Oliver Twist

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CHARLES DICKENS Oliver Twist

Uno dei primi esempi di romanzo sociale della letteratura per ragazzi

Coordinamento di redazione: Emanuele Ramini

Progetto grafico e copertina: Mauro Aquilanti

Impaginazione: Enzo Bocchini, Mauda Cantarini

Disegno di copertina: Danilo Loizedda

Stampa: Gruppo Editoriale Raffaello

© 2025 Tutti i diritti sono riservati

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CHARLES DICKENS

Oliver Twist

Adattamento

Capitolo I L’inizio della storia

Nello stesso giorno in cui nacque rimase orfano: la madre era stata raccolta per strada ormai morente, del padre non si sapeva nulla.

Diventò così uno dei tanti bambini affidati alla parrocchia, un futuro piccolo servitore disprezzato da tutti, destinato alle bastonate e alla fame cronica.

Gli venne dato il nome di Oliver Twist, scelto personalmente dal sagrestano della parrocchia, l’autorevole signor Bumble.

Dopo i primi anni, le autorità parrocchiali decisero di affidarlo ad una succursale lontana circa tre miglia e governata dalla signora Mann, un’anziana donna che ospitava bambini orfani. La donna era così avara e perfida da intascarsi parte della somma settimanale che spettava ai bambini e manteneva i suoi “protetti” appena sull’orlo della sopravvivenza. Non erano pochi quelli che si ammalavano e morivano di fame e di freddo.

A volte veniva fatta un’indagine su queste morti, ma tutto finiva in una bolla di sapone, messa a tacere dalle false testimonianze di qualche medico corrotto.

Fu così che Oliver divenne un ragazzino gracile, molto magro e sempre pallido.

Il ragazzino festeggiò il giorno del suo nono compleanno in castigo nel ripostiglio del carbone insieme a due compagni, come lui bastonati per aver osato dichiarare che erano affamati.

Il signor Bumble scelse proprio quel giorno per fare visita alla signora Mann e informarla che il ragazzino era ormai abbastanza grande per ritornare all’ospizio della parrocchia e rendersi utile lavorando.

Ripulito alla meglio di tutta la sporcizia che aveva addosso, Oliver si finse dispiaciuto di lasciare la “brava” signora Mann e riuscì a spremere addirittura qualche lacrimuccia. Dentro di sé era invece felice di abbandonare quel posto orribile. Appena tornati in parrocchia, il sagrestano Bumble disse a Oliver:

– Il Consiglio vuole vederti, ragazzo.

Oliver non aveva idea di che cosa fosse quel Consiglio, ci stava ancora riflettendo quando, come incoraggiamento, ricevette una bastonata in testa: si affrettò quindi a seguire il signor Bumble in una grande sala senza chiedere tanto. Seduti intorno a un tavolo c’erano una decina di signori piuttosto corpulenti.

A capotavola un signore più grasso degli altri gli chiese brusco:

– Come ti chiami, figliolo?

Per la paura e l’emozione il ragazzino non aprì bocca. Ricevette un’altra bastonata, ben più forte della prima, quindi sussurrò:

– Oliver... Twist, signore.

– Dunque, tu sei un orfano, vero? Lo sai che non hai né padre né madre?

– Sì.

– Sei ritornato qui per imparare un mestiere.

Comportati bene!

Così finì l’udienza.

Oliver venne condotto in una squallida camerata e lì, disteso su un letto duro e angusto, singhiozzò a lungo prima di addormentarsi.

I signori del Consiglio tornarono alle loro case, convinti di essersi comportati nel modo migliore: fuori o dentro un ospizio, i poveri avrebbero comunque sofferto la fame. Meglio allora sfruttarli in qualche modo.

Da tempo, gli autorevoli signori della parrocchia avevano stabilito la quantità di cibo da concedere ai ragazzi: ogni giorno una minestra con poca pasta

e molta acqua; due volte alla settimana una cipolla; alla domenica un quarto di pagnotta.

Quel menù era rispettato con così tanta cura che nell’ospizio aumentò la presenza delle pompe funebri e si aggiunse quella di una vecchia sarta chiamata per restringere i vestiti cenciosi che penzolavano dai corpi sfiniti.

Il refettorio dove i ragazzi mangiavano era grande e freddo. Ogni sera arrivava il direttore con due donne al seguito e lui stesso distribuiva la minestra: una scodella neanche ben piena, niente altro, salvo che per le grandi festività quando veniva aggiunta mezza pagnotta.

Per tre mesi Oliver e i suoi compagni di sventura soffrirono i morsi della fame sempre più forti, alla fine erano così esasperati che uno di loro finì per esplodere e dichiarò cupamente:

– Se non ci concedono due ciotole di minestra al giorno, una di queste notti finirò davvero per mangiare il mio vicino di letto!

Trovò degli ascoltatori convinti: tutti insieme decisero che era ora di avanzare le loro richieste e si tirò a sorte il nome di chi, quella sera stessa, sarebbe andato dal direttore per esporle.

Il nome estratto fu quello di Oliver.

Venne la sera, il direttore arrivò con le solite due donne e iniziò la distribuzione della minestra.

L’inizio della storia

Il ragazzo accanto a Oliver gli diede una gomitata per farlo muovere, lui trovò a fatica il coraggio di alzarsi, e, con il cucchiaio e la scodella in mano, si avvicinò al direttore sussurrando:

– Per favore, signore, vorrei ancora un po’ di minestra...

Il direttore strabuzzò gli occhi, impallidì, poi riuscì a rantolare:

– Che cosa hai detto?

– Che vorrei ancora un po’ di minestra signore, per favore. Ho fame...

Il direttore afferrò il ramaiolo e lo abbatté sulla testa di Oliver, poi chiamò il sagrestano urlando e gli ordinò di riferire subito l’accaduto al Consiglio, riunito per la seduta serale. La notizia suscitò sdegno. Chiedere altra minestra oltre quella concessa dal regolamento!? Incredibile, inconcepibile!

– Prima o poi quel ragazzo finirà impiccato! – disse uno dei signori con il panciotto bianco. – Sarà quella la sua giusta fine!

Subito si accese una concitata discussione e, alla fine, si decise di condannare Oliver alla segregazione in una stanza buia. Ma non bastò: la mattina seguente fu appeso un cartello al cancello dell’ospizio nel quale si offriva una ricompensa di cinque sterline a chi avesse sbarazzato la parrocchia dalla non gradita presenza di Oliver Twist.

In altre parole, Oliver e cinque sterline in contanti sarebbero state elargite a chi aveva bisogno di un apprendista per qualsiasi mestiere.

Pochi giorni dopo, un certo Gamfield, uno spazzacamino duro di cuore e dall’aspetto poco rassicurante, passò dalle parti dell’ospizio, lesse il cartello e pensò che quelle cinque sterline gli avrebbero permesso di pagare gli arretrati dell’affitto di casa. Era un buon affare!

Accanto al cancello c’era il signore con il panciotto bianco che, quando vide lo spazzacamino leggere il cartello e avvicinarsi, subito sorrise e pensò che quello sarebbe stato il padrone ideale per Oliver.

Anche l’altro sorrise. Si tolse il berretto e, in tono rispettoso, chiese al signore con il panciotto bianco:

– È qui il ragazzo offerto dalla parrocchia?

– Sì, brav’uomo – gli venne risposto.

– Ecco, a me servirebbe un apprendista e lo prenderei volentieri con me.

– Entrate – disse il signore con il panciotto bianco.

L’uomo non se lo fece ripetere e subito venne ammesso alla presenza dei signori del Consiglio.

– È un brutto mestiere il vostro – disse uno dei membri dopo che Gamfield ebbe fatto la sua proposta.

– Molti ragazzi sono rimasti soffocati dentro i camini – aggiunse un altro scuotendo la testa.

– Colpa dei padroni che non li hanno istruiti bene –intervenne subito Gamfield con una brutta smorfia.

– Pulire i camini è un mestiere che va fatto come si deve e io tratto nel miglior modo i miei ragazzi.

– Bene, bene. Comunque il Consiglio ha stabilito che l’affare non si farà se non accettate una somma inferiore a quella prevista – sentenziò il membro più anziano. – Tre sterline e dieci scellini saranno sufficienti.

Gamfield cercò di mercanteggiare sul prezzo, ma senza riuscire a farlo alzare, quindi cedette a quella proposta. Qualche istante dopo l’affare era concluso.

Con sua grande meraviglia Oliver venne liberato dalla prigione e gli fu data addirittura una camicia nuova.

Subito dopo, il signor Bumble gli portò una scodella colma di minestra e un quarto di pagnotta, come se fosse stata domenica. Invece che rallegrarsi, Oliver scoppiò in lacrime: dietro tanta abbondanza c’era di sicuro qualcosa di brutto e di losco.

– Smettila di piangere Oliver, e mangia piuttosto – lo rimproverò il sagrestano. – Grazie a noi, buoni come veri genitori, stai per diventare un apprendista. Non appena sarai davanti al magistrato devi quindi dimostrarti felice, addirittura entusiasta, quando quel signore ti chiederà se sei contento di questa scelta. Hai capito bene?

– Sissignore... – balbettò Oliver.

– Ora seguimi e non dimenticare ciò che ti ho detto o te ne pentirai! – intimò il sagrestano.

Oliver fu portato dal magistrato e spinto in una stanza, dove due anziani signori con i capelli incipriati erano seduti davanti a una scrivania: uno leggeva un giornale e l’altro, con un paio di occhiali sul naso, si era appisolato.

Il signor Gamfield con la faccia ripulita alla meglio dalla fuliggine era in piedi a un lato della scrivania, all’altro lato c’era un componente del Consiglio.

Con uno spintone il signor Bumble mandò avanti

Oliver e annunciò ad alta voce:

– Eccellenze, questo è il ragazzo.

Il signore che stava leggendo il giornale alzò lo sguardo e tirò per la manica il collega, che subito si risvegliò e disse convinto:

– Bene, ragazzo, immagino che tu sia contento di diventare uno spazzacamino.

– Ne è davvero entusiasta! – si intromise il signor Bumble.

– E voi, signore, tratterete bene il ragazzo? Non gli farete mancare nulla, vero? – chiese poi rivolto a Gamfield.

– Se dico di fare una cosa, la faccio come si deve! –rispose sgarbatamente l’uomo.

– Avete l’aspetto di una persona leale, anche se un po’ rozza – riprese il vecchio signore, dando un’occhiata, sopra gli occhiali, all’espressione dura e brutale dello spazzacamino. – Bene, questi sono buoni propositi.

E dopo essersi accomodato gli occhiali sul naso si guardò intorno, alla ricerca di un calamaio per firmare l’affidamento. Lo aveva proprio sotto il naso, ma non lo vide, allora alzò lo sguardo e per caso notò il viso terrorizzato di Oliver che fissava il suo futuro padrone con un’aria così atterrita da non sfuggire neanche a un magistrato mezzo cieco e mezzo rimbambito. Subito quindi domandò:

– Ehi tu, ragazzo, perché sei pallido e spaventato?

L’altro magistrato, interessato dalla piega che stavano prendendo le cose, intervenne:

– Avanti, coraggio, parla pure liberamente.

Oliver cadde in ginocchio e, tra le lacrime, supplicò di essere ricondotto nella stanza buia. Era disposto a morire di fame e bastonate piuttosto che seguire quell’uomo orribile.

Il signor Bumble alzò mani e occhi al cielo e imprecò con rozzezza:

– Oliver, di tutti i bugiardi e infingardi che ho conosciuto tu sei il peggiore!

– Tacete per favore, sagrestano – lo rimbeccò subito il magistrato.

Il signor Bumble trasecolò: ordinare a un sagrestano, un autorevole membro della comunità, di tacere? Cose dell’altro mondo!

Il vecchio magistrato con gli occhiali lanciò un’occhiata al collega ed ebbe in risposta un cenno di assenso. Quindi proclamò con fermezza:

– Noi ci rifiutiamo di firmare l’affidamento!

Riconducete il ragazzo all’ospizio e trattatelo da essere umano. Direi che ne ha un gran bisogno.

E così ebbe fine l’udienza.

Alla sera, il signore del Consiglio con il panciotto bianco ribadì che Oliver sarebbe finito impiccato e anche squartato.

La mattina seguente, al cancello venne di nuovo appeso il cartello in cui si offrivano cinque sterline a chi volesse prendersi cura di Oliver Twist.

Capitolo II

Una nuova possibilità

Un giorno, mentre il sagrestano si recava all’ospizio, incontrò per strada il signor Sowerberry, l’impresario di pompe funebri della parrocchia, tutto vestito di nero.

I due si salutarono e presero a parlare dei costi delle bare, della crescita del prezzo del legno, della mancanza di buoni guadagni perché la maggior parte della gente che moriva era troppo povera, e di cose del genere.

A questo punto il signor Bumble ebbe un’idea e la propose al suo interlocutore:

– Caro signor Sowerberry, non vi sarebbe utile un apprendista per sbrigare i lavori più pesanti? Lo offriamo a ottime condizioni.

E con il bastone indicò la cifra di cinque sterline stampata su un cartello.

– Mah, non so, certo la cosa può interessarmi... –rispose il signor Sowerberry.

– Venite stasera a parlarne con il Consiglio e troveremo un accordo.

L’impresario di pompe funebri andò all’appuntamento e fu stabilito che il ragazzo sarebbe stato preso in prova per un mese come apprendista.

Oliver non batté ciglio, ormai era abituato al peggio. Con in spalla un fagotto che conteneva i suoi pochi stracci, seguì il signor Bumble nella nuova casa, ascoltando i consigli di comportarsi bene, una volta tanto.

Il signor Sowerberry aveva appena chiuso bottega e stava scrivendo degli appunti quando arrivò il sagrestano.

– Buonasera, le ho portato il ragazzino.

L’uomo dette un’occhiata a Oliver e disse:

– Ah, è questo. Adesso chiamo mia moglie.

La signora Sowerberry venne fuori dal retrobottega. Era piccola e magra, con una faccia da strega. Il marito le si rivolse con finta gentilezza:

– Mia cara, questo è il ragazzo dell’ospizio.

– Povera me, come è piccolo!

– Sì, è un po’ piccolo ma crescerà – intervenne subito il signor Bumble, che aveva guardato Oliver con sdegno, come se fosse responsabile della sua statura.

– Già, alla nostra tavola! Sono tutti così i ragazzi della parrocchia: costano più di quanto rendono! Ehi, mucchietto d’ossa, vieni, ora scendiamo al piano di sotto – disse quindi la donna.

L’acida signora spinse Oliver giù per una scala che portava a una stanza buia, la cucina. In un angolo era seduta una ragazza sporca e malvestita.

– Charlotte – le ordinò la donna, – porta a questo ragazzo gli avanzi che avevamo destinato a Trip.

Oliver si trovò davanti a un piatto colmo di rimasugli di cibo maleodoranti che il cane di casa aveva rifiutato. Mangiò con una tale rabbiosa avidità da impensierire ancora di più la padrona di casa.

– Ora vieni con me – gli ordinò. Prese una lanterna, salì le scale seguita da Oliver e aprì una porta che dava sulla bottega. – Il tuo letto è là, sotto il banco. Spero che non avrai paura di dormire tra le casse da morto, anche perché non ci sono altri posti disponibili per te!

Oliver obbedì senza una parola e, con la lanterna in mano, seguì docilmente la padrona. Appena rimase solo si guardò intorno: c’erano bare dappertutto, trucioli per terra, chiodi, frammenti di stoffa nera...

Pianse amaramente, poi la fame e la stanchezza ebbero la meglio sulla sua tristezza e si addormentò profondamente su un logoro materasso.

Venne svegliato la mattina, all’alba, da un calcio sferrato con forza contro la porta esterna.

Prima che avesse finito di vestirsi ne seguirono altri, a raffica, poi si sentì una voce non certo educata:

– Insomma, apri o no?

– Subito, signore – rispose Oliver mentre faceva girare la chiave e tentava di sfilare il paletto.

– Sei il nuovo apprendista? Quanti anni hai?

– Dieci.

– Allora non appena esci ti picchierò, brutto marmocchio!

Consapevole che alle parole sarebbero seguiti i fatti, Oliver fece scorrere il paletto tremando, aprì la porta e si affacciò sulla strada. Vide solo un ragazzo che stava divorando del pane imburrato, così si rivolse a lui:

– Scusatemi signore, siete voi che avete tirato calci alla porta? Forse desiderate una bara?

A quell’ingenua uscita il ragazzo sghignazzò.

– Se non la smetti di rivolgerti così ai tuoi superiori ne avrai presto una tutta per te, di bara! Sai chi sono io? Sono il signor Noè e tu sei ai miei ordini. Tanto per cominciare apri le imposte, straccione!

Dopo che Oliver ebbe obbedito al suo ordine, l’altro gli disse di scendere subito al piano inferiore per la colazione.

Il pasto di Oliver era costituito da pezzi di pane secco, quello del “signor Noè” da pane fresco e una fetta di lardo che Charlotte aveva sottratto alla tavola del padrone.

Una sera, dopo cena, il signor Sowerberry si rivolse alla moglie:

– Mia cara, io...

– Che cosa c’è? – chiese la donna con un piglio minaccioso.

– ... volevo solo chiederti un consiglio.

– Allora avanti, parla e sbrigati! Non ho tempo da perdere!

– È a proposito del piccolo Oliver. Ha sempre un’aria così triste... Non credi che farebbe una buona figura come accompagnatore di funerali? Di bambini, magari.

– Certo. Perché non lo hai già fatto? – lo rimproverò la signora che aveva un ottimo fiuto per i funerali.

– Volevo prima la tua approvazione.

– Bene, l’hai avuta. Ora aspettiamo l’occasione giusta.

L’occasione arrivò presto. La mattina dopo, non appena aperta la bottega, arrivò il signor Bumble con un foglio in mano. Lo porse al signor Sowerberry che lo lesse e mormorò allegro:

– Ottimo, è l’ordinazione di una bara. E anche le spese del funerale sono a carico della parrocchia. Si tratta di una donna di famiglia povera, come al solito.

Appena il signor Bumble se ne fu andato, l’impresario di pompe funebri si cacciò il cappello in testa e disse:

– Sbrighiamoci con questo lavoro. Tu, Noè, sorveglia la bottega e tu, Oliver, vieni con me!

Era il primo lavoro per Oliver.

Attraversarono un quartiere miserabile: case in rovina, negozi chiusi, rivoli di acqua sporca. Bussarono a una porta ed entrarono in una stanza squallida.

Accanto a una stufa spenta c’erano un uomo e una vecchia; in un angolo piagnucolavano due bambini con i vestiti a brandelli.

Sul nudo pavimento c’era una forma umana coperta da un lenzuolo.

Nel vedere il signor Sowerberry, l’uomo si alzò, urlando:

– Fuori di qui, non avvicinatevi a mia moglie, non osate toccarla! Per lei ho chiesto l’elemosina per strada, sono stato anche in prigione e ora che ne sono uscito è ormai troppo tardi. È morta di fame, capite? Di fame!

Il signor Sowerberry si diresse frettoloso verso la porta e si precipitò deciso giù per le scale seguito da Oliver.

Il giorno seguente i due tornarono nella misera casa insieme a quattro portatori con una cassa: vi deposero il corpo e, seguiti dall’uomo, dalla vecchia e dai due bambini, si affrettarono verso il cimitero. Oliver, triste e mesto, seguiva il suo padrone.

Il prete arrivò in ritardo, impartì una frettolosa

benedizione e altrettanto in fretta la bara fu calata nella fossa.

– Dimmi, Oliver, ti è piaciuto? – sollecitò il signor

Sowerberry, mentre si avviavano verso la bottega.

– Beh, signore... non molto.

– Con il tempo ti ci abituerai! – si sentì rispondere.

Capitolo III

La fuga

Trascorso il mese di prova, Oliver divenne apprendista a tutti gli effetti. Era un periodo in cui le malattie imperversavano, i funerali si moltiplicavano e il signor Sowerberry fece partecipare il ragazzino a una quantità enorme di funerali, di defunti adulti e bambini.

Una così grande attività suscitò l’invidia di Noè, che non perdeva occasione per ingiuriare e picchiare il giovane apprendista; Charlotte per imitazione faceva lo stesso.

Una mattina, durante la misera colazione, visto che non era riuscito a farlo piangere con le botte, Noè volle umiliare Oliver.

– Ehi, straccione, come sta tua madre?

– Mia madre è morta – rispose triste.

– Sì? E di che cosa?

– Di crepacuore, me lo ha detto la donna che l’assistette in punto di morte.

Oliver non riuscì a trattenere le lacrime.

Noè rise.

– E ora che ti prende? Piangi straccione?

– No. Ma ora basta parlare di mia madre.

– Tua madre... Sarà stata una mendicante e anche una donnaccia!

– Che cosa hai detto? – chiese Oliver in un sussurro.

– Una donnaccia che, se fosse vissuta, sarebbe finita in carcere o impiccata! Ah ah.

Accecato dalla rabbia, Oliver rovesciò la sedia e il tavolo e afferrò Noè per il collo scuotendolo con tutte le sue forze. L’insulto rivolto alla madre lo aveva d’improvviso risvegliato dal torpore degli ultimi mesi.

– Vuole ammazzarmi! Aiuto, aiuto! – urlava Noè, scivolato sul pavimento sotto i colpi. – Charlotte, padrona, aiuto!

Accorsero ambedue le donne. Charlotte si precipitò su Oliver tempestandolo di pugni, la signora

Sowerberry intervenne graffiandogli la faccia, mentre Noè si rialzava e colpiva il ragazzo alle spalle. Quando i tre non ebbero più la forza di continuare a picchiarlo, trascinarono Oliver nello stanzino dell’immondizia e lo chiusero dentro a chiave. A questo punto la signora

Sowerberry si accasciò su una sedia.

– E ora che facciamo? – disse. – Quell’infame potrebbe sfondare la porta e ucciderci tutti! Non c’è neanche mio marito in casa per difenderci.

– Chiamiamo la polizia – suggerì Charlotte.

– No, io ho un’altra idea. Noè corri all’ospizio e chiedi al signor Bumble di venire subito.

Noè non se lo fece ripetere e corse fuori.

Arrivato davanti alla porta dell’ospizio contrasse il viso in una smorfia di dolore e si sforzò di singhiozzare in modo convincente.

Il portinaio che venne ad aprire lo guardò strabiliato e gli chiese:

– Chi o che cosa ti ha ridotto in questo stato?

– Chiamate il signor Bumble, devo vederlo immediatamente – urlò Noè tra i singhiozzi.

Il sagrestano era vicino e raggiunse subito il cortile, dove Noè continuava la sua scena di disperazione.

– Che cosa è accaduto, figliolo? – gli chiese.

– Oliver è impazzito, ha tentato di assassinare prima me, poi Charlotte e la padrona. È stato orribile!

Noè continuava a piangere e gridare, a contorcersi come in preda a dolori lancinanti. Attratto dal rumore, arrivò un signore del Consiglio, quello con il panciotto bianco: chiese chi fosse quel ragazzo che urlava e si meravigliò che il signor Bumble non fosse intervenuto con una buona dose di bastonate per farlo tacere.

– È un ragazzo che lavora dal signor Sowerberry e Oliver lo ha quasi ammazzato – spiegò il sagrestano.

– Ha tentato di farlo anche con la padrona e la cameriera – si affrettò ad aggiungere Noè tra

i singhiozzi. – La padrona mi ha mandato qui per chiedere al signor Bumble di venire subito in bottega per bastonare Oliver, visto che il mio padrone è assente.

– Andate immediatamente, signor Bumble –consigliò il signore con il panciotto bianco, – e fate giustizia! Il sagrestano si precipitò verso l’impresa di pompe funebri, dove la situazione non era certo migliorata. Il signor Sowerberry non era ancora tornato e Oliver tempestava la porta di calci chiedendo di uscire. Così, il signor Bumble preferì non aprire la porta. Sbirciò dentro dal buco della serratura, poi sentenziò:

– Tenete il ribelle nello stanzino senza cibo per qualche giorno, poi liberatelo e dategli da mangiare solo un po’ di minestra. Io penso che a sviluppare tanta aggressività sia il fatto che qui è stato nutrito troppo bene.

Quando l’impresario di pompe funebri rientrò e venne messo al corrente dell’accaduto, accolse subito i consigli del signor Bumble. Solo dopo qualche giorno aprì lo stanzino e tirò fuori con violenza Oliver per il colletto. Aveva i vestiti a brandelli per i colpi ricevuti, il viso graffiato e pieno di lividi, i capelli arruffati. Ma non aveva perduto la sua combattività; non la perse neanche dopo la scarica di pugni e calci somministratagli dal signor Sowerberry.

Non appena fu di nuovo solo, nel buio e nel silenzio della bottega, Oliver cadde però in ginocchio e dette sfogo alle lacrime che aveva orgogliosamente trattenuto fino ad allora. Poi, aprì la porta esterna: era buio e c’era un silenzio di tomba.

Fu allora che prese una decisione definitiva: raccolse le sue poche cose e si sedette in attesa dell’alba. Non appena un po’ di luce cominciò a filtrare dalle imposte, aprì di nuovo la porta.

La strada era deserta, scivolò fuori, si mise in cammino e raggiunse l’ospizio.

Oltre il cancello non si vedeva nessuno a parte un bambino che strappava l’erba: Oliver lo riconobbe. Era Dick, un ragazzino più piccolo di lui. Insieme avevano sofferto la fame, insieme erano stati picchiati e chiusi più volte a digiuno in uno stanzino. Fu felice di rivederlo e lo chiamò sottovoce.

Dick alzò la testa, riconobbe Oliver, corse al cancello per abbracciarlo e gli disse con affetto:

– Sei proprio tu! Come stai?

– Bene, ma non dire a nessuno che mi hai visto, io scappo, ne ho abbastanza di botte e digiuni. Ma... come sei pallido...

Dick sorrise appena.

– Il dottore ha detto che morirò presto, l’ho sentito. Sono contento di averti rivisto, ma vattene subito, potrebbe arrivare qualcuno.

– Lo farò, ma prima voglio salutarti. Addio Dick, un giorno ci rivedremo e allora starai bene.

– Starò bene solo quando sarò morto, Oliver...

I due piccoli amici si abbracciarono attraverso le sbarre, poi Dick mormorò:

– Che Dio ti benedica amico mio!

Fu la prima benedizione che Oliver ricevette nella sua vita e non l’avrebbe mai più dimenticata.

Raggiunse quindi la palizzata che delimitava il sentiero e da lì prese la strada maestra.

Una pietra indicava in settanta miglia la distanza per Londra. Oliver ne aveva sentito parlare come di una grandissima città, con possibilità di lavoro serio e di guadagno. Lì nessuno lo avrebbe trovato, neanche il signor Bumble. Settanta miglia però erano tante. Nel fagotto aveva solo un paio di calze bucate, una camicia rattoppata, un pezzo di pane e un penny ricevuto dal signor Sowerberry per essersi comportato particolarmente bene durante un funerale.

Quel giorno percorse una ventina di miglia, poi, scesa la notte, si riparò dietro un pagliaio. Al risveglio, era così stanco e intorpidito che fu costretto a spendere il suo prezioso penny per comprare una pagnotta nel primo villaggio che incontrò.

Trascorse anche la seconda notte all’aperto, quindi, al mattino, provò a chiedere l’elemosina senza successo.

Così accadde anche nei due giorni successivi.

A salvarlo fu un anziano di buon cuore che lo sfamò con pane e formaggio, e, in seguito, una vecchia con un minestrone caldo.

All’alba del settimo giorno, zoppicando, con i piedi coperti di piaghe e senza più forze, Oliver raggiunse la cittadina di Barnet e si sedette sui gradini di una casa.

Un ragazzo lo guardò a lungo da lontano, attraversò la strada, gli si avvicinò e gli disse:

– Ehi, mingherlino, come te la passi?

Oliver lo osservò. Era un po’ più grande di lui ma piuttosto basso di statura. Aveva occhi penetranti e gambe arcuate.

– Me la passo malissimo – rispose Oliver. – Ho fame e sono stanco morto. Non ho un soldo in tasca e cammino ormai da sette giorni.

– Capperi! Allora vieni con me! Sono quasi a secco anch’io, ho solo uno scellino e pochi altri spiccioli ma serviranno a sfamare tutti e due. Su, muoviti, che aspetti?

Il ragazzo aiutò Oliver ad alzarsi e lo condusse prima in una drogheria, dove comprò pane e prosciutto, poi in un’osteria. E lì, finalmente sazio, sorseggiando una birra, Oliver ringraziò di cuore il generoso benefattore che subito gli chiese:

– Sei diretto a Londra?

– Sì.

– Ma hai un posto dove dormire in quella città?

– No. Perché tu vivi là?

– Non sempre... Comunque tu hai bisogno di un posto dove riposare stanotte. Stasera devo essere a Londra e conosco un bravo vecchio che ti ospiterà e forse ti offrirà anche un buon posto di lavoro. Ma, ehi, noi due non ci siamo ancora presentati: io mi chiamo Jack Dawkins, detto Furbacchione. E tu? Come ti chiami?

– Oliver Twist.

– Bene, Oliver, riposiamoci un po’. Raggiungeremo Londra solo quando sarà buio.

Così fecero. Oliver seguiva a fatica il compagno, tallonandolo per paura di perdere il contatto. Mentre camminava, si guardava attorno. C’era una vista poco rassicurante: strade strette e fangose, negozi con le vetrine vuote, uomini ubriachi in giro, liti che scoppiavano davanti alle rare osterie ancora aperte...

Giunti in una via ai piedi di una collina, Furbacchione afferrò Oliver per un braccio, spinse la porta di una casa e lanciò un fischio.

– Chi è? – chiese una voce dall’interno.

– Prugne e pugni – rispose il ragazzo.

Oliver capì che quella doveva essere una specie di parola d’ordine.

Un uomo con una candela in mano comparve in cima a una traballante scala di servizio e domandò:

– Chi è quello con te?

– Un amico. Fagin è di sopra?

– Sì, salite pure.

I due salirono le scale. Giunti su un pianerottolo il ragazzo spalancò una porta e spinse Oliver dentro una stanza sporca e fumosa. C’era un caminetto acceso e la tavola apparecchiata.

Un vecchio rugoso dall’aria truce rigirava delle salsicce in una padella; seduti al tavolo, alcuni ragazzi fumavano le pipe e ingoiavano liquori con un’aria da adulti. Tutti rivolsero subito la loro attenzione ai nuovi arrivati.

– Chi è, Furbacchione? – domandò il vecchio, indicando Oliver.

– Un amico, Fagin. Si chiama Oliver Twist.

I ragazzi si avvicinarono al nuovo arrivato quasi soffocandolo, toccandolo, facendogli domande... finché il vecchio non li cacciò via a forchettate. Poi sorrise a Oliver:

– Lieto di conoscerti, figliolo. Ehi, qualcuno porti uno sgabello e delle salsicce per lui.

Capitolo IV

Uno “strano gioco”

La mattina seguente, Oliver si svegliò tardi, ancora intontito.

Non c’era nessuno a parte il vecchio Fagin che stava preparando il caffè. Ad un tratto l’uomo chiuse la porta, si inginocchiò e tirò fuori da una specie di botola nascosta nel pavimento una scatola contenente un magnifico orologio con pietre preziose. Poi, da altre scatole simili, estrasse anelli, spille e bracciali. D’un tratto alzò la testa da quel tesoro e vide che Oliver aveva aperto gli occhi. Afferrò un coltello dal tavolo e balzò in piedi ruggendo verso di lui:

– Perché mi stavi spiando? Che cosa hai visto? Parla, se non vuoi finire sgozzato.

– Mi sono svegliato appena un minuto fa... – disse Oliver, tremando. – Non stavo spiando...

– Beh, lo immaginavo, ma ho voluto assicurarmene. Una pausa di silenzio, poi Fagin continuò:

– Ora dimmi, hai visto il contenuto di quelle scatole?

– Solo qualcosa, signore...

Il vecchio si calmò.

– È tutta roba mia, comunque. Il mio piccolo patrimonio per la vecchiaia. Sai, la gente dice che sono avaro...

Oliver pensò che doveva esserlo davvero se possedeva tanti gioielli e viveva in un posto così squallido. O, forse, mantenere tutti quei ragazzi gli costava molto.

– Posso alzarmi? – gli chiese quindi con un po’ di imbarazzo e soggezione.

– Certo. Nell’angolo vicino alla porta c’è una brocca piena d’acqua: puoi lavarti.

Oliver andò a prendere la brocca e, quando tornò, delle scatole sul tavolo non c’era più traccia. Si lavò e poi gettò l’acqua sporca dalla finestra come gli era stato ordinato.

Poco dopo arrivò il ragazzo che l’aveva condotto lì, Jack Furbacchione. Era insieme a Charley, uno di quei ragazzi che la sera prima fumava la pipa.

Il nuovo arrivato, che aveva stampato in faccia un sorriso viscido, consegnò al vecchio un portafoglio mentre Furbacchione gli porse quattro magnifici fazzoletti di seta. Subito dopo, il vecchio e i due ragazzi si dedicarono a quello che sembrava uno strano gioco: il vecchio girava per le stanze fingendo di essere un passante mentre i due lo seguivano come ombre.

Furbacchione, d’un tratto, gli calpestò un piede e Charley lo urtò alle spalle facendolo cadere; proprio in quel momento, facendo finta di aiutarlo, i due gli presero l’orologio, la spilla e il portafogli.

Oliver li guardava non capendo bene cosa stessero facendo. Più tardi entrarono nella stanza due ragazze, graziose ma dall’aspetto poco raccomandabile. Dissero di chiamarsi Beth e Nancy.

Tutti cominciarono a bere liquori, finché Charley disse che era ora di “divertirsi un po’”. Chiese degli spiccioli, li ottenne e uscì.

Rimasti soli, Fagin si rivolse a Oliver: – Hai visto che bella vita fanno i miei ragazzi? Tu dovrai imitarli e ascoltare i loro consigli, specialmente quelli di Furbacchione. E ora controlliamo se hai stoffa.

Vedi il fazzoletto che mi sporge dalla tasca? Cerca di sfilarmelo imitando quello che hanno fatto i due ragazzi poco fa, così per gioco. Facile, no?

Oliver tenne il fondo della tasca con una mano e con l’altra estrasse con leggerezza il fazzoletto come aveva fatto poco prima Furbacchione.

– Bravo, sei in gamba – gli disse convinto Fagin. – Eccoti uno scellino, è per te! Presto diventerai un grand’uomo. E ora ti insegnerò a togliere le iniziali dai fazzoletti, bisogna farlo prima di rivenderli.

Oliver si chiese come si potesse diventare grandi uomini togliendo delle lettere da fazzoletti, ma,

pensando che il vecchio fosse esperto dei fatti della vita, si avvicinò al tavolo pronto a imparare quello “strano gioco”.

Dopo diversi giorni dedicati a togliere lettere e sfilare fazzoletti dalle tasche di Fagin, Oliver non ne poteva più: aveva bisogno di muoversi e di respirare aria fresca. Insistette così tanto che il vecchio gli dette il permesso di uscire, sotto la custodia, però, di Charley e di Furbacchione.

I tre ragazzi avevano appena raggiunto una grande piazza quando Furbacchione esclamò:

– Ehi, avete notato quel vecchio signore ben vestito davanti al chiosco del libraio?

– Fa proprio al caso nostro, lo sistemeremo per le feste! – sghignazzò Charley.

In un attimo i due giovani furono alle spalle del vecchio signore. Subito Furbacchione gli sfilò dalla tasca il fazzoletto e lo passò a Charley che fuggì di gran corsa.

Solo in quel momento l’ingenuo Oliver capì finalmente tutto: sfilare fazzoletti, portafogli e orologi non erano giochi di destrezza, ma furti veri e propri. Per un istante rimase come paralizzato, poi scappò via.

Il destino però volle che il vecchio signore che era stato derubato da Furbacchione e Charley infilasse la mano in tasca proprio per prendere il fazzoletto. Non lo trovò e vedendo quel ragazzino che scappava, pensò che il ladro fosse lui.

– Al ladro! Al ladro! – iniziò quindi a urlare.

Al suo grido ne seguirono altri dei presenti alla scena.

Non appena Charley e Furbacchione, che si erano nascosti dentro un portone, udirono quelle voci rabbiose e videro Oliver in fuga, compresero l’accaduto e unirono le loro grida a quelle della folla lanciata all’inseguimento.

Nel vedersi abbandonato e tradito dai compagni, Oliver cercò di correre il più veloce possibile, ma qualcuno lo raggiunse e lo colpì duramente in faccia facendolo cadere a terra.

Un attimo dopo arrivò anche il derubato.

– È questo il ladro? – gli chiese un uomo.

– Temo proprio di sì – fu la risposta accompagnata da un’occhiata compassionevole verso Oliver, disteso per terra, sporco di polvere, con il viso insanguinato.

– Perché avete detto “temo”, signore? – domandò una donna.

– Poveretto, è ferito... – rispose il derubato.

– Sono stato io – disse orgoglioso un tizio grande e grosso. – Gli ho dato un pugno in bocca per fermarlo!

In quel momento arrivò una guardia che si fece strada tra la folla e afferrò Oliver per il colletto.

– In piedi! – gli ordinò in tono rude.

– Non sono stato io a rubare, ma altri due ragazzi, signore, lo giuro... Li cerchi, non devono essere lontani – implorò Oliver.

– Non ci sono ragazzi qui in giro! – fu la brusca risposta della guardia. E infatti Charley e Furbacchione erano ormai lontani.

La guardia costrinse quindi Oliver ad alzarsi e raggiungere insieme a lui il posto di polizia più vicino.

Il vecchio signore derubato affiancò i due, seguito dalla folla. Provava la strana sensazione che quel volto sconvolto dalla paura rassomigliasse a qualcuno.

Senza perdere tanto tempo, Oliver venne trascinato nel più vicino posto di polizia. Un tizio con i baffi, con un mazzo di chiavi in mano, domandò alla guardia:

– Di che si tratta?

– Di furto di fazzoletti – rispose la guardia.

– Siete voi il derubato, signore? – chiese il tizio baffuto al vecchio signore.

– Sì, però non sono certo che sia stato proprio questo ragazzo a rubare, perciò preferirei lasciar perdere.

“strano

– Non si può, bisogna prima sentire il magistrato.

Poco dopo, quindi, Oliver e il vecchio signore derubato vennero condotti alla presenza di un uomo di mezza età, che aveva un’espressione offuscata sul viso e il colorito acceso di chi beve troppo.

– Guardia! – sbottò il magistrato indicando il vecchio signore. – Chi è questo individuo? Il ladro?

– Mi chiamo Brownlow e non sono il ladro ma il derubato. E vi prego di essere meno sgarbato nei confronti di un gentiluomo – rispose il vecchio signore, sdegnato.

– Ah, davvero? Quante storie. Ora prestate giuramento.

Il signor Brownlow giurò, quindi il magistrato chiamò la guardia per conoscere i particolari sull’accaduto. Ma la guardia non aveva visto niente, né c’erano testimoni.

– Dovrò accontentarmi di far deporre il derubato –gracidò quindi.

A questo punto successe una cosa alquanto singolare: il signor Brownlow affermò di aver inseguito il ragazzo perché lo aveva visto fuggire, ma ribadì che non lo credeva un ladro.

– E io non la bevo – sghignazzò il magistrato. – Tu, ragazzo, come ti chiami?

Oliver era talmente bloccato dalla paura che non riuscì ad aprire bocca.

Un vecchio funzionario compassionevole, allora, per non far infuriare ancora di più il suo superiore, finse di consultarlo, poi si inventò un nome di fantasia:

– Ha detto che si chiama Tom White, Eccellenza.

– Dove abita? – chiese il magistrato.

Il ragazzo restò muto, l’altro allora ripeté la finzione:

– Dove gli capita.

– Ha i genitori?

Un’altra risposta a casaccio, ma questa volta giusta:

– Dice di essere orfano.

In quel momento Oliver cadde a terra svenuto, ma nessuno si mosse per tirarlo su.

– Questa sciocca simulazione del ladro che finge di non ricordarsi le cose non mi impedirà di pronunciare subito la sentenza – proclamò il magistrato. – Tre mesi di lavori forzati!

Due guardie stavano trascinando Oliver in cella, quando piombò nell’aula un vecchio modestamente vestito.

– Un momento – gridò, – aspettate! Io sono il libraio che ha il chiosco in piazza, sono un testimone del furto e giuro che quel ragazzo non è il colpevole.

Il magistrato rimase veramente seccato dall’arrivo di quel testimone, ma borbottò:

– Fate giurare costui.

Il libraio giurò, poi raccontò come erano andate veramente le cose.

Non c’era nessuna ragione per non credergli e il magistrato urlò, livido di rabbia, di far sgombrare subito l’aula senza aver firmato la sentenza.

Anche il signor Brownlow venne cacciato fuori in malo modo. Era davvero furibondo, ma la sua espressione cambiò alla vista di Oliver sanguinante e tremante rannicchiato per terra. Dopo aver ringraziato di cuore il libraio, fece chiamare immediatamente una carrozza, depose il povero ragazzo su un sedile e diede al cocchiere l’indirizzo di casa sua.

Capitolo V

A casa del benefattore

Per molti giorni, Oliver non ebbe coscienza di dove si trovasse: aveva la febbre e delirava di continuo. Poi, una mattina, riprese i sensi e si guardò intorno.

– Dove sono? Questa non è la stanza del signor Fagin.

Sebbene avesse parlato con voce appena percettibile, un’anziana signora lo udì e si avvicinò al letto per spiegargli cosa era successo:

– Taci caro, non affaticarti o ti ammalerai di nuovo. Sei stato molto male, sai? Ora riprendi a dormire.

Quando Oliver si risvegliò era buio e alla luce della candela vide un signore che gli teneva il polso e affermava che il peggio era passato. Di sicuro era un dottore.

– Dategli un vitto leggero – raccomandò alla vecchia signora. – Del tè, con qualche fetta di pane tostato con burro. E che ci sia sempre la giusta temperatura nella stanza.

IClassici

StoriedaNobel

Ambientato nell’Inghilterra di metà ‘800, il romanzo narra la storia del piccolo Oliver, ragazzino che cresce fino all’età di nove anni in un orfanotrofio di periferia. Qui subisce ingiustizie e maltrattamenti di ogni genere. Fuggito a Londra, si fa coinvolgere ingenuamente da una banda di ladri che vive nei bassifondi della città. Inizia così la sua vita tra pericolose avventure alle prese con la dura lotta per la sopravvivenza.

La storia del piccolo Oliver fa commuovere e riflettere, ma anche divertire e sorridere.

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