che pulsava all’unisono: dai Navigli a Porta Nuova, uno stesso circuito di frequentazioni e idee. L’appuntamento di Expo nel 2015 era stato fondamentale nel richiamare l’attenzione di elite e masse verso la città e i musei, la cultura, il design e la moda avevano fatto il resto. La città era diventata quel “place to be” che credo reciti ancora, anche se forse con minore convinzione, un’affissione lungo la strada che porta all’aeroporto di Linate. Ma Milano ha sempre mostrato la sua capacità di rigenerarsi e ripensarsi. Come dopo l’altro brusco stop, quello di Mani Pulite. Nel 1992 ero presidente della sezione lombarda dell’Istituto Nazionale di Architettura e ho vissuto quella sofferenza anche da un punto di vista istituzionale. Oggi, parlando di architettura e di urbanistica, qualcosa andrà ripensato ma a mio giudizio senza svolte radicali o soluzioni drastiche. Anche riguardo al progetto dello spazio, la pandemia ha indotto un’accelerazione di processi che erano in corso. Era già in atto ad esempio una concatenazione di carattere

funzionale, una dissolvenza tra dimensione pubblica e privata, con gli spazi residenziali che diventano luoghi di rappresentanza e gli ambienti di lavoro che includono angoli domestici. Sto lavorando per Covivio in via Dante a un edificio di ultima generazione in ambito co-working, con interni ritagliati come fossero aree della casa. La tendenza è quella di trasmettere una dimensione intima e familiare: niente più ambienti freddi nella visione fordista dell’open space, legata a ottimizzanti modelli organizzativi. L’isolamento forzato in casa poi ha rivalutato l’importanza della vivibilità dello spazio residenziale. Tutt’a un tratto la casa è diventata il luogo abitato da tutta la famiglia per tutta la giornata, mentre l’improvvisa perdita di possibilità di contatto con lo spazio esterno, prima così ovvia, ci ha fatto sentire la mancanza di spazi ibridi nelle abitazioni, dove poter vivere allo stesso tempo indoor e outdoor. E poiché molti aspetti che abbiamo sperimentato – come il lavoro o la formazione a distanza – rimarranno, credo che come architetti dovremo lavorare molto soprattutto su nuovi concetti dell’abitare.


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Pei Cobb Freed & Partners, Caputo Partnership International, Palazzo Lombardia, 2006. La piazza coperta (foto ©Fernando Guerra). Pei Cobb Freed & Partners, Caputo Partnership International, Palazzo Lombardia, 2006. The covered square (ph. ©Fernando Guerra).

Milano has always shown its ability to regenerate and rethink itself and soon it will turn to be the ‘place to be’

In the past two months I found an extraordinarily beautiful Milan. The deserted streets gave the city a fascinating metaphysical and surreal effect. However, as an architect, I’m accustomed to think at inhabited places and spaces. I love the vibrancy of a city running and hurrying day and night, constantly connected

to everywhere on earth. Before the pandemics Milan had become like this, a wonderful simultaneously pulsating system: from Navigli to Porta Nuova, the same loop of meeting and ideas. 2015 Milan Expo had been a milestone in attracting the attention of elites and masses towards the city. Then museums, culture, design and fashion did the rest. The city had become that “place to be” as I believe still says - although perhaps with less conviction - a billboard along the road leading to Linate airport. But Milan has always shown its ability to regenerate and rethink itself. As it happened after another abrupt halt, that of ‘Mani Pulite’. In 1992 I was president of the Lombard section of the National Institute of Architecture In/ Arch and I experienced that suffering also from an institutional point of view. Today, speaking about architecture and urban planning, something will have to be rethought but in my opinion without radical changes or drastic solutions. Also regarding architectural space design pandemic led to an acceleration of processes that were already underway. For example, a

functional linkage was already taking place, a blurring of distinction between the public and private dimensions, with residential spaces becoming representative places and work environments that include domestic corners. I am working for Covivio in via Dante on a latest generation building in the co-working area, with interiors cut out as if they were residential living spaces. The trend is to convey an intimate and familiar dimension: no more cold environments typical of the Fordist vision of the open space, linked to optimizing organizational models. Forced insulation at home reassessed the importance of the livability of the residential space. All of a sudden the house became the place inhabited by the whole family for the whole day, while the sudden loss of possibility of contact with the external space, previously so obvious, made us feel the lack of hybrid spaces in our houses, spaces where you can live indoors and outdoors at the same time. And since many aspects that we have experienced such as work from remote or distance learning - will remain, I believe that as architects we will have to work especially on new concepts of living.

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Michael Pawlyn Designing with Nature Now that we are in a period of dramatic change – arguably unparalleled since the end of the Second World War – it is worth asking ourselves one fundamental question about how we want to reshape our future

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The pandemic is already bringing into focus many things we previously thought of as normal and which now appear absurd. What kind of society would create cities in a way that reduces its inhabitants’ average lifespan, that produces high levels of asthma and largely eliminates children’s freedom to play safely outside? When we hear of ancient civilisations that offered human sacrifices to the Gods we are inclined to regard that as morally deficient and yet we have tolerated far greater numbers of human lives being sacrificed in order to maintain the freedom to drive vehicles. Who in their right mind would design a food system that gives the population only half the mineral content that their grandparent’s generation enjoyed? What kind of national leader declines to take meaningful action on a threat like climate change that endangers hundreds of millions of human lives? However, much economists argue that the rules of the market are inviolable, the fact remains that our economies were designed and can be redesigned. The same goes for all the legislation and government policies ever written. Now that we are in a period of dramatic change – arguably unparalleled since the end of the Second World War – it is worth asking ourselves one fundamental question about how we want to reshape our future. What if we were to design the world for optimum health for all species for all time? The following is a short selection of the changes this would lead to – many of which were regarded as unthinkable only a month ago: - We shift from a mindset of sustainable design to one of regenerative design. This would mark a significant turning point in human civilization – the point at which we

shifted from having a mitigated negative impact to having a positive impact. The discipline of biomimicry – too often regarded as an aesthetic – will be one of the best sources of ideas to design within planetary limits; - We restore nature on a massive scale through rewilding and prohibit the large-scale destruction of ecosystems through a new Law of Ecocide as proposed by the late Polly Higgins (1968-2019); - We make a dramatic shift towards walking, cycling and public transport as the primary means of travel. This would deliver the largest gains in public health in a generation and would mean that we don’t need any new roads in developed countries (the ones we have are more than enough to provide all the mobility we need); - We embark on a mass retrofit campaign to upgrade cold, draughty, energy-wasteful buildings. This will assist in the post-Covid-19 economic recovery, radically reduce our carbon emissions and address fuel poverty; - We commence an emergency plan to decarbonise our economies by 2030 through mass deployment of renewables and radical increases in energy efficiency in all sectors. All of these design moves would massively improve our wellbeing. The pandemic has shown us that our health is inseparable from broader planetary health. If we continue to disrupt and destroy ecosystems we will experience pandemics and associated economic carnage more frequently. Our best hope for a positive future lies in seeing nature as a web of life support systems within which we need to integrate our civilisation as seamlessly as possible.


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Michael Pawlyn

Progettare secondo natura Stiamo attraversando un periodo drammatico di cambiamento – probabilmente il peggiore dalla fine della Seconda Guerra Mondiale – e pertanto è il caso di porsi una domanda fondamentale su come vogliamo rimodellare il nostro futuro

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La pandemia sta portando al centro della nostra attenzione una moltitudine di cose che prima ritenevamo normali ma che ora ci sembrano assurde. Quale tipo di società potrebbe mai concepire città che riducono la durata media della vita dei suoi abitanti, producono innumerevoli casi di asma e limitano la libertà dei bambini di giocare in sicurezza all’aperto? Quando sentiamo parlare di antiche civiltà che offrivano sacrifici umani agli dei le giudichiamo moralmente sbagliate, tuttavia abbiamo tollerato un sacrificio di vite umane molto più grande pur di poter guidare liberamente dei veicoli. Chi nella propria mente progetterebbe mai un sistema alimentare che metta nei piatti solo la metà delle proprietà nutritive di cui godevano i nostri nonni? Quale capo di Stato si rifiuterebbe di intraprendere azioni significative di fronte alla minaccia che il cambiamento climatico rappresenta per centinaia di milioni di vite umane? Anche se a parere di molti economisti le regole del mercato sono inviolabili, resta il fatto che se sono state progettate, le nostre economie possono anche essere ripensate. Lo stesso vale per tutta la legislazione e le politiche governative. Stiamo attraversando un periodo drammatico di cambiamento – probabilmente il peggiore dalla fine della Seconda Guerra Mondiale – e pertanto vale la pena di porsi una domanda fondamentale su come vogliamo rimodellare il nostro futuro: perché non progettare un mondo che assicuri sempre ad ogni specie e in ogni tempo la migliore salute possibile? Ecco una breve selezione delle trasformazioni che ci porterebbero al cambiamento, molte di esse impensabili solo un mese fa: – Passare dall’idea di design sostenibile a quella di design rigenerativo. Questo segnerebbe

una svolta significativa nella civiltà umana – sancirebbe il punto in cui potremmo passare dal mitigare un impatto negativo ad avere un impatto positivo sull’ambiente. La disciplina della biomimicry (biomimesi, imitare la natura) troppo spesso considerata un mero valore estetico, sarà una delle più copiose fonti di idee per progettare nel rispetto dei limiti allo sviluppo su questo pianeta; – Ripristinare la natura su vasta scala, attraverso la rinaturalizzazione e vietando, con una nuova legge sull’ecocidio, la distruzione su larga scala degli ecosistemi, come proposto da Polly Higgins (1968-2019); – Fare della bicicletta, dei trasporti pubblici e del camminare i nostri principali mezzi di trasporto. Sarebbe il più grande beneifcio in termini di salute pubblica nel giro di una generazione e nei Paesi già sviluppati non avremmo alcun bisogno di nuove strade (quelle che abbiamo sono più che sufficienti); – Intraprendere una campagna di trasformazione di massa per riqualificare edifici obsoleti e dispendiosi in termini energetici. Questo contribuirebbe alla ripresa economica post-Covid-19, ridurrebbe radicalmente le nostre emissioni di CO2 e farebbe fronte alla crisi di combustibili; – Avviare un piano di emergenza per decarbonizzare le nostre economie entro il 2030 attraverso l’impiego di massa di energie rinnovabili e radicali miglioramenti dell’efficienza energetica in tutti i settori. Tutte queste azioni progettuali migliorerebbero enormemente il nostro benessere e la nostra salute, che la pandemia ci ha mostrato essere inseparabile da quella più ampia del nostro pianeta. Se continuiamo a deturpare


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e distruggere gli ecosistemi, sperimenteremo più frequentemente pandemie come questa e i conseguenti disastri economici. La nostra migliore speranza per un futuro positivo sta nel considerare la natura come una rete di sistemi di supporto alla vita, all’interno della quale dobbiamo integrare la nostra civiltà nel modo più chiaro e fluido possibile.

Previous page: a composition made with a background image by Kafai Liu (from Unsplash) and a projected text by Exploration Architecture. Alla pagina precedente: una composizione creata da Exploratorium Architecture su un’immagine di sfondo di Kafai Liu (da Unsplash).

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Angelo Costa Nuovo Umanesimo e città Solo un Nuovo Umanesimo potrà supportarci in questo frangente storico. Solo questo approccio umanistico saprà essere l’infrastruttura sulla quale convogliare positivamente la forza dell’impatto della tecnologia

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Quale sarà il mondo in cui vogliamo vivere e prosperare? I macro-trend erano già da tempo definiti: geopolitica mondiale; telecomunicazioni ultraveloci; intelligenza artificiale; e i cambiamenti climatici. Oggi l’umanità ha ricevuto un bel calcio verso uno sconosciuto domani. E la domanda principale, a mio modo di vedere, è: quale impatto avrà questa nuova condizione sulla città e sul nostro modo di essere cittadini? Due main driver guideranno questo processo: la salute pubblica, migliorando il livello di igiene, pulizia e manutenzione degli edifici, e una minore propensione alla mobilità fisica, indotta dalle nuove tecnologie con cui tutti stiamo imparando a convivere. Il mondo dovrà trovare un altro equilibrio tra qualità di vita, urbanizzazione, densità e sostenibilità del modello, da un punto di vista sia economico che ambientale. Siamo sempre più inhabitants e la città è l’unico modello di vita sociale e di aggregazione possibile sia a livello umano che economico e forse anche ambientale. È il rapporto casa-lavoro che diventa il fulcro del nuovo modo di pensare le città. I modelli ci sono. Il Palazzo Romano, Il Castello, Le Cascine, etc: il lavoro stava a casa. Fino ad oggi abbiamo vissuto con l’obbligo di spostarci e in poche settimane, un virus sconosciuto ci ha insegnato che potevamo farne ampiamente a meno, accelerando brutalmente un processo di digitalizzazione del lavoro che era già in corso. La necessità di igiene da garantire comporterà maggiori costi di manutenzione e di trasformazione che, insieme al costo del real estate e al minore ricorso agli spostamenti, porterà a una naturale ottimizzazione degli

uffici sicuramente in nuove e più avanzate forme di co-working. Le grandi multinazionali potranno organizzarsi meglio senza investire in grandi e costose sedi bensì in network capillari e neighbor friendly di spazi multiuso adeguati sia per la comunità durante il night time sia per il lavoro in daytime. Uffici piccoli, multi department, iper-connessi e disseminati sul territorio, vicino ai luoghi di residenza, aperti 24h/365 dove le persone potranno fare esperienze di relazioni ancora più interessanti. Quindi, il rapporto fisico non sarà più quello di casa-ufficio, ma evolverà verso il più efficiente, sicuro, rilassante, economico, sostenibile, sociale: casa-zona lavoro in casacondominio-coworking di quartiere-ufficio Hq–virtual office. Cambieranno le nostre abitazioni? Evolveranno. Sarà forse la fine del grattacielo? Gli spazi aperti verdi pubblici, condominiali e privati avranno un grande sviluppo nelle città di domani. Essi sono già da tempo una esigenza essenziale e lo saranno sempre di più integrando spazi per il gioco, per piccoli orti, ozio, attività sportiva e tanto altro. Il senso psicologico di benessere e di purezza è fondamentale così come la necessità di avere percorsi sicuri per la mobilità personale. Sarà importante l’attività di noi architetti nell’impostare i prossimi progetti, nel definire standard qualitativi e progettuali più elevati, nell’immaginare e guidare i nuovi trend che ci faranno vivere in un modo più sicuro, sereno, piacevole e bello. Ma parte dell’impegno spetta anche al legislatore nell’accettare che il paradigma è cambiato e che gli standard culturalmente nati negli anni ‘20 del Novecento non sono più attuali.


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E allora? Cambierà tutto? Dovremmo sbarazzarci di quanto fatto fino ad oggi? Sarà la morte dei nostri paesaggi urbani? Non penso affatto: l’umanità ha bisogno di legacy e vision. Le nostre città storiche, i nostri modelli già esistenti sono la base da cui partire. In chiave contemporanea e futura certamente, con nuovi standard e possibilità di intervento nell’esistente. Senza aumentare quello che abbiamo ma modificandolo, sostituendolo e sfruttandolo molto meglio. Come poter affrontare e definire questo percorso che andrà a scolpire le nostre abitudini, i nostri modelli economici di

sviluppo e sostenibilità, i nostri standard, il corpo normativo e tanto altro? Andiamo verso l’ignoto. Ci servono gli strumenti culturali e intellettuali per poter impostare il cambiamento con visione e lungimiranza nella sua prospettiva storica evolutiva; con le fondamenta dei nostri valori ben ancorate nel terreno solido e sano della coscienza del nostro ecosistema. Solo un Nuovo Umanesimo potrà supportarci in questo frangente storico. Solo questo approccio umanistico saprà essere l’infrastruttura sulla quale convogliare positivamente la forza dell’impatto della

Studio Costa Architecture, MAG Dubai Residentail City project, green court. Next page, MAG Dubai Healthcare City, Plaza (renders courtesy Studio Costa Architecture).

tecnologia. Oggi servono altri strumenti, nuovi e sconosciuti, per affrontare incognite che ci vengono dall’immensità della natura e dall’evoluzione dell’intelligenza artificiale. New Humanism. La Terra lo implora, l’Umanità lo sta chiedendo. La IA non può farne a meno.

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Angelo Costa

New Humanism and City Only a New Humanism principle will be able to support us in this historical situation. This humanistic approach will be the infrastructure through which we can positively convey the strength and impact of technology

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What is the kind of world that we want to live and thrive in? Macro-trends that defined the world of the near past have long been defined: world geopolitics; high-speed telecommunications; Artificial Intelligence; and the climate change. Today, humanity has received a rough jolt; we are now catapulted towards a ‘strange’ tomorrow. So the main question, in my view, is: what impact will this new condition have on our established models of the city and our behavior as citizens? Two main drivers will guide this process: public health - improving the level of hygiene, disinfection and maintenance of buildings, and a lower propensity to physical mobility driven by the new technologies with which everyone is learning to live. The world will have to achieve another balance of urbanization, density, quality of life and sustainability of the model, both from an economic and environmental point of view. The city is the only model of social life and provides aggregation on a human and economic level, and perhaps also of the environment. It is the ‘work from home’ concept that becomes central to this new way of thinking about cities. Interestingly, these models already exist. The Roman Palace, the Castle, the farmhouses, etc: the work was carried out at home. Until yesterday, we lived with the obligation to move and within just a few weeks, an unknown virus has taught us that we could do without commuting, brutally accelerating digitization of the workplace, a process that was already underway in many sectors. The need for hygiene to be guaranteed will entail higher maintenance and transformation costs which, together with the cost of real estate and less relocation, will lead to a natural

optimization of the offices, resulting in new and more advanced forms of co-working. The large multinationals will be able to organize themselves better without investing in large and expensive headquarters, but in capillary and neighbor friendly networks of multipurpose spaces, suitable for both the community during the night time and for work during the day. Small, multi-departmental offices, hyperconnected and scattered throughout the area, close to places of residence, open 24x7 for 365 days, where people can experience even more interesting relationships. So, the physical relationship will no longer be that of ‘home to office’, but will evolve towards the most efficient, safe, relaxing, economic, sustainable, social outcome: ‘home to office space at home to condominium to neighborhood


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co-working to Hq office to virtual office’. Will our homes change? They will evolve. Could it be the end of the skyscraper? The public, condominium and private green open spaces will expand greatly in the cities of tomorrow. For some time now they have been deemed essential and will increasingly be so by integrating spaces for play, leisure, sporting activities, for small community vegetable gardens and much more. The psychological sense of wellbeing and purity is fundamental as well as the need to have safe paths for personal mobility. It will be important for us architects to envision future projects, to define higher quality and design standards, to imagine and guide new trends that will enable a safer, more peaceful, pleasant and beautiful way of life. But part of the commitment is also up to the legislators in

accepting that the paradigm has changed and that the cultural standards founded in the 1920s are no longer current. So, will everything change? Should we get rid of what has been done so far? Will it be the death of our urban landscapes? I don’t think so at all; humanity needs legacy and vision. Our historic cities, our existing models are the basis from which to start. In a contemporary and future key, of course, with new standards and possibilities for intervention in the existing, without increasing what we have but modifying it, replacing it and using it better. How can we tackle and define this path that will sculpt our habits, our standards, our economic development and sustainability models, the regulatory body, and much more? Let us go into the unknown. We already possess the

cultural and intellectual tools to be able to plan this change, with vision and foresight in its evolutionary historical perspective and with the foundations of our values well anchored in the awareness of our ecosystem. Only a New Humanism principle will be able to support us in this historical situation. This humanistic approach will be the infrastructure through which we can positively convey the strength and impact of technology. We may need other tools, new and unknown, to deal with unknowns that come from the immensity of nature and the evolution of AI. But the fundamental guiding principle of humanism is here to stay. New Humanism - the Earth is craving it, Humanity is making an appeal for it and AI cannot stop it.

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Luigi Prestinenza Puglisi Il valore dello spazio Vivere compressi in case microscopiche e lavorare in uffici organizzati secondo l’idea della catena di montaggio, mi sembra mostruoso. La scoperta dell’importanza dello spazio, dell’aver spazio, cambierà le nostre abitudini

Non è facile prevedere il futuro. Anche perché coloro che sinora ci hanno provato, sono stati (quasi) sempre seccamente smentiti dai fatti. Solo qualche grande autore di fantascienza, per esempio Philip Dick, c’è riuscito e in parte. Non credo, inoltre, che molta della discussione sul prossimo futuro che oggi si svolge sui social o sulla stampa abbia a che vedere, in senso stretto, con il coronavirus. Immaginare che le città del futuro dovranno essere più ecologiche, più verdi o più umane era un sogno che avevamo da tempo e, comunque, da prima della pandemia. Quello che possiamo dire che la forzata

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quarantena di questi mesi ha messo in evidenza è un modo diverso di vedere lo spazio. E, soprattutto, di giudicare quello spazio che a un certo punto immaginavamo si potesse comprimere all’infinito. Pensateci: negli uffici siamo passati dalla stanzetta assegnata al singolo impiegato, all’open space collettivo, all’assenza della postazione fissa di lavoro. Cosa importa avere un tuo pezzo di scrivania, infatti, se ti puoi attaccare dovunque, in qualsiasi luogo con il tuo laptop? Tutto poi è diventato co-working. Per i benefici di chi vende gli immobili: più li fai a fette piccole e più guadagni. Ciò non vale solo per i lavoro. Grazie ai benefici di una buona progettazione si dovrebbe vivere in una cellula abitativa di pochi metri quadrati, spostarsi con una mini automobile, lavorare attaccando la spina in un tavolaccio comune. La pubblicità dice che è smart. Come smart sono i posti sempre più stretti in treno e in aereo (l’altro ieri le compagnie low cost stavano proponendo di farti viaggiare in piedi), nei bar affollati degli apericena, nei locali pubblici dove si ammassa il pubblico per i grandi eventi. Meno spazio occupi e più risparmi. Il che, da un certo punto di vista, è vero ed ha una sua intelligenza. Ma il risultato finale è il trasformarsi in polli in batteria. Chiedete un po’ a loro se si reputano smart. Non discuto: certi spazi, anche nel futuro, è bene che rimangano compressi, per esempio quello delle automobili. Io, per esempio, ho una Smart e mi trovo benissimo nel traffico e quando me ne serve una più grande la affitto. Credetemi: sono un entusiasta della sharing economy e della tecnologia. Ma che dobbiamo vivere compressi in case microscopiche e lavorare in uffici organizzati secondo una perversa idea (elettronica e non meccanica) della catena di montaggio, mi sembra mostruoso. La pandemia,

tra le poche cose positive, ci ha insegnato che molti lavori potranno essere svolti da casa. E pare che nel futuro le amministrazioni pubbliche (e a maggior ragione i privati) faranno lavorare almeno il 50 per cento dei loro addetti da casa. Ciò vorrà dire che gli uffici si svuoteranno. A questo punto si aprono due scenari. Il primo è di vendere lo spazio eccedente. Ma l’idea è folle. Già il mercato immobiliare è in crisi e l’immissione di tanti metri cubi lo farebbe crollare. Il secondo è che si possa raddoppiare la dotazione di spazi dando alle persone che lavorano in ufficio la possibilità di avere dei propri ambienti dove lavorare comodamente. Tanto il controllo della produzione, che la struttura a pollaio garantiva, oggi avviene lo stesso via computer. Non ci sono quindi controindicazioni in termini di produttività. Rimane, a questo punto, il problema delle abitazioni, del 50 per cento che resta a casa. Per molti, però, già il lavorare da casa è un vantaggio se non altro perché fa evitare anche due ore al giorno di spostamenti. Se la scelta (lavorare da casa o in ufficio) avverrà su base volontaria si potranno intercettare questi molti, lasciando a chi vuole fuggire dal nido domestico, per esempio dalla suocera, l’opzione dello studio in ufficio. L’obiettivo del lavoro non è infatti solo il profitto ma la felicità. Altro, per adesso, non saprei dire. Se non che la scoperta dell’importanza dello spazio, dell’aver spazio, cambierà le nostre abitudini. Immagino, per esempio, che saranno penalizzati quei luoghi pubblici, per esempio bar, ristoranti e negozi che non sapranno organizzarsi per rispondere positivamente alla nuova prossemica. Gli architetti, i quali da sempre hanno lavorato con il tema, saranno coloro che potranno farci nuove proposte e formulare nuove risposte. Quali, staremo a vedere.


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Luigi Prestinenza Puglisi

The value of space Living compressed in tiny homes and working in offices organized according to the idea of the assembly line, it seems outrageous to me. The discovery of the importance of space, of having space, will change our habits Forecasting the future isn’t easy. All who have tried to do so have (almost) always been refuted by facts. Only a few science-fiction authors, such as Philip Dick, have somewhat managed to – in part. Furthermore, I don’t believe that the conversation about the near future that is currently happening on social or printed media has anything to actually do with coronavirus. Thinking that the cities of the future will have to be more ecological, greener, or even more humane, is a dream we’ve already had for a long time – at least since before the pandemic. What we can say is that the forced quarantine of these days has emphasised a different way of seeing space. And, especially, of judging that

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space that we used to imagine could be squeezed infinitely. Think about it: in offices, we’ve gone from a small room assigned to the single employee, then to open space, and now to hot-desking. What’s the point in having a desk assigned, anyway, if you can plug in anywhere with your laptop? Everything then becomes co-working. It is for the benefit of those who sells real estate: the smaller the slices, the bigger the gain. It doesn’t only apply to work. Thanks to the benefits of good planning, we can now live in tiny homes of few square metres, move in a tiny car, work by plugging into a communal table. The ads say this is “smart”. In the same way, supposed to be smart are the smaller and smaller seats on trains, flights (a while back low cost companies were suggesting we should travel standing up), crowded pubs, event centres. The less space you can take up, the more you’re going to save. In a way, this is quite smart. But the result is turning into chicken in cages. Go and ask them if they think they’re “smart”. I’m not arguing: some spaces should, even in future, remain compressed – such as that of cars. I, for example, own a Smart car and find traffic very easy; when I need a bigger car, I rent it. Believe me - I am an enthusiast of sharing economy and of technology. But living in micro homes and working in offices organised according to the cruel assembly line idea (electronic and not mechanical), I find a monstrosity. The pandemic, among its positives, has taught us that many jobs can be done from home. And it looks like in future, public administrations (and privates too) will get at least 50% of their employees to work from home. This means offices will empty out. At this point, we have two

scenarios. The first scenario is selling the extra space, but the idea is crazy. Real estate is already suffering, and adding so many cubic metres would crush it. The second one is doubling the space for people working in offices, giving them the opportunity of having enough space to work comfortably. Production control, guaranteed by the current hen-house structure, can happen anyway via computer. There are no counter indications in terms of productivity. The problem we are left with now is housing, with that 50% of employees staying at home. For many, working from home is already a benefit, as it avoids two hours a day of commuting. If the choice – working from home or at the office – will be on a voluntary basis, these “many” can be found, and the choice of the office can be left to those who want to escape home or, say, the inlaws. After all, the aim of work is not just profit, it’s happiness too. I can’t say any more, now. Except that the discovery of the importance of space, of having space, will change our habits. I can only imagine that those public spaces, such as pubs, restaurants and shops that will not be able to get organised to properly respond to the new proxemics, will be penalised. The architects, who have always worked with these themes, will be the ones to bring us new proposals, the ones to formulate new answers. Which proposals and answers, we will have to see.

To the right, Torre de David, Caracas, ph ©Iwan Baan. Previous page, Cisco Systems Italian Hq, Vimercate, Progetto CMR Accanto, Torre David, Caracas, ph ©Iwan Baan. Pagina precedente: sede di Cisco Systems a Vimercate, Progetto CMR.


› BUILDINGS

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› DIGITAL

Patrik Schumacher Digital Architectures I would design the world after Covid-19 as a virtual four-dimensional navigation and communication space, as cyberspace. This is where all the architectural action and innovation will be happening in the coming period

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I have always regarded all the design disciplines, from urban design and architecture to fashion and graphic design, to form a unity of purpose: the sensuous framing of communicative social interaction. This also includes all telecommunications. Here too our colleagues’ framing design work is always involved. The internet started in the early 1990s and some of us architects imagined that the internet would develop into a virtual three-dimensional navigation and communication cyberspace. The design studio I was teaching at TU Berlin in 1995 was exploring this idea under the heading ‘Virtual College’: Online learning as collective experience facilitated within a virtual architecture. However, the internet became a magazine-like medium instead, the preserve of graphic designers rather than architects. This will change now. I would design the world after Covid-19 as a virtual four-dimensional navigation and communication space, as cyberspace. This is where all the architectural action and innovation will be happening in the coming period. Any design project in this space involves all of the three parts of the architect’s project I have distinguished in my theory of architecture: the organisational project, the phenomenological project and the semiological project. The semiological project is crucial: While all urban spaces are never only mere physical containers that carry and channel bodies but always already also information-rich navigation and interaction spaces, this information-rich communicative charge and capacity is the very essence of all cyberspaces. It is this crucial semiological project that I

have concentrated on, that I have theorized, explored and designed within the framework of the AA Design Research Lab and in other research arenas for the last 10 years. I know how to design architectural projects, real or virtual, together with a grammar empowered spatio-visual language, with a much enhanced communicative capacity and I know how to craft dense, navigable and legible informationrich environments for multiply layered societal interaction forms, purposes and audiences. The only thing that is missing are the entrepreneurial clients who understand what could emerge and flourish now.

This image is a collage of 16 images (14 photos and 2 renderings) depicting spaces designed by Zaha Hadid Architects, in different cities around the world. These spaces express and facilitate the complexity, dynamism and communicative intensification of urban life in our 21st Century Network Society. In ZHA designs buildings become porous and urbanised on the inside, allowing for increasing inter-visibility between the diverse social activities brought together, to facilitate browsing navigation and to maximize co-location synergies. The built environment becomes an information-rich, empowering and exhilarating 360 degree interface of communication and experience machine. Lose yourself and discover yourself! Next page: Opus, Dubai (ph. ©Laurian Ghinitoiu, courtesy ZHA).


› DIGITAL

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› DIGITAL

Patrik Schumacher

Architetture digitali Progetterei il mondo dopo il Covid-19 come uno spazio virtuale di navigazione e comunicazione quadridimensionale, come il cyberspazio. Tutte le principali azioni e innovazioni architettoniche nei prossimi anni si svilupperanno qui

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Ho sempre considerato tutte le discipline del design, quelle che vanno dall’urbanistica, all’architettura, fino alla moda o al graphic design, come accomunate da un medesimo intento: la definizione, direttamente riferita ai sensi, dell’interazione sociale e comunicativa. E questo comprende ogni sistema di telecomunicazione. E anche in questo campo l’architettura è costantemente coinvolta. Quando internet ebbe inizio, nei primi anni Novanta, alcuni architetti immaginarono che si sarebbe sviluppato in un cyberspazio tridimensionale di navigazione e di comunicazione virtuale. Il corso di progettazione di cui fui docente nel 1995 alla TU di Berlino esplorava questo concetto con il titolo di Virtual College, ovvero l’apprendimento online quale esperienza collettiva facilitata nell’ambito di un’architettura virtuale. Con l’andare del tempo, internet si è invece evoluto come un mezzo di comunicazione simile a una rivista: un ambito più da grafici che non da architetti. Tutto questo ora cambierà. Progetterei il mondo dopo il Covid-19 come uno spazio virtuale di navigazione e comunicazione quadridimensionale, come un cyberspazio. Sarà qui che nei prossimi anni si svilupperanno tutte le principali azioni e innovazioni in architettura. Qualsiasi progetto di design in questo ambito coinvolge tutte le tre componenti di progetto che ho identificato nella mia teoria dell’architettura: il progetto organizzativo, il progetto fenomenologico e il progetto semiologico. In particolare, il progetto semiologico è di importanza cruciale: tutti gli spazi urbani non sono mai semplici contenitori fisici che trasportano e incanalano persone, ma sono sempre spazi di navigazione e di interazione densi di informazioni. La ricchezza

di informazioni e il potenziale comunicativo sono la vera essenza di ogni cyberspazio. E questo è precisamente il progetto semiologico su cui mi sono concentrato, che ho teorizzato, esplorato e progettato negli ultimi 10 anni nell’ambito del AA Design Research Lab e in altri ambienti di ricerca. So come dar vita a progetti architettonici reali o virtuali, come pure a un linguaggio spazialevisuale dotato di una grammatica propria tale da renderlo estremamente efficace nonché caratterizzato da una capacità comunicativa evoluta. So come creare ambienti navigabili, leggibili e densi di informazioni, rivolti a modalità e livelli molteplici di interazione sociale, di programma e di utenza. Il solo elemento mancante sono clienti del mondo imprenditoriale che siano in grado di capire tutto ciò che potrebbe emergere e prosperare da questo momento in avanti.

Accanto, Opus, Dubai (ph. ©Laurian Ghinitoiu, courtesy ZHA). Alla pagina precedente, un collage di 16 immagini (14 foto e 2 rendering) che ritraggono spazi progettati da Zaha Hadid Architects in città differenti in tutto il mondo. Questi spazi esprimono e facilitano la complessità, il dinamismo e l’intensificazione comunicativa della vita urbana nella contemporanea network society del XXI secolo. Nei progetti di ZHA gli edifici diventano al loro interno insiemi permeabili e urbani, e permettono una intervisibilità tra le diverse attività sociali coinvolte, per facilitare l’esperienza di navigazione e per massimizzare le sinergie di co-localizzazione. L’ambiente costruito diventa un’interfaccia di comunicazione e di esperienza a 360 gradi, densa di informazioni, stimolante e coinvolgente. Perdersi per ritrovarsi!


› DIGITAL

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› DIGITAL

Kjetil TrĂŚdal Thorsen New Horizons Now we have thousands of 90 years old people, as well as fifth graders, swiftly connecting through Zoom or Teams. That means that the barrier between the users and these tools is becoming thinner and thinner

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What we are seeing right now, is a set of very strong countermeasures against an emergency. This shows very clearly that we act only when things have happened and not to prevent them from happening. To some extent that is worrisome, but it is an interesting way to understand why all environmental issues are basically ignored. We perceive them just as warnings, yet to be taken seriously they should hit a large amount of people, all at the same time. There is no apparent reason to react against something that so far is devoid of tough and concurrent consequences. And that is even more troublesome since, although we have more and more educated people and we live longer, we are repeatedly driven by the same wrong decisions. This latter is an interesting effect to be kept under control when we will go back to our ordinary life after this pandemic, and as well that is the reason why so many of us really hope we will not go back doing things just as before. What will happen next? Well, I think that the answer could go in two main directions. The first is about what kind of things are necessary to prevent the pandemic. So far, we closed ourselves into some sort of clans, into extremely small family groups and communities. And this, in the long run is not a good contribution to the making a society. On the other hand, we have situations that may influence the way we make spaces and architecture. In that regard I believe we should really reevaluate our relationship between the digital and the analogic realm, making sure that we are not pulling ourselves back into nationalism, borders, isolation, and possibly loneliness. I am looking forward to a way of enhancing the digital tools in order to allow

a huge accessibility to the analogic world of design and architecture: using the digital tools to increase accessibility to the analog rather than to close access to that. Currently we are in a situation like the beginning the internet. At the very start it was very hard thing to grasp for everyone, until it became operational. We must therefore consider that the digital leap we have done during the last few weeks is enormous. Now we have thousands of 90 years old people, as well as fifth graders, swiftly connecting


› DIGITAL

through Zoom or Teams. That means that the barrier between the users and these tools is becoming thinner and thinner. Another crucial point is that through time we have been discussing a lot about the relationship of an individual with a specific object. For instance, I am currently sitting on a chair in my room, and that defines my horizon. Where I am, defines my horizon. And at the end architecture is an outcome of prepositions: I am in, I am there, I am “under, between, behind, in front of”,

and so forth. That gives a relative position as a group or an individual in relation to one’s surroundings. Consider that in nature all prepositions in any language are embedded. So, prepositions mainly come out of body positions in nature. Since it is the perception of one’s location that matters, the more prepositions we can introduce into architecture, the closer we can bring the object to nature. All that, together with environmental issues and technology, converge into this open-access relationship

Here and at the following page, Snohetta, Norwegian National Opera and Ballet, Oslo, completed 2008 (ph. courtesy Snohetta).

between people. Otherwise, everyone will never be in a different location than they are today, and they will just remain sitting at home. For these set of reasons, when this world will open again, I am really looking forward to a different and enhanced relationship between the digital and the physical realm.

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› DIGITAL

Kjetil Trædal Thorsen

Nuovi orizzonti Consideriamo l’enorme salto che abbiamo compiuto in poche settimane: migliaia di anziani e di bambini di quinta elementare che si connettono agilmente con Zoom o Teams. Significa che il digital divide si restringe sempre di più

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Le forti contromisure contro la pandemia che tutti I Paesi hanno messo in atto dimostrano chiaramente che ci diamo da fare, non per impedire che le cose accadano, ma soltanto quando sono già successe. Questo è preoccupante, ma ci aiuta a comprendere la ragione per cui tutte le questioni ambientali vengano sostanzialmente ignorate. Le percepiamo come semplici avvertimenti. Per essere prese sul serio dovrebbero colpire un gran numero di persone, tutte nello stesso momento, dato che non riusciamo a vedere alcuna ragione evidente per reagire contro qualcosa che è ancora privo di conseguenze gravi e simultanee. Questo è ancor più inquietante, perché pur avendo sempre più persone istruite, informate e con una maggiore aspettativa di vita, continuiamo a farci guidare dalle stesse, errate, decisioni. Si tratta di un comportamento che merita di essere esaminato bene quando, passata l’emergenza, torneremo alla nostra vita quotidiana, ed è anche la ragione per cui in molti ci auguriamo che non torneremo a fare le cose esattamente come le facevamo prima. Cosa accadrà dopo? Penso che la risposta possa andare in due direzioni. La prima riguarda il tipo di soluzioni che sarà necessario mettere in atto per prevenire future pandemie. Finora ci siamo limitati a chiuderci in gruppi familiari estremamente ristretti o in piccoli clan. Il che, a lungo andare, non credo sia un gran contributo alla creazione di una società. Mentre d’altro canto emergono situazioni che possono influire sul modo di progettare gli spazi e fare architettura. Da questo punto di vista credo dovremmo seriamente rivalutare la nostra relazione tra universo digitale e mondo reale, prestando cautela a non ritirarci nel nazionalismo, nei confini, nell’isolamento e forse nella solitudine. Penso a modalità per migliorare gli strumenti

digitali allo scopo di favorire una vasta accessibilità al mondo analogico da parte del design e dell’architettura: se il mondo reale è in lockdown, gli strumenti digitali possono favorirne comunque l’accesso. È come agli albori di internet: era qualcosa di estraneo, finché ad un certo punto non divenne operativo, intuitivo e a banda larga. Consideriamo l’enorme salto che abbiamo compiuto in poche settimane: migliaia di anziani e di bambini di quinta elementare che si connettono agilmente con Zoom o Teams.


› DIGITAL

Significa che il digital divide diventa sempre più sottile. Un altro aspetto cruciale riguarda il rapporto tra l’individuo e uno specifico oggetto. Alla relazione con, e tra, le cose. Ad esempio, in questo momento sono seduto su una sedia nella mia stanza e questo semplice fatto definisce per intero il mio orizzonte. Il luogo dove mi trovo definisce il mio orizzonte, e alla fine l’architettura si tratta di questo, di un insieme di preposizioni: io mi trovo “dentro, qui, sotto, tra, dietro, davanti” e così via. In altre

parole, la posizione di un individuo o di un gruppo di persone in relazione all’ambiente circostante. Considerando che le preposizioni che descrivono il nostro rapporto con la natura sono incorporate in ogni idioma, significa che le preposizioni riguardano sempre la posizione di un individuo in rapporto alla natura. Più preposizioni siamo capaci di introdurre in un progetto di architettura, più possiamo avvicinare l’oggetto alla natura: quello che conta è la percezione che ciascuno ha del luogo in cui si trova.

Tutto ciò, insieme alle questioni ambientali e alla tecnologia, converge nel tema della libertà di relazione tra le persone. Se questa venisse a mancare nessuno si troverebbe mai in un luogo differente da quello in cui ci si trova in questo momento: tutti rimarrebbero, molto semplicemente, seduti a casa. Per questo insieme di ragioni, quando il mondo riaprirà davvero, non vedo l’ora che nasca una relazione nuova e migliore tra il mondo digitale e quello fisico.

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› DESIGN

Luisa Bocchietto Il design dopo I segnali di cambiamento c’erano già ma non li abbiamo colti. È arrivato il momento di farlo

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In questi giorni di riposo obbligato ci si aspetta che la creatività possa produrre soluzioni innovative. Ma la creatività si nutre di incontri, emozioni, fatti inaspettati, scoperte sul campo e sorprese della mente che non possono avvenire nel confinamento forzato: la chiave che apre percorsi nuovi si trova nel caos della vita. A ben pensarci, i segnali del cambiamento c’erano già tutti, e da tempo. La bellezza che eravamo abituati a ricercare nell’equilibrio di forma e funzione chiede di essere meno materiale e più etica. Continuiamo a progettare oggetti, certo, ma gli oggetti si sono smaterializzati. In un solo dispositivo oggi troviamo funzioni prima affidate a tanti strumenti diversi. sempre più siamo chiamati a immaginare servizi. La bellezza diventa allora ricerca di armonia che possa dare un senso compiuto ad ogni progetto. Soprattutto, sono cambiati i valori in gioco. Per anni abbiamo messo al centro di tutto l’uomo. Ora entra in scena un altro protagonista: il pianeta. Sono convinta che in questa visione ci sia una parte molto femminile in gioco, che appartiene indistintamente a uomini e donne, e che riguarda la capacità e l’umiltà di avere cura delle cose. Abbiamo desiderato possedere e violentare l’ambiente per dimostrare la nostra forza e vincere le nostre paure e d’un tratto ci siamo scoperti fragili e vulnerabili. Forse è venuto il momento di fare un salto di qualità e diventare adulti responsabili, o soccombere sotto il peso dei nostri eccessi. Tornando al design, in questi giorni vediamo sui media un affollamento di immagini di mascherine, respiratori, componenti stampate in 3D e soluzioni creative per sopperire alla mancanza di presidi di protezione individuale. Design di prodotto applicato al contesto, certo,

ma vorrei suggerire di pensare al design in modo più ampio, come processo e servizio: dopo l’emergenza occorrerà immaginare un mondo diverso e questi secondo me sono i principali ambiti d’azione nei quali dovremmo muoverci. - Progettare per la circolarità dei processi sviluppando soluzioni produttive che permettano la riduzione degli sprechi, la valorizzazione dei rifiuti, la disassemblabilità dei componenti a fine vita dei prodotti. Troviamo qui una moltitudine di processi su cui agire in modo innovativo, per definire nuove soluzioni di minore impatto, senza rinunciare a produrre e consumare. Possiamo fare riferimento alla tradizione tutta italiana di fare molto con poco, alla capacità di trasformare con intelligenza ed eleganza, come abbiamo fatto da sempre, avendo poche materie prime e poco territorio, per conferire ai prodotti senso, bellezza, carattere. - Pensare alla riparabilità e alla qualità come due facce della stessa medaglia. Per un designer e per un’impresa il vero obiettivo è quello di restare a lungo sul mercato; è anche l’unico modo per rientrare dell’investimento intellettuale e produttivo. È esattamente il contrario del processo che promuove il prodotto usa e getta, che viene dimenticato dal mercato e genera rifiuti. Progettare per il lungo periodo significa creare un valore affettivo intorno alle cose, aumentare il valore del marchio che le produce, generare un senso di condivisione fornendo assistenza, come servizio al consumatore, garantendo continuità. Si tratta di creare prodotti che raccontino di noi e che saremo disposti a conservare a lungo, avendone cura, perché rappresentano qualcosa di più di una merce, per la loro bellezza, per il loro senso, per il loro racconto. Potranno anche essere costosi e il loro valore contribuirà ad evitare che si


› DESIGN

trasformino in rifiuti. Potremmo avere meno cose e di maggiore qualità, impegnando la produzione ad aiutarci a mantenerle attraverso la fornitura di servizi collegati per la manutenzione, sostituzione, riparazione, rinnovo. - Mettere in rete applicazioni e servizi per il sociale. Si possono ideare programmi che permettano di gestire dati, informazioni, interfacciando realtà diverse di utenti (diverse classi di età, diversi impieghi, diverse disponibilità) per fornire servizi come ad esempio app per la consegna a domicilio, per servizi di assistenza sanitaria agli anziani, per la condivisione di costi in condominio, per la creazione di gruppi di acquisto, per la prenotazione e utilizzo di risorse comuni. Possono essere ideate soluzioni di contrasto a problemi sociali diffusi attraverso la creazione di reti di informazioni e per favorire l’integrazione culturale. In questo gruppo di progetti sono compresi i progetti che aiutano a modificare i comportamenti; ne fanno già parte quelli che saranno necessari per tracciare il virus e

contrastarne la diffusione. - Pensare a progettazioni dedicate a nuovi settori. Quando parliamo di design tutti pensano a mobili e automobili ma ci sono molti settori che necessitano di migliorare la qualità dei propri prodotti. Vi è ancora molto da progettare nella realizzazione di strumenti, ausili, arredi, per gli ospedali, le case di riposo, gli alberghi, le strutture pubbliche. Si possono ideare sistemi di comunicazione grafica integrata per favorire la visitabilità, per garantire percorsi indipendenti e sicuri, per proteggere operatori e utenti da pericoli meno visibili. Si possono pensare progetti per ottimizzare la produzione, per preservare le risorse animali e agricole da inquinanti e da atteggiamenti predatori del mercato, per contrastare il disastro ambientale e climatico, per informare sulla filiera dei prodotti e loro valore, per valorizzare i beni architettonici e ambientali. In questo campo si possono sviluppare molti progetti per la sanità, l’agricoltura, il turismo e per migliorare l’esistente e favorire il benessere.

- Contribuire alla realizzazione di città e ambienti più vivibili. È assodato che la popolazione si concentra in megalopoli per motivi di carattere lavorativo e culturale; luoghi che sono focolai di nuove malattie e di congestione dei problemi. È indispensabile la produzione di sistemi di trasporto meno inquinanti e meno ingombranti, di sistemi di pianificazione di accesso ai servizi, di metodologie di manutenzione del patrimonio architettonico, servizi che rendano accessibili le informazioni, riducendo la burocrazia inutile. Il design può collaborare in modo trasversale con altre competenze per integrare le funzioni degli edifici, delle reti di trasporto, di fornitura dei beni e di comunicazioni. In questo contesto sarà cruciale la difesa della libertà e della democrazia per questo è importate che accanto alle soluzioni tecniche sia preservato l’approccio umanistico. Ognuno di questi ambiti ha campi di applicazione possibili molto vasti e il design con la sua capacità di umanizzare la tecnologia ha un ruolo importante da svolgere.

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› DESIGN

Luisa Bocchietto

Design After We already had signs of change, but we didn’t pick up on them. It is now time for us to do so

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During this time of compulsory rest, we expect creativity to produce innovative solutions. But creativity feeds on encounters, emotions, unexpected events, field discoveries and mental surprises that cannot happen in forced confinement - it’s life’s chaos that holds the key to new ways. To really think about it, the signs were all there, and for a while. The beauty that we used to search for in the balance of shape and function is now asking to be less material, and more ethical. We keep designing objects, sure, but the objects are dematerialised. In one gadget we now find functions previously assigned to multiple objects. Beauty then becomes the search for harmony, that can give full meaning to every project. The values in play have changed. For years, we put man at the centre of everything. Now a new protagonist enters: the planet. I am certain that a very feminine part is in play in this vision - a part that both men and women indistinctly own, the ability and humility to care for things. We have desired owning and raping the environment to demonstrate our strength and to conquer our fears - and all at once we found ourselves frail and vulnerable. Maybe the time has come to jump in quality and become responsible adults, or succumb under the weight of our excesses. Back to design, these days we see on the media a crowd of photos of masks, respirators, 3D printouts and creative solutions to the lack of individual protection. Product design applied to the context, of course, but I’d like to suggest thinking about design in a more ample way - as a process and a service: after the emergency, we will have to imagine a different world, and I think the following are the principal action

scopes that we have to work on. - Projecting for the circularity of processes by developing productive solutions that allow waste reduction, trash valorisation, and the disassemblability of components at the product’s life’s end. Here we find a a multitude of processes on which to act, in a progressive way, to define new solutions of lesser impact, without having to sacrifice producing and consuming. We can reference the very Italian tradition of doing a lot with a little, the ability of transforming with cleverness and elegance, as we have always been doing (having little raw materials and little territory) to give products a meaning, a beauty, a character. - Thinking about repairability and quality as two faces of the same medal. For a designer, and for a company, the real aim is to stay in the market for a long time; it is also the only way for intellectual and productive investments to come back in. It’s the exact opposite of promoting the disposable product which, forgotten by the market, generates waste. Planning for the far future means creating an affectionate value around things, increasing the brand’s value, and generating a sense of sharing by giving assistance and service to the customer - to grant continuity. It means creating products that tell us about ourselves so that we will want to keep them a long time - as they represent more than just goods - and take care of them for their beauty, their meaning, their story. They can be expensive, and their value will make sure they aren’t turned into trash. We might be able to have less things of better quality, keeping production busy with helping us maintain them, by providing maintenance services, substitution, repair, renewal. - Putting social services and applications


› DESIGN

on the web. Programs that allow the management of data can be conceived, by interfacing different user realities (ages, jobs, availability) to offer services such as home delivery, healthcare assistance for the elderly, bill sharing, buying groups; to book and use common resources. Solutions to contrast social problems and to favour cultural integration can be conceived by creating a web of information. Included in this projects group are projects that help change behaviours; already part of it are the ones that will be necessary to trace the virus and contrasting its spread. - Thinking about designs dedicated to new areas. When we talk about design, people think furniture and cars - but there are so many other areas that need to improve their products’ quality. There is still a lot to work on for the production of instruments, aids, and furniture for hospitals, retirement homes, hotels, public

buildings. Integrated graphic communication systems can be conceived to allow visibility, to grant independent and safe routes, to protect operators and users from less visible dangers. Plans to optimise production can be thought up, or to preserve animal and agricultural sources from pollution and from the market’s predatory attitude, to contrast the climatic and environmental disaster, to inform regarding the production chain and the value of products, to value architectural and environmental goods. In this field, designs for healthcare, agriculture and tourism can be developed; as well as to improve what’s existing and favour well-being. - Contributing to the realisation of more liveable cities and environments. It is established that population agglomerates in megacities for work and culture - places that are the focus of new illnesses and that are problem hotspots. Indispensable is

the production of new means of transport (less polluting and less bulky), of service access planning, of maintenance methods for architectural heritage, of services to make information accessible, to reduce useless bureaucracy. Design can collaborate transversely with other competences to integrate the functions of buildings, of transport webs, of goods and communication supply. In this context, freedom and democracy defence will be crucial, therefore it is important that a humanitarian approach is preserved along with technical solutions. Every one of these scopes has various vast fields of application. Design, with its ability to humanise technology, has a very important role.

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› DESIGN

Bjarke Ingels From Data to Matter The speed and width of the current outbreak asks for a common response from all humankind, regardless of boundaries and nationalisms. The approach of BIG, though the words of its founder Bjarke Ingels, is a practical example of how the strengths, rather than the vulnerabilities of an unprecedently interconnected world, may be used not only to fight the spread of Covid-19, but also to propose a new global relational paradigm

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One thing that we find intriguing out of this situation is the idea of distributed just-intime manufacturing capabilities. In response to the acute and escalating need for PPE here in New York City, we had the possibility to mobilize our 3D printing and modelmaking capabilities to make nearly 5,000 face masks per week for the medical forces on the front lines at Mount Sinai Hospital and Weill Cornell Medicine. Just like computers went from business machines to PC’s to handheld devices – the internet went from institutional to businesses and internet cafes to cable and wireless – and perhaps manufacturing is in the process to move from purpose-built factories to general capabilities and eventually to the maker hub on the block or the PF Personal Fabricator. Out of the massive urgency and shortcomings of the traditional provisions and supply chain during the Covid-19 outbreak, the silver lining here is perhaps in revealing the flexible making capacity that resides in so many places you don’t normally associate with the manufacturing industry, like architecture and design studios. Our BIG NYC Model Shop has been spearheading our 3D printing efforts these past days, adapting the open-source face shield design by Erik Cederberg of 3DVerkstan to be optimized for high-volume print production. As with distributed computing, perhaps distributed manufacturing has potentials we haven’t even thought of yet. The cloud of the material world – that allows instant and omnipresent translation from data to matter. You can download the public 3D print files here: https://big.dk/visor


› DESIGN

Dal digitale alla produzione Una cosa che troviamo stimolante in questa situazione è l’idea di capacità produttive distribuite just-in-time. In risposta alla forte e crescente necessità di dispositivi di protezione individuale qui a New York City, dove mi trovo, siamo riusciti a mobilitare le nostre capacità di stampa 3D e creazione di modelli per realizzare quasi 5.000 maschere facciali a settimana per le forze mediche in prima linea presso gli ospedali Mount Sinai e Weill Cornell Medicine. Proprio come i computer sono passati dai grandi mainframe aziendali ai personal computer e oggi ai device portatili che tutti abbiamo in tasca – da strumento istituzionale Internet è arrivato agli internet café e dal modem è passato al wireless – forse il settore industriale è in procinto di passare da fabbriche progettate per una specifica produzione a stabilimenti capaci di realizzare qualsiasi cosa per diventare infine un hub di makers organizzato in blocchi o PF - Personal Fabricator. Se da un lato ha messo in luce le carenze della normale catena di approvvigionamento, l’attuale grave emergenza sta però forse rivelando una capacità di produzione flessibile che risiede in luoghi normalmente non associati all’idea di industria manifatturiera, come ad esempio gli studi di architettura e design. Il nostro laboratorio di produzione di modelli architettonici a New York in questi giorni ha guidato i nostri sforzi di stampa 3D, ottimizzando il progetto open-source dello scudo protettivo facciale di Erik Cederberg di 3DVerkstan, in Svezia, per produrlo qui, in 3D e in grandi quantità. Come per il calcolo distribuito, forse la produzione distribuita possiede potenzialità a cui non abbiamo ancora pensato: un cloud del mondo materiale che permette la traduzione – istantanea e ubiqua – dai dati alla materia. I file per la stampa 3D degli scudi protettivi possono essere scaricati a questo link: https://big.dk/visor

La velocità e l’ampiezza dell’attuale pandemia richiede una risposta comune da parte dell’umanità, indipendentemente da confini e nazionalismi. L’approccio di BIG, attraverso le parole del suo fondatore Bjarke Ingels, è un esempio delle possibilità, piuttosto che delle vulnerabilità, che un mondo sempre più interconnesso offre, per combattere la diffusione di Covid-19 e per proporre un nuovo paradigma di relazioni globale.

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Un’ecologia integrale Integral Ecology Dalla Lettera Enciclica Laudato Si’ del Santo Padre Francesco sulla cura della casa comune From the Encyclical letter Laudato Si’ of the Holy Father Francis on care for our common home

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[ … ] Data l’interrelazione tra gli spazi urbani e il comportamento umano, coloro che progettano edifici, quartieri, spazi pubblici e città, hanno bisogno del contributo di diverse discipline che permettano di comprendere i processi, il simbolismo e i comportamenti delle persone. Non basta la ricerca della bellezza nel progetto, perché ha ancora più valore servire un altro tipo di bellezza: la qualità della vita delle persone, la loro armonia con l’ambiente, l’incontro e l’aiuto reciproco. Anche per questo è tanto importante che il punto di vista degli abitanti del luogo contribuisca sempre all’analisi della pianificazione urbanistica.

[ … ] Given the interrelationship between living space and human behaviour, those who design buildings, neighbourhoods, public spaces and cities, ought to draw on the various disciplines which help us to understand people’s thought processes, symbolic language and ways of acting. It is not enough to seek the beauty of design. More precious still is the service we offer to another kind of beauty: people’s quality of life, their adaptation to the environment, encounter and mutual assistance. Here too, we see how important it is that urban planning always take into consideration the views of those who will live in these areas.

È necessario curare gli spazi pubblici, i quadri prospettici e i punti di riferimento urbani che accrescono il nostro senso di appartenenza, la nostra sensazione di radicamento, il nostro “sentirci a casa” all’interno della città che ci contiene e ci unisce. È importante che le diverse parti di una città siano ben integrate e che gli abitanti possano avere una visione d’insieme invece di rinchiudersi in un quartiere, rinunciando a vivere la città intera come uno spazio proprio condiviso con gli altri. Ogni intervento nel paesaggio urbano o rurale dovrebbe considerare come i diversi elementi del luogo formino un tutto che è percepito dagli abitanti come un quadro coerente con la sua ricchezza di significati. In tal modo gli altri cessano di essere estranei e li si può percepire come parte di un “noi” che costruiamo insieme. Per questa stessa ragione, sia nell’ambiente urbano sia in quello rurale, è opportuno preservare alcuni spazi nei quali si evitino interventi umani che li modifichino continuamente.

There is also a need to protect those common areas, visual landmarks and urban landscapes which increase our sense of belonging, of rootedness, of “ feeling at home” within a city which includes us and brings us together. It is important that the different parts of a city be well integrated and that those who live there have a sense of the whole, rather than being confined to one neighbourhood and failing to see the larger city as space which they share with others. Interventions which affect the urban or rural landscape should take into account how various elements combine to form a whole which is perceived by its inhabitants as a coherent and meaningful framework for their lives. Others will then no longer be seen as strangers, but as part of a “we” which all of us are working to create. For this same reason, in both urban and rural settings, it is helpful to set aside some places which can be preserved and protected from constant changes brought by human intervention.

IOARCH_Special Issue


Realtà Aumentata e Realtà Virtuale Virtual and Augmented Reality

GARC SpA Tecnologia al servizio dell’Ambiente e delle Costruzioni The Technology at the service of the Environment and Building Trade

Viviamo una nuova era nella realizzazione e gestione degli edifici e alla costruzione del gemello virtuale dell’edificio stesso. Si tratta di una rivoluzione in termini progettuali di cui vogliamo essere protagonisti perché siamo specializzati nella realizzazione e gestione di edifici industriali, adesso anche virtuali.

We are living in the new era of development and management of buildings and of the construction of digital twins of the building itself. This is a revolution in terms of design and we want to play a leading role since we have specialised in the construction and management of industrial buildings, now also of a digital nature. partner:


Fieri di essere B Corp Proud to be B Corp Siamo un’azienda B Corporation Certificate e utilizziamo il business come forza positiva per favorire una società più giusta, inclusiva e rispettosa della biosfera. Il nostro mestiere è progettare e costruire perché crediamo che il futuro sia nelle nostre mani. Osserviamo i più alti standard di performance sociale e ambientale, trasparenza e responsabilità.

We are a B Corporation Certificate company and we use business as a positive force to foster a more fair, inclusive and biosphere-friendly society. Our job is to design and build because we believe the future is in our hands. We observe the highest standards of social and environmental performance, transparency and responsibility

GARC S.p.A. COSTRUZIONI | AMBIENTE VIA DEI TRASPORTI 14 41012 CARPI (MO)

TEL. +39 059 631 0711


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