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GIOVANNI BOCCACCIO
Novelle dal Decamerone
Adattate e riscritte da Vilma Gaist
Illustrate da Giovanni Da Re
Antefatto
Nell’inverno del 1348, in gran parte dell’Europa si diffonde un’orribile epidemia di peste nera. Febbre alta, sangue dal naso, bubboni sotto le ascelle e piaghe violacee su tutto il corpo sono i segni specifici di questa malattia che i medici non sanno né curare né prevenire. E la gente muore. Ci si ammala con facilità: basta stare vicino a un appestato o toccare ciò che è infetto e naturalmente la sporcizia favorisce il contagio sia tra gli uomini che tra le bestie.
Per paura di ammalarsi non ci si prende cura degli appestati, non si veglia in preghiera il morto e neppure lo si accompagna alla sepoltura. I cadaveri sono deposti sulla porta di casa o lungo la strada, in attesa che i becchini li trasportino, ammassati sopra carri, fino ai cimiteri delle chiese dove vengono sepolti in fosse comuni.
A primavera di quello stesso anno, nella ricca e bella città di Firenze i morti di peste sono più di centomila. In poco tempo la città ha cambiato aspetto. Artigiani e bottegai non espongono manufatti e mercanzie, i commerci hanno ritmi più lenti; per le vie si cammina a volto coperto per proteggersi dall’aria infetta e si avvicinano al naso fazzoletti imbevuti di essenze profumate così da non sentire il fetore dei cadaveri.
Soprattutto, le persone cercano di evitarsi. Meglio stare in casa. Tutti temono la peste, il morbo che non dà scampo.
C’è una sola possibilità di salvezza: abbandonare la città; chi può farlo va a vivere sulle colline che circondano Firenze.
Nel mese di luglio di quello sfortunato anno, un martedì mattina, sette giovani donne fiorentine, più o meno della stessa età e amiche fra loro, si incontrano nella chiesa di Santa Maria Novella. Distraendosi durante le preghiere, cominciano a parlare della peste, del numero dei morti che cresce, della tristezza sul volto della gente.
– Ringrazio Dio di essere ancora viva, ma quanto soffro! Attorno a me non vedo che morti e appestati e persone che rubano approfittando delle disgrazie altrui – dice Pampinea, la meno giovane.
– Da quando la peste si è presa i miei familiari mi angoscia vivere in una casa vuota e silenziosa dove mi par di vedere fantasmi dappertutto! – risponde Filomena.
– Io non mangio più, non dormo più, tanto ho paura di ammalarmi! – si sfoga Elissa, che è la più giovane.
Anche le altre, la bella Lauretta, Neifile che ha capelli come l’oro filigranato, Fiammetta, dai grandi occhi neri, ed Emilia, la più timida, si lamentano per lo stesso motivo. A tutte fa paura la morte.
– Care amiche, perché continuare a soffrire? Dobbiamo trovare un modo per vivere meglio – dice Pampinea. – Che stiamo a fare qui in città? Andiamo ad abitare nella mia villa sulla collina di Fiesole. Se piace a Dio, eviteremo il contagio, respireremo aria sana e non vedremo né morti né sofferenti.
È più che sensato ma Filomena, saggiamente, dice:
– Siamo donne giovani e vivere da sole non sta bene.
Proprio in quel mentre vedono entrare in chiesa tre giovanotti loro amici, Panfilo, Filostrato e Dioneo.
“Ecco chi può stare in nostra compagnia portandoci rispetto” pensa Pampinea. Senza indugio va a salutarli e li informa di ciò che lei e le amiche hanno deciso di fare.
– Potete unirvi a noi per trascorrere un periodo di villeggiatura – propone.
Gli amici ne sono ben lieti.
L’indomani, mercoledì, appena il sole fa capolino, le sette donne e i tre giovani si mettono in viaggio seguiti dalla servitù. Percorse poche miglia, le carrozze raggiungono Fiesole e, più oltre, sulla cima di un poggio, la villa.
L’edificio è circondato da giardini e vialetti alberati. Ovunque si volge lo sguardo, si intravedono campagne e colline e, in lontananza, la città.
Basta quel paesaggio per sentirsi sereni.
– Da questo istante, via ogni tristezza! – esclama Dioneo entrando nella villa.
– Giusto! Dobbiamo dimenticare ciò che ci ha addolorato finora e pensare solo a svagarci – aggiunge Panfilo.
– Faremo un po’ di musica, danzeremo, giocheremo a scacchi –dice Pampinea. – Anzi, state a sentire cosa ho in mente: ciascuno di noi, a turno, come fosse un re o una regina, deciderà cosa si dovrà fare giorno per giorno.
Dopo che si sono ristorati vanno in giardino e, mentre sono seduti all’ombra di un gelso, Pampinea, nominata regina di quel giorno, dice:
– Da oggi in poi trascorreremo la prima parte del pomeriggio raccontandoci alcune novelle nell’attesa che venga l’ora adatta per andare a passeggiare.
E poiché tutti sono d’accordo, li invita a iniziare:
– Ciascuno di voi per quest’oggi è libero di narrare a piacer suo; da domani, invece, sarà il re o la regina a decidere l’argomento.
Fu così che ogni giorno, per dieci giorni, tranne il venerdì e il sabato riservati alla preghiera, la bella compagnia trascorre gran parte del tempo novellando.
Quante novelle? Dieci al giorno: in tutto cento. Novelle brevi e lunghe, a lieto fine e non, novelle che fanno riflettere divertendo.
Giornata prima
Novelle a tema libero
Novella sesta Il frate inquisitore
Tra una novella e l’altra, le ore del pomeriggio volavano via, tanto erano piacevoli. Ad un certo punto toccò a Emilia continuare a narrare e disse: “In alcune circostanze un’osservazione piena di buon senso può essere più efficace dei fatti e può servire da insegnamento. Ebbene, a conferma di ciò, mi viene in mente la storia di un uomo che con garbo e intelligenza ha saputo castigare chi lo aveva castigato.
State dunque a sentire…”
Non molto tempo fa, nella chiesa di Santa Croce in Firenze, v’era un frate che aveva il compito di controllare se i concittadini si comportassero da bravi cristiani e, nei casi che ritenesse opportuni, trascinarli in tribunale. Tutti lo temevano perché era troppo severo e sospettoso e bastava poco per finire tra le sue grinfie, accusati di irreligiosità.
Alcune voci sussurravano, invece, che forse egli non era tanto pio e onesto come dava a vedere.
In realtà amava il denaro e, dove sentiva odore di soldi, lì andava a colpire.
Una denuncia e la cosa era fatta: il malcapitato veniva condotto davanti al tribunale ecclesiastico e, per salvarsi, non gli restava che sborsare un bel po’ di monete d’oro.
Un giorno, un ricco mercante fiorentino si trovava in un’osteria in compagnia di amici. Scherzando e bevendo in allegria, gli sfuggì di bocca:
– Che vino buono! Anche Cristo lo berrebbe!
Non l’avesse mai detto! Qualcuno riferì questa frase al frate inquisitore che convocò immediatamente il mercante.
– Sei un bestemmiatore! – lo aggredì. – Tu dici che Cristo si berrebbe il vino! Forse a nostro Signore piaceva il vino come agli ubriaconi?
– Vostra eccellenza, no di certo. Nelle mie parole non c’era intenzione di offendere nostro Signore – si scusò il mercante.
Il frate però non voleva sentire scuse.
– Sei un mentitore e un bestemmiatore! Ti trascinerò in tribunale e ti farò condannare!
Il mercante, terrorizzato, si vedeva già condannato a chissà quali pene e, Dio non volesse, perfino al rogo. No, no! Bisognava trovare una via d’uscita.
Mentre si arrovellava disperato, gli venne in mente quello che si sussurrava a proposito del frate e della sua avidità. Perciò la mattina seguente mandò un suo amico dal frate con una borsa piena di monete d’oro sperando di salvarsi.
Il frate alla vista di quell’oro si rabbonì all’istante.
– E sia! – disse. – Riferite al vostro amico che lo perdono ma a condizione che tutte le mattine ascolti la messa qui, in Santa Croce, e poi si presenti a me all’ora di pranzo.
Il mercante fu ben contento di avere evitato tribunale e condanna.
Mese dopo mese, però, quell’obbligo cominciava a essere una seccatura.
Una mattina, durante la messa, sentì un frate leggere le seguenti parole del Vangelo: “Per ogni cosa che farete, ne riceverete cento…” e un guizzo improvviso gli illuminò la mente.
Finì di ascoltare la messa e all’ora di pranzo si presentò dal frate come al solito.
– Sei andato a messa? L’hai seguita con attenzione? – chiese il frate.
Il brav’uomo annuì.
– C’è qualche parola del prete che non hai compreso?
– No, no. Anzi, una frase in particolare mi ha colpito facendomi provare tanta pena per lei e per i frati di Santa Croce.
L’altro lo guardò stupito.
– Di quale frase si tratta?
– Quella che dice: “Per ogni cosa che farete ne riceverete cento”.
– Uhm, non capisco perché ti ha fatto provare tanta pena per noi frati.
– Or bene, sono mesi che vengo qui e ogni giorno, all’ora del desinare, ho visto che date ai poveri del vostro convento soltanto misere minestre acquose. Perciò, se per ogni minestra ve ne saranno rese cento, alla fine avrete tante minestre da affogarci dentro.
L’inquisitore si sentì colto sul vivo perché quell’uomo gli aveva rinfacciato l’avarizia e l’ipocrisia.
– Vattene e non farti più vedere! – gli gridò indispettito.
Era bastata una battuta intelligente e spiritosa a liberare il mercante da quella fastidiosa situazione.
Novella ottava
Guglielmo Borsiere
“Non è ancora giunto il mio turno ma lasciate che vi racconti una storia che m’è venuta in mente proprio ora” disse Lauretta. E tutta contenta cominciò…
Genova, città marinara, contava e conta tutt’ora potenti famiglie di mercanti. Tra queste, una delle più potenti era la famiglia Grimaldi.
Erminio de’ Grimaldi era un uomo ricco, ma così ricco che neanche lui sapeva dire quanto, almeno così si affermava.
Erminio in più era colto, paziente e gentile di modi, ma estremamente avaro. Come poteva essere definito uno che per non spendere quasi pativa il freddo e la fame, andava vestito con abiti vecchi, stravecchi, e infliggeva ai suoi cari gli stessi suoi patimenti? I genovesi un soprannome glielo avevano trovato: Erminio Avarizia, tant’è che qualunque forestiero a Genova chiedesse di Erminio de’ Grimaldi sentiva rispondersi: “Ah! Sì, certo, Erminio Avarizia”.
Un giorno arrivò a Genova un gentiluomo, faccendiere di corte, Guglielmo Borsiere. Costui era un personaggio di spicco, apprezzato dai potenti signori della nostra penisola per l’onestà, la discrezione e per tutte le altre doti necessarie a vivere a corte e a far diplomazia.
Guglielmo Borsiere
Per tutta la sua permanenza in città non passò giorno che non fosse invitato da questo e da quello dei nobili signori genovesi, anzi pareva facessero a gara nel ricoprirlo di doni. E durante i banchetti in suo onore, accadeva sempre che qualcuno parlasse di Erminio messer Avarizia, con qualche aneddoto davvero stuzzicante sulla sua spilorceria.
– Mi piacerebbe conoscere questo messer Avarizia – disse Guglielmo una sera durante un banchetto.
– Sarà fatto. Vi accompagnerò a casa sua domani stesso –rispose un genovese che gli sedeva accanto ed era amico di messer Erminio.
– Gugliemo Borsiere a casa mia! Che onore! Chi l’avrebbe mai detto?! – si inorgoglì Erminio appena seppe che il gentiluomo desiderava conoscerlo. E poiché era tirchio ma non stupido né maleducato accolse l’ospite come si conveniva, con eleganza e cordialità intrattenendolo con una piacevole conversazione.
“Peccato che sia taccagno come dicono” pensava Gugliemo sentendolo parlare “perché è intelligente... garbato e onesto”.
Ad un certo punto, Erminio volle mostrare al suo ospite una casa che si era fatto da poco costruire, vicinissima a quella dove abitava.
– Mi è costata una fortuna! Mi sono dissanguato ma volevo qualcosa per cui valesse davvero la pena spendere il mio denaro – disse.
E mentre gli mostrava stanza per stanza, giunti nella sala dei ricevimenti, chiese:
– Cosa posso far dipingere su una parete di questa sala che non sia stato mai dipinto? Nessun altro può suggerirmelo meglio di voi che, da uomo di corte, avete visto e udito molte cose.
– È una domanda difficile. Non saprei proprio – rispose
Guglielmo.
– Ma sì! Qualcosa che non si sia mai vista ci sarà pure!
Guglielmo Borsiere esitò, poi disse:
– Pensandoci bene, una cosa c’è che potreste far dipingere in questo bel salone e che voi sicuramente non avete mai visto.
– Suvvia, ditelo!
– La generosità! Ecco cosa dovreste farci dipingere!
Erminio rimase di stucco; un lampo gli illuminò la mente presentandogli la sua vita tutta vissuta all’insegna della grettezza e spingendolo a vergognarsene. E così disse:
– Giusto! Ce la farò dipingere eccome! E così bene che nessuno d’ora in avanti dirà che Erminio de’ Grimaldi non ha mai visto la generosità.
Le parole di Gugliemo Borsiere furono così efficaci che da quel giorno Erminio mutò animo e abitudini; trovò che era piacevole dare a chi aveva bisogno e gratificò se stesso e i suoi cari con una vita più decorosa.
Così l’uomo più avaro di Genova divenne l’uomo più liberale e generoso della città.
Novella nona
Il re di Cipro
“Proprio vero che una parola giusta, detta al momento giusto, può avere più effetto di un rimprovero o di una punizione” disse Elisa appena Lauretta terminò di narrare. “Anche la novella che io racconterò può dimostrarlo. Ascoltatemi, dunque”.
Dopo che il valoroso Goffredo da Buglione ebbe riconquistato la Terra Santa, per grazia di Dio, molta gente da ogni Paese riprese ad andare in pellegrinaggio al Santo Sepolcro. Vi si recò anche una nobile donna di Guascogna.
Dopo aver sostato alcuni giorni nei luoghi Santi decise di recarsi nell’isola di Cipro, dove viveva una sua parente. E così fece.
Purtroppo, però, mentre con un’ancella camminava per una viuzza di Cipro, incappò in una brutta situazione. Due giovanotti, alti e grossi, presero a seguire le due donne e tutto ad un tratto uno di questi si parò davanti a loro mentre l’altro restò dietro.
– Graziose dame, volete compagnia? – disse con un sorrisetto beffardo il tizio che stava davanti.
Le donne non osarono rispondere e fecero il gesto di voler proseguire ma il giovanotto lo impedì.
– Quanto sei bella! – disse rivolto alla nobile donna. – Scosta quel velo dalla faccia che voglio ammirarti meglio.
E così dicendo le tirò via il velo e lo strappò sghignazzando, mentre l’altro compagno dava spinte all’ancella.
E intanto pronunciavano parole sempre più irrispettose da farle arrossire, finché un rumore di cavalli che stavano sopraggiungendo li fece fuggire.
Ci volle un po’ di tempo, prima che la nobile donna si riprendesse dallo spavento e poiché era di carattere forte e volitiva pensò di recarsi dal re di Cipro a chiedere giustizia per l’offesa ricevuta.
– Andrò dal re e lo pregherò di punire quegli sbruffoni per ciò che mi hanno fatto – disse alla parente.
– Mia cara, sprecherai il tuo tempo. Sarà difficile che tu ottenga ciò che chiedi – quella rispose.
– Perché mai?
– Perché il sovrano è troppo mite, non ha polso. Chiunque riceva un’offesa, un sopruso, e vada da lui a chiedere un atto di giustizia non ottiene niente. Anzi, non reagisce neppure quando sono irrispettosi nei suoi confronti o lo trattano come un uomo di poco conto.
La nobile rimase delusa; il comportamento del re era davvero insolito.
Continuava a rammaricarsi dell’affronto subito e a stupirsi di quell’imbelle sovrano.
“Eppure, una soddisfazione la devo avere” pensò, “se non altro per consolarmi”.
E così si recò dal re e gli raccontò l’accaduto.
– Sire, non sono qui a chiedervi vendetta per l’oltraggio subito; vi chiedo, invece, di insegnarmi come fate voi a sopportare oltraggi e ingiurie che spesso vi vengono recati. Così, imparando da voi, potrò sopportare il mio. E, considerato che voi sapete tollerare assai bene tutte le offese, vi darei anche la mia se potessi farlo.
Quelle parole furono una freccia dritta al cuore del re. Fatto sta, come se egli si fosse all’improvviso svegliato dal suo lungo letargo, non solo le fece immediatamente ottenere giustizia ma da quella esperienza imparò a farsi rispettare da sovrano quale era.
Giornata seconda
Novelle a lieto fine
Novella prima Martellino, il miracolato
Filomena, eletta regina della seconda giornata, si fece seguire dalla compagnia nel boschetto poco distante la villa e lì ordinò che si sedessero tutti quanti attorno a lei. Filostrato, intrecciata una ghirlanda con rametti di alloro, gliela pose sul capo.
“Le novelle di oggi dovranno raccontare di casi fortunati. Inizia tu, Neifile” disse.
Neifile fu ben lieta e sorridente.
“La novella che ascolterete vi dimostrerà che non si deve mai disperare quando nella vita le circostanze volgono al peggio, perché qualcosa di buono può sempre succedere quando meno te lo aspetti”.
Nella bella città di Treviso, tempo fa viveva un uomo di nome Arrigo, gentile d’animo e onestissimo che si faceva ben volere da tutti. Povero com’era, per guadagnarsi il pane si adattava ai lavori più umili e faticosi senza lamentarsene, finché, un giorno, morì.
Aveva appena chiuso gli occhi che le campane di Treviso presero a suonare tutte assieme.
– È un miracolo – qualcuno disse.
– È un santo, per questo suonano le campane – aggiunse un altro.
In un battibaleno, si sparse la voce che Arrigo fosse santo e la sua salma fu condotta nella chiesa più grande della città, perché gli fossero tributati onori e preghiere.
Subito in chiesa fu un via vai di uomini, donne e bambini ma soprattutto di storpi, di ciechi e di malaticci che si avvicinavano al corpo del defunto per toccarlo e baciarlo, implorando il miracolo della guarigione. E così fu per tutto il giorno.
Caso volle che giungessero in città tre commedianti fiorentini, un certo Stecco, un certo Marchese e un certo Martellino, quest’ultimo bravissimo imitatore.
Trovarono alloggio in una locanda non lontana dalla strada che conduceva alla chiesa maggiore e vedere la fiumana di gente che procedeva lungo la via pregando e innalzando lodi al Signore li meravigliò assai.
– Che ci fa tutta questa gente? C’è forse qualche sacra ricorrenza? – chiesero al locandiere.
Questi si mise a raccontare per filo e per segno quanto era accaduto e sempre più la loro curiosità cresceva.
– Andiamo anche noi in chiesa a visitare quel sant’uomo –propose Martellino, spinto più dalla curiosità che da un sentimento di devozione.
– Troppa gente! Con quel pigia, pigia, prima che arriviamo alla chiesa farà buio – dissero Stecco e Marchese.
– Macché! So ben io cosa fare, fidatevi – rispose Martellino.
– Cioè, che hai in mente? – chiesero.
– Un giochetto da nulla; farò lo storpio. Voi mi dovrete sorreggere e condurre fino alla chiesa pregando la gente di fare largo al povero infermo. Vedrete che qualcuno si commuoverà e prima uno, poi un altro, impietositi, ci lasceranno passare.
– Io ci sto – disse Marchese, divertito all’idea di quella beffa.
– Io pure – aggiunse Stecco.
Martellino, il miracolato
Usciti che furono dalla locanda, prima di riversarsi sulla via che andava dritta alla chiesa, Martellino chiese ai compagni di nasconderlo con i loro corpi. In un battibaleno sfilò il braccio destro dalla manica del giubbetto e lo infilò sotto la camicia stretto al petto, piegò il braccio sinistro come se l’arto fosse immobilizzato, storse la bocca in una smorfia e, con un occhio chiuso e uno aperto, disse soddisfatto:
– Andiamo compagni, sostenetemi uno di qua e l’altro di là e fate anche voi la vostra parte.
Così i tre si avviarono facendosi largo tra la calca di gente, Martellino zoppicando e gli altri due sorreggendolo.
– Lasciateci passare per pietà di questo pover’uomo – diceva Marchese.
– Dio vi benedirà per un’opera buona – diceva Stecco.
Martellino non parlava ma emetteva dei lamenti che andavano dritti al cuore della gente che si premurava di fare spazio e lasciarli passare. In poco tempo arrivarono dentro la chiesa e Martellino venne condotto davanti al cataletto del defunto Arrigo, circondato da fedeli inginocchiati a pregare.
– Mettiamo questo poveretto sopra il corpo del santo così che lo possa guarire – dissero alcuni impietositi dalla sua condizione.
Ciò detto, lo sollevarono e ve lo deposero sopra.
Martellino si rese conto che a quel punto la parte andava recitata fino in fondo, pertanto fece del suo meglio per rendere credibile un miracolo.
Cominciò con riaprire l’occhio, poi a distendere il gomito sinistro e, intanto che la gente gridava al miracolo e baciava piedi e mani di sant’Arrigo, sfilò il braccio destro dalla camicia e lo infilò di nuovo nella manica. Quindi scese dal cataletto con le sue gambe tra lo stupore e la commozione dei presenti.
– E quando eri diventato paralitico, Martellino!? – esclamò uno dei presenti scoppiando a ridere.
Era costui un amico di Martellino, che per caso si trovava anch’egli a Treviso.
– Sei davvero bravo a fare la parte dello storpio.
A quelle parole i presenti capirono di essere stati gabbati e, come avvoltoi, piombarono addosso a Martellino insultandolo e colpendolo con calci e pugni senza riguardo né del luogo né del santo defunto.
Martellino soffocava, non riusciva a difendersi da quegli indemoniati che, agguantandolo mani e piedi, lo portarono sul sagrato della chiesa. Lì fu ancora peggio; incassò botte da chiunque e gli strapparono tutto quel che aveva addosso.
Stecco e Marchese non sapevano come fare per sottrarlo a quel linciaggio, poi Stecco ebbe un’idea nel vedere che la via era sorvegliata da numerose guardie: far passare l’amico per ladro.
– Arrestate quel furfante! Mi ha derubato! Avevo 50 fiorini d’oro nella scarsella e me l’ha strappata! – si mise a gridare.
Quattro guardie accorsero subito ad arrestare il presunto ladro salvandolo dalla folla imbestialita, ma mentre lo conducevano nel palazzo del podestà, più di uno cominciò a lamentarsi di essere stato derubato dal forestiero per aggravare la situazione del malcapitato e per malevola rivalsa.
Il sollievo di Martellino per essere scampato a morte certa durò poco perché nel palazzo del podestà il giudice mostrò di non credere alla sua innocenza e, per farlo confessare, ordinò di dargli il supplizio. Legato a una corda, lo issarono ben in alto dopo di che lo calarono giù di botto.
Martellino sentì vibrare tutto il corpo come se una saetta lo avesse attraversato da capo ai piedi.
– Pietà di me! – gridava tremando. – Volete la verità, signor giudice, e io confesserò. Ma prima fatevi dire da chi mi accusa di essere un ladro quando l’avrei derubato.
Il giudice, pur di malavoglia, acconsentì e ascoltò tutti quelli che dichiaravano di essere stati derubati dal forestiero.
– Si, Eccellenza, due giorni fa mi ha derubato – disse uno.
– A me quattro giorni fa ha portato via la saccoccia – disse un altro.
– Una settimana fa mi ha rubato tutto quel che avevo – un altro ancora. E così via ciascuno diceva la sua.
– Eccellenza, costoro mentono – rispose Martellino. – Io sono giunto a Treviso proprio stamane all’alba.
Vedendo che il giudice esitava, aggiunse:
– Chiedete conferma al proprietario della locanda dove io e i miei compagni abbiamo alloggiato stamani appena arrivati a Treviso. E chiedetelo pure ai gabellieri alla porta della città che ci hanno visto entrare stamani all’alba.
Il giudice continuava a guardarlo torvo senza prendere nessuna decisione; quel forestiero non gli ispirava fiducia.
“Come è stato abile a fingersi storpio, così può esserlo a mentire” pensava.
– Si mette male per il nostro Martellino, rischia la condanna a morte – disse Stecco a Marchese. – Andiamo noi a cercare il locandiere e convinciamolo a testimoniare.
Appena il locandiere seppe quanto stava accadendo, non si fece pregare per andare davanti al giudice.
– Volentieri testimonierò la verità. Ma se ciò non bastasse io sono molto amico del Podestà e gli chiederò di intercedere per il vostro amico.
Così detto, si recò insieme a loro al palazzo del Podestà.
Per fortuna, proprio mentre il locandiere stava per testimoniare, arrivò il Podestà che, udita l’autodifesa di Martellino e la testimonianza dell’amico locandiere, ordinò di lasciare libero il forestiero malcapitato.
Anzi, vedendolo con le vesti stracciate e tutto malconcio, gli fece portare brache e giubbetto nuovi.
Novella quarta Landolfo Rufolo
Fu poi la volta di Filostrato e di Pampinea; infine toccò a Lauretta e così parlò:
“La mia novella più delle altre che abbiamo ascoltato, vi mostrerà come la sorte sia mutevole e bizzarra e quanto può togliere o dare inaspettatamente a ciascuno di noi.
Ebbene, voi tutti sapete che la Campania ha monti a picco sul mare, rocce cavernose e golfi ampi come abbracci. In questa terra, lungo la costiera presso Salerno, si affacciano sul mare località belle e famose come Amalfi, Positano e Ravello .
I commerci sono la ricchezza di chi le abita e proprio in una di queste città viveva l’uomo di cui parlerò”.
C’era un mercante di nome Landolfo Rufolo. Costui possedeva a Ravello una villa terrazzata di giardini a strapiombo sul mare e un discreto patrimonio.
Era però desideroso di diventare ancora più ricco, acquistò una nave, la riempì di stoffe, vasellame, coralli, spugne e altre mercanzie e si diresse verso Cipro.
“Questa merce andrà a ruba e tornerò a Ravello ricco e soddisfatto” egli pensava.
Purtroppo, invece, quando giunse a Cipro, dovette ricredersi perché l’isola era gremita di mercanti che vendevano più o meno
le sue stesse merci. Passavano i giorni, il suo carico rimaneva lì tutto intero e Landolfo per realizzare un po’ di soldi fu costretto a vendere sotto costo la merce, anzi molta ne abbandonò perché nessuno la voleva.
“Questo viaggio è stato la mia disgrazia. Con che coraggio torno a casa dai miei figli e da mia moglie?” si chiedeva disperato.
Per lo sconforto non mangiava e non dormiva e avrebbe voluto gettarsi in mare. Poi, finalmente, reagì alla disperazione: – Che diamine! Un modo per fare soldi c’è! Vendo la nave, ne compro una più piccola, la carico di armi e mi do alla pirateria!
E così fece. Per un anno, in lungo e in largo nel Mediterraneo, derubò navi turche e greche finché ritenne di aver abbastanza ricchezze da potersene tornare a casa.
Nel viaggio di ritorno, però, un vento impetuoso agitò il mare; onde violente colpivano la nave perciò Landolfo la diresse verso un’isoletta e si riparò in un’insenatura. Anche due navi genovesi erano ormeggiate proprio lì.
Landolfo aveva appena gettato l’ancora che, numerosi come insetti, i marinai genovesi si calarono su barche a remi, si affiancarono alla nave, salirono a bordo e immobilizzarono l’equipaggio e il mercante. Poi, depredate le mercanzie, affondarono la nave.
Landolfo si trovò senza ricchezze e, quel che è peggio, prigioniero.
Il giorno dopo le navi dei genovesi con il prigioniero ripresero il viaggio verso il mar Ionio.
Al calar del sole, il cielo si coprì di nubi nere trafitte da lampi, quindi una tempesta d’acqua e vento si abbatté sulle navi. Quella con a bordo Landolfo andò a spezzarsi contro lo scoglio di un’isola e uomini e mercanzie schizzarono in mare: chi qua, chi là, chi sparì inghiottito dai flutti.
Landolfo nuotava cercando disperatamente qualcosa cui aggrapparsi finché sbatté le braccia contro una tavola di legno; l’afferrò e vi si mise cavalcioni. Rimase lì, sballottato dalle onde, in quel buio fitto di cielo e di mare.
– Che Dio mi salvi! Mi salvi! – pregava disperato.
Ecco avvicinarsi qualcosa di massiccio e di scuro.
– E questo cosa diamine è?!
Era una cassa di legno: morte sicura se gli fosse andata addosso.
– Va’ via! – gridava allontanandola con la mano. E più la respingeva, più quella si appressava, spinta dall’onda.
D’un tratto un urto secco; Landolfo, scagliato via, sparì sott’acqua.
Quando riemerse, non trovando la tavola, afferrò la cassa, salì sul coperchio e vi si aggrappò ben stretto, tenendosi con la forza che gli era rimasta.
Stette così per tutta la notte.
All’alba del giorno seguente, il mare si calmò.
Landolfo, sopra la cassa, si lasciò trasportare dalla corrente e fu così che giunse, più morto che vivo, sulla riva dell’isola di Corfù.
Il caso volle che due donne, madre e figlia, si trovassero su quella spiaggia a lavare le stoviglie con la sabbia e l’acqua di mare e, vedendo il naufrago, corsero a soccorrerlo. Lo trasportarono a casa, quindi tornarono a prendere la cassa. La donna lavò il forestiero, gli dette abiti puliti e gli fece tornare le forze con il cibo.
Due giorni dopo, Landolfo era ristabilito e desideroso di rimettersi in viaggio, perciò la donna gli rese la cassa.
“Che me ne faccio d’una cassa?!” egli pensava deluso. “A venderla ci prendo ben poco”.
Ma più la guardava, più gli veniva voglia di vedere cosa mai contenesse.
IClassici
StoriedaNobel
Giovanni Boccaccio ambientò il Decamerone nel 1348, l’anno in cui Firenze fu devastata dalla peste. Questa raccolta presenta alcune delle novelle più significative, divise per tematiche e scelte per il loro contenuto adatto ai giovani di oggi. Sono storie che parlano di avventura, d’amore e di beffe ambientate in un Medioevo meraviglioso e, nello stesso tempo, realistico, in cui interagiscono re, nobili e popolani. È uno spaccato perfetto dell’epoca, una lettura sempre attuale ed entusiasmante, proposta in una briosa e intensa riscrittura.
Alta leggibilità
Caratteristiche grafiche che favoriscono l'accessibilità al testo