Vacanze da leggere 2

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Vacanze 2

•La Banda delle Ore
•Giacinto, il cigno curioso

•Frankenstein

Vacanze 2

La pendola rintocca: il cucù spunta e fa cucù sei volte. Ricorda al mondo che sono le sei del mattino e lo sveglia. Così anche il sole si risveglia, e pure Beatrice, che abita in campagna ma deve andare a scuola in città.

Il sole sbadiglia e si stiracchia dietro le verdi colline sonnolente. Anche Beatrice si stiracchia tra le lenzuola rosa e sbadiglia.

Santini 2
Gabriella

– Sbrigati, Bea! Non abbiamo tempo! È tardi! – esclama la mamma.

– Il tempo stringe ! – aggiunge il papà.

Quand’era piccolina, per Bea il tempo era infinito e i genitori le donavano soltanto sorrisi e coccole.

– Ma il tempo cos’è che stringe? – chiede intanto al suo orsacchiotto Pelù. – E perché non rallenta mai e corre sempre?

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Il sole si alza alle sette del mattino: saluta le nuvole e dà loro un pizzicotto per essere certo che siano sveglie.

Beatrice fa colazione e si veste. Quando sale sullo scuolabus giallo, il pizzicotto non lo dà, ma lo riceve. E non dal sole, ma dalla sua amica Ambra, che vuole essere certa che Bea sia sveglia del tutto, una volta in aula.

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Alle otto del mattino, la pendola grande e scura nell’ingresso della scuola rintocca l’ora. Bea e Ambra entrano a scuola, mano nella mano. Aspettano che la maestra Olivia arrivi, sorrida, saluti, chiuda la porta e dia inizio ai giochi.

– Buongiorno! – esclama invece una signora mai vista, entrando alle nove in aula. Ha i capelli bianchi, l’aria seria e l’abito nero.

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– Sono la maestra Orazia e sostituisco Olivia che è malata. Abbiamo da fare, oggi, ed è già tardi, molto tardi!

– Buongiorno, maestra Orazia – la salutano i bimbi, incerti.

– Sapete che ore sono? – chiede Orazia, sollevando le sopracciglia e indicando la pendola dell’aula, quella piccola di legno colorato.

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– Il cucù canta l’ora e la maestra Olivia la traduce – dice Ambra.

– Da soli, noi l’ora non la sappiamo leggere. È difficile!

– Se non sapete riconoscere l’ora non potete giocare! Lavoreremo sull’orologio finché alle dieci, ora della ricreazione, il cucù non suonerà. Pochi minuti per mangiare, poi di nuovo al lavoro fino a mezzogiorno! Dunque, adesso è l’ora del lavoro!

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Tutti restano zitti, tranne Bea e Ambra, che bisbigliano.

– Uffa! – sospira Bea. – Non è giusto!

Già i “grandi” non fanno che ripeterci che il tempo stringe… ora ci si mette anche

Orazia? Rivoglio Olivia! Rivoglio i giochi!

Rivoglio il mio tempo! Abbasso i cucù!

– Che c’entrano i cucù? – le chiede Ambra, stupita.

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– Cantano l’ora! Senza di loro, zero impegni e tanta libertà!

– Libertà? E di che? – le chiede Ambra, sempre più stupita.

– Di dormire, di fannullare, di giocare! Insomma, non hai capito? Le ore corrono più di noi, e i cucù le aiutano.

Con antipatia, Bea fissa la pendola piccola, che le era sempre piaciuta, e pensa a quella grande e scura che governa la scuola!

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Mentre rintoccano le undici del mattino, le viene una grande idea. Così… – Basta! Ho deciso! Da adesso io sono il capo della Banda delle Ore! E tu ne fai parte. Conquisteremo i cucù e sconfiggeremo il tempo!

Ambra sorride, poi tutta entusiasta corre a invitare anche la sua amica Viola.

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Mezzogiorno: ora del pranzo. Tutti vanno a mensa. Le tre bambine invece corrono all’ingresso. Obiettivo? La pendola grande e scura.

Il cucù blu spunta dalla porticina e canta dodici volte. Bea sale sulle spalle di Ambra e, aiutata da Viola, strappa il cucù e lo nasconde nella tasca del grembiule.

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È l’una, l’ora del riposino: i bimbi dormono, le maestre bevono il caffè. La Banda delle Ore entra in aula e si avvicina alla pendola piccola. Il cucù rosso spunta dalla porticina e fa cucù una volta. Aiutata da Viola, Bea sale di nuovo su Ambra, strappa via il cucù e lo nasconde insieme all’altro.

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Le quattro del pomeriggio: ora del rientro a casa. Bea e Ambra salutano Viola e salgono sullo scuolabus.

– E adesso? – sussurra Ambra. – Che facciamo? Abbiamo rubato le ore!

– Non tutte – mormora Bea, con voce sicura. – Tu vieni a casa mia!

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Le cinque del pomeriggio: ora del gioco. Bea e Ambra dovrebbero disegnare un orologio per Orazia, invece vogliono giocare. Perciò… – Conquistiamo l’ultimo cucù e le ore saranno nostre! Se rimani anche a cena, ce la faremo – esclama Bea.

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Sei del pomeriggio: le bimbe si appostano vicino alla pendola che rintocca i sei “cucù”. Appena zittisce, Ambra accosta una sedia,

Bea si arrampica e tira via l’ultimo cucù, quello giallo. Poi, lo mette con gli altri in una scatola segreta.

Fa buio: più o meno sono le sette della sera. La mamma e il papà non sono tornati dal lavoro; è strano. Le bimbe si annoiano e hanno fame.

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Più o meno alle otto della sera, la cena che di solito è già in tavola non è nemmeno in pentola. Finalmente i genitori tornano a casa anche se non sanno che ora è.

Non hanno fatto la spesa, non riordinano, non accendono la tivù. Si siedono sul divano e non fanno nulla.

– Mamma? – chiede Bea, stupita, – quando mangiamo?

– C’è tanto tempo! Che fretta c’è?

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Di solito, alle nove di sera, Bea riceve le coccole, poi va a nanna. Stavolta, invece, mamma e papà russano allungati sul divano. Bea sbadiglia, Ambra pure. Com’è triste non avere chi ti aiuta a mettere il pigiama, ti dà la buonanotte e ti accompagna a letto, ma soprattutto… – Com’è triste non ricevere le coccole prima della nanna! – dice Bea.

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Poco dopo si addormentano anche le bambine, sulla poltrona vicino al camino spento. Quand’ecco che a mezzanotte qualcuno suona alla porta… Bea salta su e sbircia nell’occhiolino.

È la postina che consegna la posta in piena notte; con lei c’è il giornalaio col giornale e il fornaio che consegna il pane…

– Che succede? – si chiede Bea. – Il mondo è a testa in giù?

Poi si sveglia del tutto e capisce.

Finalmente capisce!

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– Abbiamo rapito le ore! – esclama.

– Non avremo più la cena! Non faremo più la nanna come si deve! Non avremo più le coccole!

– È troppo triste… – mormorano le bambine in coro, mentre si guardano negli occhi come fanno i grandi nei momenti importanti.

E allora non resta che una cosa da fare…

– Dichiaro sciolta la Banda delle Ore –sussurra Bea, solenne.

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Poi si avvicina alla finestra, la apre, fruga nella scatola ed estrae i cucù. Quello giallo capitombola, si raddrizza, svolazza sulle loro teste e torna nella sua pendola. Anche il blu e il rosso prendono il volo in fila ordinata, ciascuno verso la propria casa. Che emozione! Bea corre a svegliare mamma e papà: questa è di nuovo l’ora delle coccole… adesso lo sa.

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Giacinto, il cigno curioso

Patrizia Ceccarelli
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Giacinto era stanco di nuotare nelle acque calme e opache del laghetto in cui era nato, alla fattoria di nonno Dante.

Il giovane cigno viveva lì da sempre: in quello stagno aveva imparato a nuotare e a spiccare i primi voli, ma adesso aveva voglia di cambiare.

“Sono bello e intelligente” pensava. “Non posso trascorrere qui tutta la mia vita.

Troverò un luogo adatto a me!”

Così si mise in cerca di compagni di avventura.

– Cigni, svegliatevi! Chi vuol partire con me in cerca di fortuna?

Eugenio, suo amico di infanzia, sospirò.

– Ormai ho messo su famiglia, tra poco nasceranno i miei piccoli, non posso allontanarmi.

Gregorio, suo fratello, lo schernì.

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– Cosa speri di trovare lontano da qui? Gli stagni sono tutti uguali!

– Io preferisco rimanere nel mio prato, lo conosco bene e ci sono affezionata – disse la giovane amica Ornella.

– Siete proprio dei rammolliti! – urlò loro Giacinto. – Peggio per voi. Me ne andrò da solo. Io voglio trovare il mare!

E se ne andò davvero. Varcò il cancello della fattoria con passo ardito e si allontanò senza più voltarsi indietro.

Appena fuori dalla fattoria, Giacinto si ritrovò su una larga strada asfaltata e prese a camminare veloce.

Cammina, cammina, incontrò un paese, attraversò un ponte, oltrepassò una piazza.

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Il tempo passava, lo stagno era ormai lontano e il male alle zampe cominciò a farsi sentire.

“Quanta strada dovrò ancora fare? Quanto sarà lontano il mare?” si chiedeva. “Sono stanco, e ho anche fame”.

In quel momento, sentì avvicinarsi una motocicletta.

– Che ci fa un cigno per strada? – gli chiese il conducente.

– Sto andando al mare.

– Al mare? Che vai in vacanza?

– Macché vacanza! Vado al mare perché quello è il mio luogo ideale.

– Allora, sali con me. Ti dò un passaggio.

Giacinto era così stanco che accettò.

– Ti porto prima a casa mia, così potrai riposarti un po’– gli disse il conducente.

– Abiti lontano?

– Solo pochi chilometri.

Presto arrivarono sull’aia di un casolare di campagna.

Il giovanotto frenò e disse:

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– Eccoci a casa, accomodati nel pollaio, lì starai comodo fino a domani.

Giacinto si sgranchì le zampe e si avvicinò alla porta del pollaio.

Era socchiusa. La spinse con la zampa e si trovò di fronte una decina di galline addormentate.

Abituò un attimo gli occhi all’oscurità e, visto un angolo libero, si accomodò a terra.

– Che novità è questa? – chiese indispettito un gallo appollaiato su un trespolo. – Cosa ci fa un cigno nel pollaio del gallo Ferdinando?

– Passo qui la notte e domani vado via. Io voglio andare al mare!

– Oh, va al mare lui! Ne sei proprio sicuro?

– Che c’è di strano?

– Nel mare stanno i pesci, mica i cigni! E se il padrone ti ha portato qui, avrà di sicuro qualche progetto per te.

– Che progetto?

– Potrebbe friggerti in padella o farti arrosto con una patata in bocca…

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Giacinto rabbrividì e rispose:

– Non sono un gallo, io! In forno finirai tu!

– Già, forse hai ragione – rispose Ferdinando.

– Quasi quasi vengo al mare con te.

– Così, di notte?

– Domani ci sono ospiti a pranzo, non vorrei che mi facessero la festa!

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A quelle parole, Giacinto divenne ancora più inquieto.

– Allora, partiamo subito! Che motivo c’è di aspettare l’alba?

Così, in gran silenzio, il cigno e il gallo uscirono dal pollaio.

– Fa un bel freddo, però… – cominciò a lamentarsi il gallo. – E dire che stavo così bene, al calduccio, tra le mie galline.

– Anche nel forno del padrone saresti stato bello caldo. Non lamentarti e cammina. Il mare è ancora lontano.

Continuarono in silenzio. Ogni tanto incontravano qualche fattoria avvolta nel buio o un pollaio addormentato.

Finalmente, quando il cielo cominciava a schiarirsi, giunsero nella piazza di un paesino.

– Fermiamoci un attimo! – propose il cigno.

Anche Ferdinando voleva prendersi un po’ di riposo, ma all’improvviso, scosso dalle prime luci dell’alba, ebbe un sussulto e

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lanciò un acutissimo CHICCHIRICHÌ!!!!!!!!

– Sei impazzito? – gli urlò Giacinto. –Sveglierai tutto il paese!

Ma imperioso e inarrestabile, al gallo uscì un secondo CHICCHIRICHÌ, ancora più forte, e poi un altro ancora.

Al terzo CHICCHIRICHÌ del gallo, le finestre delle case cominciarono a illuminarsi.

Giacinto corse a nascondersi, mentre gli uomini e le donne si affacciavano ai balconi per capire cosa stesse accadendo.

In un battibaleno furono tutti in strada. La piazza si riempì di persone.

– Chi ha fatto chicchirichì? Da tanto tempo in paese non ci sono più galli e neppure galline – diceva uno.

– E da tempo non possiamo cucinare una frittata o una bella torta… – aggiunse un altro.

– E poi… – volle dire la sua anche un bambino – …non abbiamo uova da colorare nel giorno di Pasqua…

Ad un tratto, gli abitanti del paese

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scorsero in un angolo Ferdinando che se ne stava ancora con il becco aperto, la coda ritta e le penne scintillanti.

Una signora dai capelli bianchi lo prese addirittura sotto il braccio e con orgoglio gli fece fare un giro tra i presenti.

– È proprio un gallo! E che gallo! Forte e baldanzoso! – esclamò.

Così il destino di Ferdinando fu deciso: venne messo al centro della piazza dentro un recinto di canne leggere con ciotole colme di acqua pulita, semi, vermetti e tutto ciò che un gallo potesse desiderare.

Poi il sindaco del paese disse a Ferdinando con fare cerimonioso:

– Grazie a te ora potremo svegliarci di nuovo al canto del gallo!

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Ferdinando era un po’ frastornato, ma essendo sensibile agli elogi, accettò di buon grado la sistemazione e indossò con fierezza la targa che gli fu messa al collo.

A Ferdinando, Re dei galli

Giacinto, che dal suo nascondiglio aveva osservato tutta la scena, pensò:

“Sono partito per vedere il mare, non voglio finire anch’io in gabbia!”.

E decise di riprendere il suo viaggio.

Appena fuori dal paese notò un andirivieni di gente e bancarelle cariche di merce: frutta, verdura, formaggi, scarpe, vestiti e carabattole di ogni genere.

Un ragazzo dalla pelle scura con un fascio di ombrelli sotto il braccio guardò Giacinto e gli disse:

– Un cigno al mercato?! Dove vai?

– Vado al mare.

– Allora ti serve un ombrello. Vuoi comprarne uno?

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– Non ho soldi, e poi, per quello che so, al mare non piove mai!

– Ma il sole picchia forte, ti serve qualcosa per ripararti durante il viaggio…

– Sì, forse un ombrello mi sarebbe proprio utile.

– Voglio regalartene uno! – disse il ragazzo, e mise sotto le ali del cigno un grande ombrello giallo.

– Un cigno con l’ombrello!? Com’è buffo!

– urlò un bambino da un’automobile di passaggio.

– Chissà dove andrà?

– Vado al mare – rispose Giacinto.

– Spero di arrivarci prima di notte.

– Se vuoi, possiamo darti un passaggio, vero papà? – propose il bambino.

– Certo – rispose l’uomo.

L’automobile si fermò e Giacinto salì con il suo ombrello giallo.

– Perché vai al mare? – chiese il bambino.

– Voglio vedere come è fatto! Deve essere bellissimo! – esclamò il cigno.

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Poi tacquero tutti e due, appoggiarono la testa al sedile e si addormentarono.

Li svegliò la voce del papà.

– Siamo arrivati.

– Ecco il mare! – indicò il bambino.

Il cigno scese dalla macchina e rimase con il becco aperto ad ammirare quella grande distesa azzurra.

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Affondando le zampe nella sabbia e strizzando gli occhi per proteggerli dal sole, Giacinto si portò sulla riva e allungò ancora di più il suo collo per osservare meglio la linea dell’orizzonte e l’andirivieni delle onde.

Ogni movimento dell’acqua portava sassi, alghe e conchiglie e li faceva rotolare verso le zampe di Giacinto.

– Faccio il bagno – gridò. E si tuffò immergendo il lungo collo nella schiuma.

Felice e contento, si trovò a galleggiare in mezzo a tanti pesci mai visti prima, ma la corrente lo trasportò velocemente al largo, mentre onde piccole e grandi lo sbatacchiavano qua e là.

Cominciò a spaventarsi. Si sforzò di tornare verso la spiaggia, ma veniva spinto in direzione opposta. Per uscire dall’acqua, dovette ingaggiare un vero e proprio combattimento con le onde.

Alla fine approdò sulla battigia, stremato, con le penne strapazzate e il collo irrigidito.

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Anche l’ombrello era danneggiato dalla nuotata in mare aperto.

“Acque agitate quelle del mare” pensò. “Sarà meglio pensare a mangiare”.

Si guardò intorno, ma non vide niente di commestibile.

Decise allora di tuffarsi di nuovo, per procurarsi qualche pesciolino da mangiare.

Guardò giù verso il fondo sabbioso: scorse solo un granchietto impaurito che non riuscì nemmeno a trattenere nel becco.

– Salterò il pranzo – disse rassegnato, – ma per la sete non ci sono problemi!

E bevve un bel sorso di acqua di mare.

– Che schifo! – gridò sputacchiandola.

Sconsolato, decise di sdraiarsi al sole.

Dopo un po’ però sentì scottare le penne e decise di aprire l’ombrello per sfuggire ai raggi cocenti ma le stecche danneggiate non vollero saperne: si incastrarono una nell’altra formando una informe palla gialla.

Si diresse allora sopra gli scogli e pensò: “Addio anche alla tintarella!”

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– Ti piace il mare? – gli chiese un gabbiano incuriosito, appena atterrato sulla riva.

– Sì, molto. Non sono riuscito a procurarmi niente da mangiare, ma il mare mi piace!

– E cosa hai bevuto?

– Niente, l’acqua del mare è salata!

– Ti sarai consolato con la tintarella.

– Niente bagni e niente tintarella, ma il mare mi piace lo stesso!

– Buona fortuna, allora! – disse il gabbiano spiccando il volo.

Giacinto si allontanò dalla riva borbottando.

Che antipatico quel gabbiano! E adesso che ci penso, mi è antipatico anche il mare! L’acqua è salata, non si trova niente da mangiare, il sole scotta, le onde sono agitate e…

Scese la sera. L’aria scura e una musichetta lontana resero Giacinto ancora più malinconico.

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Lasciando il mare alle spalle, seguì le note e si ritrovò davanti ad una giostra dove tanti cigni di legno colorato giravano e giravano al suono di un organetto.

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Erano cigni con le ali dipinte d’oro e d’argento e ognuno di loro portava in groppa un’allegra coppia di bambini.

– Ancora un giro, dai mamma, ancora uno! – gridavano eccitati.

Giacinto non aveva mai visto una giostra.

Si avvicinò, salì sulla pista e subito una bambina con due treccine rosse e ispide gridò:

– Voglio salire su quello, guarda com’è bello! – e saltò in groppa a Giacinto che prese a girare insieme ai cigni della giostra.

Trasportato in quel giro leggero, con l’aria fresca che gli solleticava le penne e le risate dei bambini nelle orecchie, Giacinto si abbandonò ad una gioia spensierata e continuò a girare e girare.

E ancora oggi è là… e gira felice, mentre i bambini fanno la fila per salire su Giacinto, il loro cigno preferito.

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Frankenstein

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Libero adattamento dal testo di Mary Shelley
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Victor Frankenstein è un famoso dottore, uno studioso del corpo umano e dell’elettricità.

Trascorre tutte le giornate nel suo grande laboratorio, pieno di alambicchi, di provette e di fialette misteriose: fa in segreto grossi esperimenti di cui nessuno sa nulla.

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Il suo sogno è di far tornare in vita un corpo umano. Sembra una cosa impossibile ma per il dottor Frankenstein nulla è impossibile!

Notte e giorno studia e lavora per realizzare questo suo progetto.

Tra disegni e strumenti vari, prova e riprova ogni singolo passaggio, ma non trova mai la soluzione: manca sempre qualcosa di piccolo per completare l’esperimento.

Passano i giorni, giorni e giorni senza risultati positivi, ma il grande scienziato non si perde d’animo.

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Si è procurato dei corpi di persone morte; ha preso la testa da un cadavere, un corpo da un altro, due braccia e due mani da altri cadaveri.

Adesso sta cercando di assemblare tutte le parti tra di loro e dar vita a un altro essere.

– Sarà un uomo! E sarà una creatura buona – esclama al colmo della felicità. – Sono certo che ci riuscirò!

Il suo scopo è proprio quello di creare una persona nuova, vuole dimostrare a tutti che la vita trionfa sempre e che si può creare in laboratorio.

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Una notte succede un fatto straordinario: un lampo colpisce in pieno la creatura del dottor Frankenstein e, tutto a un tratto, quel corpo si anima improvvisamente. Apre gli occhi e si alza.

Il dottore lo guarda spaventato e incredulo.

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La sua creatura è davvero spaventosa: è molto alta, ha orribili cicatrici in tutto il corpo, occhi gialli, capelli neri ed enormi braccia.

Si muove in modo strano e fa paura solo a guardarlo.

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Il dottor Frankenstein ha tanta paura del mostro che ha creato: fugge terrorizzato dal laboratorio e cerca di salvarsi.

Solo adesso capisce che in realtà la sua invenzione è qualcosa di pericoloso.

Lui pensava che la creatura fosse buona, invece, non si sa per quale motivo, si dimostra non gestibile.

Anche il mostro esce dal luogo dove è stato creato e vaga senza alcuna meta per la campagna. Tutto è nuovo per lui.

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Il mostro ha fame e si ciba dei frutti degli alberi che lo circondano: pere, mele, fichi e uva. Ha sete e si ferma a bere l’acqua dei ruscelli.

Però si sente solo, veramente solo.

Lacrime di tristezza scorrono lungo il suo viso.

Non è cattivo, in realtà non conosce nessuno e si sente troppo solo.

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Quanto vorrebbe avere amici, parlare con delle persone, raccontare a tutti che non è cattivo ma una persona come tante.

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Cammina e cammina, si trova in un piccolo villaggio. È contento perché finalmente conoscerà delle persone e non sarà più solo.

Appena lo vedono, però, tutti scappano: la gente ha paura di lui. Chi urla, chi gli tira le pietre... Non lo vogliono proprio tra loro!

Il mostro non riesce a comprendere il perché di tanta crudeltà: tutti fuggono mentre lui non fa niente di male a nessuno.

Questa cosa accresce ancora di più la sua tristezza e malinconia.

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L’unica cosa che può fare è fuggire lontano: è molto turbato e veramente infelice.
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Non sa dove andare: è davvero disperato! Decide di ritornare dal dottor Frankenstein che, come lo vede, cerca di scacciarlo.

Il mostro dice:

– Io sono solo, nessuno mi vuole bene...

Il dottor Frankenstein ha paura, pensa che il mostro dica una bugia e gli risponde:

– Ho creato un mostro. Vattene via, non ti voglio più vedere! Vattene lontano!

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Il mostro ora è davvero molto arrabbiato.

Odia la gente, odia chiunque vede davanti a sé. Anche il suo creatore lo sta scacciando!

Non è cattivo ma è stato allontanato da tutti e questo lo ha reso diffidente. Adesso non vuole più avere rapporti con il mondo esterno, adesso non vuole più essere buono. Il mondo lo ha cambiato.

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Decide quindi di vendicarsi del dottor Frankenstein.

In una sera molto buia e nebbiosa, una pallida luna segue il mostro.

Egli si reca a casa del dottor Frankenstein e... semina il terrore tra la moglie e il piccolo fratello del dottore.

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Quando si accorge di quello che ha fatto il mostro che lui stesso ha creato, il dottor Frankenstein decide di vendicarsi.

Lo cerca in tutti i Paesi del mondo seguendo ogni minima traccia. Quando trova una pista giusta e sta per raggiungerlo, il mostro si sposta velocissimo e scompare di nuovo.

Il dottore è stanco e avvilito ma non demorde e continua a cercarlo. Alla fine arriva al Polo Nord. Guidando una slitta trainata da cani, lo vede e lo insegue tra il ghiaccio e il freddo insopportabile.

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Alla fine, però, esausto per la fatica e stremato dal freddo, il dottor Frankenstein si lascia cadere nella neve: non ce la fa proprio più!

Il mostro lo trova inerme sul ghiaccio. Si avvicina a lui, lo guarda, lo accarezza e poi… si mette a piangere.

Il dolore ha toccato il suo cuore: calde lacrime gli scorrono sul viso, piange perché vuole bene al suo creatore, piange perché in fondo quello è suo padre.

Però capisce che gli porterà solo dolore e, allora, si allontana e scompare all’orizzonte.

Non si vedrà mai più.

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Coordinamento redazionale: Emanuele Ramini

Team grafico: Mauda Cantarini

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