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Il “mangiar contadino” negli anni ‘50
— Sabrina Mantegazza —
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Negli anni ‘50, per le famiglie contadine, buona parte di quanto prodotto era destinato all’autoconsumo.
Quanto restava era venduto o al mercato, o a qualche negozio, o a qualche abitante del paese che lavorava nelle fabbriche cittadine.
Attraverso i ricordi di Ermanno, facciamo un viaggio nel passato per capire quali erano i prodotti che si avevano a disposizione per cucinare e per mangiare nella Ponzate di allora …Nella stalla dimoravano le mucche. Il latte era munto due volte al giorno, mattino e sera, mantenendo fissi gli orari. Si procedeva alla mungitura di 5 o 6 litri di latte da ogni mucca. Alla fine, il latte veniva colato per trattenere le impurità finite nel secchio ed era poi in parte venduto ed in parte conservato per il consumo familiare; quest’ultimo era scremato più volte per fare il burro con la zangola (la penàgia) a mano. L’attrezzo era tutto in legno, di forma cilindrica, con uno stantuffo scorrevole e con un lungo manico, che veniva continuamente alzato ed abbassato fino a che il grasso del latte si compattava sul fondo formando il burro (bütéer). Altro prodotto del latte era un formaggio acidulo ottenuto dalla fermentazione del caglio in teli appesi al fresco della cantina (zincarlin). Quotidianamente venivano accuditi anche i maiali, i conigli (cunìli), i porcellini d’India (tuìsc), i polli e raccolte le uova. Tutti questi animali erano preziosi, in quanto rappresentavano, per la famiglia, riserve di cibo e denaro! Dopo una semplice colazione a base di latte e polentina (la pult) o di latte e pane (la paniscia) o di minestra avanzata dalla sera precedente, per gli uomini cominciava la giornata nei campi, mentre le donne si occupavano, secondo le usanze, dei lavori “meno faticosi” come allora si diceva, anche se in realtà non era proprio così: erano le faccende domestiche, la preparazione dei pasti, la cura dell’orto e l’accudimento di bambini, malati e anziani. Il tempo era marcato dai rintocchi dell’orologio del campanile, giorno e notte, ogni ora, oltre che dai rintocchi delle campane il mattino, mezzodì e sera. Le campane segnavano la vita del paese e comunicavano eventi a tutta la popolazione. Suonavano con suoni e ritmi caratteristici a seconda dei vari avvenimenti. A mezzogiorno un frugale pasto a base di pane casereccio cotto nel forno comunale o di polenta (la pulenta) con qualche intingolo (la pucia) insieme a patate, fagioli o insalata o altre verdure dell’orto secondo la stagione, il tutto accompagnato da un po’ di vino nostrano (ul noostranell). Poi si ritornava alle proprie occupazioni fino a sera. Il piatto principale della cena era la minestra di riso o di pasta, arricchita sempre con le verdure di stagione che forniva l’orto e condita con il lardo ricavato dalla macellazione del maiale. Completavano il pasto il pane casereccio (fatto con farina di granoturco e farina di grano coltivati nei campi e macinate nel mulino di Camnago), qualche fetta di polenta del mezzodì abbrustolita sulla brace o pancetta o cotechino di maiale o frittata con uova dal pollaio e verdure sempre dell’orto, il tutto veramente a chilometro zero! Qualche volta si consumava minestra a base di latte oppure “pancotto”, per utilizzare il pane raffermo. E poi fuori dalla porta c’erano gli amici di casa… gatti e cane che aspettavano la loro porzione di avanzi, le crocchette non esistevano! Non si buttava nulla! I piatti che avevano come ingrediente principale la carne, erano un lusso per la domenica e per le grandi occasioni di festa. La cottura di tutti i cibi avveniva sul fuoco del camino o sulla stufa economica a legna.
Il forno per la cottura del pane
Grande protagonista della tavola era il pane. Diversamente dai paesi vicini (Solzago, Camnago, Civiglio, Tavernerio), Ponzate non ha mai avuto panettieri. Il paese aveva, in un edificio pubblico contiguo al lavatoio, un forno a legna. In questo forno avveniva la cottura del pane casereccio fatto con farina di granoturco e di frumento (ul pan de meji; pane fatto anticamente con farina di miglio, poi con una miscela di farina di granoturco ¾ e di frumento 1/4). Erano pani rotondi di circa un chilo di peso e dal diametro di circa 25 cm. Una o più volte la settimana, le famiglie che dovevano panificare si organizzavano: portavano la legna, pulivano e preparavano il forno, accendevano il fuoco e curavano il giusto riscaldamento per la cottura dei pani già preparati a casa e lasciati lievitare nelle apposite madie (la marna del pan). Nelle varie cotture (l’infornada del pan) non mancava mai un pane speciale (ul büscell) preparato con l’aggiunta di uvetta o noci o infiorescenza di sambuco, secondo le stagioni. Appena pronte, le pagnotte (20/25), erano spostate dal forno al pavimento con una paletta dal lungo manico. A quel punto, il profumo caratteristico del pane appena sfornato si diffondeva tutt’intorno nell’aria…

La pult
Antenata della polenta. Può essere preparata anche con sfarinata di cereali minori mischiati insieme. Farina di mais con aggiunta di farina bianca. Può essere consumata come la polenta con latte o con pucie varie.
INGREDIENTI: Farina di mais 300 gr Farina di frumento 100 gr Latte 800 ml Acqua 2000 ml Sale q.b. Latte per condire
PROCEDIMENTO: Mischiare le farine in una scodella. Mettere in una casseruola sul fuoco l’acqua con il latte e, all’ebollizione, salarla e versare la farina, mescolare con forchetta di legno. Lasciare bollire fino a una certa consistenza (tre quarti d’ora). Versare nelle scodelle e aggiungere latte freddo (se gradito aggiungere nel piatto del burro o fettine di formaggio fresco).
Ricette

Pan striaa
Con gli avanzi del pane giallo casereccio di farina di mais cotto nel forno comunale…
INGREDIENTI: Pane giallo raffermo 500 gr Latte intero 500 ml Uova 3 Mela 1 Pera 1 Noci 40 gr Fichi secchi 50 gr Farina bianca 1 cucchiaio Zucchero 50 gr Grappa un bicchierino
PROCEDIMENTO: Tagliare il pane a fettine e ammollarlo con latte per circa 2 ore. Lavorare il pane ammollato con un cucchiaio. Aggiungere uova, noci tritate, fichi secchi spezzettati, la mela e la pera tagliate a fettine, lo zucchero e la grappa. Lavorare l’impasto con un cucchiaio e metterlo in una tortiera imburrata e infarinata. Spolverare l’impasto con zucchero e mettere qualche fiocchetto di burro. Cuocere in forno a 200 gradi per 25 minuti. Servire freddo.

Ris e lacc
(Veniva preparata in particolare per bambini, ammalati e anziani…)
INGREDIENTI: Riso 200 gr Latte fresco 1200 ml Acqua 500 ml Zucchero un cucchiaio Burro 30 gr Sale Una spolverata di cannella (se piace)
PROCEDIMENTO: Mischiare in una casseruola il latte con l’acqua. Aggiungere burro, zucchero e poco sale e portare a ebollizione. Aggiungere il riso e cuocere su fuoco vivace, mescolare spesso, aggiungendo altro liquido (3/4 di latte e ¼ di acqua) se necessario. Quando il riso è cotto togliere dal fuoco e lasciare riposare qualche minuto. Servire tiepido… con la cannella in polvere (se piace).
Trattoria “La Pesa”
— Sabrina Mantegazza —

Dalle pagine di questo notiziario (num.18 del Dicembre 2020), in un articolo di Romano
Meroni, già vi abbiamo parlato del nostro concittadino
Elia Molteni, chiamato confidenzialmente “il Lia”, e della sua passione per il legno, l’intaglio e il presepe.
La sua attività lavorativa principale era però legata al cibo, in quanto gestore della trattoria “La Pesa” situata in centro paese. Nel 1963, grazie all’amicizia con la famiglia Frangi allora proprietaria della trattoria, il Lia, insieme alla moglie Lina, riuscì ad averne la gestione. A cucinare aveva imparato dal padre Carlo, che, a sua volta, aveva gestito l’osteria detta “CARLÖO” in centro a Solzago. Curiosa è la circostanza in cui il Lia riuscì ad affinare le sue conoscenze culinarie e il suo metodo di lavoro, dopo l’esperienza con il padre. Nel 1943, durante la Seconda guerra mondiale, Elia era stato ricoverato nell’ospedale militare di Bari in quanto giunto ferito dall’Albania. Una volta guarito riuscì ad entrare come cuoco al circolo degli ufficiali statunitensi che erano di stanza proprio a Bari, dove conobbe anche la ragazza che poi diventò sua moglie e, alla fine della guerra, tornarono insieme a Tavernerio.
La gestione della “Pesa” era completamente famigliare: Elia in cucina con la figlia Loredana, l’altra figlia Angela indirizzata alla cura della clientela, la figlia Gianna aiuto saltuario perché decise poi di lavorare in altro ambito, la moglie Lina coordinatrice del lavoro di tutti. Durante la settimana il luogo era frequentato soprattutto a pranzo dai lavoratori della zona, mentre nel fine settimana c’erano famiglie intere o grandi tavolate di amici e tutti apprezzavano molto i piatti della cucina tradizionale lombarda preparati da Elia con l’aiuto della figlia. La scelta era ampia: dagli antipasti che comprendevano agoni, lavarelli o trote di lago in carpione, funghi sott’olio (i famosi “ciuditt” raccolti in autunno da Elia nei boschi delle montagne di Tavernerio) nervetti e sottaceti fatti in casa, ai famosi risotti (ai funghi oppure con ossibuchi o quaglie) alla trippa, al brasato con polenta, alla “cassoeula” (piatto invernale particolarmente apprezzato fatto con verze e verdure stufate accompagnate da cotenne, costine e salamini di maiale) al pollo o coniglio alla cacciatora, allo stinco di maiale al forno. E naturalmente non potevano mancare i dolci, tra i quali la “cutizza” (specie di crepe fritta tipica della cucina lariana accompagnata con marmellate o frutta di stagione) e i tortelli che venivano sempre preparati nella settimana della festa di San Giuseppe.
La sala principale della trattoria era dominata da un grande camino che ne era l’emblema e che era raffigurato anche sulle bottiglie di vino del “Barbera della Pesa”. L’attività proseguì florida per molti anni a fronte anche di un grande impegno: non esisteva il giorno di riposo settimanale e nemmeno chiusure per le festività. Tradizionalmente, il giorno dell’Epifania, la famiglia Molteni era solita invitare a pranzo gratuitamente i bambini ospiti dell’Istituto “Villa Santa Maria” con i relativi accompagnatori, per festeggiare tutti insieme. Nel 1994 il Lia morì, lasciando l’attività alla moglie e alle figlie, che proseguirono fino al 2005 circa e poi chiusero definitivamente per sopraggiunti limiti d’età di Lina e per i problemi di salute di Loredana, lasciando, nel ricordo degli avventori, i profumi e i sapori dei piatti de “La Pesa” che avevano potuto gustare per quasi quarant’anni.

Si ringrazia per la collaborazione Luciano Molteni
Equazione di Dirac
— Massimo Pedersoli —

Era l’estate del 1982 e faceva un caldo diverso, quello che ricordiamo noi che iniziavamo la scuola il primo ottobre, quello con le lucciole di sera, per capirci.
Il motorino, tanti amici sempre tutti insieme sciamando controvento, rigorosamente senza casco perché quelle poche preoccupazioni volassero via.
Era l’estate dei mondiali in Spagna, quelli con i militari in TV dentro il campo di calcio – e non ci trovavo niente di strano, mi viene il dubbio che l’aria nei capelli funzionasse veramente.
Il rito era un luogo geografico, potevamo avventurarci anche fino a Erba – mai allontanarsi troppo – ma alla fine eravamo sempre tutti lì, al Bar Trattoria “La Pesa”. Pranzo di lavoro a mezzogiorno, non “pausa pranzo”. Cena per gruppi numerosi con cazzuola e polenta e poi c’eravamo noi, adolescenti poco avvezzi a spendere lire che circolavano con parsimonia.
La data esatta è domenica 11 luglio 1982, la finale dei mondiali. Vai a sapere che sarebbe finita come è finita, sarei stato più attento, avrei mandato a memoria gli attimi e i dettagli, magari preso appunti. Non l’ho fatto e ancora oggi non capisco come, in quella giornata di riposo – la trattoria stava chiusa la domenica – le serrande fossero alzate e noi tutti invitati e fastidiosamente presenti. Niente maxischermi, la mania sarebbe arrivata anni dopo, niente incassi aggiuntivi, solo la semplice voglia di condividere e il legittimo sospetto che anni dopo, tanti anni dopo, avrebbe contato ricordare dove eravamo. Quando le distanze si dilatano tutto il bello diventa più bello, il tempo genera una sorta di effetto lifting e il ricordo vale ora, al presente; non ha nulla di nostalgico e non ha valore retroattivo. Io sono felice ora di aver condiviso gioie con tante persone, sono felice ora di averlo vissuto e di averlo vissuto in quel luogo.
Esistono luoghi che fanno la storia di una comunità, esistono momenti che uniscono e non sono necessariamente legati a situazioni che lasciano traccia indelebile. La coppa del mondo del 1982 è onestamente un avvenimento epocale, ma io ho il dolce ricordo liftato anche dei cento giorni prima e dei cento giorni dopo. Credo conti volerci essere, voler essere parte di un insieme e poi, come dimostra Dirac, che stupido non era, con la sua equazione, lo saremo per sempre.
La fermata del “Gnocchetto”
— Sabrina Mantegazza —
La tranvia Como-ErbaLecco, inaugurata nel 1912, era una linea tranviaria interurbana a trazione elettrica, che inizialmente collegava Como a Erba, prolungata fino a Lecco nel 1928. Dal bivio di San Martino a Como, il binario impegnava la strada comunale detta
“della Rienza” fino a superare
Camnago Volta, lungo la viabilità poi denominata strada provinciale 37; con un tratto in sede propria erano dunque serviti gli abitati di
Solzago e Tavernerio. La linea era a binario singolo e il tram in andata si incrociava con quello in ritorno proprio in via 1° Maggio nelle vicinanze della locanda con alloggio
“Gnocchetto”.
Il nome derivava da “Gnuchett”, soprannome col quale era conosciuto l’allora proprietario Brunati, in quanto gestore anche di una gastronomia in via Rienza che abitualmente preparava gli gnocchi al giovedì.
Il posto fu acquistato dalle famiglie Sozzi-Guarisco nel 1926 e, ancor oggi, gli eredi di questa famiglia ne sono proprietari e gestori. Elide era sarta, ma ben presto, per aiutare il marito Alfredo che si occupava degli avventori e dell’organizzazione del locale, mise il grembiule da cuoca e cominciò a lavorare in cucina. Nelle camere alloggiavano spesso i convalescenti, ormai guariti, che erano stati al sanatorio – la “Villa dei Pini”, situata in frazione Urago, ora sede dei Missionari Saveriani. La struttura era stata, tra il 1930 e il 1945 circa, un centro di cure per malattie respiratorie (vedasi articolo di Rita Pellegrini su notiziario “Il Paese” num.17 Giugno 2020) – tra di loro c’era Leda, una cuoca di origini toscoemiliane che, anche per passare il tempo, insegnò a Elide i segreti della pasta fatta a mano: tortellini, cannelloni, tagliatelle, lasagne.
Introdurre questi piatti nel menù fu un vero successo. La mattina, alle cinque, una squadra di donne del paese arrivava per aiutare nella preparazione di centinaia di tortellini, serviti a tavola per pranzo e/o cena.
La vicinanza alla “Fonte Plinia del Tisone” (a quei tempi la sua acqua era molto rinomata per le sue qualità e la sua purezza) indusse la famiglia Sozzi a dare un nuovo nome al “Gnocchetto”: ristorante “Terme”. Le terme non furono mai costruite, ma l’attività del ristorante continuò ugualmente, grazie al grande impegno della famiglia Sozzi e alla fortunata posizione vicina allo scambio dei tram: si poteva mangiare a pranzo e cena, ma era presente anche un bar dove si vendevano i biglietti del tram e i giornali. Gli avventori si fermavano per un bicchiere di vino, un caffè o per chiacchierare, o per fare una partita a biliardo.
Arrivò la Seconda guerra mondiale. Il ristorante resistette: molti sfollati, fuggiti dalle grandi città bombardate come Milano, trovarono sistemazioni provvisorie in quel di Tavernerio o presso le camere annesse al ristorante e volentieri, quando potevano, mangiavano lì.
Una decina d’anni più tardi, dopo la fine della guerra, l’obsolescenza e i costi di manutenzione degli impianti tranviari sempre più elevati, portarono la società di gestione dei trasporti a sostituire gradualmente le tranvie con nuove linee automobilistiche, considerate più confortevoli e di più economica gestione: il 5 settembre 1955 il collegamento tranviario tra Como ed Erba venne definitivamente dismesso. Un bel guaio per il ristorante che non era più in una posizione di passaggio privilegiata… Togliendo l’uso delle camere, l’attività seppe però reinventarsi. Si fecero delle grandi sale per banchetti: matrimoni, battesimi, cresime, comunioni, anniversari, pranzi aziendali divennero l’attività principale del ristorante per circa trent’anni.
Poi la moda cambiò e la gente cominciò a preferire, per gli avvenimenti, location più d’effetto, con scenari panoramici e ampi giardini in ville d’epoca, due elementi che il ristorante “Terme – Gnocchetto” non aveva. Ma anche questa volta il ristorante seppe di nuovo “cambiare rotta”. Rinnovò le sale creando un ambiente funzionale, spazioso e moderno. Ai piatti tradizionali della cucina lombarda, quali trippa, cazzuola, brasato con polenta, si affiancarono piatti della cucina piemontese quali agnolotti, bolliti con salsa verde, vitello tonnato, grazie all’arrivo del cuoco Ugo Pataccia.
Si ringraziano per la collaborazione e le immagini Luigi e Gabriele Sozzi
Ciao Fabio
— Francesca —
In fondo alla cartoleria, sul lato sinistro del locale, c’è una scrivania bianca a forma di U rovesciata, un computer e uno schermo luminoso, dove vengono segnalati i numeri del Gioco del
Lotto che cambiano tre volte alla settimana. Ci sono anche
Gratta&Vinci, accessori per la scuola, una fotocopiatrice e una stampante, carte veline e cartoncini di tutti i colori, sigarette e penne. Come ogni giorno, anche stamattina in cartoleria c’è fermento: chi entra per chiedere una stampa di un documento, chi vuole cambiare la vincita di un
Gratta&Vinci con banconote e chi ha bisogno del biglietto dell’autobus. Chi entra e chi esce, chi si ferma per fare due chiacchiere e chi perde una marea di tempo per scegliere il colore del biglietto di auguri da regalare a suo figlio.
Dietro la scrivania, seduto e con lo sguardo rivolto verso lo schermo del computer, c’è Fabio. Fabio ha appena toccato i quarant’anni, tuttavia, guardandolo dall’entrata della cartoleria, sembra un giovane studente. Ha i capelli corti color castano scuro, gli occhi sono così marroni che sembrano due castagne quando vengono colte nella loro massima maturazione. Indossa una polo bianca e un pullover blu notte, jeans chiari e sneakers.
Ciao Fabio, mi dai due pacchetti di Muratti e un Gratta&Vinci da 5 euro?” Chiedo io, dopo essermi avvicinata alla scrivania a forma di U rovesciata; “Ciao! Sì, subito. Hai preferenze sul Gratta&Vinci?” Mi risponde lui sorridendomi; “No, nessuna preferenza. Scegli tu!”; “Ottimo. Ecco a te!”
“Grazie Fabio”; “Grazie a te, buona giornata.
Èdavvero gentile Fabio. Ogni volta che ci salutiamo, mi augura sempre di trascorrere una piacevole giornata.” Ripeto tra me e me mentre esco dalla cartoleria e mi dirigo verso la macchina.
Il giorno successivo Fabio, insieme ad un suo amico, si è immerso nelle acque del Moregallo: guardare il mondo da laggiù, infatti, è sempre stata una delle sue maggiori passioni. Quella domenica piovigginava: gli asfalti delle strade erano bagnati; le foglie degli alberi, una volta cadute, si attaccavano ai marciapiedi; il vento, da nord, soffiava forte in tutte le direzioni.
In quella domenica di autunno inoltrato, durante uno dei suoi momenti preferiti, Fabio ci ha lasciato. Ha lasciato la sua famiglia e i suoi amici, la sua Croce Rossa, per la quale dedicava tempo ed energie, e la sua attività da subacqueo, il suo calcio e la sua cartoleria. Le acque profonde del lago sono state le sue ultime immagini: un luogo infinito, pieno di insidie e
Ti voglio bene, Fabio. Più di quanto avresti mai potuto immaginare.
Francesca
profonde incertezze; ma anche un luogo immaginario e onirico dove i limiti spazio-temporali si azzerano. Il Suo luogo, forse il Suo luogo perfetto, l’ha cullato e dolcemente l’ha portato via. E con sé si è portato via la sua discrezione e la sua capacità naturale di ascolto e di accondiscendenza; la sua bontà d’animo e la sua gentilezza nell’accogliere e nel condividere con gli Altri le esperienze di vita; la sua vitalità e attitudine ad aiutare l’Altro porgendo la propria mano, senza mai chiedere niente in cambio.
E io che resto qui, sola e con le sue fotografie tra le mani, mi rimane vivo e inossidabile il ricordo in tutta la sua unicità: la sua voce, le sue calde mani, la sua camminata e le sue gestualità.
Ora, quando entro in cartoleria, Fabio non c’è più. Ma io la sua presenza la sento ugualmente: nei fogli che si piegano, nel rumore del cassetto della cassa che si apre e si chiude, nelle voci e nei dialoghi tra il suo papà Marco e la sua mamma Tiziana, negli spifferi di vento che si sentono quando un passante entra e quando un altro esce.
Don Paolo Busato
nuovo Parroco della Comunità Pastorale di Tavernerio, Solzago e Ponzate
— Elio Maltagliati —
Il giorno 22 Maggio 2022, a nome della Comunità, la giovane Beatrice ha dato il benvenuto a don Paolo, sottolineando in più punti del suo intervento la necessità e il desiderio di avere una guida salda con cui condividere tutti insieme un percorso non facile, ma certamente stimolante e che, come auspicato dalle parole del Sindaco, “continui a non lasciare indietro nessuno”.
Lo stesso Sindaco ha ringraziato don Giorgio per il servizio prestato negli anni di presenza nel territorio di Tavernerio, ricordando la preziosa collaborazione instauratasi con l’Amministrazione, che dovrà trovare spazio anche in futuro.
Prima dell’ingresso in Chiesa, il Vescovo di Como, Mons. Oscar Cantoni, ha simbolicamente consegnato a don Paolo le chiavi delle tre parrocchie. Esse dovranno servire non per “rinchiudere Cristo e i cristiani dentro angusti confini parrocchiali”, ma essere un mezzo di “apertura al vasto mondo che ci circonda”.
È poi seguito il corteo dei presbiteri verso l’altare. Il Vicario Foraneo, don Alfonso Rossi, ha proclamato il decreto di nomina del Vescovo, sottoscritto per presa visione da due rappresentanti per ognuna delle parrocchie, da don Paolo e infine dal Vescovo.
Mons. Cantoni si è rivolto a don Paolo evidenziando come l’aver scelto lui per questo nuovo incarico non sia stato facile. Sulle ragioni umane, sono prevalse quella della fede, confermando che l’“obbedienza è ancora una virtù”. Cambiare significa anche saper cogliere nuovi stimoli per affrontare e superare nuove sfide. Ha ribadito la convinzione di aver trovato la persona adatta per guidare questa Comunità Pastorale, in collaborazione con gli altri sacerdoti e con tutti i laici che sapranno offrire la loro disponibilità.
Don Paolo ha confermato l’accettazione dell’incarico attraverso i riti propri della liturgia. Come previsto dal protocollo, il Vescovo ha abbandonato l’assemblea e ha affidato la celebrazione della S. Messa al nuovo parroco.
Nel pronunciare l’omelia, don Paolo ha affermato come l’obbedienza gli sia costata, come solitamente costa quasi a tutti, ma che la gioia di essere qui oggi l’ha aiutato. Forte il richiamo alla condivisione di un cammino da percorrere insieme, ognuno nel proprio ruolo, verso la certezza di una meta comune.
Fra i presbiteri intervenuti e concelebranti, era presente anche don Aldo Maesani. Originario di Tavernerio, quest’anno ha festeggiato i 50 anni di sacerdozio. Era sua intenzione condividere la gioia di questa ricorrenza anche con la Comunità che lo ha visto crescere. Purtroppo, non ci è riuscito. Il 4 ottobre scorso, ci ha lasciato, a seguito di un improvviso malore.
Alla cerimonia, hanno partecipato numerosi parrocchiani di Tavernerio, Solzago e Ponzate e un nutrito gruppo di fedeli giunti da Tirano e dalle altre comunità di cui don Paolo è stato pastore.
Al termine del rito religioso, presso l’oratorio, si è tenuto un gioioso momento conviviale.


