La barba magica di Natale - ESTRATTO

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Bianca, una bambina ricca e annoiata, odia il Natale: ogni anno è sommersa di regali costosi e tecnologici, ma è sempre sola. E pensare che basterebbero delle semplici biglie colorate per renderla un po’ più felice! Anche il vecchio Scuro odia il Natale: non sopporta la frenesia e l’allegro frastuono che si sentono in giro. Scende quindi in un pozzo per non udire più quei suoni festosi e per cercare qualcosa che lo aiuterà a realizzare il suo piano malvagio.

GLI AUTORI Mario Gamba vive a Borgomanero. Insegna storia e filosofia nei licei del Piemonte e da anni si dedica, tra le altre cose, alla composizione di favole e storie per ragazzi. Simone Fornara, nato a Omegna, paese di Gianni Rodari, si occupa di formazione degli insegnanti di ogni ordine scolastico, ma è anche scrittore appassionato di divertenti racconti per ragazzi. Con Raffaello Editrice hanno già pubblicato “I pipistrelli di Guardalà”, “Telefonino, non friggermi la zucca!” e “Game Over”.

I S B N 978-88-472-2445-2

I 9,00

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788847 224452

Consigliato dagli 8 anni

La barba magica di Natale

Mancano sette giorni alla festa più bella, e per la piccola Bianca e il vecchio Scuro sarà un Natale indimenticabile.

Mario Gamba - Simone Fornara

LA STORIA La magia del Natale raccontata in una fiaba che tocca le corde del cuore e fa comprendere ai più piccoli il vero senso della festa più bella.

Mario Gamba - Simone Fornara

La barba magica di Natale




Editor: Patrizia Ceccarelli Redazione: Emanuele Ramini Ufficio stampa: Salvatore Passaretta Team grafico: Letizia Favillo www.raffaelloragazzi.it www.grupporaffaello.it email: info@raffaelloragazzi.it

© 2011 Tutti i diritti riservati Raffaello Libri Srl Via dell’Industria, 21 - 60037 Monte San Vito (AN) IIa Edizione 2015 Ristampa 6 5 4 3 2 1 0

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La barba magica di Natale

Mario Gamba - Simone Fornara Illustrazioni di

Giovanni Lombardi


A Stefania e Angelo, ad Anna e Paolo, che credono ancora nel Natale. Mario

A Beatrice, che custodisce negli occhi la magia delle biglie di Natale. Simone


PARTE PRIMA

Aspettando Natale


Scuro Moltamorte

E

ccola qui improvvisa, la neve! Sì, finalmente era arrivata. E che spettacolo! Nuvole gonfie di aghi ghiacciati risalivano imponenti dal fondovalle; la tormenta di neve saliva e saliva su per i tornanti che si inerpicavano serpeggiando per i rilievi premontani; e terminava la sua corsa infarinando di bianco i comignoli e i campanili e i tetti spioventi delle baite di Guardalà Sopra, un piccolo agglomerato di casupole in procinto di ammorbidirsi per il manto nevoso bianco come panna montata. Neve, neve, neve! Neve a folate, nell’oscurità incipiente; fitti fiocchi ghiacciati che schiaffeggiavano i fianchi maculati dei cerbiatti e distribuivano imparziali manate glaciali sulle zucchette nere di famigliole di cinciallegre sorprese allo scoperto.

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– Cirp-Cirp-Cirp! – trillò mamma cinciallegra avvolta dalla danza festosa dei cristalli di neve, ed era come se dicesse ai piccolini: “Presto, presto! Tutti al nido, al calduccio! È arrivata la neve! È quasi Natale! BRRR!” Solo un impavido picchio verde continuò a mitragliare la corteccia di un larice alla ricerca di larve e insetti, incurante dei pallini ghiacciati che gli tamburellavano sul cranio rimbalzando in ogni direzione. Ed era come se dicesse: “E che importa a me del Natale?” E un pettirosso sfidava i fiocchi in caduta con rapide ascese e velocissime picchiate, fino a sfiorare la bianca coltre che sembrava crescere di minuto in minuto. Cinguettando festoso percorse con leggerezza qualche centinaio di metri, raggiungendo il viale d’ingresso di un rudere sgangherato, sul quale un vecchio alto, magro, segaligno e con una barba lunghissima stava borbottando con se stesso, imprecando a voce bassa. – Ci mancava anche la neve! Anche questa! – sbottò scuro in volto. Il vecchio spazzava furioso con una ramazza di sterpaglie il viale innevato della sua casetta.

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Gli occhi neri incastonati nel volto rugoso mandavano lampi di rabbia malamente trattenuta. La barbaccia ondeggiava qua e là, come se fosse un’altra scopa ribelle. In testa, pochi lunghi capelli biancastri frustavano l’aria come piccoli sibilanti serpenti.



– Cip-Cip-Cip! – trillò gaio l’uccellino. – Chi è? Che cos’è? E tu cosa fai lì? Cosa vuoi? Fuori di qui! – sbraitò il vecchio manovrando la scopa come una mazza da baseball. Uno schizzo di nevischio fradicio partì in direzione del pettirosso che aveva avuto l’impudenza di cinguettare e zampettare, non invitato, sulla staccionata che cintava l’orticello. Il pettirosso partì al volo, spaventato, levando alto un Cip-Cip di protesta, quasi volesse dire: “Ma non lo vedi, non lo senti il Natale?” Il vecchio depose la scopa, si passò una mano sul volto scuro, febbricitante d’ira; si diede una veloce pettinata ai ruvidi ciuffi di pelo che sbucavano dagli orecchi, poi recuperò con entrambe le mani la lunghissima barbaccia che strisciava per terra, impiastricciata di neve e fanghiglia, come un pescatore che recupera dal mare la sua rete inzuppata. Fece girare la massa di peli color sale e pepe per quattro o cinque volte intorno alla vita, poi se ne infilò la punta gocciolante nella cintura del cappotto, un semplice cordino di canapa. – Bestiaccia della malora! – disse all’indirizzo dell’uccellino, mostrandogli un pugno. E, come se

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rispondesse al cinguettio del pettirosso, continuò a sbraitare con sprezzo. – E che mi importa a me del Natale! Alla malora anche lui! Poi si voltò e rientrò nella catapecchia sbattendo la porta cigolante. Appena oltre la soglia, si fermò in ascolto. Gli era sembrato di sentire un altro rumore fastidioso, poco prima che la porta sbattesse. Fece dietrofront e la riaprì, grugnendo e sporgendo il mento a punta fuori di casa. – Beep-beep! BEEP-BEEP! – il suono squillante di un clacson in avvicinamento rimbalzò sulle balze di neve e finì a tintinnare contro i timpani irrigiditi del vecchio, che serrò gli occhi con evidente fastidio. – Alla malora anche voi, maledetti vacanzieri di Natale! Statevene a casa vostra! – gridò, sferzando l’aria coi pugni tra uno svolazzo della barba e un altro dei peli che gli fuoriuscivano dalle orecchie. Diede una strizzatina alla barba, come se fosse uno straccio bagnato, poi assestò un calcio alla porta, che sbatté di nuovo. – Beep-beep! – il suono del clacson si ripeté, appena attutito dal legno della porta.

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Il vecchio grugnì ancora. Non poteva sopportare i rumori di festa, fossero prodotti da un innocente uccellino o da un rombante autoveicolo fuoristrada. *** Si chiamava Scuro, ed era di carattere ombroso e iracondo, proprio come suggeriva il suo nome. Era il più vecchio abitante di Guardalà Sopra, più vecchio del più vecchio pastore del paese. Ed era anche il più solitario. In verità, voleva restare solo. Non sopportava nessuno e nessuno poteva permettersi di violare la sua proprietà, nemmeno uno stupido uccellino. Era diventato un vero misantropo, un odiatore di uomini (e di pettirossi). Ma nessuno in paese sapeva perché. Forse era stato a causa di una giovanile delusione amorosa; o forse perché era stato deriso e umiliato quand’era un bambino. Certo, doveva essere stato un bambino e un giovanotto anche lui! Epperò, nessuno conosceva le vere ragioni del suo rancore. Del resto, nessuno, da decenni, si era permesso di avvicinare quell’uomo vecchio e pieno di livore.

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Scuro evitava di incrociare lo sguardo e di scambiare un cenno di saluto, se per caso si imbatteva in qualcuno su qualche viottolo di montagna. Scendeva allo spaccio alimentare, un chilometro più in basso, non più di due volte l’anno, per acquistare un po’ di sale, trascinandosi dietro metri e metri di barba grigia e bianca. Borbottava: – Dieci chili di sale! Teneva gli occhi bassi; pagava in natura, barattando il sale con qualche sacco di patate; poi, senza salutare, se ne tornava alla catapecchia che aveva costruito appena fuori del paese, su un cocuzzolo proprio ai piedi della parete di roccia di Montagna Grande, seguito dalla massa di peli impastati a sabbia e sassolini. Non aveva bisogno di altro. Non aveva la televisione o la radio, e neppure il frigorifero. Non gli serviva la corrente elettrica. Niente di niente. Coltivava le patate nell’orto che circondava la sua abitazione cadente; si tingeva la lana da solo; filava i suoi grossolani abiti su un vecchio telaio; si curava con le sue erbe medicinali...

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Completamente e totalmente solo. E gli stava bene così, diceva a se stesso. – Quei pidocchi, quegli omuncoli, quelle mosche ignoranti e fastidiose... Ed erano le parole più gentili che riuscisse a trovare nel suo vocabolario mentale per indicare gli esseri umani. Naturalmente, come accade spesso in questi casi, i paesani ritenevano che Scuro non fosse solo un vecchio bislacco e fuori di testa, ma proprio una persona da evitare, un tipo davvero losco, anzi... pericoloso. Si vociferava che tra i peli intrecciati della sua barba si annidassero chissà quali esseri infernali, creature evanescenti e malvagie. E ai bambini che venivano su in estate o per le vacanze di Natale dicevano sempre: – Quello lì è uno stregone! State lontani da casa sua, mi raccomando! Effettivamente, poteva anche accadere che di notte, soprattutto nelle notti di luna piena, si vedessero partire lampi e fulmini dall’interno della casupola di Scuro: in questi casi, la parete di roccia su cui sorgeva la casa si illuminava a giorno per brevi istanti.

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– È la rabbia dello Scuro che si sfoga! – È uno stregone! – Un mago! – Cos’è che farà lassù? Così dicevano i vecchi pastori del paese. Sì, in effetti la casetta sgangherata di Scuro era piena zeppa di bollitori e storte e alambicchi e distillatori, e dal soffitto di travi incrociate pendevano trecce di cipolle rosse ma anche macabri mazzetti di lucertole e vipere essiccate. Proprio come nella casa di una strega che si rispetti. E tutt’attorno alla casa si slargava ad anello un orto dove il vecchio coltivava rape e patate, ma anche fiori ed erbe medicinali. Naturalmente, la maggior parte dei fiori erano “cavoli di lupo”, ellebori fetidi piantati apposta per tenere lontani eventuali visitatori, sempre sgraditi. E c’erano anche ellebori bianchi e neri dalle velenose foglie lanceolate. Era da quella massa intricata di erbe e piante e ortiche, dalle loro radici seccate, che Scuro traeva la sua polvere vegetale. Ne riempiva interi barattoli e vasetti, e poi se ne serviva durante i suoi esperimenti notturni.

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Gli esperimenti spesso finivano male per via di varie miscele sbagliate, che quasi sempre diventavano esplosive e scatenavano pirotecnici schianti e sbuffi di fumo e saette che zigzagavano per la casa, arricciando i peli della barba del vecchio e bruciacchiando gli esserini misteriosi che la popolavano.

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Una pianta letale

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uei pidocchi! Pidocchi, pettegoli maldi-

centi! Oh Signore! Quanto li detestava, gli uomini! Ipocriti, sciocchi, vuoti... come i tizi che arrivavano per Natale su quelle auto mostruose e rombanti e non potevano fare a meno di strombettare col clacson a ogni svolta della strada! – Uomini! Puah! – faceva spesso Scuro, con un verso di disgusto. E già. Ormai il vecchio preferiva passare il suo tempo in compagnia di animali ed erbe, piuttosto che di uomini. Ma non animali ed erbe di tutti i tipi: solo quelli sufficientemente aggressivi da tenere lontani gli uomini. Nell’orto coltivava Helleborus foetidus; in casa ospitava una splendida donnola dal pelo bianco, snella e flessuosa. Che animale! Trenta centimetri (esclusa la

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coda) di aggressività allo stato puro: un carnivoro coraggiosissimo in grado di azzannare il sedere di qualunque paesano o vacanziere natalizio! Scuro aveva dato un nome alla donnola: Mordi! (con il punto esclamativo). E, a suo modo, le voleva anche bene, e ci parlava assieme. Ci giocava anche. E la ammaestrava e le insegnava a obbedire ai suoi ordini. E qualche volta esagerava un po’. – Qua, qua, Mordi! – faceva il vecchio. Poi cominciava a stuzzicare l’animale facendogli spenzolare davanti agli occhi la lunga barba incolta, come fosse un drappo rosso davanti a un toro. A quel punto la donnola, infuriata, balzava su per la barbaccia e si arrampicava con gli unghioli verso il volto. Ma Scuro non aspettava altro: un attimo prima che la bestia gli azzannasse le labbra, il vecchio apriva la bocca e lasciava andare uno sbuffo di polvere di elleboro fetido. E a quel punto la bestiaccia si ribaltava all’indietro, ruzzolando e starnutendo a più non posso, rovesciando libri e alambicchi, per la gioia di Scuro che rideva a crepapelle e batteva le mani sulle ginocchia. Poi si riconciliava con la donnola gettandole un mazzolino di lucertole essiccate.

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Bellissimo spettacolo, secondo Scuro. Sì, meglio gli animali (soprattutto se donnole e faine) che gli uomini, finti e fasulli. *** Il disgusto del vecchio aumentava all’avvicinarsi del Natale. Nei giorni precedenti il Natale, proprio come adesso, Scuro prendeva infatti il suo cannocchiale, si piazzava sul roccione più alto che riusciva a trovare e guardava giù verso il fondovalle e la grande città. E in quelle sere freddissime e terse, lo sguardo si smarriva sulle migliaia di luci e alberi illuminati che tempestavano i terrazzi cittadini. Una ragnatela densissima di festoni e carta crespata e luminarie e stringhe di led bianchi e blu collegava i tetti delle vie principali delle città, mentre dozzine di finti babbi natale di tela e plastica fingevano di arrampicarsi sulle ringhiere dei balconi. “Tutta una pupazzata incredibile!” pensava Scuro. Uno spreco bestiale di energia elettrica e luci che non riscaldano i cuori. Tutto fasullo. Finto.

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Lui, almeno, aveva smesso da un pezzo di fingere una felicità e una allegrezza che non riusciva a trovare dentro di sé. La vista della città illuminata gli alimentava il livore che sentiva dentro, e più guardava più si sentiva nel giusto. Più si arrabbiava, più si sentiva bene. “Se solo potessi farli sparire tutti, in un colpo, gli uomini!” pensava. “E con loro tutti i maledetti rumori di festa! Cinguettare di pettirossi e strombettare di macchine! Scampanellare di chiese e cantare di cori e vociare insulso di babbi natale!”. Che bello sarebbe stato sentire solo grugniti di rabbia (i suoi) e silenzio! Ormai gli capitava sempre più spesso di perdersi in visioni di questo tipo. E gli era balenata l’idea di andare a cercare l’unico tipo di elleboro che ancora non era riuscito a trovare. Scartabellando nei suoi ammuffiti volumi alchemici, vecchi di secoli e puzzolenti di muffa, aveva infatti scoperto l’esistenza di una particolarissima varietà di elleboro, l’Helleborus niger mortiferus, talmente potente da essere in grado di allontanare per sempre uomini e bestie festanti, riducendoli in impalpabile polvere.

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Bastava trovare la pianta e tritarla e diluirla in un sugo di distillato alcolico, secondo le giuste proporzioni, e versarne una fiala nelle condotte dell’acqua potabile o nelle sorgenti montane per far sparire nel nulla chiunque ne bevesse anche solo una goccia. Ma, sempre dai suoi studi matti e disperati, gli pareva di aver capito che ciò avrebbe funzionato solo se la pianta fosse stata raccolta due o tre giorni prima del Natale e la pozione fosse stata versata la notte di Natale e bevuta nei giorni immediatamente successivi, fino a Capodanno: tra Natale e Capodanno, cioè quando l’insensata allegrezza degli uomini raggiungeva il suo culmine. L’Helleborus niger mortiferus, infatti, fioriva solo una volta all’anno, nella settimana che precede il Natale. Così dicevano i suoi libri vecchi di secoli. *** Poco prima che il pettirosso si mettesse a cinguettare sul suo viale d’ingresso, Scuro era perso in una di queste visioni liberatorie. Se ne stava seduto sotto il porticato a fantasticare su un mondo privo di uomini e di bestioline festanti. Aveva

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incrociato le mani artritiche sotto il mento e appoggiato i gomiti sulle ginocchia e sulla barba. Poi aveva cominciato a ripetere mentalmente (e muovendo in silenzio le labbra), con la regolarità di un cronometro: – Che bello sarebbe! – Che bello sarebbe! – Che bello sarebbe! – Che bello... Dopo un po’, sentendosi ancora irrequieto, aveva afferrato la ramazza per scopare via la neve e tenersi occupata la mente. – Ci mancava solo la neve! Beh, pazienza! E aveva ripreso la sua litania: – Che bello sarebbe! Se solo sparissero tutti! Che bello sarebbe! – Adesso vi faccio sparire davvero, uomini e bestie e feste! – urlò il vecchio con tutta la voce che gli rimaneva, facendo vibrare le corde vocali rinsecchite e traballanti. E si tuffò tra i suoi polverosi libracci per attuare quel piano malvagio.

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Un arrivo rumoroso

B

eep-beep! BEEP-BEEP! Il suono del clacson proveniva da un gigantesco fuoristrada che saliva arrancando nella tormenta di neve i tornanti ripidi della strada che conduceva a Guardalà Sopra. Lo accompagnava il volo aggraziato di uno splendido gheppio, che sfruttando le correnti d’aria con le ali rosso-piumate saliva dall’imbuto della valle, su verso le sue montagne, solitario e orgoglioso. Che cosa importava a lui del Natale? Intanto i potenti fari dell’auto frustavano con coni di luce i cespugli del sottobosco a ogni curva di ogni tornante in salita, illuminando ghiaie e roccioni ed eriche porporine e agrifogli battuti da ondate di neve. – Papà, ma che mi importa del Nat...

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– Zitta, Bianca! Non adesso! – vociò papà tutto concentrato nella guida. Gli occhi gli dolevano per lo sforzo, e gocce di sudore gli imperlavano la fronte nel terrore di perdere di vista il nastro inghiaiato della strada. – Beep! BEEP! La bufera si stava avvicinando sempre più. I primi lembi delle nuvolaglie avevano già superato il mezzo e stavano scaricando la loro neve sui pendii. – Non preoccuparti, carina. Dovremmo quasi essere arrivati – disse mamma con voce annoiata staccandosi gli auricolari del lettore mp3 dalle orecchie. – E tu, Dino, cerca di essere meno brusco! In fondo l’hai voluta tu la vacanza natalizia nel posto più sperduto e irraggiungibile e “rustico” e... – Ho bisogno di starmene tranquillo per un paio di settimane. Sono stressato. Lo sai, no? Per favore, vediamo di non cominciare! – Eremita! Selvaggio! Bruto... naturista! – esplose mamma. – E io che ho dovuto rinunciare a due settimane di sole e abbronzatura a Dubudai e a Sherik-el-Sharm...

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– Vedrai che ti troverai benissimo anche a Guardalà Sopra! Su! Mancano sì e no due chilometri al paesino. Ma mamma era partita in quarta e non voleva sentire ragioni, così continuò: – ... e tutto questo, solo per venire quassù in clausura in un posto sperduto di montagna, Guardalà Sopra, che non c’è nemmeno nelle carte topografiche, e non c’è neanche una funivia, una pista da sci e da snowboard, una beauty-farm, una palestra per il fitness e... – E BASTAAA! – urlò a questo punto il signor Riccardo Denaris, mega-direttore di una megaazienda iper-specializzata nell’import-export di prodotti elettronici high-tech. In più, in quel momento, il signor Riccardo (Dino per gli amici) era davvero esasperato. Un velo di sudore gli si stava pericolosamente addensando sui sopraccigli, mentre sbraitava con gli occhi sbarrati e inchiodati su quella stradaccia che non vedeva più. Le nocche delle mani si erano sbiancate sul volante, tanta era la forza con cui lo stringeva. – Beep! BEEP!

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Dino cercò di recuperare un minimo di pacatezza, e disse con fare conciliante: – Non preoccupatevi! Tu, Jessica cara, farai sfigurare tutte le tue amiche non appena vedranno i filmati dello chalet che ho comprato su in paese! E tu Bianca, bimba mia... vedrai che mega-regali ti arriveranno! Vedrai, vedrai! Bianca se ne era rimasta zitta, con le spalle affondate nella morbida stoffa dello schienale posteriore dell’abitacolo. Zitta e immusonita dall’inizio dell’alterco, ma con un sorriso appena accennato che era un misto di tristezza e di noia sulle labbra. “Buon Natale, Buon Natale!” pensava dentro di sé. “Ma va’ là! Ma che Buon Natale!” Intanto papà concludeva la sua tirata. – Quanto a me, voglio solo starmene tranquillo a far niente per qualche giorno. Vedrete. Sarà un Natale con i fiocchi. Giusto?! Nel cercare con lo sguardo il consenso dei famigliari, Dino prima voltò di scatto la testa a destra, verso la moglie, poi torse il capo indietro, in direzione dei sedili posteriori e di Bianca, e infine riportò rapidamente gli occhi sulla strada davanti a lui, ribadendo la sua richiesta di conferma:

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– Giusto-o-o-o?! Il triplice brusco scapocciamento gli aveva però annebbiato la vista. Gli scappò anche un fragoroso starnuto. E starnutendo piegò il capo in avanti, stantuffò involontariamente sull’acceleratore, perse il controllo dell’auto, sbandò e slittò tutto a destra e si infilò dritto dritto in un macchione di rovi e pungitopo spolverati di neve.

Craash! Papà Dino sbatté con il naso contro il volante rivestito di pelle, andando a cozzare proprio contro il comando del clacson e rimanendo così, immobile, per qualche secondo. – BEEEEEEEEEEEEEEEEEEP! Il fuoristrada ebbe un ultimo sussulto e si spense. Mamma ebbe a sua volta un attacco isterico; papà sollevò la capoccia dal volante (il clacson cessò di suonare) e mise una mano a conchiglia sul naso ammaccato; Bianca si sporse in avanti e sussurrò in tono ironico: – Buon Natale a tutti e due!

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La bufera li aveva infine raggiunti. La tormenta era arrivata. Mancavano sette giorni al Natale, ma di natalizio in quel clima famigliare c’era davvero poco.

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Bianca Denaris

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ianca Denaris era una bambina, anzi ormai una ragazzina, decisamente irritabile. Si innervosiva per un nonnulla, o così si sarebbe detto se non la si fosse conosciuta un po’ meglio. Già, ma questo era uno dei suoi problemi: chi poteva dire di conoscerla “un po’ meglio”? Bianca era piuttosto alta per la sua età. Aveva... come dire... aveva un portamento mascolino, ecco. Non portava né sopportava gonne o completini, naturalmente. Indossava solo jeans e maglioni e gilet, ma nessun fiorellino ricamato sopra. E niente nastri nei capelli, neri e tagliati corti. Tutte sciocchezze, secondo lei. Era alta e asciutta, e aveva grandi e penetranti occhi verdi. E lanciava nervose occhiate inquiete tutt’attorno. Bianca guardava fuori dalla finestra panoramica della sua camera. Era il primo giorno, la prima

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mattinata della vacanza a Guardalà Sopra. L’arrivo con l’incidente era stato tutto sommato divertente: nessuno si era fatto male, anche se avevano dovuto raggiungere lo chalet a piedi, sotto le sferzate della neve ghiacciata. Un bel diversivo, dopotutto, nonostante le consuete litigate tra mamma e papà. Comunque, qualcosa di diverso dal solito tran-tran. Guardalà Sopra era un gruppetto di casette dai tetti di ardesia raggrumate attorno a un campanile mezzo diroccato. Non c’erano più di trenta abitazioni malmesse, disposte a gradoni sul pendio soleggiato di Montagna Grande. Uno spiazzo con un diametro di trenta metri e una fontanella ghiacciata al centro; uno spaccio alimentare e niente altro. Anche se distava meno di venti chilometri dalla città di Guardalà Sotto, perfettamente visibile nelle giornate di sole, il paesino, parola forse eccessiva per quel pugno di casette, era stato dimenticato dal progresso e dalla tecnologia. Non c’era alcuna strada asfaltata che vi conducesse; non esistevano strutture alberghiere né impianti sportivi, anche perché le pendenze montuose che si innalzava-

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no a picco appena poche centinaia di metri fuori dell’abitato non avrebbero consentito la costruzione di alcuna pista da sci. Insomma, per un fortuito caso di conformazione geografica, Guardalà Sopra sembrava davvero essere stata tagliata fuori da tutto ciò che rendeva moderna e comoda la vita. Un silenzio secolare vi regnava sovrano, come se il tempo non fosse mai passato lassù in alto. La galaverna che brinava gli steli d’erba e il fumo di legna che usciva dai pochi comignoli erano gli stessi di cento anni prima. Nulla sembrava essere cambiato. I pochi abitanti erano vecchi pastori che ci vivevano tutto l’anno, senza più greggi da accudire. Eccezionalmente, durante le vacanze estive e natalizie, venivano su dalla città le famiglie di coloro che avevano lasciato la montagna generazioni prima, in cerca di lavoro. Le poche case del paese si riempivano di festose presenze: adulti in vacanza e bambini chiassosi, felici di rivedere nonni sdentati e di mangiare pietanze dal sapore di altri tempi e di giocare ancora i giochi dei vecchi. Non era cambiato niente.

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La tecnologia era entrata solo nella baita riattata della famiglia Denaris, che il signor Riccardo aveva acquistato per un pugno di soldi appena qualche mese prima, in estate. Bianca ora guardava giù nello spiazzo del paese, distante una ventina di metri in linea d’aria dalla finestra della sua stanza. Teneva gli occhi fissi sul gruppetto di ragazzini, tre o quattro, che giocavano a spalarsi addosso la neve che ostruiva l’ingresso delle loro case. Gridavano nel loro dialetto e schiamazzavano allegri con le guance rosse e il naso che pizzicava per il freddo. I loro scarponi cricchiavano sulla neve compatta e farinosa.

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Non nevicava quasi più. Solo qualche fiocco pigro ogni tanto. – Che scemi! – disse Bianca, ma gli occhi lasciavano trapelare uno sguardo di invidia. – Che rozzi! Montanari... si divertono con così poco! Lei si divertiva sempre (quando ci riusciva) con tante cose. Con troppe cose. Ne aveva troppe, di cose, di regali. Da sempre. Da quando era piccola. Bianca, d’improvviso, si ritrovò a ricordare di quando era piccina piccina. Voleva una bambola? Ecco che subito arrivava in regalo da parte di mamma una squadra di quattro cagnolini-robot semoventi che tiravano una slitta con sopra una Barbie che gracchiava e gargarizzava con una fredda voce elettronica. E senza nemmeno aspettare Natale! Voleva forse un pallone per andare dai suoi amichetti e tirare due calci (al pallone, si intende)? E zac! Ecco che subito sbucava fuori papà con gli ultimi tre videogame sul calcio più tre consolle portatili. E così via. Peccato.

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Peccato che ben presto qualche meccanismo dei cagnolini robotizzati si rompesse; che i videogame... sì, poteva anche prenderli a calci, quei dischetti, ma non rimbalzavano come un pallone vero! E ormai cosa se ne faceva più dei regali? Non c’era niente di speciale nel riceverli, non c’era nemmeno l’attesa di vederli arrivare. Aveva stanzoni pieni di regali abbandonati, rotti o mai aperti, ancora chiusi nella carta o imballati. Le avevano riempito l’anima di cose, di regali, e nel contempo avevano contribuito a farne una bambina perfettamente isolata, pronta a criticare, disposta a fraintendere ogni minima parola che una compagna di classe potesse rivolgerle. E se qualcuna le diceva “Ciao!”, lei subito pensava “Come ti permetti, pezzente?!”. Anzi, non lo pensava. Glielo diceva proprio, e poi ruotava lesta le spalle in modo da far svolazzare la giacchetta e mostrare in un lampo la firma di gran classe che ci era stampigliata sopra. Ma qualcosa stava cambiando, ultimamente. Con il volto sempre fisso alla finestra, Bianca continuava a ricordare, immersa nei suoi pensieri.

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Non sapeva perché, ma da qualche mese, non appena si alzava dal letto al mattino, aveva già il magone addosso. Si sentiva irritata e infastidita da tutto e da tutti. Si era ormai entrati nella seconda metà dell’anno, e suo papà cominciava a pensare ai regali di Natale. Regali che progettava e programmava già a ferragosto. Ma per lei era Natale tutti i giorni, perché tutti i giorni le arrivava una quantità enorme di doni. “Se tutti i giorni è Natale” pensava così, “allora non è mai veramente Natale!” – Che m’importa del Natale, a me?! – sussurrò Bianca ancora inchiodata alla finestra panoramica, ricordando gli eventi di quell’ultimo anno. Agli inizi di settembre erano iniziati i primi conati di vomito. Mangiava pochissimo. Piluccava un pezzetto di formaggio e poi sentiva che lo stomaco subito le si chiudeva. Mamma e papà avevano convocato d’urgenza per un consulto privato un illustre medico, primario della loro clinica di fiducia. – Dottore, sarà mica una gastroenterite? – aveva chiesto la mamma. – Noooo-o! – aveva sbottato il medico aprendo

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la bocca a pesce in una perfetta e prolungata “o”, e sventolando la testa da destra a sinistra. – Niente di organico! Niente di grave! – Allora cosa può essere? – aveva chiesto papà tutto ansioso, mentre il pensiero gli correva verso l’unica cura che conosceva per Bianca: una montagna di nuovi regali da farle quanto prima. – Eh, dottore... Sarà mica quella roba che hanno anche le modelle, le attrici famose... quella malattia che ho letto l’altro giorno su “Pettegolezzo 2.000”... come si chiama? Anoressia, ecco! – fece allora mamma. – Ma va’ là! Ma non vedete com’è allegra e bella in carne la vostra piccina?! Non fatevi venire strane idee! E se proprio vuole tenersi aggiornata sulle più recenti malattie psicosomatiche, cara signora, faccia il piacere di consultare almeno qualche pubblicazione più seria. Che so... “Ciao 24”. Oppure “Sorrisi e sciocconi”. Perdoni la franchezza! – E allora? – tornò a chiedere papà. – E allora prescrivo un po’ di settimane di vacanza totale, lontano dal frastuono e dall’inquinamento della città. Lei sa... il logorio della vita moderna! La piccolina non ha niente! Ha solo bisogno di un

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po’ d’aria fresca... Magari in montagna... – concluse il dottore, sempre pronto a tranquillizzare pazienti e parenti, e a dire loro ciò che volevano sentirsi dire, soprattutto se erano persone danarose. – Grazie! Grazie! – disse papà tutto eccitato, quasi spingendo per le spalle il medicastro fuori dell’uscio di casa, mentre gli schiaffava in mano una manciata di biglietti da mille euro. - Lei è sempre illuminante! Sempre! Era stato proprio allora, infatti, che la mente di papà si era illuminata: ecco il regalo per Bianca (e anche per sé e per la mamma, ovviamente)! Lo chalet di montagna! *** Ma ora Bianca era veramente stanca. Rabbrividì e lasciò andare quei ricordi. Mancava una manciata di giorni a Natale. Ma per lei era Natale ogni giorno. Guardò con tristezza giù nello spiazzo, ancora una volta. I ragazzini ora avevano predisposto una serie di strette strisce di neve pressata. Avevano formato una lunga pista sottile alta pochi centimetri.

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Li vide tirare fuori dei sacchetti di biglie di vetro colorato. Ridevano allegri. Li vide piazzare le biglie ai nastri di partenza del tracciato. Li vide prendere la mira piegando l’indice a molla sul pollice, e poi scaricare con le dita inguantate una bella steccata sulle palline di vetro, che schizzarono in avanti scivolando veloci sul fondo del tracciato, superandosi, cozzando, inseguendosi... “Che stupidi ragazzini! Delle biglie... Che stupidi ragazzini che stanno facendo un bellissimo gioco!” le scappò di pensare. Ma subito Bianca si sorprese dei suoi stessi pensieri: “Fanno un bellissimo gioco?!”. Ma cosa stava pensando? Bianca schiacciò il naso sul vetro della finestra, per vedere meglio. D’un tratto un ragazzino alzò lo sguardo ridendo, forse attratto dall’ombra che un gheppio solitario stampava sulla neve volando alto nel cielo sgombro di nubi. E la vide. – Ehi, ragazzina, scendi! Vieni giù a giocare! Cosa fai lì da sola?

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Bianca si ritrasse di scatto dalla finestra, quasi spaventata. Si sentiva scottare le guance. Le gambe, però, le tremavano dalla voglia di scendere. A giocare. Con quei ragazzini rozzi, sporchi, allegri. Ma non aveva le biglie. Delle semplici, stupide biglie colorate da 10 centesimi l’una. Bianca scosse la testa con tristezza e disappunto. In fondo, per lei era sempre “Natale”.

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