Via Roma 73

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Il libro è dotato di approfondimenti online su www.raffaellodigitale.it

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E 7,50

Via Ro ma 73

Michela Albertini è un’insegnante e vive in provincia di Milano. Le piace parlare e ascoltare. Ama moltissimo leggere e immaginare. Con Raffaello ha pubblicato “Nina e la capanna del cuore”, romanzo sul bullismo, e “È gelosia, piccolo Tobia!”, sulla gelosia tra fratelli.

Michela Albertini

Un racconto interessante per riflettere su argomenti di grande attualità: l’immigrazione, l’essere profughi e le condizioni di vita in altri Paesi. Dietro ai problemi più evidenti, si celano spesso storie di grande speranza e di notevole forza.

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BLU SERIE

Questo volume sprovvisto del talloncino a fronte è da considerarsi copia di SAGGIO-CAMPIONE,­GRATUITO, fuori commercio. Esente da I.V.A. (D.P.R. 26-10-1972, n° 633, art. 2 lett. d).

Speranza, Faris e Rafik sono tre bambini di nazionalità diverse con storie avventurose alle spalle. Non si conoscevano prima di andare ad abitare nel condominio di Via Roma 73, un edificio poco curato e sporco. In questo posto sembra difficile cominciare una vita diversa. Proprio qui, invece, tra panni stesi ad asciugare e rifiuti abbandonati, tra partite di calcio e compiti da finire, i tre bambini diventano amici e scoprono che la vita può riservare delle sorprese davvero inaspettate.

SERIE

dai 9

BLU

Michela Albertini

anni

Via Roma 73 La casa di tre piccoli immigrati nel nostro Paese



IL MULINO A VENTO

IL MULINO A VENTO Per volare con la fantasia

IL MULINO A VENTO

IL MULINO A VENTO Collana di narrativa per ragazzi

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Editor: Paola Valente Coordinamento redazione: Emanuele Ramini Approfondimenti e schede didattiche: Paola Valente Team grafico: AtosCrea Ufficio stampa: Salvatore Passaretta 1a Edizione 2016 Ristampa 7 6 5 4 3 2 1 0

2022 2021 2020 2019 2018 2017 2016

Tutti i diritti sono riservati © 2016 Raffaello Libri S.p.A. Via dell’Industria, 21 60037 - Monte San Vito (AN) www.raffaelloeditrice.it www.grupporaffaello.it e-mail: info@ilmulinoavento.it http://www.ilmulinoavento.it Printed in Italy

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Michela Albertini

Via Roma 73

Illustrazioni di

Laura Penone


Una casa non è una questione di mattoni, ma di amore. Anche uno scantinato può essere meraviglioso. Christian Bobin

Ai miei alunni, passati, presenti e futuri. I bambini sono le storie piĂš belle che la Vita scrive. Michela Albertini


Prologo Alla periferia del piccolo paese in cui vivo si trova

uno strambo caseggiato che ha sempre attirato la mia attenzione: è all’inizio della salita di una lunga via che porta alle scuole e passa davanti alla casa di riposo. È un caseggiato malmesso, soprattutto se lo si guarda dal lato delle villette che si trovano dietro ad esso: in un quartiere dove anche l’erba delle aiuole pubbliche sembra pettinata, questo edificio con la sua disordinata imponenza è come una nota stonata. I vetri di alcune finestre sono rotti, come quelli dell’appartamento che dà sulla strada al primo piano, ma si capisce che la casa è abitata perché, attraverso le tende colorate che svolazzano nell’aria, si intravedono alcuni abiti appesi a ganci nel muro. A volte mi fermo sul marciapiede, sulla destra della strada, e cerco di immaginarne l’interno, aiutandomi con il colore delle pareti e qualche altro piccolo indizio, come l’angolo di un armadio o una macchia di umidità sull’intonaco.

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Altre volte, mi vergogno di far vedere che lo sto guardando, per cui appena noto un po’ di movimento (una famiglia che cammina, un camioncino che entra dal cancello, un gatto che attraversa la strada) vado via facendo finta di nulla. A me, estranea alla vita di quel palazzo, sembra di prendere una confidenza che non ho. Anche l’esterno dell’edificio è conciato male, forse peggio che l’interno: il muro di cinta è crollato in un punto e nessuno si è ancora preso la briga di ripararlo, così i calcinacci caduti si sono mescolati ai rifiuti che escono dai sacchi della spazzatura rotti da qualche cane di passaggio. A volte mi capita di sentire imprecare il netturbino il venerdì mattina, giorno di raccolta del pattume indifferenziato, quando prende il sacco grigio e con foga, anzi con rabbia, lo lancia nel vano posteriore del camion, sfregandosi le mani una contro l’altra come per pulirsele, anche se indossa i guanti. Del palazzo di Via Roma, a dire il vero, mi hanno sempre colpito le cassette della posta: non ce n’è una uguale all’altra! Sono tutte appese alla parete esterna di mattoni rossi (nel punto in cui il muro di cinta ancora regge), in ordine sparso: una qua, una là, come se non volessero nemmeno stare vicine.

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Alcune sono tutte arrugginite. Altre riportano il nome del proprietario scritto con il pennarello indelebile direttamente sullo sportello davanti; su altre ancora il nome è scarabocchiato in qualche modo su un pezzetto di cartone attaccato con lo scotch. Altre cassette, invece, sono in attesa che qualcuno le usi: forse queste corrispondono a un appartamento vuoto, magari ancora sfitto. Sì, perché un’altra delle caratteristiche della casa di Via Roma 73 è che i suoi condòmini cambiano spessissimo, molto di più che di qualsiasi altro palazzo io abbia mai sentito parlare. Ogni volta che passo davanti a questo curioso edificio cerco di memorizzare un dettaglio che me lo renda più familiare, così alla fine della settimana mi ritrovo a leggere sul taccuino parole slegate tra di loro: orologio, fango, poltrona, parabola, mattoni. Queste parole sono tutte unite da un filo rosso che le tiene insieme come le perle in una collana: si ritrovano nelle storie delle persone che vivono lì, che io ho avuto la fortuna di immaginare e di scrivere. Ora ve le racconto: se avete voglia, mettetevi comodi e… ascoltate!

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parte prima

SPERANZA romania


romania - – - – - – - – -

ARCO DI TRIONFO DI BUCAREST

PALAZZO DEL PARLAMENTO DI BUCAREST

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–-–-–-–-–-–-–CASTELLO DI BRAN (DEL CONTE DRACULA)

MONASTERO DI SNAGOV

DELTA DEL DANUBIO

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I S

– peranza, voglio che sia Speranza – disse Aneta toccandosi il ventre leggermente prominente. – Promettimi che la chiameremo Speranza – insistette. – Sì… sì, certo… – rispose Damian con un lieve tono di perplessità nella voce. Avrebbe preferito dare alla sua primogenita il nome di sua madre. Aneta alzò il bavero del cappotto e lo strinse attorno al mento con le mani rosse per il freddo; si accomodò meglio sulla panchina, guardò lontano, in un punto imprecisato verso il Danubio che scorreva davanti a loro, quindi appoggiò la testa sulla spalla di Damian. – È un nome così bello, così… beneaugurale! Fin da piccola ho desiderato dare questo nome alla mia bambina, se mai ne avessi avuta una – continuò lieve. – Mmmhhh… e se fosse maschio? – chiese lui. – No, tesoro, non sarà un maschio! Lo so. Sarà una bambina. Sarà Speranza, la nostra Speranza! – ribatté lei allegra spostando la testa e guardandolo dritto negli occhi neri. Damian sentiva che la moglie aveva ragione: sarebbero stati genitori di una bambina.

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– Torniamo a casa? – chiese lei a un tratto. – Inizia a fare freddo. Si alzarono dalla panchina, si strinsero addosso il cappotto e si avviarono lungo il marciapiede mano nella mano. Il vento freddo scompigliava i loro capelli. Lei oltrepassò con un saltello un piccolo fascio di foglie che rotolavano e lui la guardò sorridendo. Era felicissima: con la bambina, lei e Damian avrebbero formato una famiglia. *** Arrivò l’inizio della primavera e con essa il rifiorire della natura: l’aria, benché ancora fredda, cominciava a profumare dei primi fiori e di rinascita. Aneta contava le ore che la separavano dalla nascita della sua piccola creatura: non vedeva l’ora di conoscerla. Nelle notti insonni che trascorreva di fianco all’amato Damian cercava di immaginarsi il volto della piccola, i suoi lineamenti delicati, il colore dei capelli. Le parve di non essere mai stata così fortunata nella vita; il suo cuore traboccava di gioia e di attesa. Arrivò l’ultimo giorno di marzo, giorno del parto. Dolori sempre più forti scossero Aneta che, con coraggio, diede alla luce la piccola.

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Appena nata, tuttavia, Aneta ebbe un malore improvviso e, nonostante gli sforzi dei medici, il cuore di Aneta smise di battere! Damian aveva appena finito di completare i documenti per la registrazione di sua figlia, quando l’infermiera gli comunicò la notizia: in un solo istante passò dalla gioia per la nascita della piccola alla disperazione per la perdita della moglie. Fermo in quell’orribile corridoio giallo con le pareti scrostate e le sedie verdi, avrebbe voluto urlare tutta la propria rabbia, ma non riuscì a dire nulla, tanto profondo era il suo dolore in quel momento.


Prese le scale e corse fuori, disperato e furioso. Nel parcheggio dell’ospedale si lanciò a terra in ginocchio e, imprecando, cominciò a battere i pugni sull’asfalto e a maledire quel giorno. Rabbia e angoscia si mescolarono alle lacrime calde che scendevano sulle sue guance, solo in un piazzale anch’esso deserto. All’ospedale, per rivedere la sua piccola, Damian non tornò il giorno dopo, né quello dopo ancora, né lo fece mai. Speranza, come accadde ad altri bambini, fu affidata ben presto alle cure di un orfanotrofio.


II Damian non smise un solo giorno di pensare ad

Aneta: quand’era arrivato a casa, quella fatidica notte, era stato preso da una rabbia incontrollabile e aveva buttato per terra ogni cosa. Era stato così che aveva rotto piatti e bicchieri, aveva aperto e rovesciato cassetti e, quando in un angolo nascosto tra i documenti aveva trovato un paio di calzine di lana rosa, aveva promesso a se stesso che mai e poi mai avrebbe voluto conoscere quella bambina che, nascendo, le aveva tolto la donna che amava. Il giorno dopo, si era risvegliato in mezzo a cocci di tutti i tipi; aveva raccolto i pezzi più grossi di vetro e di ceramica, aveva ordinato le pochissime cose che erano rimaste intatte negli armadietti, quindi aveva preso le calzine di lana rosa e le aveva gettate nella spazzatura insieme a quella parte di vita felice che sentiva persa per sempre. Con grande dolore, infine, aveva sistemato un po’ di vestiti in una valigia e si era chiuso la porta alle spalle per andarsene. Con i risparmi che possedeva comprò un biglietto per l’Italia.

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Sola andata. Non sapeva ancora cosa avrebbe fatto, nÊ dove sarebbe andato a vivere. Il suo unico desiderio era andare via. Di quella bambina, nata e appena intravista, non gli importava nulla: il solo pensare a lei, anzi, lo faceva stare male per la rabbia. Si trovava su un aereo. Se ne stava andando. Sospirò e afferrò senza voglia il giornale omaggio nella tasca dello schienale che aveva di fronte.

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III Quando Ioachim accostò l’auto al marciapiede

sotto un grande edificio a mattoni, Damian si sentì più sperso che mai, ma non disse nulla al caro amico che l’aveva accolto senza fare domande. Damian l’aveva chiamato per telefono solo due sere prima, quando aveva deciso di abbandonare la Romania e gli aveva chiesto di aiutarlo a trovare alloggio e lavoro in Italia, sapendo che l’amico abitava lì da parecchio tempo e si era sistemato. Ioachim fu sorpreso da quella telefonata a tarda sera, ma conosceva abbastanza bene Damian, poiché erano cresciuti insieme, per sapere che, se aveva deciso di chiamarlo a quell’ora, il motivo doveva essere molto serio. Non se l’era sentita di avvisarlo che non sempre gli stranieri vengono accolti bene, soprattutto se provengono da certi Paesi: a volte, infatti, a causa dei comportamenti violenti di alcuni connazionali anche gli immigrati più onesti vengono malvisti. Ioachim non aveva avuto il coraggio di dirgli che, anche per lui, all’inizio, vivere in Italia non era stato facile: aveva dovuto conquistarsi la fiducia degli altri solo perché

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era nato in Romania. Damian gli sembrava già abbastanza triste senza rivelargli queste considerazioni: avrebbe avuto modo di farlo più avanti, se ce ne fosse stato bisogno. In quel momento sperava solo non fosse accaduto nulla di preoccupante a lui o ad Aneta. Ioachim intuì subito che c’era qualcosa che non andava appena vide sbarcare dall’aereo Damian. Era solo: trascinava a fatica una valigia pesante e aveva lo sguardo serio. Ioachim abbracciò l’amico e caricò i bagagli in auto. Ora, quell’edificio parve a Damian tetro come il suo umore. Mentre era fermo nel cortile, una bambina con i capelli neri gli passò davanti correndo e lo urtò. Suo padre, dietro di lei, la richiamò: – Malyka, chiedi scusa! Damian fece cenno all’uomo che non era necessario richiamare la bambina, quindi ebbe una stretta al cuore quando di fianco a lui comparve la moglie con il pancione. I due uomini si salutarono con un movimento del capo. La porta dell’ingresso era spalancata nonostante facesse ancora freddo e due vetri erano rotti. Salirono le scale sporche e oltrepassarono un pianerottolo ingombrato da un passeggino e alcuni scatoloni, trascinando

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a fatica la valigia. Arrivarono in cima alle scale e, mentre aspettava che l’amico cercasse le chiavi e aprisse la porta, Damian notò delle ragnatele pendere dagli angoli grigi sopra la sua testa. Ripensò alla cura che Aneta aveva della loro piccola casa, che era modesta ma accogliente, e si chiese con tristezza dove fosse finito. A differenza di quello che sembrava da fuori, l’appartamento era curatissimo, con un tappeto, i cuscini sui divani e tendine gialle alle finestre. Ioachim spiegò: – È tutto merito di Irena: è lei che ama accudire così la casa! Damian, su invito dell’amico, si accomodò e accettò la tazza di caffè che gli veniva offerta. Sarebbe stato suo ospite per un po’, in attesa di trovare lavoro e casa. Di quello che era successo in Romania, Ioachim e Damian parlarono solo una volta. Ioachim preferiva non affrontare un argomento così difficile. Damian presto iniziò a lavorare: aveva trovato impiego come muratore nella ditta di un connazionale. In poco tempo avrebbe affittato una casa tutta sua.

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IV Anni. Tre anni trascorse Speranza nell’orfano-

trofio in cui era stata portata a una settimana dalla nascita. – E lei adesso? – si era chiesta l’ostetrica quando il padre era scappato via. Sapeva bene che i bambini che erano lasciati in ospedale sarebbero diventati dei ceausei1 , però le dispiaceva tantissimo per quella bambina, cui la mamma in punto di morte aveva sussurrato: “Te iubeste mama”2 . Avrebbe voluto tanto tenerla con sé, ma faceva già molta fatica a mantenere i propri figli. Per giustificarsi, l’ostetrica pensò che Speranza sarebbe stata, in realtà, solo una dei tanti bambini che vengono affidati alle cure dello Stato: si augurava che il suo nome le portasse fortuna. La bambina fu assegnata a una casa famiglia che si chiamava Casa de Soare: il suo nome, Casa del Sole, contrastava parecchio con l’ambiente poco luminoso e affollato in cui la piccola ben presto si ritrovò. 1) Venivano chiamati ceausei i bambini abbandonati negli ospedali e negli orfanotrofi costruiti dallo Stato. 2) = “La mamma ti vuole bene”.

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L’edificio sorgeva al centro di un boschetto di vecchi alberi, aveva le pareti scolorite e le persiane delle finestre socchiuse anche in pieno giorno. All’ingresso e nei corridoi vi erano piccoli gruppi di bambini. Qualcuno di questi guardava fuori dalla finestra o era immerso nei propri pensieri. Nell’aria non risuonavano le urla, le risa o i rumori tipici di un luogo abitato da bambini. I piccoli ospiti che vivevano nella Casa erano abituati a trascorrere il loro tempo nelle grandi stanze comuni con giocattoli che si rubavano a vicenda, oppure, se erano tra i più piccoli o malati, passavano molto tempo nei propri letti. Le giornate trascorrevano tutte uguali, senza fare nulla di speciale, senza uscire da quel posto se non, ogni tanto, nel piccolo giardino. Nessuno aveva mai sentito pronunciare loro le parole “da grande”. Il desiderio di tutti era di avere una famiglia, anche se alcuni di loro erano stati portati lì talmente piccoli che non si ricordavano più nemmeno cosa volesse dire averne una. Molti si trovavano nella Casa da così tanti anni che avevano smesso anche di sognare. C’erano numerose bambine, che non degnarono Speranza di alcuna attenzione al suo arrivo: era semplicemente una neonata come un’altra, una delle tante che erano giunte lì.

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Speranza imparò subito le regole non scritte della sua nuova “famiglia”: meno si piange meglio è; se anche si piange non accorre nessuno (se non dopo un lungo pianto); non si deve disturbare; il mal di pancia passa da solo. Per indole e per forza, Speranza si adattò in fretta alla situazione: beveva il latte dal biberon che le veniva appoggiato sul cuscino dalle inservienti della Casa, era capace di trascorrere ore nel proprio lettino senza avere bisogno di nulla. Il suo gioco preferito era un telefono rosa che si illuminava ogni volta che suonava. Fingeva di comporre dei numeri, di ascoltare qualcuno dall’altra parte del filo e alla fine di dire: – Pupici, mama!3 Ogni tanto si incantava davanti a una finestra e scoppiava a piangere senza motivo. Erano i suoi momenti di malinconia. In questi casi, l’inserviente più giovane della Casa, una certa Mila, le faceva una carezza sui capelli scuri e, una volta, l’aveva persino consolata abbracciandola forte. Era poi stata rimproverata dalle colleghe perché non doveva “viziare i bambini”. 3) = “Baci, mamma!”

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Fu per la simpatia che le ispirava la piccola che Mila fu insieme contenta e stupita quando, un pomeriggio di giugno, sentì suonare alla porta dell’ingresso della Casa e si trovò dinanzi uno sconosciuto dall’aria amichevole. – Cerco Speranza Ciobanu. È qui? – chiese l’uomo. – Scusi. Come può? Chi è lei? – replicò Mila sospettosa. – Mi chiamo Damian Ciobanu: sono suo padre.

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